Respira piano, penso.
Respira molto piano, continuo a pensare, mentre due piccole gocce di sudore si fermano all’altezza della tempia sinistra. Il cuore può esplodere quando è messo nelle condizioni di farlo.
Immagino che la ragazza al di là del bancone stia immaginando le stesse cose mentre la mia pistola le punta la fronte. Ha meno di trent’anni, e, a giudicare da come non riesce a tenere fermo il labbro superiore, questa deve essere la sua prima rapina.
Le persone mi guardano terrorizzate, uno si è buttato a terra, altri non riescono a tenere ferme le gambe. Un vecchio forse si è pisciato addosso.
Non deve finire come l’ultima volta.

Dieci anni fa è finita in un mare di merda e di sangue.
Eravamo in tre. Io e Granchio dentro la banca, Smilzo fuori a fare da palo e a recuperarci con la macchina accesa. Smilzo lo avevamo conosciuto appena una settimana prima, al bar di Tony. Non sapevamo il suo vero nome, si era presentato così e a noi era bastato quel nomignolo, non c’era bisogno di altro.
Avevamo fatto grandi bevute, quella sera. Ci aveva chiesto di fare un colpo insieme, che ne aveva già fatti tanti e non l’avevano mai beccato. Per tutta quella settimana ci incontrammo a casa di Granchio e progettammo nei minimi particolari la rapina nella banca dove tenevo gli ultimi quattro spicci che mi erano rimasti.
Quando suonò l’allarme Smilzo si cagò sotto dalla paura e scappò senza neanche sgommare più di tanto.
Arraffammo dalla cassiera una manciata di banconote di grosso taglio, ci riempimmo nemmeno un decimo del borsone che avevamo portato. Sbattemmo qualche sedia per terra e facemmo un po’ di casino, mentre dal passamontagna all’uscita mandai un bacio con la mano verso il direttore. Lui mi guardò con un ghigno appena abbozzato, con l’espressione di chi ha in testa un solo pensiero. Lo capii giorni dopo, sul letto senza doghe della mia cella, che il suo pensiero quella mattina era stato: “sei un povero coglione”.
Granchio non ebbe il tempo di pensare a nulla. Gli spararono alla gamba ancor prima di capire che fuori era tutto un azzurro polizia. Cadde a terra e il sangue iniziò a uscire a fiumi. Il proiettile aveva attraversato il femore all’altezza dell’arteria. Capimmo subito entrambi.
Io alzai le mani al cielo, lanciando la borsa lontano e mettendo bene in vista il mio corpo, sperando che una pallottola non beccasse anche me. Granchio iniziò a singhiozzare. Due poliziotti mi raggiunsero con le pistole puntate. Mi buttarono a terra e, coi calci alle costole, mi portarono le braccia dietro la schiena. Mi ammanettarono.

Conoscevo Granchio da vent’anni, ero l’unico a sapere il vero motivo per cui per tutti, giù alle case, era semplicemente Granchio. I più giovani non ne conoscevano neanche il vero nome. Non ce n’era bisogno, bastava il suono e il richiamo della mente al piccolo animale e a tutta la sua forza nelle chele. Granchio era esattamente così, piccolo e tozzo, con due braccia enormi, e due mani forti e violente.
Una domenica di derby stritolò il collo della moglie.
La sua squadra perse in malo modo, lui tornò a casa ubriaco e con vari grammi di coca in corpo, lei iniziò a urlargli contro di smetterla con quella vita e minacciandolo che se ne sarebbe andata. Strappò l’unica foto di Granchio con suo padre. Una foto in cui sono al mare e lui è a cavalcioni sulle sue spalle, e si guardano uno dall’alto e l’altro dal basso.
Avrà avuto cinque anni. Una delle ultime volte in cui era stato felice.
Gliela aveva tirata contro. La cornice era andata in frantumi e alcuni pezzi del vetro avevano tagliato la foto. Lo aveva fatto apposta, sapeva quanto Granchio ci tenesse a quella foto. Lui la raccolse da terra, capì che il danno era irreparabile. Le andò incontro e, senza aver detto una sola parola da quando era entrato in casa, piantò le mani al collo di sua moglie. Iniziò a stringere e lei non ebbe neanche il tempo di iniziare ad urlare. La uccise in silenzio.
La sera stessa, poi, era venuto sotto casa mia.
«L’ho ammazzata, Paolo», mi disse, senza che la cosa lo coinvolgesse più di tanto.
«Come mai?», gli avevo chiesto, come se il motivo avesse qualche importanza.
«Cosa devo fare adesso?».
Finalmente la paura lo aveva portato, insieme a qualche residuo di coca ancora danzante nel suo corpo, a preoccuparsi delle conseguenze di quella stronzata.
«Prendi la borsa più grande che hai, io vado dal benzinaio con un bidone», gli avevo detto, chiudendo per sempre la questione. A tutti disse che la moglie era tornata al paese della madre.
Da quel giorno avevo iniziato a chiamarlo Granchio. Gli piaceva da matti.

In vent’anni non l’avevo mai visto piangere. Mai, neanche una volta. Neanche quando trovammo il corpo di suo padre perforato di proiettili, steso all’ingresso di casa. Questione di carichi di coca finiti chissà dove. Regolamento di conti, ancora una volta. Conti sempre troppo alti da pagare, da una vita.

Ora era lì davanti a me, con una gamba inzuppata di sangue e la vista che iniziava ad annebbiarsi. Piangeva, Granchio. Piangeva e mi guardava, mentre si teneva la gamba e io ero steso con la testa schiacciata sull’asfalto.
«Mi sono cagato addosso, Paolo», urlò. I due agenti sopra di me si misero a ridere. Uno mi mollò e gli andò incontro: «Siete due merde», disse. «Adesso muori come un cane», aggiunse. Poi prese il telefono e chiamò l’ambulanza. Disse di fare presto, che c’era un uomo a terra.
Granchio mi guardò ancora una volta, poi si accasciò.
Non dissi niente.
Il mio migliore amico era appena morto sotto i miei occhi, nel peggiore dei modi, e io non avevo niente da dire.

Mi feci otto anni di carcere. Grazie al mio avvocato e alla buona condotta, mi scontarono quasi metà della pena. In carcere, ebbi modo di ripensare alla mia vita. Era chiaro che era stata un fallimento su diversi fronti. Non sapevo, ad esempio, cosa volesse dire la parola serenità. Non l’avevo mai incontrata.
Avevo incontrato l’amore, quello sì. Ma anche lì fu tutto un casino. E non finì bene. Lei se ne andò, e si portò con sé la sola cosa che mi aveva fatto sperare in una vita normale. Aveva tre anni, Federico, l’ultima volta che lo vidi, sulla porta di casa. Ubriaco da far schifo, cercavo di prenderlo dalle braccia di sua madre. Almeno per un abbraccio.

In otto anni di carcere non mi venne a trovare nessuno. Neanche Tony, a cui ho mantenuto la famiglia a forza di vodka tonic, giù al bar. Eppure quello che più mi è mancato negli anni dentro non è stato il contatto con le persone. I miei compagni di cella erano diventati buoni amici, e quasi con tutti condividevo lo stesso destino di povero cristo. Le piccole cose del quotidiano, quelle sì, mi mancavano. La colazione al porto. La barchetta con cui andavo a pescare la domenica. Il poker. La barba fatta tutti i giorni.
All’inizio avevo provato a chiedere alle guardie schiuma e rasoio. Ma non c’era stato verso. Il rasoio era troppo pericolo sia per me che per gli altri.
Quindi barbiere. Due volte al mese, ma senza schiuma, solo con la macchinetta.
Fu proprio la barba incolta, che da sempre odio sul mio viso, a darmi la misura dell’assenza di libertà a cui ero costretto.
L’idea di entrare nuovamente in carcere mi spaventava principalmente per questo.

Uscii un martedì pomeriggio di novembre. Fuori iniziava a soffiare il vento gelido dell’inverno. Respirai forte per qualche minuto.
Non sapendo dove andare, con le mie quattro robe addosso, andai da Tony.
Quando mi vide, fece un sorriso che mi sembrò vero.
«Finalmente sei uscito», mi disse mentre asciugava un bicchiere.
«Fammi il vodka tonic più forte che riesci», gli dissi.
Lui riempì il bicchiere di ghiaccio e vodka. Aggiunse solo alla fine una goccia di acqua tonica e una fettina di limone.
Me lo scolai prima che il ghiaccio raffreddasse il bicchiere.
«Devi farmi un favore», dissi quando finii. «Devi dirmi dove posso trovare Smilzo».
«Lascia perdere, Paolo», mi disse posando lo straccio sul bancone.
«Quella è storia passata, non ci pensare. Ora te ne vai a casa, ti fai una doccia e domani te ne vai tutto il giorno a pescare. Ti rimetti a posto le idee e torni in pista».
«No, Tony. Lo devo a Granchio».
«Fai come vuoi. Comunque non ho idea di dove sia questo tizio. È venuto ancora qualche volta da allora, ma sono almeno sei mesi che non si fa vedere da queste parti».
«Il vodka tonic te lo pago appena riesco», dissi sulla porta.
«E tagliati la barba, che non ti si riconosce nemmeno», urlò.
E fu la prima cosa che feci tornato a casa, la barba. Mi spogliai tutto, accorciai i peli prima con le forbici. Immersi la faccia sotto l’acqua calda, un lusso che avevo dimenticato. Poi presi la schiuma e iniziai a passarla su tutto il viso. Mi lasciai accarezzare dalle mie mani per diversi minuti. Solo quando il fresco iniziò ad arrivare alla pelle, presi il rasoio e iniziai a tagliare via quei lunghi otto anni.

