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Mercoledì, 19 Dicembre 2018 21:59

Andrea Furlan - La diagnosi

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La diagnosi

“Il peggio deve ancora venire” pensò Giovanna, appoggiando la testa al finestrino del treno. Il freddo del vetro le dette un po’ di sollievo, anche quella mattina si era svegliata con il mal di testa.

Il chiacchiericcio del vagone la distolse un attimo dai suoi pensieri. Il solito brusio della mattina, fra i pendolari che si recavano a Milano. Di fronte a lei due studentesse che ridacchiavano, chiacchierando incessantemente da quando era salita. A lato un uomo in giacca e cravatta, elegante, che guardava qualcosa sul telefono.

Il movimento nella pancia fu lieve, come una carezza appena accennata. Istintivamente la sua mano toccò il punto in cui l’aveva sentito, poi rimase lì, rispondendo alla carezza.

La fitta arrivò subito dopo, la colse impreparata. Con uno sforzo resistette all’impulso di gemere dal dolore, mentre un grappolo di sofferenza le si formava sulla fronte. Le fitte così forti erano rare, mentre ormai si era abituata al dolore sordo e costante che l’affliggeva da qualche tempo.

Del resto, la dottoressa Boeri glielo aveva detto senza mezzi termini, alla prima visita, mentre esaminava le analisi del sangue: “i valori sono troppo alti. Non è mai una buona notizia. Ma per essere certi ci vorrebbe una TAC”.

Aveva sentito il cuore battere a mille, la vista offuscarsi, una scheggia di disperazione si era piantata nella sua nuca. Non era riuscita a dire nulla.

Poi, ripresasi dallo stordimento, aveva cercato di capire dall’espressione della dottoressa quanto cattiva potesse essere questa notizia, mentre mille pensieri le attraversavano la mente e una sola parola sovrastava tutto il resto.

Tumore.

 

Era stato un tentativo inutile: con la stessa espressività della voce che adesso informava i passeggeri delle prossime stazioni, la dottoressa aveva elencato una serie di possibili diagnosi, svariate delle quali terminanti in “oma” e la migliore delle quali poteva essere asportabile chirurgicamente.

“In questo ultimo caso ci potrebbero essere buone aspettative di guarigione” aveva però aggiunto.

La freddezza con la quale la dottoressa la informava che la sua vita era in balia di quei numeri sballati acuiva ancora di più il dolore della notizia.

“Potrebbe essere una massa sul lobo frontale. I dolori sono tipici del glioblastoma e se è così si tratta di una cosa grave. Insisto. Deve fare una TAC, e anche il prima possibile.”

E poi le aveva dato il numero del dott. Cangemi. “Enrico è un ottimo medico, la saprà aiutare, vedrà”.

Il tono ora era severo. Asciutto e severo. Mentre le lacrime le salivano agli occhi, ricordava di avere girato la testa dall’altra parte, sul calendario appeso al muro: era la pubblicità di un medicinale, rigorosa e lineare come le parole della dottoressa, di cui non ricordava i dettagli. Aveva pensato subito a Fabio e alla sua bambina, avrebbe voluto dire qualcosa, ma ancora non le venivano le parole.

Infine, prima di pentirsi della sua frase pronunciata con un’inusuale fretta, aveva trovato da qualche parte il coraggio per dare forma alla sua decisione. Sentendo una parte di sè lacerarsi.

“Mi spiace Dottoressa. Non posso. Questa bambina è tutto per noi. Lo ha detto anche lei che è pericoloso fare la TAC.” Era una persona sicura, capace di prendere le decisioni migliori, anche per gli altri.

Ma questa volta sapeva che era tutta apparenza. Dentro di lei il verme dell’incertezza aveva cominciato a strisciare, inesorabile.

Si era pentita subito di quello che aveva detto. Venne colta da un attimo di confusione, il respiro le si accelerò. Non le capitava quasi mai, ma quando succedeva si sentiva persa, vulnerabile. Stava per confutare le sue stesse parole appena pronunciate e aprì la bocca a metà per parlare.

“No, io …” disse.

