Muri Spensierati - Marilena Fonti

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Alla fine dell’ultima rampa di scale Riccardo si trovò davanti Nando, il collaboratore scolastico che, preceduto dalla pancia esuberante, mortificata in un’incongrua polo slim fit, avanzava col suo solito passo strascicato lungo il corridoio del secondo piano. L’uomo si tirava dietro, con la consueta imperturbabile calma, tutto l’armamentario che gli serviva per la sommaria pulizia delle aule. Quando lo vide, lo apostrofò sorpreso: «Professore, non pensavo che fosse ancora qui, ha telefonato la preside, la cercava!». Di sicuro la dirigente voleva vederlo per i saluti, non era ancora riuscito a incontrarla, né era sicuro di volerlo fare prima di andarsene. «Grazie, ho da sbrigare ancora un paio di cose, poi passo da lei.», rispose lui, tanto per dire, poi si avviò veloce verso la quinta C, superando Nando, sul cui viso affiorò un’espressione rassegnata: doveva essere proprio quella la stanza in cui aveva intenzione di recarsi, per espletare alla svelta le incombenze di fine giornata.
L’aula era vuota, constatò Riccardo con sollievo. Aveva evitato di proposito di incontrare gli alunni, usciti un’ora prima per l’assenza del collega di fisica. Gli addii ufficiali lo mettevano a disagio, da sempre. E poi gli ultimi minuti dell’ultimo giorno in quella scuola voleva passarli da solo, in una sorta di intimo raccoglimento. La data ufficiale per la fine delle lezioni era in effetti l’indomani, il suo giorno libero, quindi per lui quelle appena trascorse erano state davvero le ultime ore in classe. Alle fine degli scrutini, fissati per l’inizio della settimana successiva, avrebbe salutato in modo definitivo quell’istituto e quella città. Con un innegabile senso di liberazione, doveva ammetterlo: si era adattato con fatica alla mentalità un po’ gretta e provinciale della gente e dei colleghi, ma entro qualche giorno si sarebbe lasciato tutto alle spalle, rifletté compiaciuto. In fondo il rapporto a cui teneva di più, quello con gli studenti, dopo piccoli scontri iniziali di adattamento alle reciproche idiosincrasie, aveva funzionato abbastanza bene, ed era l’unica cosa che contasse davvero. Stava facendo il giro delle sue classi per togliere dai cassetti delle cattedre i libri e i fogli che vi aveva accumulato nel tempo: quello in sala professori lo aveva già svuotato e aveva consegnato in presidenza, e all’oblio eterno, i fascicoli di verifiche corrette che conteneva.
Quella scuola era un’istituzione nella piccola città: lui ci era arrivato sei anni prima, dopo il passaggio in ruolo, attratto dal numero di cattedre disponibili in provincia. Allora era sua intenzione chiedere il trasferimento non appena i tempi fossero stati maturi, ma poi l’idea di abbandonare l’unica classe che avrebbe potuto portare fino agli esami lo aveva convinto a rimandare e, quando la possibilità di tornarsene dalle sue parti, al nord, aveva coinciso con la fine del corso di studi della quinta C, aveva avviato le pratiche. Quell’anno, inoltre, i commissari di Lettere, la sua materia, erano esterni, quindi lui aveva chiesto di far parte di una commissione nella sua provincia d’origine, e l’aveva ottenuto. Per cui non gli restava che caricare i bagagli, già quasi tutti pronti, nella sua Opel Astra familiare, restituire le chiavi del mini-appartamento ammobiliato al proprietario, e riprendere la strada di casa. E magari anche cercare di recuperare il rapporto con Giulia, la sua compagna: si era logorato parecchio in quei sei anni di incontri a metà strada, nei fine settimana, durante l’anno scolastico, e per periodi più lunghi, nella loro città, durante le vacanze. Le approssimative teorie secondo le quali i rapporti a distanza dovrebbero creare aspettativa e desiderio nella coppia erano state ribaltate senza scampo dalla verifica effettiva. Si erano presto resi conto di quanto fosse tutt’altro che romantico affrontare un viaggio alla fine di settimane spesso faticose. L’idea di incontrarsi in alberghi modesti, gli unici che potessero permettersi, per stare insieme una manciata di ore, e poi ripartire ognuno per la propria destinazione, con la prospettiva di affrontare la stessa trafila a distanza di qualche giorno, era diventata alla lunga insostenibile: il pendolarismo amoroso logora, ormai nessuno dei due se la sarebbe sentita di mettere in dubbio quell’assioma.