Sono davanti alla impiegata della banca. Non riesce a guardarmi negli occhi, mentre la mia pistola le punta ancora la testa e le urlo di riempire la sacca che le ho passato.
Di Smilzo si sono perse le tracce. Forse sapeva che sarei uscito e si è trovato una buonuscita migliore di quella che gli avrei riservato io.
Quest’ultimo colpo e cambio aria anche io. Da piccolo ero stato a Marsiglia un paio di giorni con un mio prozio. Mi era piaciuta la gente e magari potrei tornarci.
Scatta l’allarme della banca. La ragazza adesso sembra più sicura di sé. Io invece continuo ad avere il cuore a mille e ora anche le mani iniziano a sudare.
Vedo le stesse facce di dieci anni fa.
Forse ho fatto una cazzata.
Sento le sirene arrivare.
Altri anni di carcere, chissà quanti stavolta. Altra vita buttata all’aria.
Mi guardo intorno, sono ancora tutti a terra ma forse hanno capito che si salveranno.
Butto la borsa a terra. Senza accorgermene, sto girando la pistola verso di me.

I ricordi sono al tempo stesso una fortuna e una rovina, senza saremmo scatole vuote e solo la mutazione darebbe senso alla vita. Un accadimento resterebbe importante se, pur non avendone memoria, influisse in qualche modo sul nostro cammino. Se non potessimo ricordare il profumo, o il colore di un fiore, non avrebbe senso fermarsi ad ammirarlo, perché un istante dopo sarebbe come se quel fiore per noi non fosse mai esistito, ma se il profumo o il colore di quel fiore, al di là del ricordo mancante, condizionassero le nostre scelte e, per esempio, ci facessero interessare a un uomo perché ha quello stesso profumo o perché ha una camicia di quel colore, allora ci sarebbe ancora un senso nelle cose.
D’altra parte i ricordi possono essere una rovina. Quando resti ancorato alla tua vita passata, quando il ricordo di ciò che non sei più, dei tempi felici, della mancanza di pensieri, ti impedisce di guardare con mente sgombra al futuro, allora sono un peso che opprime, sono una soffocante coltre di fumo.

Da quando l’incidente di Trieste ha obbligato Stefano a vivere in carrozzella e con la misurazione continua della glicemia abbiamo smesso di esistere, offuscati dal ricordo di ciò che eravamo, incapaci di edificare un nuovo futuro. Ha perso la voglia di combattere e io non sono in grado di aiutarlo. I giorni si ammucchiano uno sull’altro. Mescolati alla noia e alla rassegnazione producono una schiuma appiccicosa dentro la quale restiamo sempre più impantanati. Quello spirito agonistico che lo spingeva nella gare di enduro, che gli faceva aggredire la vita, si è spezzato insieme al pancreas e alla colonna vertebrale, e da allora boccheggia, attaccato al respiratore dell’adrenalina.
Tra casa nostra e il mare c’è uno snodo ferroviario dove per la maggior parte del tempo manovrano treni merci e sferragliano vecchi interregionali, ma una volta al giorno, prima che sorga il sole, ci si incrociano anche due intercity.
Un anno fa, quando siamo passati di qui al culmine di una notte insonne, Stefano ha avuto un guizzo. Le luci dei convogli che puntavano l’uno contro l’altro sembravano gli occhi di due pistoleri, e lì è nata la folle idea: tornare la mattina seguente per attraversare i binari prima che i due intercity si incrociassero, mentre correvano l’uno verso l’altro. Non so cosa mi fosse passato per la testa, ero annullata dalla sua rassegnazione, e, trascorsa un’insolita notte serena, l’avevo accompagnato a quello snodo. Una rete metallica scurita dal sole, e venti metri di terra incolta, separavano la strada dal piazzale di cemento solcato da due coppie di rotaie. Erano le cinque di mattina, la strada era buia. Coperti dal furgone lasciato lungo il ciglio avevamo creato un varco nella rete utilizzando le pinze multiuso di cui Stefano un tempo andava fiero. Era stato facile, la rete era lasca e sfibrata. Non c’erano sentieri, ma il terreno era abbastanza regolare e senza grande fatica, nonostante le ruote ogni tanto impuntassero o scartassero di lato, avevamo raggiunto i binari e lì era partita la nostra attesa. Non ci era voluto molto, i treni erano regolari. Cinque minuti, i nostri occhi sembravano sanguinare insieme, poi, Stefano rivolto indietro e io piegata verso di lui, avevamo attraversato le rotaie mentre i due intercity si affacciavano ai lati opposti dell’orizzonte. Era stata una follia, anche se i convogli erano lontani sarebbe potuto succedere qualunque cosa, ma aveva sortito il proprio effetto: la vita era scorsa nelle vene e gli occhi avevano smesso di sanguinare. Per qualche mese l’adrenalina ci aveva reso di nuovo umani. Ma, come ogni cosa artificiale, quella scarica si era affievolita e qualche tempo dopo eravamo dovuti tornare ad affrontare di nuovo la sorte. Varco. Attesa. Paura. Noradrenalina. Anche la seconda volta aveva funzionato, ma l’effetto durava sempre meno, si consumava più rapido di un cerino al vento, e da allora, drogati in cerca della dose, siamo tornati a quello snodo, a questo snodo, a cadenze sempre più ravvicinate come più vicini sono i treni, ogni volta, nel momento in cui attraversiamo.
E siamo qui, l'ultimo velo della notte che avvolge la collina, il forte sentore che la sfida potrebbe giungere a una fine. Come al solito, abbiamo lasciato il furgone fuori dalla rete, chiavi sul cruscotto e portiere solo accostate: quel mezzo è l’unica cosa che Stefano riesca ancora ad amare. “Se non riusciamo ad attraversare”, ha detto una delle prime volte, “vorrei che qualcuno lo potesse prendere senza rompere nulla”. Stefano, invece, è la cosa più importante della mia vita.
La smania ci ha fatto arrivare presto. Siamo a filo della rotaia da più di mezz’ora. I treni merci, dall’altra parte del piazzale, continuano a lavorare senza curarsi di noi. Credo che non ci possano vedere perché siamo offuscati da un grosso faro che punta nella loro direzione. A un tratto, Stefano dice qualcosa sul fatto che quei treni merci sembrano dei piccoli vermi colorati. Lo prendo per un accenno di dialogo, invece lui ne approfitta per trasformare la mia risposta in una provocazione sull’inutilità della nostra vita e sul senso di quello che stiamo per fare. Attraversare i binari mentre due intercity corrono l’uno verso l’altro è solo una follia, che cosa gli dovrei dire? È normale che due persone trovino la forza di andare avanti solo sfidando la morte, in cerca di una scarica di adrenalina? È quanto meno surreale. Ci vorrebbe uno psicoterapeuta, per tutti e due, ma Stefano si rifiuta di affrontare le cose. Ce l’ha sempre fatta da solo, dice, e crede di poterlo fare ancora. Non è così, quello che stiamo facendo ne è la palese dimostrazione. Da parte mia, ho paura a contraddirlo. L’incidente ha condizionato anche la mia vita, non è facile vivergli affianco, ma è solo lui che non potrà mai tornare indietro. Io non lo abbandonerò, ma se volessi potrei farlo. Per lui, invece, non c’è nessuna via d’uscita. Allora accetto le sue scelte, cerco di farle mie, e sono qui, ancora una volta, a mettere in gioco la mia vita.
Oggi è particolarmente freddo. Lo dico anche a Stefano e, mentre lo faccio, esce uno sbuffo di vapore che si dissolve prima di arrivare alla sua testa. Ha sempre avuto dei bei capelli, mossi e folti. Da qualche tempo son diventati sale e pepe e gli danno un tocco di vissuto che, se non fosse per lo sguardo inerme, lo renderebbero più affascinante di prima. Lo riprendo, perché si sarebbe dovuto coprire meglio, e mi accorgo subito della sciocchezza che ho detto. Lui pare che non aspettasse altro e ironizza sul nostro futuro e sul fatto che, se non riusciamo ad attraversare i binari, non saranno il raffreddore o la tosse il problema. È crudele, ma ha ragione, e io sono la solita svampita: continuo a ragionare come se tutto fosse normale. Il fatto è che io penso che potrebbe ancora esserlo, che non sono la carrozzella o l’insulina a distruggere la vita, ma è la sua apatia. Solo che non riesco a dirglielo, ho paura di perdere quel sottile equilibrio sul quale ogni giorno sopravviviamo. E se costringerlo ad affrontare i nostri problemi lo facesse cadere in una vera depressione? Non me lo posso permettere, così cerco di fare mio il suo punto di vista, per comprendere che non ha più tempo o spazio per l’amore, per non rischiare di rimanere sola, per convincermi che sto facendo la cosa giusta, l’unica che mi è concessa di fare: mettere di nuovo la mia vita nelle sue mani, e nella forza delle mie.
Da quando siamo arrivati è come se avessi la testa altrove. Ho risposto a Stefano col suo stesso modo di fare: monosillabi e interruzioni. Ho uno strano presentimento, ma non è questo il punto, se andasse male sarebbe semplicemente la fine del nostro patire. No, quello che mi rende distante da questa scena non è la paura di non attraversare in tempo, ma qualcosa che dipende dalla giornata, dal cielo che ci mette più del solito a schiarire, dai residui tossici che si sono ammucchiati negli ultimi mesi. E quando Stefano mi chiama, e grida, e la mia testa e il mio corpo tornano a essere una cosa sola, la sua voce mi arriva accompagnata dalle note frenetiche degli intercity, già vicini. All’improvviso sento le punture del freddo per il quale lo avevo stupidamente ripreso. Poi mi accorgo che non è quello a farmi tremare, ma le vibrazioni del suolo e, ancora di più, le scariche che il mio cervello produce senza che io me ne renda conto, quel meccanismo che fiuta il pericolo e mette in allerta ogni parte del mio corpo e sembra dire: è ora degli straordinari, signori! I due intercity sono davvero vicini. Quel poco di raziocinio che non è ancora stato surclassato dalla noradrenalina mi fa pensare, per un istante, che è troppo tardi e troppo rischioso. Solo una breve e inutile riflessione, solo quella, prima che arrivi di nuovo il grido di Stefano. Urla, e guarda davanti a sé. Esistono solo i binari la carrozzella e i treni. Dice che è ora di andare. Impreca. CAZZO VIRGINA ANDIAMO! E allora, anche se so che questa volta abbiamo esagerato, smetto di pensare, getto anche io lo sguardo oltre i binari e mi lancio insieme a lui, mi lancio a sfidare la sorte in cerca della vita. Cemento, ferro e acciaio trasmettono vibrazioni che si disperdono tra le ruote della carrozzella e le mie braccia irrigidite. Le luci dei due treni abbagliano, sono talmente vicine da farmi sentire avvolta da lampi. Immagino che, per la prima volta, ci vedano anche i macchinisti perché sento il fischio delle loro sirene, mai udite prima. Avvisi inutili: non possono fermare i treni e neppure farci attraversare in maniera più veloce. Solo la nostra volontà, la mia volontà, la mia energia, il mio attaccamento a questa dannata vita, può tirarci in salvo prima che si incrocino i due treni. E io spingo e scalpito, mentre tempo e spazio sembrano diluiti. Dieci metri da bruciare in pochi secondi, eppure ritorno a pensare e mentre scavalco la terza rotaia mi viene il dubbio che non servirà a nulla: il vuoto creato dal secondo intercity ci risucchierà indietro, siamo spacciati. E se non sarà il vortice a farci morire, saremo noi stessi, sarà l’assuefazione alla noradrenalina, sarà la voglia di Stefano di stare male, la sua paura di fidarsi di nuovo della vita, la mia, di non riuscire a stargli affianco. E allora, anche se siamo a un passo dalla salvezza, smetto di spingere. Mi lascio andare. Che la sorte compia il nostro destino.
Ma la sorte, lo avrei dovuto immaginare, è più avanti del mio pensiero. Nella frazione di secondo in cui mi illudo di sconfiggere la vita, l’inerzia mi porta oltre la terza e la quarta rotaia. C’è il risucchio dell’intercity, ma è poco più forte di una folata di vento. Il cuore mi scoppia dentro il cervello. I polmoni si comprimono e cercano di dilatarsi senza tregua. Lo sferragliare dei convogli, a pochi metri da me, sovrasta ogni rumore come un mare in burrasca. Appena riesco a riprendere fiato mi volto per guardarli correre via, due luci che si perdono in direzioni opposte in questa lacrima di notte mista al mattino. Solo quando mi giro di nuovo, il sudore che si ghiaccia intorno alle tempie e lungo la schiena, mi accorgo che davanti a me c’è Stefano sulla carrozzella.
Non dice nulla. Non lo faccio neanche io. Non vado neppure in cerca del suo sguardo. Quando i treni sono svaniti e il cuore rientra nell’angusto spazio in mezzo al mio petto, torno a stringere i manici di plastica. Inermi. Isolanti. Manovro la carrozzella, cambio direzione e insieme a lui ritorno indietro. Non so cosa passi per la sua testa, ma nella mia sento che è ora di cambiare. Da qui in avanti voglio ritrovare almeno un briciolo di gusto per la vita.