Ma poi si rese conto che l’atteggiamento della dottoressa era cambiato. All’improvviso le era sembrata quasi infastidita dal suo silenzio e con una gran fretta di terminare la visita. Quindi tacque, sempre più incerta, rimangiandosi i pensieri smozzicati che non riusciva a mettere in fila.

Eppure quando l’aveva conosciuta la prima volta si era dimostrata così accogliente, cordiale e disponibile. Dopo averla visitata, occhi, riflessi, equilibrio, le aveva chiesto se avesse notato un cambiamento nel suo comportamento degli ultimi tempi. “Di qualsiasi tipo”, le aveva chiesto.

Giovanna si era sentita stupida per essersi sfogata in quel modo alla prima visita, quasi fossero due amiche. Lasciandosi convincere dalla sua gentilezza, aveva confessato, non senza imbarazzo, di come ultimamente si sentisse libera, quasi incontrollabile. Del sesso, di cui aveva sempre una gran voglia. Come non le era mai capitato, neanche nei primi tempi in cui stava con Fabio.

Poi le aveva raccontato della strana attrazione improvvisa che provava per il suo nuovo collega in ufficio, per l’inquilino del secondo piano e l’istruttore di palestra, le parlò dei suoi sbalzi di umore e di come talvolta si lasciasse andare nel parlare.

“Un po’ sboccata, per spiegarle. Non capisco cosa mi succeda dottoressa, è come se non riuscissi a controllarmi. E poi questi mal di testa continui, a volte più forti fino a diventare quasi insopportabili. Sarà forse colpa della gravidanza, degli ormoni, lei che dice?”.

“Non si preoccupi, potrebbe essere qualsiasi cosa, Ne riparliamo quando avremo i risultati delle analisi del sangue e se necessario di una TAC, stia tranquilla”.

Li per li non aveva fatto caso a quello che aveva detto. Non sapeva neanche bene cosa fosse quell’esame, non lo aveva mai fatto prima. Aveva salutato la dottoressa e aveva preso il secondo appuntamento con la segretaria.

Era solo tornando a casa che aveva riflettuto. Poi aveva cominciato a leggere siti internet su radiografie, TAC e gravidanze. Ricordava ancora le frasi che l’avevano sconvolta. “Una sola singola TAC, magari lontano dalla pancia, non è in grado di causare alterazioni importanti”. “L’uso delle radiografie e della TAC è comunque sconsigliato”. “Evitare assolutamente nei primi tre mesi di gravidanza.”

Fabio era tornato a casa e l’aveva trovata a piangere in silenzio, seduta sul pavimento della cucina con il laptop acceso sulle gambe.

Dopo che gli aveva raccontato della visita e della diagnosi incerta, stranamente aveva cercato di rassicurarla. L’aveva portata a letto, l’aveva abbracciata e avevano pianto insieme, così, senza parlare. Era stato un bel momento, anche se breve. Poi si era addormentato.

Lei no. Non poteva dormire. Più rifletteva, più si innervosiva.

Il suo primo istinto era di tenere la bambina senza fare accertamenti specifici. Continuare la gravidanza, pensare al tumore solo dopo la sua nascita. Ma era più forte di lei, non sopportava le malattie, provare dolore, soffrire alterazioni di ogni tipo sul suo corpo, sulla sua pelle. Doveva sapere, fare gli accertamenti necessari, curarsi.

“Forse non le succederà nulla. Potrò fare TAC e capire che cos’ho. Non sarà grave, poi potrò curarmi se sarà necessario.” Pensava con un senso di calore, come se il problema si fosse risolto da sé.

Ma quel pensiero era intrecciato all’immagine della piccola appena nata, malformata. Un peso che si sarebbe portata accanto per tutta la vita.

Aveva abbracciato il cuscino piangendo a lungo. Poi si era calmata ripetendo quelle parole che a volte l’aiutavano.

“Guarda avanti. Guarda avanti. Guarda avanti.”

Ricordava ancora sua madre, morta pochi anni prima, quando le diceva sempre che le persone e il mondo si dividono in due categorie: coloro che guardano avanti e coloro che guardano indietro.

