Correzioni - Marilena Fonti

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     Non riusciva a prendere sonno: le parole di Mauro, il suo amico dalla sincerità spesso brutale, le rimbalzavano nella testa col ritmo ripetitivo e assillante di un tamburo sciamanico. «Mica penserai di riprenderti il tempo perduto?», le aveva detto. «Ma gli sbagli, quelli sì, si possono correggere.». Erano undici anni, nove mesi e cinque giorni che sua figlia non sapeva più nulla di lei. Il giorno dopo avrebbe compiuto sedici anni. Dopo estenuanti quanto vani tentativi di addormentarsi, Adriana si alzò e si mise al computer, ma non per lavorare al suo ultimo libro per ragazzi, non ce l’avrebbe fatta, era troppo turbata. Si accinse invece a mettere in pratica quello che, dentro di sé, aveva immaginato di fare un milione di volte, ma che non aveva mai osato fare. Iniziò a scrivere a Marta. Per raccontarle cosa era stata la sua vita dal momento in cui, circa dodici anni prima, era scappata dalla casa in cui abitava con lei e con suo padre. Quell’ultima notte, in effetti, lei non si era mossa dalla loro abitazione: era rimasta nascosta in cantina, da cui sentiva i passi dell’uomo, con cui era ancora sposata, che si spostavano frenetici da un punto all’altro del piano sovrastante, dove era la zona giorno. Arrivata in giardino, aveva imboccato la porta dello scantinato, che s’apriva sul retro della casa, approfittando del fatto che lui, che le era corso dietro quando lei si era precipitata giù per le scale, fosse risalito, forse perché bloccato dal pianto di Marta, svegliata dal trambusto.

     Le scrisse di come si fosse rannicchiata nell’angolo più buio, dove non arrivava neanche un filo della luce di cui la luna, piena quella sera, inondava la loro città. E di come se ne fosse stata là, immobile, come un animale braccato, tutta la notte, col terrore di fare rumore e che lui la sentisse.

     Il panico era aumentato alle prime luci dell’alba: temeva che si mettesse a cercarla. Invece, poco prima dell’ora in cui usciva di solito per andare al lavoro, aveva sentito che chiudeva a chiave la porta d’ingresso e aveva capito che c’era anche lei, Marta, con lui. In seguito era venuta a sapere che l’aveva portata da sua madre, forse perché era la cosa più semplice, oppure perché non voleva affidarla alla babysitter. La stessa che era rimasta con la bambina la sera prima, quando Adriana e suo marito erano andati a cena con i soci dello studio legale: sarebbe sembrato strano richiamarla dopo così poco tempo. E poi non era mai successo che si rivolgessero a lei di mattina, c’era sempre Adriana a prendersi cura di Marta, lui avrebbe dovuto inventarsi delle spiegazioni.

     Quando aveva sentito l’auto partire, aveva aspettato ancora una ventina di minuti, per essere certa che non tornasse indietro, poi era uscita dal suo nascondiglio. Non aveva le chiavi, la sera prima si era avventata fuori e quel pensiero non l’aveva neanche sfiorata. Si era avvicinata comunque alla porta: lui non si era limitato a chiuderla, ma aveva messo una catena con un grosso lucchetto tra un pomello e l’altro dei due battenti, con la chiara intenzione di impedirle in tutti i modi di entrare, anche nel caso avesse avuto una chiave. O magari voleva soltanto ribadire chi fosse il padrone lì. Quella mattina, dolorante e sconvolta com’era, non le era sembrato neanche strano: considerando la situazione, anzi, le era parso del tutto normale. E anche entrare come una ladra in quello che fino a poche ore prima era stato il centro di tutta la sua esistenza, era parte di quella normalità fuori da ogni logica. Sul lato posteriore della casa c’era l’accesso alla cucina: per fortuna lui non aveva pensato a chiudere la grata di ferro. Adriana aveva rotto con un sasso il vetro che ricopriva la parte superiore della porta e, inserita una mano tra le schegge, aveva tolto la sicura alla serratura e aperto. Una volta dentro, aveva disinfettato le ferite superficiali che si era procurata e fasciato stretto il polso sinistro, che le faceva male da svenire. Quindi aveva infilato a casaccio della roba in una valigia e telefonato a Dora, la prima persona che le fosse venuta in mente in quel momento. In quella città, a parte la famiglia e gli amici del marito, lei non conosceva nessuno: la gente che frequentava ruotava intorno al lavoro di Bruno, che era uno dei soci dello studio legale fondato da suo padre, uno dei più prestigiosi avvocati in città. I genitori e il fratello di Adriana vivevano in un’altra regione, lei non voleva coinvolgerli finché non avesse avuto le idee chiare sulla piega che avrebbero preso le cose. Anche se abitava lì da quando si erano sposati, non era riuscita a crearsi dei legami che fossero solo suoi, non ne aveva avuto il tempo né l’occasione. Ad eccezione di Dora, che aveva incontrato a un corso di scrittura creativa di cui la sua amica era docente: le poche ore dedicate a quel corso l’avevano strappata all’isolamento in cui s’era ritrovata quasi senza rendersene conto, e avevano fatto nascere una buona amicizia tra loro. Al termine delle lezioni a volte si fermavano a bere qualcosa e a parlare di libri: erano i suoi unici momenti di evasione dalla routine familiare.

