Alessandra Ceccoli intervista John Domini

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A_ Ciao John, come stai? Intanto, grazie per concederci un po’ del tuo tempo che, grazie al cielo, in questo momento storico pare sia dilatato, dandoci la possibilità di fare tutto quello che lasciavamo da parte. Anche negli Stati Uniti state attuando la quarantena simile a quella in vigore in Italia?

J_ Ciao, Alessandra. Qui negli Stati Uniti la rigidità della quarantena varia da stato a stato e, in certi casi, persino di città in città. Qui a Des Moines, in Lowa, una città che sorge nel bel bezzo della campagna, il numero dei casi è relativamente basso. Sono state chiuse le scuole, i locali, i teatri e altro; insomma, quasi tutto, ma ci è ancora permesso uscire per una passeggiata a piedi o per un giro in bici. Stanno facendo vari lavori stradali e roba del genere. Naturalmente, New York – che proprio come l’Italia è in un certo senso aperta al mondo e a qualsiasi tipo di virus – è stato il luogo più duramente colpito. A NY ho parte della mia famiglia che si trova letteralmente confinata in casa, fatta eccezione per qualche commissione considerata essenziale, che è ancora concessa. A volte capita che un amico o un cugino posti su Facebook l’immagine fugace di un parco, ma sinceramente non so come riescano ad organizzare questo genere di fughe; a ogni modo, quel che sembra preoccupare maggiormente tutti è la ripercussione economica. Mio fratello ha la possibilità di lavorare da casa, ma il suo figlio maggiore, che è impiegato nel settore dello spettacolo, ha visto la sua busta paga volatilizzarsi. Ce ne sono tante, tantissime, di storie simili in ogni angolo di tutto il paese. Il Sud, la vecchia Dixie (n.d.t. soprannome che si riferisce agli stati e alle persone del sud degli U.S.A.) pare stia patendo incredibilmente la situazione, considerando le condizioni di maggiore povertà, scarsa istruzione e mancanza di servizi.

A_ In questa singolare circostanza, come trascorri le tue giornate? Nell’ambito delle varie discipline artistiche, ho avuto modo di constatare come molti scrittori, poeti, musicisti, pittori o altro, stiano vivendo un inceppamento del processo creativo. Capita anche a te la stessa cosa, o stai approfittando del maggior tempo che abbiamo a disposizione per scrivere? Pensi che questo drammatico momento ci stia donando una maggiore o minore lucidità di osservazione?

J_ Ci sarà anche qualche eccezione, ma la maggior parte degli scrittori che mi viene in mente, in un modo o nell’altro lavora da casa. Alcuni di noi hanno l’esigenza di rimanere incollati alla scrivania e sintonizzarsi sulle voci interiori che ci frullano nella testa. Proprio questa settimana, nemmeno a farlo apposta, avevo una scadenza da parte di una rivista di Brooklyn: io e l’editore ci abbiamo lavorato via mail, come al solito. Per quanto riguarda invece il mio processo creativo, sì, sono perennemente distratto dalle notizie: chi non lo sarebbe? Ma ci sono anche le giornate buone. Di sicuro non sono un Boccaccio, ma direi che – in generale – sto riuscendo a cogliere, nonostante questa peste, un impulso alla narrazione. Parlando di incontri alternativi, per esempio, ho partecipato a un paio di letture di gruppo su Zoom e persino a una fantastica tavola rotonda internazionale su Elena Ferrante, in diretta da New York. Durante questo evento mi sono fatto una bella chiacchierata con un altro scrittore proprio in italiano. Devo ammettere che sento la mancanza di quel “dare e ricevere”, del rapporto reciproco: per essere uno scrittore, sono molto socievole e non me la posso ancora prendere che un gran numero di eventi sia stato cancellato. Uno dei miei sarebbe dovuto avvenire proprio a New York, e Dio solo sa a quando sarà posticipato, sempre che il locale non si trovi costretto a chiudere i battenti. Le risorse economiche stanno esaurendo un po’ per tutti, inclusi i posti in cui mi sono esibito come la City Lights di San Francisco o il KGB di New York.

