Mercoledì, 30 Maggio 2018 16:28

Alessandra Ceccoli - Sono una vera dura

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Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Dalla scorsa settimana, è tutto solo un film nella mia mente: ma questo poco importa, se non lo me racconta lui, questo film non esiste.

Marco che pensa ad Ester, mentre scopiamo. Anche questo a questo poco importa, se infondo, per fare l'amore rimane con me.

Marco che esce più del solito e tarda sempre al lavoro. Anche questo non ha importanza se poi, dopo, torna a casa nostra.

Marco che inizia a non baciarmi più allo stesso modo, quando rientra la sera. Ma comunque mi bacia, e qualcosa vorrà pur dire.

Marco che inizia a rispondere con aggressività quando sono meno gentile. Ma infondo, mi parla.

Marco che, qualche volta, diventa violento, e se non resto zitta e mi stupisco, mi scaglia addosso il primo oggetto che si trova tra le mani. Ma anche questo, a ben pensarci, significa che qualcosa per me lo prova.

Gli altri, nella vita, si sa, non stanno lì a compiacerti o a lesinare con le cattiverie.

Tu sei tu e loro sono loro. Esistenze parallele. Nulla ti è dovuto, se per un momento esci dal tuo corpo e dalla tua testa per ragionare con quella dell'altro e ci rifletti. Anche se l'altro è il tuo compagno, il tuo amante, tuo marito. Tanto vale far finta di non esserci, tra i piedi altrui, se comunque tutti andranno avanti per la propria vita. Non vuoi far finta di non esserci? Allora stacci, e fai finta di essere felice. Ma non dare fastidio. Non muoverti troppo. Non respirare, se ci riesci. Non aggiungere ansia all'ansia. Falli felici. Assecondali. Menti.

È masochismo? Magari lo fosse. Vorrebbe dire godere della propria sofferenza.

Invece è paura, ma non paura dell'altro, paura di provare quel dolore o quel piacere.

Vuol dire farsi invisibili, per farsi insensibili, non necessari.

Se io per l’altro mi nego non sono nessuno, non c'è rapporto sado-masochista.

Non mi piego a nessun bisogno, non do piacere, non lo ricevo. Non sono l'anello mancante di nessuna catena perfetta. Non c'è alcuna complementarietà. Mi limito a rimanere assente, invisibile, non necessario. Come la piccola chiocciola di una lumachina che viene disintegrata sotto la suola della scarpa di un passante distratto, in una serata di pioggia. Non certo come il ragno ucciso volontariamente dal ragazzino impaurito o indispettito.

Ieri notte Marco è tornato a casa tardi, erano le due.

“Valentina, perdonami per tutto, davvero. Ti amo, lo giuro”.

“Anche io ti amo, Marco. Non mi devi chiedere scusa, mai. Vieni qui, abbracciami, e dormiamo”.

Letto 1639 volte Ultima modifica il Mercoledì, 30 Maggio 2018 16:29