Estate

Cammino ciondolante sul fare della notte, attendo la scomparsa dell’ultimo brandello di luce che, come è d’uso in questa stagione, se la prende con comodo.
Evapora il sudore dal vestito della rue Zola e il tempo si sospende nel suo circolo mostruoso che ributta in faccia il fumo di una sigaretta. Ancora Parigi, ancora estate, ancora girovagare.
Non è rimasto niente dello scorso maggio, non una goccia di sangue sul selciato, non la carta dei giornali, tutto è scomparso con le barricate e io solo alla fine dei giochi seppi che era successo qualcosa, ma non mi interessava neanche sapere cosa, so solo che improvvisamente tutti i “cani da guardia” abbaiano ai propri padroni.
Entro nel bar e ordino un pernot, bevo e ne chiedo un altro, li butto giù con la maestria di un violinista gitano.
Il fumo entra nei polmoni, gli occhi si fanno sottili. Penso a Margherita e mi aspetto di vederla entrare da quella porta da un momento all’altro.
—Oh, ma chi abbiamo qui?! Il nostro caro poeta Paul Zelano —
Vacilla lo sguardo per trovare un panciuto borghese.
—Che vuole monsieur? —
—Oh niente, solo presentarle la dolce Yvonne Talloi, sa, anche lei s’intende d’arte.—
L’occhio rotola sull’orlo del bicchiere e ci cade dentro. Butto alcool in gola e mi vedo annegare mentre il garçon me ne riempie un altro.
—Non m’intendo di nulla, io.—
Con le punte degli occhi trafiggo il petto del disturbatore. Sporco e banale imitatore di Heidegger; è lui, la puttana dell’università, il ruffiano degli artisti, il compagno da salotto, Jean-Paul Partre.
—Ah cara Yvonne, lo sa come sono questi poeti: sempre un po’ maledetti.—
Scorgo una giovane donna, gentilmente vestita di chiaro, sublime nello sguardo fermo, da donna vissuta. Non ha succhiato neanche la metà dei miei anni, i miei anni di sangue e merda nei campi della Bassa e nel confino lucano, ma ciò nonostante pare sicura e invincibile, molto più di me, o forse è solo giovane. Ingollo il bicchiere, lei aspira il fumo da una sigaretta con aria pensosa e profonda.
—Così lei è Paul Zelanò, il poeta.—
—Sono solo un mediocre lettore di italiano presso la Sorbonne, nulla a che vedere con il magnifico qui presente Jean-Paul Partre, uomo di mondo, filosofo complesso e persona profonda. Alle sue lezioni c’è più folla che a quelle di Foucault. Lui le farà conoscere tutta Parigi.—
—Ah, troppo buono.— finge di non cogliere sarcasmo e disprezzo, o forse sa che è solo invidia, la mia, e non vuole darmi soddisfazione.
—Mi piacciono i suoi versi.— la ragazza esprime il più banale giudizio sulla poesia che si possa avere. — E mi piacerebbe poterla fotografare e chiederle cosa pensa dei miei lavori.—
—Fotografa? Non ce ne sono abbastanza di copiatori della realtà?—
—Oh, ma io non copio la realtà, io la limito, io la creo.— e la sua voce è vibrante come il serpente schiantato da Dio nella casa dell’uomo dopo la creazione.
—Io ho avuto modo di vederle e sono rimasto estasiato.— dice l’accomodante ruffiano.
—Sono felice per lei.—
—Vorrei organizzare la prima personale di questa ragazza, così giovane e così talentuosa.— il ribrezzo per quell’uomo mi scava lo stomaco come un’ulcera.
—Vorrei finire di sbronzarmi e poi cercarmi una puttana abbordabile.— l’anticonformista filosofo borghese fa uno sguardo stupito, poi gli sovviene che è antimoralista e sorride accomodante.
—Beh, chi siamo noi per interrompere una così nobile occupazione?!—. Poi, rivolto alla ragazza:— Andiamo Yvonne, l’accompagno.—
Yvonne, statua di ghiaccio immobile, sguardo che affonda la carne.
Si avvicina licenziosa e sinuosa come lingua di fuoco, spegne la sigaretta tra le altre nel posacenere accanto a me e la sua bocca è vicina al mio orecchio, cerco di mantenermi calmo mentre il suo odore mi confonde le viscere. Sussurra, facendo uscire il fumo, e le sue parole vellutate mi sfiorano delicate: —È stato davvero un piacere, spero di rivederla.— Rossetto rosso, labbra vibranti, bianchi denti, occhi verdi, biondo cenere i capelli; il collo è sottile ed elegante, le dita affusolate e smaltate di amaranto… Il mio corpo è un vibrante cazzo eretto nella sua pulsazione finale.
La ragazza è entrata in me con tale violenza da sentirmi stuprato. Improvvisamente ogni altro pensiero è caduto giù per il bancone del bar in un solo impeto biochimico e Margherita sembra non esserci mai stata nella mia vita.
Escono. C’è ancora luce, lui le apre lo sportello per farla entrare nella decappottabile. Lei indossa il cappello e gira lo sguardo verso di me. I nostri occhi si toccano scambiandosi una promessa. Ora non so più se è giorno o se è notte.