     Quando Dora era arrivata le era bastata un’occhiata per rendersi conto della gravità della situazione; le aveva chiesto solo se avesse un posto dove andare. Lei le aveva risposto che non ne aveva la più pallida idea. Mezz’ora dopo era a casa sua: non le aveva fatto domande né mentre finivano di preparare i bagagli per caricarli in macchina, né durante il tragitto. Era rimasta da lei sei mesi, tanto le ci era voluto per iniziare a guadagnare qualcosa e avere la possibilità di pagarsi un piccolo affitto, in un appartamento nello stesso quartiere dove si trovava quello della sua amica, prima di trasferirsi nel piccolo paese dove ancora abitava, poco lontano dalla città. Pubblicava già con una certa regolarità racconti in qualche rivista e, con l’aiuto di Dora, che lavorava in un’agenzia letteraria, era riuscita a ottenere un contratto per quello che fu il primo di una lunga serie di libri per bambini. Nelle interminabili giornate che passava in casa, mentre Dora era al lavoro, si metteva al computer e scriveva, prendendo spunto soprattutto dai personaggi di una delle storie che era già stata inserita in un’antologia compilata alla fine del corso di scrittura. La trama e le gesta dei personaggi, un gruppo di animali di peluche, tutti schierati sul davanzale della finestra nella cameretta di una bambina, ognuno in attesa di qualcosa che, accadendo, faceva partire le avventure, si dipanavano quasi per conto loro. Ed era come se lei le raccontasse a Marta che, dal giorno in cui era andata via dalla loro casa, non aveva più potuto avvicinare. Tutte le storie, come quelle che le narrava quando erano sole in casa, da quel momento in poi avevano iniziato a scaturire senza interruzione, come se dovessero fare da collegamento tra lei e sua figlia, un ideale ponte di parole che unisse il suo pensiero a quello della bambina.

     Dopo tanto tempo, scrivere direttamente a lei, senza il filtro delle storie di cui si era riempita la vita fino a quel momento, le dava una sensazione di inquietudine e di liberazione, insieme. Le scrisse che l’aveva sempre seguita da lontano: sapeva in quale scuola di danza fosse andata e quante volte alla settimana; avrebbe riconosciuto tutte le babysitter che si erano prese cura di lei, le raccontò che qualche volta le aveva anche parlato senza che lei la riconoscesse e, subito dopo, aveva ricevuto una lettera di diffida dall’avvocato di suo padre, anche lui socio dello studio del nonno. Le aveva scritto che si era curata le ferite di quella notte, sia quelle più superficiali che quelle dell’anima, senza confidarsi con nessuno e senza denunciare nessuno: il braccio che le faceva male era fratturato, e lei non era voluta andare in ospedale, poiché temeva di dover riferire come se lo fosse procurato, e avrebbe dovuto spiegare anche i lividi diffusi su tutto il corpo.

     Le scrisse che a un certo punto l’uomo che aveva sposato si era trasformato in un’altra persona; gli impegni nello studio legale si erano fatti troppo pressanti per lui, non aveva retto allo stress, e lei era diventata la sua valvola di sfogo. In un crescendo esponenziale era passato dallo strattone, allo schiaffo, al pugno, ai colpi alla cieca. Quella sera lei lo aveva contraddetto a proposito del breve viaggio che stavano organizzando per la vacanza di Pasqua; non ricordava neanche più cosa avesse detto di preciso, e in lui si era scatenata una furia incontenibile, non aveva mai raggiunto quei livelli prima di allora. Il polso si era rotto quando era caduta tra il letto e il trumeau, che era lì vicino. Quando lui l’aveva vista per terra si era fermato di colpo, come se si fosse disinnescato qualcosa, era rimasto disorientato per qualche secondo, poi si era girato, forse per andare in bagno. Era stato in quel momento che lei aveva trovato la forza di alzarsi e di precipitarsi giù per le scale.