Seduto dietro la cattedra, nell’accingersi ad aprire il primo dei cassetti in alto, abbracciò con lo sguardo l’aula che, senza la vitale irrequietezza dei ragazzi, a fatica imbrigliata da regole e estenuanti tentativi di concentrazione durante le lezioni, si mostrava nel malinconico grigiore tipico dei luoghi da tempo abbandonati al proprio declino. Alle finestre c’erano ancora i grandi fogli di carta da pacchi bianca, usati per schermare i vetri dal sole che, a una certa ora della mattina, a partire dalla primavera, infieriva implacabile nell’ambiente di pochi metri quadrati, in cui erano stipati quasi trenta alunni. La Provincia, responsabile della manutenzione, aveva altre priorità, che escludevano le tende. E loro avevano dovuto arrangiarsi. Quella, inoltre, era una delle aule in cui l’anno precedente non erano riusciti a imbiancare le pareti poiché, completato il piano terra e il primo piano, si erano fermati per mancanza di fondi, rimandando i lavori a una data successiva. Cioè sine die. L’aspetto positivo di tanta trascuratezza erano le scritte accumulatesi sui muri nel corso degli anni, negli ultimi cinque a opera della sua classe, che era rimasta in quell’aula dal primo all’ultimo giorno. Durante la sorveglianza, nell’intervallo della ricreazione, gli era capitato di soffermarsi a decifrare quei graffiti improvvisati e spontanei, spie di impulsi primordiali che, a detta di una sua collega, non mentono mai. Tra dichiarazioni estemporanee e accorate, apprezzamenti più o meno audaci delle varie parti anatomiche femminili, e in qualche caso anche maschili, spuntavano qua e là citazioni che tradivano umori e amori. Ricordava di aver letto qualcosa che gli ricordava il Macbeth, e di averlo detto, incredulo, alla classe, suscitando la loro ilarità. Si alzò, giro intorno alla cattedra e andò a controllare se ci fosse ancora: c’era. E a quel punto sapeva, essendone stato informato dall’autrice del plagio, che: «Quando è notte e il lupo grida all’ombra della luna, la danza delle streghe non porta mai fortuna.», non aveva nulla a che fare col bardo, ma era opera di tale Gabry Ponte, che lì dentro conoscevano tutti tranne lui. Però in seguito qualcuno doveva aver aggiunto, sotto: «È brutto il bello e bello il brutto, libriamoci per le nebbie e l’aer corrotto.» e, tra parentesi, (canto delle streghe, Macbeth, Shakespeare), con accanto il disegno di una faccina sorridente. La seconda citazione, certo frutto di una piccola ricerca del tutto volontaria, era destinata a lui, e avrebbe dovuto vederla prima, era ovvio. Ormai non c’era più tempo per scherzarci su con la classe, rifletté con una punta di rammarico. Sulla stessa parete, un po’ più a destra, c’era l’onnipresente e immarcescibile scritta in stampatello maiuscolo: DUX MEA LUX, di sicuro opera dell’irriducibile e altrettanto inconsapevole Renato Corda. Aveva comunque provocato una serie di reazioni: qualcuno aveva scritto ‘ossimoro’, con una freccia che partendo dal nome della figura retorica, andava a finire alla riga che sottolineava l’elogio. Quel commento non poteva che essere di Silvia Parisi, precisa e pignola, magari un po’ pedante, ma anche l’unica nella classe che potesse permettersi un’analisi del genere. Gli scappò un sorriso al pensiero dell’alunna geniale quanto scombinata: a guardarla nessuno avrebbe sospettato che fosse una studentessa modello. Si mimetizzava, e anche piuttosto bene, dietro stili e acconciature improbabili, proponendosi come alternativa alla tendenza comune. La sua versione degli ultimi mesi aveva una metà dei lunghi capelli ricci del loro colore naturale e l’altra metà di un turchese intenso. L’abbigliamento era in genere scelto sulla base di quella nuance, a volte per contrasto, altre per fare pendant, con risultati sempre e comunque d’effetto. Riccardo aveva sentito i compagni chiamarla strega turchina, conseguenza della sua universalmente riconosciuta ostinazione a non condividere il frutto del proprio studio con nessuno: non ne aveva mai fatto segreto, e la sua solitaria lotta per la meritocrazia non contribuiva certo a facilitarle i rapporti con i compagni. Sull’altro lato qualcuno aveva invece tracciato l’esclamazione ‘bimbominkia!’, con la solita freccia in direzione dell’invocazione nostalgica. E, proprio sopra la scritta originale, qualcun altro aveva parafrasato: DUX MEA CRUX, sintetizzando le reazioni di tutti gli altri.
