Salvatore Gagliarde - Lo Straniero

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Nessuna emozione, nessun batticuore, nessun coinvolgimento in alcunché. Nessun sussulto, nessuna gioia e nessun dispiacere.
Un lavoro che non amo, che non mi sarei mai sognato di fare, che non mi da nessun problema e che mi impegna poco ma che toglie dignità alla stessa parola “lavoro”, tanto è monotono, ripetitivo e sterile.
Nessuna attività, niente sport, nessun divertimento. Poca vita sociale e solo ambienti monotoni e poco frequentati. Rapporti interpersonali limitati a poche persone per le quali ormai provo solo… odio? Non posso permettermelo. Indifferenza.
Donne, mai.
Non sono l’unico, vi starete dicendo, tante persone che conoscete vivono certamente una vita così e nonostante tutto tirano avanti con rassegnazione e dignità. Certo.
Possono combatterla però, sperare nel futuro o concedersi una saltuaria e fugace via di scampo.
Io no.
Ma non è stato sempre così, anch’io ho visto giorni migliori.
Ottimismo e gioia di vivere sono state le mie compagne fino ai trent’anni, e la vita è stata buona con me, fino ad allora almeno, e guardandomi intorno mi ritenevo persino fortunato, arrivando talvolta a vergognarmi un poco, tanto le cose mi andavano schifosamente bene.
E poi.
Poi ho donato il mio cuore ad una donna.
Mi era già capitato di innamorarmi ma questa volta ero sicuro di aver trovato quella giusta. E che sarebbe durata per sempre.
Ero sicuro che sarebbe stata la madre dei miei figli, volevo che lo fosse.
Eravamo una coppia strana, noi due. Io, lo straniero, alto e forte, sorridente, un po’ orso e un po’ buffone. Lei minuta, di un pallore lunare, gracile e indifesa, anche nello sguardo.
Malformazione cardiaca congenita.
Le era stata diagnosticata nella prima infanzia ed aveva segnato tutta la sua esistenza, impedendole sin da bambina di vivere una vita normale. Con gli anni si era addirittura aggravata. Il suo già debole cuore non si sarebbe mai sviluppato regolarmente, mentre lei continuava a crescere, sempre più delicata e sempre più in pericolo.
Io lo seppi quando eravamo già insieme da qualche settimana, ed ero già cotto come un adolescente alla prima esperienza.
Forse proprio per quello me ne innamorai.
Per i suoi sorrisi rari e venati di tristezza.
Mi sono sempre innamorato di donne che erano in realtà uccellini con un’ala spezzata.
Dopo sei mesi fantasticavamo di matrimonio e di bambini e dopo un anno eravamo pronti al grande passo. Quasi pronti.
In realtà sapevamo entrambi, pur senza averne mai parlato apertamente, che non avrebbe retto a lungo. L’emozione del matrimonio, l’allontanamento dalla famiglia, una qualsiasi forma di stress avrebbe potuto causarle serie complicazioni.
Che potesse reggere una gestazione o dare alla luce un bambino non era neanche pensabile. Ma era quello che più di ogni altra cosa al mondo desiderava, lo sapevamo entrambi. Per me era lo stesso, naturalmente, ma pur di continuare ad averla accanto avrei rinunciato a qualsiasi cosa.
Non ne parlavamo mai, forse perché non c’era nulla che potessimo fare, ma quel silenzio stava diventando un muro tra noi due. Lo sentivo, quasi palpabile.
Allora presi la decisione. Ero giovane, forte, con un carattere riflessivo che non lasciava però troppo spazio ad emozioni violente o a turbe psicosomatiche.
Potevo cambiare lavoro, rinunciare a tante cose che in quel momento, rispetto alla prospettiva di avere una famiglia, vedevo come futili e prive di importanza.
Avrei resistito. Soprattutto avremmo potuto rendere realtà i nostri sogni, essere una famiglia, ed avrei avuto lei, con me, per il resto dei nostri giorni.
L’idea mi accarezzava già da un po’, ma osai parlargliene solo quando fui sicuro, quando avevo già deciso.
Quando glielo proposi, ma forse dovrei dire glielo comunicai, mi ascoltò in silenzio e così rimase per qualche minuto dopo che ebbi finito di parlare, con gli occhi bagnati e sulle labbra il sorriso triste di cui mi ero innamorato.
Non disse nulla, non mi chiese perché, solo annuì, mi prese una mano tra le sue, la baciò, ed infine vi posò una guancia, sul dorso.
Mi mossi con discrezione ma con risolutezza. Avere una buona condizione finanziaria risulta determinante in alcune situazioni. Bastarono alcune conoscenze, un geniale cardiochirurgo molto impegnato nella ricerca medica e sensibile ad argomenti con otto zeri, un mese e mezzo di ferie ed un viaggio aereo fino ad un piccolo stato del sud Africa, spacciato ad amici e parenti come la nostra prima vacanza insieme.
Trapianto cardiaco incrociato, lo definiva il nostro dottor Frankenstein parlandocene.