A_ Stavamo parlando di processo creativo: come scrittore, di cosa hai bisogno (se di qualcosa hai bisogno) per riuscire a scrivere? Agio, tranquillità, serenità, inquietudine? E, infine, la scrittura in sé (intesa come atto mentale e fisico) la vivi come qualcosa di liberatorio e benevolo o piuttosto come una procedura faticosa e dolorosa? La percepisci, insomma, come un incontro o come uno scontro con il John Domini scrittore?

J_ È una bella domanda, suggerisce una riflessione profonda e, ahimè, nessuna risposta certa! Immagino che molti scrittori percepiscano l’ispirazione talvolta come un’amante provocante e talvolta come una micidiale febbre. Personalmente, so quello che mi serve per tenere allenato il muscolo della creatività in modo regolare. Se non lo utilizzo per troppi giorni, ne soffro la mancanza, si atrofizza. Anche quando sono venuto in Italia per promuovere Movieola!, tra una presentazione e l’altra e in mezzo agli spostamenti in treno, ho cercato di infilare un paio di momenti da dedicare al mio diario e al computer. Per quanto riguarda, invece, il tipo di vita di cui ho bisogno per scrivere, temo di dover ripiegare sulla risposta più ovvia e ammettere che si tratti di tranquillità e solitudine. Chiaro, ognuno ha bisogno di una certa dose di sofferenza e colpi duri per fare della buona arte - ogni canzone è, in fondo, un blues - ma mi viene in mente la fredda citazione di Hemingway, che diceva: da una piccola ferita può nascere una buona storia, ma se la ferita è profonda, non è un bene né per uno scrittore né per nessun altro.

A_ A proposito di case, di reclusioni imposte e più o meno apprezzate da chi le vive, mi sono rimaste impresse nella memoria delle immagini di casa tua – a Des Moines, in Iowa – semplicemente di scorci fugaci di quando ci sentivamo in videochiamata durante la traduzione di MOVIEOLA!: la tua libreria affollata, i dipinti che mi hai raccontato aver comprato a Napoli, la fotografia in bianco e nero di Bob Dylan e Allen Ginsberg, incorniciata e appesa al muro e, infine, la finestra che dava su uno di quei cortili sul retro tipico delle cittadine rurali americane (a quel tempo innevato). Vorrei che raccontassi ai nostri lettori cosa vedi, in questo istante, da quella finestra. È un’immagine che ti da conforto o vorresti – magari – in un momento come questo poter vedere altro e trovarti altrove?

J_ Lo dico dal profondo del cuore: mi manca l’Italia. Ero stato invitato a parlare a un simposio a fine maggio a Lucca, quindi avevo programmato di trascorrere una settimana a Napoli. Ora è saltato tutto, che peccato. Grazie a Whatsapp, però, sono riuscito a vedere i miei amici e familiari di Napoli e a chiacchierarci un po’. Un mio cugino è medico, e qualche volta l’ho trovato davvero esausto, ma per lo meno ci fornisce notizie dalla prima linea e, a quanto pare, non riuscirò a venire in Italia per niente quest’anno. Insomma, è chiaro che mi piaccia guardare fuori dalla finestra del mio ufficio che dà sul cortile: è primavera, i fiori stanno sbocciando e dal terreno spuntano i grossi e verdi getti delle radici di rabarbaro. Ma, in verità, da qui mi piacerebbe ammirare il Vesuvio e il Golfo.

A_ Torniamo alla fotografia che ritrae Michael McClure, Bob Dylan e Allen Ginsberg; immagino che tu l’abbia appesa perché, in un certo senso – simbolicamente – racconti due dei tuoi grandi interessi e punti saldi della tua cultura: quella musicale e quella letteraria. Quali sono i tuoi maggiori riferimenti e cosa hanno apportato alla tua figura di artista e scrittore?