Autunno

Yvonne, Madonna vestita di candido, puttana abbarbicata, lì, sulla sedia. Il caschetto incornicia il viso di perla, la bocca sottile piegata in una leggera smorfia; nere e voluttuose le labbra succhiano il bocchino di una sigaretta. Sottile veste di lino e seta, intravedo il piccolo seno, l’ombelico come una coppa e, tra le gambe accavallate, il nero del suo intimo. Vorrei gettarmi su di lei e poi supplice ai suoi bei piedi nudi implorarle di farmi assaporare il suo odore sulla punta della lingua; e poi baciarle le ginocchia e le cosce e strapparle tutto, arrivare al sesso per bere il suo nettare dandole piacere in tutti i modi in cui un uomo può dare piacere a una donna.
—Allora Paul, che ci fai qui?—
—Ero venuto a trovarti…—
—Eri venuto a trovarmi o a provarci di nuovo?—
—Forse tutt’e due…—
—Paul, ascolta, te l’ho già spiegato, non può continuare. Ti faresti solo del male.—
—Tu mi ami ancora.—
—Non lo so se ti amo, non so neanche cosa sia l’amore francamente, so solo che… che sei geloso, morboso, possessivo. So che mi vorresti tutta per te, sempre, ma io non voglio esser tutta per te, né per nessuno, voglio essere libera di costruire la mia vita sessuale ed emotiva con la stessa libertà con cui costruisco le mie foto.—
—Ma io ho bisogno di te Yvonne. Ho bisogno di te e tu lo sai—
—No, non è vero. Nessuno ha davvero bisogno di qualcuno e tu non fai eccezione. Tu, come tutti, hai bisogno di una scusa per vivere, per dare senso alla tua vita. Io sono la tua scusa per scrivere e scrivere dà senso alla tua vita. Quando non ci sono mi vuoi vicina, quando ci sono puoi dedicarti alla poesia, la tua vita non può dipendere da me, né da nessuna donna.—
—Ti prego—
—No.— sigaretta finita, si alza —Conosci l’uscita.—
—Io… io posso accettarlo… posso provarci perché… perché lo capisco
—Lo so che lo capisci.— percorro la sua schiena con le dita degli occhi e l’immagino nuda. Si volta leggermente e mi avventato sul suo collo a baciarlo. No, lo sto immaginando, sono fermo, davanti la sedia dell’ingresso con il cappotto ancora addosso, la porta alle mie spalle e il cappello in mano come un questuante. Imploro con gli occhi l’epica di un amplesso, ma lei taglia il mio delirio col coltello: — C’è una persona nell’altra stanza—gelo— sto per andare a letto con lei, di nuovo, come ho fatto tutta la mattina. Lo accetti?—
—Io… io… devo andare.— imbocco l’uscita.
Non mi scandalizza che ci sia un altro, o un’altra, nella sua stanza, non m’importa chi si scopa o chi ama, tutto ciò che mi disturba è che non sia io.
Scivolo per strada, il sole è una palla rovente in un gelido autunno. Il vento gioca con le foglie, le uccide, le porta ai piedi di anonimi passanti in uno stupefacente spettacolo di morte senza resurrezione. Vorrei andar a giocar la mia vita a dadi col mio amico Topo, ma ho la testa piena di lei… Ah Yvonne, Yvonne, ricordi che pochi giorni dal primo incontro convincesti Partre a invitarmi alla sua villa per una festa estiva?, e ricordi che facemmo l’amore nelle sue stanze mentre brontoloni universitari e sedicenti artisti vagavano per il giardino? E le mie poesie ti piacevano, mi convincesti a presentare il nuovo libro e alla conferenza io ti aspettavo tremante e disarmato.
I nostri giorni insieme sono passati intensi e maestosi come le onde del mare che mi risospingono ancora alla riva delle tue cosce, le tue cosce che mi raccontano la vita, la carne, l’amore come se dal mio mezzo secolo non avessi appreso nulla. Prima di te mi preparavo all’oltretomba, ma con scarsi risultati, adesso voglio la vita.

Inverno

Io, Paolo Zelano, malinconico poeta senza fama, senza gloria, orfano, superstite di una grande guerra, migrante, italiano, parigino, amante… Immobile davanti la porta del tuo appartamento spio i tuoi passi. Vedo gente entrare e uscire dal tuo palazzo e mi chiedo se verranno da te confessandoti le loro fragilità. E tu? Sarai fragile anche con loro come lo eri con me?
L’alba e il tramonto mi scivolano addosso, cerco di pedinarti arrancando ubriaco per strade ghiacciate. Mi hai dato un amore che non pensavo di poter provare, che non credevo di esserne ancora in grado. Yvonne, ora sei lì, chiusa nella tua casa a guardare le fotografie, a sistemarle per la mostra. Sei in una camera oscura o in un parco pubblico a litigare con la luce. Ti spio nella sera dei miei giorni e non so da quanto non mi presento in facoltà. So che mi sveglio tardi, so che non dormo, so che mi masturbo pensandoti; so che giro rabbioso per le strade in cerca di qualcuno da sbranare come fanno certi cani abbandonati.
Perdio Yvonne!, cosa fanno le tue labbra quando non mi baciano? Cosa stringono le tue braccia quando non ci sono?
Possessivo, fragile, geloso… hai ragione, sono un vecchio… sono tutto ciò che pensavo di odiare, un uomo che si attacca alla materialità della vita con le unghie e con i denti, non disposto a condividere nulla con nessuno.
Ti guardo uscire di casa vestita calda per serate mondane e quando mi scorgi mi celo nell’ombra e ansimo al pensiero di stringerti il collo tra le mani per vederti spirare mentre l’ultima fotografia la scattano i tuoi occhi guardando imploranti i miei. Mi perdonerai e mi stringerai e mi amerai ancora e per sempre… Ti desidero, ti strapperò i vestiti, ti salterò addosso e ti violenterò per strada, in un vicolo o in pubblica piazza, e tu godrai come una santa puttana in estasi davanti al suo Cristo, sì.
Calma!, respira, sono lucido… sono un semplice vagabondo di strada durante un gelido inverno; sono uno stereotipo, un penoso vecchio poeta che aspetta una donna che non arriverà mai e che fuma sigarette mentre il vento lo percuote, la pioggia lo bagna, la salute lo abbandona. Non è romantico, è patetico!
Ti smaltirò come si smaltisce la sbronza. Ti dimenticherò e amerò ancora o forse non amerò mai accettando di buon grado l’impotenza della vita.
Tossisco e dolorante mi porto verso casa, come ogni notte.
Parigi è grande, ma finisco sempre al tuo portone, Yvonne, desideroso, sognante, illuso. Quando realizzo cosa sono davvero ritorno a casa, sconfitto. Con secchiate di gelida lucidità mi convinco che alla fin fine tutto scompare nel nulla e che tutti gli amori scompaiono prima o poi dalla mente, come gli affetti e i ricordi più intensi. Tutto si fa opaco e allora mi chiedo, quando metto la chiave nella toppa, ho mai amato davvero prima di te oppure semplicemente continuo a trovare oggetti per riversare il mio amore?… magari ogni “ti amo” è una bugia o, e forse hai ragione, è una scusa.