Sua madre lo diceva di sé stessa, in modo orgoglioso. Guardava avanti. Era pratica, affettuosa e positiva, voleva bene a lei e ai suoi fratelli. Li spronava, li consigliava, li comprendeva. Aveva sempre un sorriso per loro, anche se a volte era severa. Aveva imparato da lei ad affrontare la vita.

Infine si era addormentata ripetendo quelle parole, ancora e ancora. Le immagini e i pensieri erano spariti, lasciandola in pace.

La mattina dopo si era svegliata disfatta, scarmigliata. Aveva preparato il caffè e aveva sentito di aver preso una decisione.

“Niente TAC, né radiografie. Non possiamo correre questo rischio. Non se ne parla neanche.”

Lui l’aveva guardata in un modo fra lo stupito e il preoccupato. Non aveva detto nulla, aveva solo annuito, l’aveva abbracciata a lungo, senza una parola. Poi era uscito, ancora in silenzio, per andare al lavoro.

Giovanna aveva sentito la rabbia montare dentro. Aveva sbattuto cassetti, rotto un bicchiere, dimenticato il cellulare, urtato un cassonetto della spazzatura con la macchina mentre andava in stazione. Era la solita storia: ogni volta che dovevano prendere una decisione importante e aveva bisogno del suo sostegno, lui taceva e lasciava fare tutto a lei.

Mentre guardava la campagna lombarda sfilare veloce, una singola lacrima le scese lungo la guancia.

Ormai aveva una certa età. Anche se molti le dicevano che dimostrava meno anni, i suoi trentotto non glieli levava nessuno. Era sposata con Fabio da quindici anni e la loro storia matrimoniale all’inizio era stata bella, entusiasmante. Viaggi due o tre volte all’anno, tanto lavoro, tanto amore, quasi tutte le sere fuori fra aperitivi, locali e amici.

Guardandosi indietro si stupiva di quanto tempo avessero perso. Quante decisioni avessero evitato mentre lavoravano e si divertivano, sempre impegnati in attività futili, per cui spendevano tutte le loro energie.

Quando avevano deciso di avere un bambino era stato troppo tardi. Avevano smesso di usare protezioni, per più di tre anni forse, non ricordava neanche più bene.

Lui avrebbe continuato così, la stessa vita, come una cicala che canta tutta l’estate per poi trovarsi disperata, senza nulla da mangiare all’inizio dell’autunno. Come tante altre volte, Giovanna aveva preso in mano la situazione e aveva deciso di farsi vedere da un dottore, anche se li detestava.

Infine si era messa in testa che c’era un problema. E il problema era chiaramente da risolvere.

Aveva cominciato a fare ricerche. In breve era diventata la sua occupazione principale, come succedeva quando si metteva in testa qualcosa. Da lì era cominciato il periodo degli esami. Ginecologi, andrologi. Viaggi in mezza Italia del Nord per sentire un nuovo specialista. Si trascinava un annoiato Fabio avanti e indietro fra centri medici e ospedali.

In breve si era accorta che erano entrati anche loro nel gruppo delle coppie disperate che non potevano avere figli. Il girone infernale della fertilità. Tutti simili, attorno ai quaranta, laureati, benestanti, con un lavoro importante e impegnativo. Gente che aveva atteso troppo per cambiare le proprie priorità.

In una cosa erano differenti dagli altri che avevano incontrato. Loro avevano problemi veri, individuati dopo analisi più o meno avanzate. Fabio e Giovanna no. Tutto sembrava normale, semplicemente lei non restava incinta. Non aveva senso fare cure, operazioni. Bastava continuare a fare l’amore, in modo metodico, al momento giusto, aspettando un’ovulazione dopo l’altra.

Dopo almeno due anni di questo calvario, senza alcun risultato, Giovanna non ne poteva più. Lo aveva quasi lasciato. Fabio pensava a tutt’altro, tanto lavoro, clienti importanti che rincorreva in giro per il mondo. Lei aveva l’impressione che il loro bambino non lo interessasse, che non fosse un suo problema. Le rare volte in cui era a casa lo obbligava a fare l’amore seguendo il calendario, lo sottoponeva alle diete che le consigliavano per restare incinta, gli faceva prendere medicine e rimedi omeopatici di ogni tipo.