Spostando lo sguardo notò, quasi dove la parete faceva angolo con la sporgenza che delimitava la porta, una scritta, piuttosto grande, affiancata da un cuore dentro cui erano stati disegnati occhi e una bocca sorridente: ‘Classe, vi amo!’ E vicino a questa confessione entusiastica e un po’ spudorata, c’era scritto ‘Tarquini sei un mito!’ Sergio Tarquini, il suo collega di Storia dell’Arte, godeva dell’ammirazione incondizionata dei ragazzi per la gestione disinvolta e scanzonata delle lezioni. Fu a quel punto che vide, proprio sotto il panegirico del collega, il proprio cognome seguito dall’aggettivo ‘infame’. E, come se non bastasse, qualcuno aveva aggiunto, con grafia diversa, ma tratto deciso: ‘E anche stronzo’. A suggellare la telegrafica ma incisiva sequela di epiteti, una data che risaliva a due anni prima. L’unico collegamento che riuscì a fare tra gli alunni della classe e gli autori di quelle espressioni di biasimo irriducibile fu con un ragazzo che era stato bocciato proprio quell’anno, soprattutto a causa delle insufficienze nelle sue materie. Uno dei due esegeti, ancorché ignoto, doveva comunque essere ancora tra i suoi alunni, meditò, e chissà se, nel frattempo, aveva cambiato opinione sul suo conto, si chiese con divertito stupore. Sorridendo a quel pensiero, e pur iniziando a sentirsi preda di un voyeurismo blando, ma irrefrenabile, si mise a cercare altre scritte che lo riguardassero. La ricerca minuziosa non portò però a nulla, dovette convenirne dopo qualche minuto suo malgrado, e con un malcelato senso di delusione.
Ripercorse con lo sguardo tutta la parete, memoria di cinque anni, o forse più, della vita scolastica dei ragazzi consumata in quell’aula. ‘Con i voti della Gravina ci giochiamo la schedina’, ‘ I was here, pensatemi sempre =)’. ‘Never a failure always a lesson!’, i loro messaggi affidati a quei muri scrostati lasciavano il segno dei loro giorni dentro quella stanza, diventando testimonianza di un mondo parallelo a quello in cui scorreva il resto del loro tempo. Gualtiero Rossi, sempre imboscato all’ultimo banco; Ilaria Vicini, talmente timida, che bastava guardarla per più di due secondi che faceva gli occhi lucidi, Bogdan Seciu, con la fissa del calcio. Rivide in un attimo le facce di ognuno di loro: facce a volte attente, a volte perse dietro chissà quali sogni, che nella frazione di un attimo potevano camuffarsi da incubi. Adolescenti intrappolati in un circuito da montagne russe, incalzati in un’alternanza vorticosa da paure e speranze. Gli tornò in mente la mattina che Nando era entrato in aula per comunicare alla classe che il loro compagno Daniele Selvi era stato coinvolto in un incidente la sera prima, ed era finito all’ospedale in coma. Rivide quelle espressioni sospese tra incredulità e sgomento. E rivide le stesse facce la mattina che Daniele, sorretto dalle stampelle, aveva fatto il suo primo ingresso in aula dopo due mesi di assenza insieme a Nando, che gli portava lo zaino con goffa solerzia. Ineffabili. Quel muro era la loro cronaca, felice e spensierata, come possono essere solo le storie che riflettono momenti di partecipazione nell’esistenza delle persone, un pezzo di tempo condiviso. Formula risolutiva di brandelli di vita espressa negli abbozzi di graffiti. Lui sarebbe partito, e i ragazzi avrebbero proseguito ognuno verso un suo personale percorso, lasciandosi dietro speranze, riflessioni, sfoghi, incisi su quella parete, forse il loro ultimo baluardo di libertà e leggerezza. Sarebbe rimasta l’effigie un po’ intemperante e essenziale di un periodo cruciale nella loro esperienza, finché qualcuno non avesse cancellato tutto con qualche iconoclasta pennellata di vernice bianca. Ma non sarebbe successo tanto presto, di quello almeno era sicuro.
Riccardo tirò fuori dalla tasca dei jeans lo smartphone e si mise a fotografare sezioni del muro: ne avrebbe portato con sé l’immagine in frammenti, visto che non poteva staccare l’intonaco solcato dall’istinto incoercibile dei suoi alunni. Per farci cosa non lo sapeva ancora, ma una parte di quella memoria voleva portarsela dietro. Quando ebbe finito, prese i suoi libri dal cassetto e uscì dall’aula, chiudendo la porta. Rifece le scale in discesa e, quando arrivò al piano terra, gli parve di sentire un brusio eccessivo provenire dalla sala professori. Proseguì lungo il corridoio, fino a raggiungere una posizione da cui poter sbirciare, senza essere visto. Stava accadendo quello che aveva temuto: avevano organizzato un piccolo ricevimento di addio a sorpresa, con i tramezzini e le bibite, disposti con precisione geometrica sul grande tavolo al centro della sala e inframmezzati a piatti e bicchieri di plastica. Muovendosi con grande circospezione per non farsi notare da nessuno, si avviò verso la porta laterale e sgattaiolò fuori, avviandosi a passo spedito verso il parcheggio. Senza fermarsi, si voltò a guardare l’austera costruzione in stile neoclassico, bizzarro compromesso tra lo stile degli architetti del ventennio e l’intitolazione a un partigiano. Ancora qualche giorno e poi sarebbe stato addio per sempre, per ricominciare altrove. A leggere altri muri.