Primavera

Giunge sottile la notte da sotto le porte e l’inverno alle spalle ha piegato il mio corpo. Una donna che amavo ha fatto la sua prima personale di fotografia. È stata un successo, ho letto di lei sui giornali, non l’ho vista perché malato… ma oggi sto meglio, mi sento di camminare, anche se non so dove. Forse mi basta sbirciare la primavera che profuma una Parigi notturna, così romantica, così viva, come la luna che si specchia nella Senna.
Passeggio lungo il fiume e cerco Topo, un clochard, un mio amico, gli darò i miei ultimi scritti e se ne farà un giaciglio. Una volta mi disse che aveva deciso di fare il barbone quando, da piccolo, salì sulla Tour Eiffel per prendere una stella, quando vide che quelle restavano comunque troppo lontane capì una verità e si disse: — e a me chi me lo fa fare di salire in cima quando si vedono uguali da giù? —
La lezione di Topo non l’ho mai imparata, dalle delusioni, io, non imparo mai.
Sapete?! ho mentito, io so dove sto andando, sto andando in rovina, sto andando a cercare la luce nel fiume, sto andando a impedire l’orrore con cui un nuovo amore ti sveglia al mattino per cancellare tutti quelli passati.
Percorro la Senna cercando sotto quale ponte si è messo il mio amico così da dargli in poesia quel che resta dei miei giorni andati come schiuma di mare, quando, dopo l’onda, non resta più niente. Che scherzo crudele, che triste esistenza quella di un uomo e di una donna fragili e inconsistenti. La schiuma che decora le onde decora anche i giorni, ma alla fine, di essa, in entrambi i casi, non resta che qualche confuso ricordo… ecco che me ne sovviene uno non troppo opacizzato, chissà perché proprio questo.
Camminavo con Yvonne lungo il fiume.
—La fotografia non deve trasmettere la realtà, almeno la mia fotografia. La mia fotografia esprime il mio occhio sulla realtà, io quella gran cosa che è la realtà la taglio, perché per me non esiste, esiste solo quello che posso strappargli con il mio obiettivo, perché quel mondo che c’è in foto è un mondo completo pieno di me… anche se non vi compaio mai… mi segui?—
—Sì.—
—Grazie… ci sei anche tu nel mio mondo.—
—E anche bello in posa…—
—No, quelle sono foto… ricordo, diciamo… no, tu sei nel mio mondo perché ti ho fotografato mentre dormivi, quando non mi vedevi, così ho catturato il tuo corpo e l’ho riempito col mio… cioè… il mio “spirito”… no, così suona di merda.—
—Tranquilla ho capito. Tu “addomestichi” il mondo.—
—Sì… come direbbe quel tale algerino io voglio firmare il mio passaggio, ma per farlo devo ritagliarmi un pezzo di vita, insensata ed effimera, e fare in modo che duri e che dica “Yvonne Talloi è esistita”. E non m’importa se non sapranno chi ha fatto quelle foto o che fine faranno, l’importante è che ci siano perché dove sono loro ci sono anch’io, che la gente lo sappia o meno, che capisca le mie foto o meno. Non me ne frega niente se mi dicono sono belle, sono brutte… sono mie, sono io, anche in quelle così brutte che ho strappato… Capisci?—
—Capisco.—

Ogni oggetto riluceva in quella baia. Deve esser scesa la Shekinah1, pensai. Deve esser buon segno, pensai. Mi accamperò qui, pensai.

Avevo bussato, non avevano risposto. Forzai l’ingresso, la porta si lasciò aprire docile. Chiamai, non ebbi risposto. Ci saremo solo io e Dio in questa piccola casetta di legno, ritenni.

Chiusi la porta sulla tormenta di neve, sulla foresta siberiana, sulla mia sventura. Scaldarmi, dovevo scaldarmi. La neve mi copriva, i movimenti erano lenti. Ai lati degli occhi, dal naso, sulla barba… solo ghiaccio. Tremai.

C’erano coperte e un letto in quella casa, c’era un bagno e una cucina. Solo la polvere tradiva uno stato di lungo abbandono; solo i vetri spaccati dal freddo e la neve per terra suggerivano l’assenza umana.

Accendere il fuoco, dovevo accendere il fuoco; dovevo prendere la neve e farne acqua bollita; dovevo spogliarmi, togliermi le scarpe e sperare di non staccarmi l’intero piede. Avevo perso sensibilità al corpo, da giorni non sentivo la fame né il freddo. Solo al focolare di quella casa riscoprii di esser un figlio di Adamo, per di più allo stremo.

Fuggire dal treno che porta al gulag per morire comunque di stenti nella foresta. Fuggire dall’Egitto per morire di stenti nel deserto. In entrambi i casi si muore liberi e, se posso permettermi, preferisco così.

C’era della legna vicino al camino, buon segno, dovevo aver trovato la manna. Mi avvicinai zoppicante, il piede destro era congelato. Tolsi i guanti, ma avevo scarsa sensibilità alle mani. Mi ci volle forse un’ora per accendere il fuoco, per sciogliermi le ossa. Tentai di spogliarmi, avevo enormi difficoltà, la pelle era attaccata ai vestiti, mi ci volle parecchio per non spellarmi.

Tolsi le scarpe, il piede destro era viola, la pelle aperta, il sangue congelato. Brutto da vedere, bruttissimo da sopportare.

Feci impacchi di acqua calda per scaldarmi, per ridar vita alle ossa.

Presi dalla tasca interna del cappotto la lettera di Adelya, la mia Adelya, la mia speranza, la mia forza, il motivo per cui ero fuggito. Per questa lettera ero corso nella foresta mentre i mitra dei compagni aguzzini tiravano alla cieca nella mia direzione. Non avevo catene, potevo farcela. Ero lontano da casa, ma potevo farcela.

Presi la lettera che avevo salvato dal trasferimento al campo. Una lettera breve: “Ti amo Vania Shlomovich Grossman, ti amerò per sempre. Amo tutto di te, amo anche la tua dedizione a stampare il giornale. Amo la tua ostinazione ad amarmi e ad amare la vita. Torna da me Vania, torna da me. Amore.”

Poche parole, la conosco Adelya, la mia Adelya, poche parole, bastano per dire tutto.

Tornerò da lei, l’abbraccerò, sono tornato, le dirò, ora possiamo anche lasciare la Russia, le dirò. Andremo in Palestina, fa caldo lì, staremo bene, potremo crescere i nostri figli, potremo scrivere quello che ci pare sui giornali. Ma dopo, prima facciamo l’amore. Adelya, la mia Adelya. Le dirò così.

Ero stanco, ero stremato, ero privo di forze. Sollevai il mio corpo da davanti al fuoco e mi trascinai a letto sorreggendomi a fatica.

Un letto matrimoniale, un armadio e una sedia. Era diventato tutto così triste e spento. La sedia era solitudine, era abbandono, era dove mio padre dormiva al capezzale di sua madre morente.

Papà, giovane, seduto sulla sedia di fianco al letto di nonna. Dormicchia, poi lei lo chiama. Non so cosa gli dica. Io ho dieci anni e sbircio la scena dalla porta socchiusa. Un lume sul comodino illumina la stanza. Mio padre fa cenno di entrare. Sorride da sotto i folti baffi. Ha la kippah e le trecce, mi fa cenno di avvicinarmi, nonna mi stringe la mano… ricordo che papà sorrise, poi il ricordo si dileguò.

Chiusi la porta. Mi spogliai. La camera da letto aveva una finestra intatta e ben chiusa. Mi misi sotto le coperte e presi sonno chiedendomi, come fosse la Palestina; come fanno le persone ad attaccarsi alla terra e come si fa ad esser nazionalisti. Pensai che avevo trovato rifugio in una casa che non era mia, mi sentivo accolto lo stesso. Pensai che solo dove c’era Adelya, la mia Adelya, mi sarei potuto sentire a casa.

Recitai le preghiere e mi addormentai.

Al mattino seguente mi tirai giù dal letto e mi vestii. Mi diressi a tentoni verso il bagno e poi mi dedicai ad esplorare la piccola casa: una sala, un bagno, una cucina, una camera da letto. Piccola, funzionale, una baia per cacciatori nella foresta.

Trovai un fucile a doppia canna e un coltello da caccia, trovai del tabacco per pipa, i fiammiferi e una pipa. Trovai un fucile pre-rivoluzione. Trovai munizioni per le armi. Trovai di che vestirmi, un abito da uomo in stile Tolstoj, pellicce, scarponi, guanti.

Usai un fucile per stampella e andai a caccia. Se non avessi trovato nulla da mangiare sarei morto entro pochi giorni.