Litigavano spesso. Secondo Giovanna, quando erano più giovani lei e Fabio erano una coppia che guardava avanti, insieme, con lo stesso orizzonte, come la sua mamma.

Ma erano diventati diversi, lontani, sparpagliati in priorità differenti. Sentiva che in quel periodo guardavano indietro. Lei inseguiva il sogno di una gravidanza impossibile, lui semplicemente la libertà da quella coppia che era diventata stretta, soffocante.

Infine erano andati in vacanza nel Salento poco convinti, lo spettro del divorzio che aleggiava su di loro. Il viaggio verso sud era stato una litigata continua, dove le cose che si rinfacciavano a vicenda rischiavano di diventare irreversibili. Di rompere il filo che li univa ancora, e che diventava più sottile ogni giorno. Arrivati a destinazione non si erano quasi parlati.

Poi, al contrario, quella sera a Otranto la cena era stata perfetta. Un sorriso le salì spontaneo al volto mentre le prime case di Milano scorrevano più lentamente ai lati del treno. Avevano trovato di nuovo la magia dei primi tempi. Avevano parlato come mai era successo da mesi, si erano tenuti la mano tutta la sera. Infine avevano sentito l’impulso di stare da soli. Una corsa in macchina fra le loro risate e le curve della costa. Avevano trovato una spiaggia isolata e avevano fatto l’amore nudi sulla sabbia. Tantissime volte. Avevano dormito lì, tornando all’hotel lentamente, con la certezza di essersi ritrovati.

Giovanna si era sentita diversa, dopo. L’ossessione per la gravidanza quasi dimenticata, era felice con il suo Fabio che le dava attenzioni dimenticate. Si sentiva ancora una volta innamorata.

Poi sbalzi d’umore, il ciclo che non arrivava. Sporadici mal di testa. Aveva fatto il test insieme a lui, nel bagno di casa. La bambina c’era, perché lei era certissima che fosse una bambina. Quella sera avevano brindato al ristorante, felici come non mai. Ne avevano scelto uno pugliese, visto che quella terra antica aveva portato fortuna. Erano tornati a guardare avanti, a costruire il loro avvenire in tre.

Da quella sera fece attenzione a non sforzarsi, si muoveva solo in auto, prese a leggere a Fabio, ogni sera, i libri che trovava sulla gravidanza. Lui era più presente, cercava di stare di più a casa, aveva anche rinunciato a missioni importanti di lavoro per stare con lei.

Poi qualcosa era cambiato, un’altra volta. I mal di testa erano aumentati gradualmente. Gli esami del sangue fatti per la gravidanza avevano rivelato i valori sballati dei marcatori tumorali. La loro felicità si era trasformata ben presto in angoscia, nel dubbio, proprio mentre toccavano il cielo con un dito e tutto sembrava possibile.

Infine Giovanna era andata dalla Dottoressa Boeri, la neurologa che le avevano consigliato.

***

“Ambasciator non porta pena” si ripeteva in quei casi Enrico. Le parole gli risuonavano in testa mentre si avvicinava all’Ospedale in bicicletta. Se lo ripeteva spesso. Quella frase gli risuonava dentro ormai da venticinque anni, venticinque anni e tre mesi per la precisione, dal giorno in cui consegnò la sua prima diagnosi.

Quella mattina di marzo di ciò che gli sembravano ormai mille vite fa, quando era ancora un giovane medico, seduto dietro allo scudo di una scrivania di metallo e del suo camice bianco, aveva pronunciato la sua diagnosi davanti alla paziente, con simulata calma.

La sua voce aveva lo stesso tono distaccato con cui aveva pronunciato le stesse parole, tutte di un fiato, davanti allo specchio del suo bagno solo poche ore prima “midispiacenonsonobuonenotizieepatocarcinoma”.

Come aveva visto fare nei film, si era preparato bene, ripetendo la scena numerose volte, studiando la sua espressione, equilibrando il linguaggio del suo corpo con quello delle parole per ammorbidire la gravità della frase.