J_ Ogni forma d’arte che ho in casa è una sorta di fonte di sostegno e di gioia. E, questa in particolare, di Dylan, Ginsberg e McClure dietro la City Lights Bookstore – guarda caso! – è una foto speciale. È un regalo che mi fece mia moglie prima di essere mia moglie, Lettie Prell: una scrittrice di fantascienza ben pubblicata, tra l'altro. Il che da un significato ancora più importante a questa fotografia. Ho assistito a performance indimenticabili sia di Ginsberg che di Dylan. Certamente sono figure che hanno contribuito a plasmare la mia idea di artista nel mondo. Quello che mi arriva, tuttavia, è qualcosa di mio, è idiosincratico. A me sembrano sempre personaggi leggeri, pieni di sorprese, ma un altro scrittore potrebbe percepirli come qualcosa di solido e confortante. Penso che sia ricorrente ritrovare queste differenze di percezione, quando gli artisti parlano dei loro personaggi di riferimento. Si ha in mente una figura, una fantasia, anche mitica. Quando dico che Italo Calvino mi ha aiutato a formarmi, mi riferisco solo a una fetta di tutto l’insieme che riguarda Calvino: il modo in cui ha trattato il racconto come un parco giochi, pur rimanendo un fuoriclasse per gli scrittori che gli stavano a cuore.

A_ Vorrei ora passare a un altro argomento, un'altra dimensione culturale che non può essere estranea a chiunque sia venuto al mondo, come noi, nella seconda metà del ventesimo secolo: il cinema. E, parlando di cinema, ne vorrei approfittare per tirare in ballo il tuo Movieola!, la raccolta di racconti attraverso la quale noi e i nostri lettori ti abbiamo conosciuto. Come è nata l’idea di questo libro e per quale motivo hai deciso di mettere il cinema (e l’ambiente di Hollywood) al centro della narrazione?

J_ Prima di tutto, grazie infinite a Jona Editore per l'ottimo lavoro svolto con la pubblicazione italiana di Movieola!: il libro ha un aspetto meraviglioso, e so anche le attenzioni che hai dedicato alla traduzione. Grazie di cuore. Detto questo, queste storie mi sembrano una sorta di omaggio agli eroi defunti. Voglio dire che le immagini hollywoodiane con cui siamo cresciuti sono ormai sepolte e scomposte nei video di YouTube. Non c’era bisogno del COVID-19 per impedire alla gente di riunirsi nei vecchi templi del cinema, le sale che un tempo erano il fulcro di ogni città. Erano già stati convertiti a negozi e locali, e l'arte che presentavano si è trasformata in qualcosa di grottesco, la cosiddetta “Industrial Hollywood”, fatta di spettacoli interamente dedicati al profitto e sempre incredibilmente prevedibili e scontati. Non sono l'unico a notarlo, naturalmente; Steve Erickson ha ritratto questo tracollo nel suo grande romanzo Zeroville. Lo ha fatto, però, attraverso il genere drammatico; io, invece, non appena ho iniziato a comporre il primo dei racconti - "Making the Trailer" - ho capito di avere uno sguardo più comico.

A_ Sempre in riferimento a Movieola!, puoi dirci se c’è un motivo particolare per cui hai optato per il racconto, come forma narrativa, piuttosto che per il romanzo? È stata una decisione a priori o gli hai dato questa struttura durante la stesura? Te lo domando, perché in un certo senso, i racconti non sono tracce a sé stanti: l’argomento principale è unico, anche se poi si ramifica e articola in diverse sottoclassi.

J_ In realtà, ora vedo il libro più come un'eruzione dell'identità. Quando ho messo insieme le prime storie, stavo concentrando le energie sul mio "grande progetto", una trilogia di romanzi ambientata a Napoli. Quei romanzi sono ora in stampa, e sono orgoglioso del lavoro svolto, ma in fin dei conti seguono semplicemente i Dieci Comandamenti della letteratura del mistero messi a punto da Raymond Chandler: sono realistici, fondamentalmente; fanno attenzione alla fonte del guadagno e all’organizzazione dei tempi e del luogo. Queste preoccupazioni sono legittime, fanno parte del lavoro, certo, ma a un certo punto il Domini dionisiaco non ce la faceva più. Il ragazzo ribelle dentro di sé è esploso in qualcosa di ultraterreno, in queste storie in cui il denaro non è un oggetto e qualsiasi personaggio può essere di fantasia. Chiunque, inciampando nel paesaggio devastato del tardo capitalismo malato, può divenire uno zombie. Una deviazione del genere va contro la buona abitudine romanzesca, non c'è dubbio. D'altra parte, questa deviazione forse ha contribuito a dare una boccata d’ossigeno anche al mio progetto più lungo, e a evitare che i suoi passaggi finali sembrassero forzati e troppo poco spontanei.