Il sole illuminava la neve e questa faceva risplendere ogni cosa. Ero debole, affamato, avevo i crampi allo stomaco, avevo un piede quasi in cancrena, ma potevo vedere lo splendere della parola di Ashem2 sul mondo. Anche oggi sono vivo, pensai; anche oggi posso pensare a te, Adelya, la mia Adelya, pensai.

Mi inoltrai nella foresta senza perder di vista la casa e Dio mandò un cervo davanti al mio fucile. Mirai. Sentivo il mio respiro, sentivo il suo; sentivo il mio cuore, sentivo il suo. Non mi piaceva uccidere, ma feci partire un colpo e il cervo cadde. Un silenzio irreale si diffuse per l’aere. Lo sparo mi aveva stordito e tappato le orecchie. Non mangerò kosher3, pensai, ma la contingenza mi scuserà, pensai.

Mi portai alla carcassa dell’animale e lo sgozzai per farne defluire il sangue. Aprii uno squarcio nel ventre e buttai fuori le interiora e gli organi che non avrei mangiato. Con estrema fatica, lo portai vicino casa. Presi fegato, polmoni, cuore. Non avevo forze per scuoiarlo. Sotterrai il resto nella neve. Avrei bollito la carne. Potevo solo accendere il fuoco, mettere una pentola di neve a bollire e buttarci dentro la carne

Pregai. Mangiai. Feci gli impacchi caldi al piede e mi accesi la pipa.

Ho sei anni, mio padre è sulla poltrona davanti al fuoco, fuma la pipa. Zio Josef è in piedi, gli sta parlando. Shlomo, dice, perché non vuoi mandarlo alla scuola chassidica4?, chiede. No, Josef, siamo ebrei, siamo osservanti e siamo cresciuti nel chassidismo, ma non voglio che mio figlio segua la stessa scuola, dice mio padre. E che vuoi?, chiede zio. Che segua una scuola più aperta e più “pratica”, risponde mio padre. Poi papà si alza, tira una boccata di pipa e dice: i tempi stanno cambiando, Josef, bisogna saper essere moderni, bisogna che sappia scender a compromessi, ho paura per lui, dice mio padre. Vania, non origliare, dice mia madre. Ma parlano di me, replico, su, fai il bravo, vieni, aiutami in cucina. Mi giro, mia madre è giovane e bellissima, coi capelli neri, con un sorriso luminoso, con la bocca sottile, con un grembiule da cucina… mia madre, il suo odore.

Mi svegliai sulla sedia vicino al fuoco con la voglia di piangere, la pipa mi era caduta per terra. Mi ero addormentato durante una rimembranza. Fuori era calato il buio, il fuoco era quasi spento. Andai a letto, pregai e mi addormentai.

Durante la notte salì la febbre. Deliravo ed ero in uno stato di dormiveglia. Quando vidi mio padre sulla sedia pensai che fosse la fine. Era vecchio, stanco, piccolo e debole; capelli grigi e lunghi, la barba di qualche giorno. Papà, che ci fai qui?, chiesi. Sono venuto a salutarti. È tempo di andarmene?, chiesi. Non ancora. Sono venuti a casa, hanno fatto un casino, il cuore di padre non ha retto. Dove andrai?, chiesi. Nella casa dei miei avi. Com’è la morte?, chiesi. Una cosa come tante. Come so quando è il momento?, chiesi. Quando la Shekinah scenderà e tu vedrai bene perché ogni cosa sarà illuminata. Sembra una bella cosa, dissi. Vivere, figliolo, è una bella cosa. Spero di rivederti quando Ashem mi avrà svegliato, dissi. Anch’io, figlio mio. Buon viaggio, padre, gli augurai. Buona notte, figliolo.

Dormivo, vegliavo, mi giravo e rigiravo nel letto. Fuori ululavano i lupi. Dovevano aver trovato la carcassa. Addio mosco, pensai. Domani dovrò riandare a caccia, pensai.

Rimasi a letto a lungo anche dopo che il sole illuminò la stanza. Provai a riposare, ma non c’era nulla da fare. Avevo sudato molto durante la notte, ma avevo ancora i brividi di freddo.

Mi chiesi quando sarebbe entrato Shabbath5, pensai che forse era già iniziato la sera prima e quindi potevo restare a letto.

Vania! Vania! Svegliati!, chiama mia madre. Ah, che vuoi?, faccio. È mattina di Shabbath, dice. Il Ya Ribbon Olam mi prescrive di starmene a letto, dico. Mia madre risponde che il Ya Ribbon Olam6 vuole che condivida questo giorno con parenti e amici, vuole che studi la Torah. Non vuole che rimanga a letto a poltrire. Dai che dobbiamo pregare tutti insieme, i tuoi zii e i tuoi cugini sono qui, dice mia madre. Vengo, ma tra un po’, dico. Va bene Vania, ma sbrigati, dice. Mi riaddormento pensando al solito Shabbath in famiglia. Ho ventanni, voglio dormire, venerdì sera sono stato da Adelya, la mia Adelya. Mi riaddormento, ma per poco, mia madre torna alla riscossa bussando forte alla porta.

Mi svegliai di colpo, no, non era mia madre a bussare, era un colpo di fucile. Poi un altro. Poi un guaito. Il cuore prese a pulsare. Mi buttai giù dal letto e mi lanciai sui fucili. Mi affacciai alla finestra con attenzione. Non vidi nulla.

Sentii movimento nell’altra stanza, doveva essere entrato qualcuno. Mi avvicinai alla porta per origliare.

Sì, ci deve essere qualcuno! In guardia ragazzi, potrebbe essere uno schifoso comunista giudeo, sentii.

Controrivoluzionari, pensai, non credevo ce ne fossero ancora. Questi sono più stupidi dei soviet, più cattivi, pensai. Qualche vecchio nobile antisemita deve aver convinto qualche ragazzino a combattere contro i bolscevichi. Schifosi relitti del passato, pensai.

Tu!, guarda quella stanza, facciamo pulizia, da qui sarà facile nascondersi.

Grassatori, pensai, solo dei miseri grassatori con velleità reazionarie.

La porta venne aperta con un calcio. Mi spostai restando attaccato al muro. Entrò un ragazzo col fucile puntato. Non c’è nessuno, disse. È giovane, ma dovrò violare la legge di Moseh comunque, pensai. Si girò, mi vide, stava per puntarmi il fucile. Troppo tardi. Aprii il fuoco. Venne schiantato a terra con lo sterno bucato.

Esci, fottuto giudeo!, urlarono. Come fate a sapere che sono giudeo?, chiesi, caricando il proiettile. Tutti i comunisti sono degli schifosi giudei!, disse. Mi affacciai puntando l’arma e aprii il fuoco. Mi faceva male la testa, mi faceva male il piede, mi facevano male le braccia per il rinculo, ma un altro ragazzo era morto per mano mia.

Ero grato ad Ashem per avermi dato un fucile pre-rivoluzionario che non si inceppasse, ma non perdetti tempo in meditazioni, tornai all’attacco. Il terzo camerata si era abbassato per proteggersi, io avevo già impugnato il fucile da caccia. Il camerata guardava il compare morto ed io pregavo, recitavo il salmo di David… Lo freddai con un colpo alla testa. Tutto accadde in pochi secondi.

Non uccidere, il Signore è il mio pastore, non uccidere. Mi pulsava la testa, ma sulla porta d’ingresso spuntò un altro ragazzo. Fece fuoco, prese la coscia destra, persi l’equilibrio, ma feci partire un colpo. Colpito all’inguine si piegò tra i cadaveri dei lupi. Dovevano averli freddati prima.

Ricorda Vania, prima di essere Russi siamo comunisti, ma prima di essere comunisti siamo Ebrei, dice Moseh Buber. Il mio miglior amico. Ho ventidue anni, siamo andati all’assemblea dei lavoratori. Avevamo letto il libretto distribuito dai socialisti, era uno scritto di Marx ed Engels, sapevamo che Marx era uno di noi, ebreo. Ci piacevano quelle idee. Odiavamo lo zar e i nuovi progrom. Secondo i boeri eravamo noi Ebrei ad incitare la rivolta al solo scopo di avere uno stato nostro. Idioti antisemiti! Eravamo solo stanchi della guerra, come tutti.

Ricorda Vania, noi restiamo sempre e comunque Ebrei, anche se non portiamo più le peoth e la kippah, mi diceva Moseh. Che intendi?, chiedo. Che ci sarà sempre qualcuno che ci odierà, mi risponde. Sta per continuare, ma un cane nero grande e grosso si mette ad abbaiare verso di noi e ci interrompe. Cagnaccio!, dice Moseh. Sembra Rasputin, dico, è vero, fa lui. Taci Rasputin!, sei solo un infame!, urla Moseh mettendo a tacere il cane.