Tanto per tranquillizzarci ci fece firmare, oltre naturalmente al congruo assegno, una liberatoria (ovviamente una cartaccia “inter nos” che non sarebbe mai risultata da nessuna parte, tranne nel caso in cui gli fosse stata utile…) nella quale dichiarammo di assumerci la responsabilità di sottoporci ad un intervento da lui sconsigliato. Scrupoloso, il taglia e cuci.
Ma meritò quei soldi fino all’ultimo centesimo.
Risvegliandomi dall’anestesia ebbi la sensazione di risvegliarmi da un sonno febbrile, ma dopo pochi minuti ero perfettamente conscio e consapevole, anche se un tantino intubato. All’infermiera che mi assisteva, immediatamente chiesi dell’acqua e chiesi di lei. Non esattamente in quest’ordine.
Si era già risvegliata da più di mezz’ora e stava bene, quasi meglio di me.
Grazie a Dio, il peggio era passato, pensai.
Non bisognerebbe mai pensare dopo un’anestesia.
Probabilmente fu soltanto qualche mese dopo la completa guarigione che incominciò il distacco. Ma ripensandoci in seguito, giorno dopo giorno, sposto sempre più indietro nel tempo il momento in cui iniziò ad esplorare il mondo senza di me: non quando alla fine conobbe qualcun altro, cosa che puntualmente le lessi in viso immediatamente, non quando annunciò che sarebbe andata in vacanza con i suoi nuovi amici, non quando si iscrisse ad un corso di balli latini, non quando andò alla prima festa senza di me. Non quando restò fuori a pranzo la prima volta e nemmeno quando, qualche tempo prima, incominciò ad uscire per fare la spesa tutte le mattine. Per avere sempre in frigo roba fresca. Non quando mi confidò che il mondo le sembrava così diverso adesso… no.
Al momento faccio risalire quella data al giorno in cui per la prima volta uscì a fare una passeggiata, giusto una mezz’ora, da sola.
Tra qualche tempo lo identificherò con il momento in cui ci presentarono.
Non mi fa più male pensare a lei. Non lo meriterebbe, in ogni caso. Credo che in fondo non mi abbia mai amato davvero. Semplicemente, ero tutto ciò che la vita le aveva messo davanti fino a quel momento. Non aveva mai avuto la possibilità di conoscere altro e si era limitata a raccogliere ciò che il vento aveva portato fino ai suoi piedi.
In verità sul momento ci stavo male da cani. Ma lo tenevo per me, non osavo parlarne per non essere meschino, per non farla sentire in colpa. Del resto non mi aveva chiesto niente, l’idea era stata mia. E poi temevo che dare voce all’amarezza e ai timori avrebbe potuto nuocere a me stesso.
Nessuna emozione, nessuna sollecitazione, nessuno stimolo brusco. Questi gli ordini del medico. La più piccola trasgressione avrebbe potuto significare crisi cardiaca, infarto. La quercia era stata privata delle sue radici. Naturalmente mangiare poco e con regolarità, ma solo cibi “sani”. Bleah.
Non potevo nemmeno berci sopra!
Avevo già lasciato il lavoro che adoravo e che mi aveva portato a girare il mondo più volte, e mi limitavo a scrivere articoli per una rivista specializzata e manuali tecnici, saltuariamente.
I miei hobby e lo sport… beh, quella era ormai roba da dimenticare. Tanto più che mi ero scelto delle attività non proprio sedentarie. Che razza di scavezzacollo ero stato, nella mia vita precedente.
Gli amici erano l’ultima risorsa rimasta, i miei amici fedeli, che mi portavano a casa un po’ del mondo esterno, il loro mondo. Forse fu colpa mia, magari mi mostravo malinconico, o forse decisero poco alla volta che per il mio bene era meglio non parlare di torta Sacher con il diabetico, ma comunque anche i loro racconti cessarono.   Le visite, quelle no. Ancora adesso, dopo due anni, almeno uno di loro, a turno o più spesso insieme, vengono a farmi visita quotidianamente.
Ma certi giorni la loro visita mi ricorda di quei tempi là, ed allora si trasforma in un incubo che fatico a razionalizzare.
Rassegnato? Non ci si rassegna ad una cosa così, e se mi chiamassi Faust l’anima la baratterei per una sola notte insieme a loro come ai vecchi tempi.
E questo è più o meno tutto.
E’ così che ho finito per trascorrere gli ultimi due anni in un limbo di bambagia, condannato a vivere una non vita senza nulla di più di una asettica quotidianità senza via d’uscita.
Ma nel copione non era questa la parte assegnata a me. Ho giocato alla roulette e la pallina è schizzata fuori dalla ruota, lasciandomi privo della speranza di vincere, senza peraltro troncarla espropriandomi di tutto il mio capitale, che comunque non è più mio. E’ sul tavolo. E’ ancora in gioco e nel contempo non lo è più.
Ed è esattamente così che ho deciso di venire qui, oggi, 27 Agosto 2002.
In mezzo a questo trambusto, a questo turbinio di vite.
E mentre attendo, in fila, sento il calore del sole sul viso e ascolto il vociare allegro e leggermente ansioso di chi mi sta intorno.
E sento il ghiaccio che mi porto dentro sciogliersi lentamente.
Le montagne russe più alte d’Europa. 
A volte il biglietto del viaggio è davvero a buon mercato.