La diagnosi

“Il peggio deve ancora venire” pensò Giovanna, appoggiando la testa al finestrino del treno. Il freddo del vetro le dette un po’ di sollievo, anche quella mattina si era svegliata con il mal di testa.

Il chiacchiericcio del vagone la distolse un attimo dai suoi pensieri. Il solito brusio della mattina, fra i pendolari che si recavano a Milano. Di fronte a lei due studentesse che ridacchiavano, chiacchierando incessantemente da quando era salita. A lato un uomo in giacca e cravatta, elegante, che guardava qualcosa sul telefono.

Il movimento nella pancia fu lieve, come una carezza appena accennata. Istintivamente la sua mano toccò il punto in cui l’aveva sentito, poi rimase lì, rispondendo alla carezza.

La fitta arrivò subito dopo, la colse impreparata. Con uno sforzo resistette all’impulso di gemere dal dolore, mentre un grappolo di sofferenza le si formava sulla fronte. Le fitte così forti erano rare, mentre ormai si era abituata al dolore sordo e costante che l’affliggeva da qualche tempo.

Del resto, la dottoressa Boeri glielo aveva detto senza mezzi termini, alla prima visita, mentre esaminava le analisi del sangue: “i valori sono troppo alti. Non è mai una buona notizia. Ma per essere certi ci vorrebbe una TAC”.

Aveva sentito il cuore battere a mille, la vista offuscarsi, una scheggia di disperazione si era piantata nella sua nuca. Non era riuscita a dire nulla.

Poi, ripresasi dallo stordimento, aveva cercato di capire dall’espressione della dottoressa quanto cattiva potesse essere questa notizia, mentre mille pensieri le attraversavano la mente e una sola parola sovrastava tutto il resto.

Tumore.