Fermo al semaforo, pensò con un senso di calore al suo mestiere, che adorava. Si sentiva veramente vivo solo quando era in sala operatoria e magari operava per ore e ore. Il più delle volte vinceva la battaglia: toglieva il dolore, le cellule maligne, asportava il problema alla radice.

Solo una cosa gli dava più soddisfazione di operare: incontrare i suoi pazienti per caso al parco o al supermercato dopo qualche tempo dalle sue operazioni. Vedere che avevano ripreso una vita normale, giocavano con i figli, andavano a lavorare come se nulla fosse successo. Le loro espressioni di gratitudine quando guarivano erano le cose che conservava gelosamente, così come i regali che spesso riceveva da loro. I suoi personali trofei.

Poi c’erano quelli che non ce la facevano, che non poteva aiutare. Bastava poco: ricevere la prima diagnosi troppo tardi, sviluppare un tumore che non era ancora completamente noto o che non reagiva alle cure post operatorie come ci si era aspettato.

Questi se li ricordava tutti, uno per uno, come la ragazza di quella mattina di venticinque anni prima. Ricordava soprattutto quando gli aveva dovuto dare la notizia: il momento in cui la loro vita era cambiata per sempre. A causa delle sue parole.

Era per questi che andava in difficoltà: la sua mano era salda quando impugnava il bisturi. Mai un’esitazione. Mai un errore. Operava al meglio delle sue conoscenze, prendeva la decisione che riteneva giusta anche nelle situazioni più complicate, quelle che non si trovavano nei libri di medicina, dove l’istinto del medico era l’unica cosa che separasse il paziente dal dolore, dalla paralisi. O dalla morte.

Ma trovarsi faccia a faccia con loro e dirgli che non c’era più speranza. A questo non si sarebbe mai abituato. Nel corso del tempo aveva affinato la tecnica, ormai riusciva a dirlo con tono sicuro e preciso, senza balbettare come gli era capitato. Aveva imparato ad essere rassicurante e convincente, per lo meno ai propri occhi.

Ma il peso della sofferenza che leggeva negli sguardi dei pazienti incurabili dopo che avevano ricevuto la notizia, il livore delle loro lacrime versate nel suo studio, avevano scavato solchi profondi nella sua coscienza. Era forse per questo che le sue sopracciglia si erano appesantite dopo tutti questi anni, come i fili di un vecchio stendino? Piegate sotto quei pesanti appelli di comprensione dei suoi pazienti.

Mentre parcheggiava la bicicletta nel garage dell’Ospedale, pensò che quella mattina poteva essere un altro di quei giorni. O forse no.

Le analisi non erano chiare senza una TAC o una risonanza che avrebbero dissipato ogni dubbio. La diagnosi era molto incerta con i dati a diposizione. Aveva calcolato un sessanta percento di probabilità che il tumore ci fosse, e fosse maligno. Ishtar, la sua collega neurologa, l’aveva chiamato, spiegandogli la situazione. La paziente non voleva fare la TAC perché era incinta. Lo aveva detto con tono acido, di disapprovazione. Enrico non aveva avuto bisogno di altre spiegazioni per inquadrare il problema: la massa, se c’era come suggerivano le emicranie, poteva diventare aggressiva in breve tempo, impazzire, spargersi per tutto il corpo con le metastasi, nel giro di pochi mesi. Oppure stare ferma per il tempo necessario a portare a termine la gravidanza, dandogli la possibilità di intervenire. Asportarlo con cura, trattare la paziente dopo la nascita del bambino e salvarli entrambi. Con un po’ di fortuna le avrebbe incontrate per caso al parco dopo un paio d’anni, mentre ridevano godendo l’uno dell’altra.

Non sapeva se sentirsi ottimista o pessimista mentre apriva con la chiave la porta dello studio. Un dubbio lo colse, sentì la necessità di correre dentro, prendere il dossier ancora con il soprabito addosso. Rileggere i particolari che aveva dimenticato. Particolari che forse potevano essere decisivi per ottenere una diagnosi più certa anche senza esami radiologici.