Guardavo un lupo morto, pensavo a Rasputin, il cane, pensavo a quella camminata con Moseh Buber e all’assemblea dei lavoratori. Appoggiato al fucile presi a camminare verso la porta come in trance.

Bum. Colpo di pistola secco. Foro sul fianco destro. Mi girai e vidi un uomo con folta barba grigia vestito da ussaro, il capo dei briganti. Lo guardai, mi guardò puntando la pistola. Lasciai il fucile portando una mano alla ferita. Caddi schiena a terra.

Ahi mamma, dico. Sono appena caduto, ho sette anni. Forza rialzati, dice mia madre. No, mamma, non voglio andare alla scuola ebraica, le dico. Non dire sciocchezze, dice, ora alzati e andiamo. Ma perché?, chiedo. Perché siamo Ebrei e andiamo alla scuola ebraica, risponde. E perché siamo Ebrei?, chiedo. Perché Ashem ci ha affidato la sua Legge per la gloria di tutti gli uomini, dice. E non poteva darla qualcun altro?, insisto. Lo ha fatto, ma solo noi abbiamo accettato, quando conoscerai bene la Torah potrai sottrarti al compito di Ashem, ma se non la conosci che razza di scelta vuoi fare?, dice mia madre.

L’ussaro si avvicinò, spada sguainata, lo sentivo, stava per finirmi, tutto stava diventando buio, mi piego su un fianco.

Ho tredici anni, sono in Sinagoga, sto leggendo la Torah, è il mio bar mitzvah7. Alzo gli occhi dal rotolo, ho finito, applausi e “Mazel Tov”8. Mio padre mi guarda, mi sorride, è commosso, sono felice, gli sorrido.

L’ussaro mi diede un calcio, restai immobile. Strinsi il coltello da caccia, mi girò col piede. Con un gesto rapido gli tagliai la coscia. Ringhiò e cercò di trafiggermi. Mi mancò cadendomi addosso. Lo accoltellai, non uccidere, lo accoltellai ripetutamente, il Signore è il mio pastore, girai la lama nella pancia, non uccidere, non manco di nulla. Non si muoveva più, mi girai verso la porta, dandogli le spalle.

Bum. Colpo di pistola secco. Sentii il sangue gelare. Ero di nuovo schiena a terra. Guardai in alto, lui si trascinava su di me. Aveva la Sitra Achra9 negli occhi, aveva mille Satanim10 dentro. Mi era addosso, mi puntava la pistola alla tempia. Sputava sangue, aveva di nuovo il mio pugnale in corpo.

Ho ventiquattro anni, è il mio matrimonio. Ho ventiquattro anni e ballo con Adelya Yakovna Tulowski-Grossman, la mia Adelya. Sono tra le sue braccia e lei è tra le mie ed ogni cosa è illuminata.

Bum. Colpo di pistola secco.

1 Lett. “Dimorare”, nell’ebraismo rappresenta la presenza fisica di Dio.

2 Lett. “il Nome”, è uno dei nomi di Dio nell’ebraismo.

3 Lett. “adeguatezza”, indica nell’ebraismo il regime alimentare e di macellazione che stabilisce i cibi puri.

4 Chassidismo, movimento di rinnovamento dell’ebraismo ortodosso incentrato su soclarizzazione, spiritualità e mistica interiore.

5 Lett. “smettere”, è giorni di riposo ebraico, va dal tramonto del venerdì a quello del sabato.

6 Lett. “Signore dell’Universo”, uno dei nomi di Dio, usato anche per la preghiera di Shabat.

7 Lett. “Figlio del comandamento”, indica il momento in cui un ragazzo diventa spiritualmente responsabili dei suoi atti. Il rito rappresenta l’ingresso del giovane nella comunità.

8 Lett. “Buona fortuna”, un tipico augurio ebraico.

9 Lett. “L’altra parte”, indica il lato oscuro e demoniaco dell’universo.

10 Lett. “avversari”, indica degli spiriti maligni.

C’è stato un periodo della mia vita, un lungo periodo della mia ancora breve vita, durante il quale il mio sguardo sul mondo, diciamo, non ha goduto di una buona messa a fuoco. Riconosco che crescere in una famiglia nella quale la frase più cordiale era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito; e lo scambio di battute più lungo era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito - Perché il macinato era in offerta - Era ora, in quella merda di supermercato non c’è mai uno sconto buono; possa rendere difficile a chiunque trovare equilibrio e mettere a fuoco un obiettivo, ma anche io facevo la mia parte e a quei dialoghi costruttivi replicavo che se pure loro avessero fatto qualche saldo e si fossero scavati un buon cinquanta per cento dai maroni, forse anche la mia vita avrebbe fatto meno schifo. Fine delle discussioni, fertile scambio di idee dopo che in famiglia non ci si era visti per tuta la giornata. Consumato il resto della cena in silenzio, mia madre rassettava la cucina, mio padre sprofondava sul divano e io e mia sorella scomparivamo ognuno all’ombra della propria stanza, lei incontro all’ennesima serata a parlare al telefono con un’amica, che tanto non c’era nessun ragazzo che le filava, e io incontro al solipsismo e alla ricerca di qualche canale tv proibito sulle reti d’oltre mare. Durante quel lungo periodo oscuro ho assolto ai miei doveri di figlio con la devozione di un frate trappista astemio, e la forte convinzione decubertiana per cui l’importante non era vincere, ma partecipare. La scuola era un obbligo e come tale l’affrontavo, ben attento a evitare le luci della ribalta. Serviva almeno un sei in ogni materia per non essere rimandato, e io sei prendevo, salvo un sette in ginnastica, dove non riuscivo ad arginare il mio piacere per il calcetto. Mai una nota, mai una convocazione dei genitori, tutto nell’ordine del minimo sindacale per non attirare attenzione e concludere il percorso il prima possibile, evitando penalità ed errori. Che all’assenza di infamia corrispondesse anche assenza di lode poco interessava, sia a me che ai miei famigliari. Qualche organismo del corpo docente, cellula impazzita nella mediocrità degli insegnanti, aveva provato a manifestare il proprio disappunto.

- Hai delle potenzialità. Diceva Tommassoni alle medie, il professore di tecnica. - Perché le vuoi sprecare?

- Parietti, tu non sei del tutto una capra. Diceva Zaccherani, il professore di diritto privato a ragioneria. - Eppure stai nel gregge, nascosto e allineato. Non vuoi prendere un po’ di luce, combinare qualcosa di buono nella vita?

Io lo volevo combinare qualcosa di buono nella vita, ma non ero convinto che per farlo servisse un maggiore impegno a scuola. Mio padre aveva un’attività in proprio, faceva il barbiere, e mia madre era impiegata al supermercato vicino a casa. Entrambi mi sembravano tutto fuorché dei geni, e per quanto ne sapessi avevano finito la scuola media, ma non erano andati oltre al terzo anno di superiori. Allora a cosa serviva andare bene a scuola? Se bastava non essere del tutto scemo per trovare lavoro io già ero a posto, per il resto, il buono che volevo combinare nella mia vita non riguardava ottenere chissà quale occupazione. Non sapevo neanche io cosa riguardava, ma col tempo l’avrei capito, e intanto macinavo giorni, mesi e stagioni, lasciando che il buio rendesse sempre più opaca la mia visuale.

A scuola non avevo amici, ma non ero neanche impopolare. Nei primi anni di ragioneria, l’aria del dannato, che io rinnegavo, ma che a quell’età si autoalimenta se solo parli poco, sorridi poco e non fai comunella con nessuno, mi rendeva anche attraente agli occhi delle ragazze - e nella mia classe ce ne erano venti, su venticinque che eravamo in tutto - peccato che loro non fossero attraenti per me. Su venti anime femminili, venti cessi, una cosa da non credere, dovevano aver fatto una selezione: ‘Siete gli scarti di Madre Natura? Su con la vita, venite da noi. Sotto la seconda di tette: il sei è assicurato. Denti storti: sei e mezzo. Capelli unti e stopposi: sette meno. Culo basso: otto. Brufoli e alitosi: diploma ad honorem e abbraccio accademico!’ Se l’avessi saputo prima avrei fatto l’Alberghiero.

Degli altri quattro sventurati conoscevo il cognome per assuefazione all’appello, e a quello avevo associato un nome per mero spirito enigmistico: ‘Colora gli spazi bianchi con il puntino e scopri cosa apparirà’, ma anche associando nome e cognome gli sparuti colleghi maschi rimanevano quattro emarginati. Carletti Matteo, un metro e settanta di ossa e occhiali, propensione allo sport zero meno. Ersili Ersilio, un metro e ottanta, buon difensore centrale, ma troppo incline alla rissa. Galimberti Fabio, un metro e settantacinque, normale fino alle caviglie, da lì in giù due ferri da stiro. Sariotti Tommaso, un metro e ottantadue di boria, figlio di un grosso commercialista: un predestinato. Dalla prima superiore per fare ginnastica si cambiava le scarpe e si metteva calzoncini e polo con le iniziali ricamate. Ho scoperto solo in quarta che non erano le sue di inziali, ma quelle di un certo Tacchini Sergio, e Sariotti mi sembrava ancora più sfigato.