A_ Vorrei approfittare per dire a te, e a tutti i lettori, che tradurre Movieola! è stata per me un’avventura surreale, come penso lo sia per chi lo abbia già letto o lo farà a breve. È stata impresa ardua e faticosa, destabilizzante, da un lato per la tua unicità e ricchezza espressiva (sia a livello di vocabolario, di uso del linguaggio, sia a livello di riferimenti culturali e sociali al mondo di Hollywood e degli Stati Uniti tutti). Questi racconti sono molto vivaci, ironici, sfiorano al tempo stesso il surreale e l’iperrealismo, tanto da chiederci spesso durante la lettura se sia più giusto ridere a crepapelle o rattristarci. Questa doppia dimensione è forse, a mio parere, lo spirito stesso e il fine ultimo di questi racconti: durante la stesura (o prima, o dopo) ti sei trovato a chiederti se tutto quello di cui stavi parlando era in un certo senso troppo strano per essere vero o troppo vero per essere strano?

J_ Devo sottolineare che hai fatto un lavoro meraviglioso con la traduzione, e te ne sono molto grato. Complimenti, davvero! A parte questo, ribadisco quanto ho già detto sopra riguardo all’ingresso nella zona dei morti viventi, dove anche i supereroi decidono di fare a pezzi i loro costumi e la lingua diventa una sfida fatta di scrittura sbalorditiva e di quell’uso fitto di acronimi tipico dei pezzi grossi di Hollywood. Anche qui, non ho potuto fare a meno di riconoscere la mia America sopra le righe, spinta dall'avidità di commettere sempre gli stessi errori. Almeno, come ci ha insegnato Karl Marx, quando si parla di storia, la seconda ripetizione è una farsa.

A_ Ti è capitato che attribuissero l’etichetta di “Postmoderno” a questo tuo prodotto letterario? Pensi abbia un senso, viste le caratteristiche di Movieola! parlare di racconti che hanno tanti aspetti tipici di questa corrente letteraria e non solo? Se è successo, lo ritieni una forzatura e una smania da parte della critica o pensi sia un risultato naturale, quindi una tappa obbligata per chi ha prodotto arte, cinema, letteratura o architettura nel mondo occidentale da circa trent’anni a questa parte?

J_ Non si può infatti negare che sia il libro MOVIEOLA! sia il suo scrittore John Domini siano "Postmoderni". Gioco in questa squadra, e ho scritto saggi su altri che indossano la stessa divisa, come W.G. Sebald. D'altra parte - sempre cercando di evitare qualsiasi sovrapposizione con quanto ho detto sopra - vorrei sottolineare che una caratteristica unica e distintiva del Postmode rno è proprio l'appropriarsi delle forme precedenti, prendendole e capovolgendole per creare qualcosa di nuovo. Ecco perché il rap originale, uscito dal devastato South Bronx, era incredibilmente postmoderno: qualcuno come Grandmaster Flash ha spezzato le vecchie melodie e ce le ha sbattute di fronte a tempo di beat, le ha rimesse insieme usando solo due giradischi e un microfono. Così, ha inventato una nuova hit.

A_ Adesso ti dico una cosa che penso ti riempirà di gioia: sappi, però, che questo complimento non è fine a sé stesso, ma utile a capire se questo parallelo sia motivato, e il perché lo sia: sempre traducendo la tua raccolta di racconti, non ho potuto fare a meno di ritrovarmi in una dimensione molto simile a quella in cui Italo Calvino ci ha trasportati con le sue Cosmicomiche, non solo per la tua scrittura ironica e intelligente (di cui ho già parlato prima) ma pure per l’espediente letterario utilizzato: un’ambientazione reale che nel tuo caso è il mondo di Hollywood, del cinema, con i suoi processi di produzione (in Calvino è l’universo con le sue fasi evolutive e le nozioni scientifiche) per i costruirci sopra delle storie immaginarie e paradossali, dunque in un processo che è in un certo senso opposto e speculare a quello della letteratura o del cinema di fantascienza, dove da un’ambientazione immaginaria e futura siamo portati a ragionare su quella presente e reale. Se questo parallelo tra MOVIEOLA! e Le Cosmicomiche non è azzardato, ma sensato, pensi sia attribuibile a qualche ragione?