La nuova segretaria gli aveva fatto trovare le cartelle cliniche degli appuntamenti del giorno sulla scrivania, ordinate, come farebbe qualsiasi segretaria, per ordine di orario. Lui, per una sua abitudine volta ad alleviare la tensione o per semplice vezzo, le aveva sistemate la sera prima in ordine decrescente di gravità: i dubbi e gli incurabili in cima, i primi stadi in fondo.

Sia seguendo il criterio della segretaria, che quello di Enrico, la cartella della signora Giovanna Giannotti, l’appuntamento delle nove e mezza, sarebbe comunque stata la pima della pila. Afferrò il dossier e cominciò a leggere. Assorto nella ricerca dei dati che cercava, sentì i dubbi avvolgerlo ancora una volta. Come trovare una diagnosi alternativa alla TAC per dissipare ogni dubbio? Poteva permettersi di aspettare mesi senza fare nulla per poi trovarsi di fronte a un disastro di metastasi sparse in ogni parte del corpo?

L’ansia di non saper gestire parole ed emozioni quando avrebbe ricevuto quella paziente montava sempre di più.

Mentre continuava a leggere i dati insufficienti senza trovare un’idea che potesse risolvere il dilemma, il vecchio mantra ricominciò a scorrere sullo sfondo dei suoi pensieri.

“Ambasciator non porta pena. Ambasciator non porta pena. Ambasciator non porta pena.”

***

Il treno era ormai vicino alla stazione. Le persone aspettavano già in piedi nel corridoio, ma Giovanna preferì rimanere seduta.

Ripercorse mentalmente il percorso: metro 5 fuori dalla stazione, sei o sette fermate e poi a piedi fino all’Ospedale.

Il pensiero le corse a quando aveva chiamato il medico, con cui aveva insistito per parlare di persona. Aveva iniziato la telefonata in modo difensivo, non avrebbe tollerato un atteggiamento come quello della neurologa. Ma a differenza della Boeri, le parole che aveva sentito al telefono l’avevano rassicurata, almeno all’inizio. Gli era sembrato comprensivo, empatico.

“Capisco i suoi dubbi, signora. Al suo posto farei la stessa cosa.”

Aveva tirato un sospiro di sollievo a quelle parole. Si era sentita rassicurata. Finalmente un uomo che sapeva darle delle certezze, soprattutto su questa decisione così difficile. Si fece cullare per un attimo da quelle parole e pensò che Fabio non sarebbe mai stato capace.

Ma poi il Dottor Cangemi le chiese tempo per ricontrollare la cartella. Dopo un lungo silenzio in cui la sua preoccupazione era riaffiorata, era tornato al telefono.

“Vedrà che troveremo un altro modo per confermare la sua diagnosi. Oppure potrebbe … ehm … attendere di partorire. Allora avremo la possibilità di fare gli esami necessari, ed escludere altre possibilità.” Il tono del medico era cambiato completamente, da sicuro e comprensivo era diventato incerto, guardingo, come se avesse paura di dire troppo, o troppo poco.

Giovanna aveva sentito la rabbia montare, ma in qualche modo si era trattenuta. Avrebbe voluto urlare che doveva prendere una cazzo di decisione e aiutarla. Era l’unico che poteva farlo. Lei non sapeva cosa fare, e tantomeno il suo assente marito. Ma poi il dottore aveva tagliato corto. Aveva chiuso la telefonata con un senso di angoscia ancora maggiore. Ma aveva preferito non parlarne a Fabio, non avrebbe sopportato un altro suo silenzio e la totale mancanza di supporto.

Ormai erano passati diversi giorni e l’angoscia non l’aveva abbandonata. In compenso i mal di testa erano diventati più forti e frequenti.

Aveva cercato su internet una foto del dott. Cangemi, e adesso ad occhi chiusi e con la testa appoggiata al finestrino ricordò il sogno che era arrivato anche quella notte, così come qualcuna delle notti precedenti.