Fuori dalla scuola andava meglio. Erano anni nei quali si giocava in strada. Non abitavo in un quartiere di bande, ma si creavano alleanze tra i ragazzi della stessa via e io ero uno dei leader di Via Medusa, gemellata con Via Andromeda e un tratto di Via Vega. Per noi, cresciuti con Goldrake Ufo Robot, confinare con Via Vega era una figata assurda, ma oggi nessuno lo può capire. In ogni caso, anche in strada non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Facevamo di tutto: truccavamo i motorini, ci lanciavamo con lo skateboard o le caratelle, andavamo a pescare al vicino lago della Cava, rientravamo a casa solo quando faceva buio e le madri strillavano affacciate ai balconi, o attraverso gli infissi aperti delle cucine. Eravamo liberi, ero libero, eppure mi mancava qualcosa, non riuscivo a trovare la mia luce.

Verso la fine della quinta, Mirco detto Lillo, un ragazzo di Via Andromeda sempre aggiornato su impianti stereo e videogiochi, se ne era uscito fuori con la fissa per la fotografia. Erano arrivate le prime macchine digitali e all’improvviso si potevano scattare foto su foto senza preoccuparsi di comprare rullini, centellinare gli scatti, sviluppare e poi stampare, che di trentasei foto che aveva un rullino la metà erano sempre mosse o col soggetto tagliato. Io non ero un patito del settore, ma, per quanto la mia fosse una famiglia disgraziata, andavamo tutti gli anni in vacanza e anche mio padre, come la maggior parte dei padri, in vacanza teneva al collo una compatta con rullino a colori. Le fotografie che si ammucchiavano nella scatola di legno, dove venivano assiepati i raccoglitori a libretto di plastica trasparente con il logo del fotografo sul fronte, erano sempre le stesse: orizzonti, campeggi, la neve d’inverno sulle colline limitrofe e il mare d’estate, qualche scatto ai monumenti, le pose stanche, le pance sfasciate. Ma il digitale era una vera e propria rivoluzione.

- Puoi scattare quante foto vuoi, le rivedi subito e quelle brutte le puoi cancellare. Anzi, non ti devi neanche preoccupare di cancellarle, perché su una scheda come questa, da centoventotto mega, ci stanno più di cento foto, e se le salvi sul computer la scheda la resetti e torna come nuova. Non è una figata?

Era una figata, non me ne fregava niente, ma dovevo riconoscere che era una figata.

- Ma la fotografia vera resta quella con la reflex. Aveva ripreso Lillo una volta raccolto il mio entusiasmo. – Gli apparecchi digitali sono divertenti, ma non potranno mai sostituire l’ottica di una buona macchina fotografica: il gioco dell’esposizione, la messa a fuoco, la luce.

Lillo sosteneva che la fotografia era un’arte. Gli avrei anche potuto credere, quello che non capivo era perché lo stava confidando a me. Diceva che una fotografia fatta bene sapeva cogliere sia l’anima del soggetto che del fotografo. Io restavo smarrito tra le ombre della mia ignoranza, ma il tema iniziava a catturare la mia attenzione.

- Per fare davvero una bella foto non si tratta solo di inquadrare un bel soggetto, ma di cogliere l’attimo, immortalare quello che c’è dietro l’immagine. Se parliamo di paesaggi bisogna giocare con la luce, beccare una nuvola in un momento particolare, l’inclinazione del sole, ma il bello, per me, è se parliamo di soggetti animati: la fatica di un muratore, il salto di un cane, il momento esatto in cui il piede impatta sul pallone. Per fare queste foto non c’è macchina digitale che tenga, non ancora, e forse mai ci sarà.

Tutte queste cose dietro una fotografia? Non ci avevo mai pensato, di certo non l’avevo colto dagli scatti sempre uguali delle nostre vacanze, ma qualcosa si era aperto dentro il mio animo inquieto. Su indicazione di Mirco detto Lillo ero andato a parlare con Luciano Gioia, quello di Foto Gioia. Teneva corsi di fotografia gratuiti per il primo mese e per quel mese ti prestava pure l’attrezzatura. Se fosse tornato a non fregarmene niente, niente avevo speso.

Quando Luciano Gioia mi parlava di fotografia sembrava facesse catechesi. Tra le altre cose, io non ero esattamente un estimatore degli enti religiosi - per dirla con un giro di parole - non lo ero mai stato.

- Parietti, non sei del tutto una capra.

- Questo me l’hanno già detto.

- Sì, però stai zitto. Quello che voglio dire è che sembri un cinghiale e forse ti piace dare questa immagine di te, ma hai qualcosa di umano dentro che è più solido di quel che pensi.

- Scusa Luciano, ma cosa c’entra con la fotografia?

- C’entra, perché tu fino a oggi è come se avessi vissuto sottoesposto. Se dai poca esposizione alla pellicola questa non prende i colori, resta sciapa. E tu sei sciapo, ma non capra.

- Se andassimo avanti e questo concetto sottile lo dessimo per assodato?

- Hai sempre guardato le cose con poca attenzione, e non ti sei accorto che dove c’è ombra, c’è anche luce.

- Perdonami Luciano, ma fino a qui ci arrivavo.

- Voglio sperare. Ma dove c’è ombra e buio, tu vedi solo quello, buio.

- In mancanza di occhi felini…

- Vuoi stare zitto accidenti? Anche nel buio, invece, ci può essere un cambio di luce. Più buio e meno buio, sono una variazione. Se spegni la luce e chiudi le imposte di una stanza in un primo momento vedi solo buio, ma dopo un poco abitui i tuoi occhi e inizi a scorgere il profilo delle cose.

Insomma, sembrava che Luciano Gioia di foto Gioia, tra un consiglio sull’uso dell’otturatore e un altro sulla duttilità della fotografia digitale, si fosse messo a impartirmi lezioni di vita. Diceva che ogni individuo è illuminato, in ognuno c’è un talento, e diceva che questo talento non va sprecato. Questo - ho scoperto in seguito - lo diceva già Matteo in un passo del suo vangelo, mentre Luciano, dalla sua, continuava aggiungendo che con una buona macchina fotografica e tanta pazienza si possono fare fotografie anche in quasi assenza di luce.

- Non ci sono scatti impossibili, solo scatti difficili. La differenza la fa la macchina, ma soprattutto l’operatore. Dove la maggior parte della gente vede immondizia un fotografo può vedere un’opera d’arte, e se riesce a coglierla, a immortalarla, la rende fruibile all’umanità, e questo è un dono.

Sarà stato vero, se c’erano esseri umani che campavano di fotografia voleva dire che tanti altri apprezzavano quel dono e lo pagavano bene, ma io, concluso il mese di prova, avevo ringraziato Luciano Gioia di Foto Gioia e riconsegnato tutta l’attrezzatura. La sua passione, e Mirco di Via Andromeda detto Lillo, avevano iniziato a farmi vedere sotto una nuova luce l’arte della fotografia, ma questa non era diventata né il mio lavoro, né il mio grande amore. Nel frattempo, però, avevo terminato ragioneria, seppure con il minimo dei voti, e per tirare su due soldi in attesa di una vera occupazione ero andato un paio di mesi in negozio da mio padre. Tempo qualche anno e ho rilevato l’attività, e ancora adesso, il mio bel diploma in tasca, con soddisfazione faccio il barbiere. Non me l’ha imposto nessuno, l’ho fatto per scelta. Ero, e sono, contento, e posso dire che finalmente mi sento a fuoco, anche se non credo di essere un soggetto illuminato.

Mirco di Via Andromeda, detto Lillo, ha aperto un negozio di generi alimentari. Gli altri ragazzi della strada non li ho più visti. I quattro emarginati della scuola ancora meno. Ogni tanto faccio ancora un salto da Foto Gioia, dove Luciano dispensa la sua saggezza lenticolare. Continua a dire che il bravo fotografo non deve mai perdere la fiducia nella propria ispirazione anche quando sembra che non ci sia nulla da fotografare, quando per una giornata intera non gli è riuscito un solo scatto degno di nota, quando vede solo buio e ombre e contorni sfumati. - In quel buio. Dice, - il bravo fotografo sa trovare la propria luce e cogliere il momento, l’opera d’arte, l’animo pulsante del genere umano.

Continuo a non capire cosa vuole dire, ma sono sicuro che può aver ragione.

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