J_ Giustissimo: niente mi lusinga di più del paragone con Calvino, e suppongo che ora dovrò andare a flagellarmi da solo per compensare. È Pasqua, dopotutto. Seriamente, però, Le Cosmicomiche di Calvino sono state uno dei testi che ha reso possibile Movieola!. Ce ne sono altri che potrei citare, come 60 Stories di Donald Barthelme, poco conosciuto in Italia ma che rivive, inconsapevolmente, nell’ironia e nell’inventiva tipicamente italiane. Anche Howl di Allen Ginsberg, magari. Ma il motivo per cui ho trovato il Calvino degli anni Sessanta così condivisibile, così stimolante, be’, rimarrà sempre un mistero. Penso che nessuna delle mie chiacchierate nel corso delle interviste come questa chiariranno l'enigma insito in ogni impulso a creare. Tra le intricate radici di Movieola!, o di qualsiasi libro di narrativa che ho scritto, si annidano gli imperscrutabili colpi di scena del mio DNA e del mio mondo onirico. L'unica cosa che posso dire con certezza è che le storie di Calvino sono state tra le prime scoperte letterarie che ho fatto interamente da solo. Verso il 1970, ho cominciato a trovarlo nelle traduzioni, nelle riviste e nelle librerie di Boston, dove vivevo, e le ho lette - letteralmente divorate - al di là di quelli che erano i miei incarichi universitari o le richieste dei professori.

 

i.

A_ Abbiamo parlato di Calvino e dell’influenza che, più o meno indirettamente, può avere avuto sulla tua produzione di scrittore. Quanto, allo stesso modo, le tue radici italiane (culturali ma anche genealogiche) hanno influito sulla percezione della tua identità? Per rendere la mia domanda più diretta: cosa significa per te essere italoamericano? È un qualcosa che ti ha reso, in senso figurato, più completo o più diviso?

J_ Penso che sia giunto il momento di tirare in ballo Frank Zappa. Sbaglio? È uno degli artisti che ancora non ho menzionato, eppure lo vedo seduto tra il pubblico di tutti gli incontri e i sui palcoscenici del mio Movieola!. Zappa, dopotutto, si è sempre preso gioco delle stravaganze tipicamente americane; inoltre è sempre stato entusiasta nello sfruttare le avanguardie tecnologiche, rendendosi conto – al tempo stesso – meglio di chiunque altro, che nessun nuovo aggeggio avrebbe mai potuto cambiare l'animale umano. Ed era – c’è bisogno che lo dica? – italoamericano. Il padre era emigrato dalla Sicilia e la famiglia della madre era napoletana. Mentre ascolto l'opera di Zappa, le sue sovrapposizioni strumentali barocche, la sua chitarra lirica, il suo umorismo nero ma sapiente, sento una delle ultime e più belle trasformazioni dello spirito italiano. Che io percepisca questo elemento nel suo lavoro prima della maggior parte degli altri, riflette sicuramente il modo di sentire me stesso e la mia vocazione. Anche in questo caso, c'è qualcosa di misterioso. Né mio fratello né mia sorella si definiscono particolarmente "italiani", anche se hanno visitato Napoli e sentito come me la lingua che si parlava a casa. Per me, però, l'etnia rimane centrale in quello che sono, per come interagisco e per qualsiasi tipo di arte che sono riuscito a creare. Sapete, c'è un critico e studioso italoamericano di nome Fred Gardaphé che ha partorito una bella citazione su questo libro, che mi sembra la perfetta nota conclusiva: "Se Pirandello fosse ancora in vita, oggi scriverebbe qualcosa come Movieola!”.

 

 

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