     Le aveva spiegato che, ignorando i consigli di Dora e di una donna avvocato a cui nel frattempo si era rivolta, non aveva mai voluto rivelare cosa fosse accaduto realmente: ne sarebbe derivato uno scandalo clamoroso, che avrebbe coinvolto troppe persone, a cominciare da lei, sua figlia. Per non parlare del personale dello studio: la famiglia del suo ormai ex marito era molto in vista, sia in ambito sociale che in quello professionale, e le ripercussioni sarebbero state inevitabili e pesanti. Però aveva dovuto subire le conseguenze di quel suo atteggiamento conciliante, perché loro, al contrario, non si erano fatti nessuno scrupolo nel massacrarla. Non era trapelato nulla dei veri motivi della sua fuga improvvisa. Agli occhi di tutti era stata lei ad andarsene, abbandonando un marito esemplare e una bambina piccola. Aveva scritto a Marta che l’avvocato a cui suo padre si era rivolto, molto più prestigioso e con molti più agganci della sua, aveva creato e prodotto un ampio dossier per farla apparire inattendibile e irresponsabile, sia come moglie che come madre. Non era stato difficile per Bruno ottenere l’affidamento: anzi, in seguito a un suo tentativo di riconciliazione, da lei rifiutato con fermezza, era diventato ancora più determinato e spietato in quel suo intento, ottenendo che lei non si accostasse a Marta per nessun motivo.

     Le parole dirette a sua figlia si erano riversate sulla carta come un fiume in piena: era bastato sollevare di poco lo sbarramento che le arginava e avevano inondato con impeto quel lembo di vita che ancora restava loro da condividere. Se solo avessero potuto stemperare l’aridità dei loro rapporti, e non trasformarsi invece in una palude stagnante: le sue emozioni avrebbero finito per esserne risucchiate senza scampo. Scrisse, senza mai fermarsi, fino a quando, dalla piccola finestra del soggiorno, al riflesso della luce giallastra del lampione si sostituirono le prime luci del giorno. Alle sette di mattina, stanca, ma con una strana irrequietezza addosso, che si combinava in modo strano con un piacevole senso di leggerezza, che non provava più da tempo immemorabile, si fece un caffè e una doccia. Si vestì e, dopo aver messo le dieci pagine, che aveva intanto stampato, in una busta chiusa, si avviò verso il centro del paese, per andare a prendere il pullman che l’avrebbe condotta in città. Voleva portare la lettera alla scuola di sua figlia, e chiedere a un collaboratore di consegnarla: a casa qualcuno l’avrebbe di sicuro intercettata, impedendo che arrivasse alla destinataria. Passando davanti al bar in piazza intravide Mauro, già seduto al solito tavolo, che leggeva il giornale. Entrò, avrebbe fatto colazione con lui, come sempre. Non aveva fretta. Non poté evitare che lui notasse la busta e, al suo sguardo interrogativo, gli sorrise. Mentre Lietta, la barista, serviva loro due cappuccini e le sue ottime brioche ancora tiepide, gli disse:

     «Qui c’è la mia vita, raccontata a mia figlia. Avrei dovuto farlo tanto tempo fa, ma era così piccola, non avrebbe capito. Forse non è troppo tardi. Chissà, magari ce la facciamo ancora a riconoscerci. E a correggere gli sbagli.». Tacque per qualche secondo. La sua mente era altrove. Riviveva altri giorni. «In fondo, quando eravamo insieme e mi era ancora concesso di essere sua madre, eravamo inseparabili, noi due, non può aver rimosso proprio tutto. Non è possibile. Non ci credo.», sembrava che volesse convincere se stessa, lacerare la trama fitta del dubbio che, resistente e inalterabile, avvolgeva come una ragnatela inestricabile i ricordi.

     Lui le prese una mano, la strinse tra le sue.

   «Brava. I silenzi distruggono. È ora di interrompere il tuo, una volta per tutte. Coraggio.», e la stretta si fece più forte.