Entrava nel suo ufficio sobrio e funzionale, si presentava e gli raccontava la sua storia personale, di cui sicuramente il medico non era a conoscenza, parlando a lungo. Lei e Fabio, gli anni dei tentativi andati a vuoto, poi il miracolo della vita e la comparsa contemporanea dei mal di testa. Lui la guardava sorridendo, gentile e comprensivo, incoraggiandola a raccontare e forse anche a sfogarsi. Poi si girava per guardare le radiografie del suo cervello sullo schermo luminoso appeso al muro. Questo era impossibile, perché nel sogno era certa di non avere fatto quell’esame: allora l’ansia le mozzava il respiro e aveva voglia di fuggire da quello studio asettico, ma ancora ascoltava la voce calma del medico e non riusciva a muoversi. All’improvviso le parole del dottore si ingarbugliavano, il tono diventava incerto e incoerente come era stato al telefono. Finché non si trasformava in un mugugno agitato.

Quando Cangemi si girava verso di lei, la sua bocca e il suo naso erano spariti. Poteva vedere solo gli occhi colmi d’angoscia e sentiva nelle orecchie quei versi disperati che non avevano più nulla di umano, mentre girava attorno alla scrivania e l’abbracciava in una morsa soffocante.

Stavano entrando in stazione ora. Giovanna fece per alzarsi ma ricadde subito sul sedile. Un altro movimento nella pancia, seguito dall’ennesima fitta di dolore.

Pensò con stupore che entrambe le sensazioni erano causate dalle cellule. Cellule giuste, che la facevano guardare avanti. Cellule impazzite che la volevano trascinare indietro.

Prese ad ansimare forte per l’agitazione, tanto che le persone in attesa per scendere la guardarono un paio di volte, con curiosità.

“Bastardi!” Pensò raccogliendo i loro sguardi con un’occhiata di sfida.

“Se stessi male qui mi lascereste soffrire senza neanche degnarmi di uno sguardo, proprio come Fabio.”

Il treno si fermò al binario con venti minuti di ritardo. Giovanna si fece forza, con la testa che girava e le faceva ancora male, scese dal treno e si affrettò verso la metro che l’avrebbe portata all’Istituto Besta, erano già le nove e dieci. Avrebbe dovuto correre.

Qualsiasi decisione avesse preso, qualsiasi aiuto i medici le potevano dare, non poteva tardare. Lo doveva a se stessa, e alla sua bambina. Fare tutto il possibile per risolvere il dilemma, prendere la decisione giusta. Guardare avanti, senza voltarsi.

Poi avvertì il terremoto nella pancia. Calci a ripetizione, movimenti convulsi. Fino ad allora la piccola l’aveva accarezzata lievemente. Ora sembrava protestare. Era la prima volta che la sentiva così, prepotente.

Dovette rallentare, sorpresa. Un capogiro la prese mentre si teneva la pancia con entrambe le mani, cominciando ad accarezzarla dolcemente fino a fermarsi nel bel mezzo dell’atrio della stazione. Si concentrò e cercò di calmarla come poteva, finché il movimento non si arrestò dopo pochi minuti: sollevò lo sguardo e si sorprese immobile fra la folla dell’ora di punta. Attorno a lei tutti camminavano velocemente in mille direzioni diverse, senza toccarla.

A volte basta poco per cambiare direzione, pensava Giovanna. Una pallina di cellule che diventa un meraviglioso bambino, un’altra che si trasforma in un grumo affamato. L’ostetrica che ti aiuta a dare la vita o il dottor Cangemi che ti dice che non ci sono speranze. E ti trovi tutto ad un tratto a fermarti in mezzo alla gente che corre.

Allora che si fa? Si fa inversione a U, si torna indietro?

Lei non aveva voglia, non oggi. Pensò di nuovo a sua madre. Tutto a un tratto sentì voglia di continuare a guardare avanti, almeno per un giorno ancora.

A Milano aveva smesso di piovere. Fra le grandi vetrate della stazione vide il sole spuntare fra le nuvole, timido ma potente come un bambino che viene alla luce.

Si avvicinò lenta alla biglietteria, fece la fila in modo paziente. “Un biglietto per Venezia Santa Lucia, sola andata.” chiese sorridente al bigliettaio, una mano ancora sulla pancia.

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