Il pazzo e il pozzo

Goccia.

Goccia.

Goccia.

Mi rannicchio sotto il sedile arrugginito cercando di salvare il mio pelo dall’umidità. Un biglietto dell’autobus è rimasto a terra, abbandonato; il timbro e le scritte riportanti la destinazione si sono stinte, sciogliendosi nell’acqua della pozzanghera.

Odio l’acqua: è fredda, è umida, è bagnata, è pesante e scivolosa. Piove ormai da due giorni, il relitto di questo autobus fuori uso è l’unico luogo in cui ho potuto trovare un riparo asciutto . L’acqua, però, è viscida e subdola, si infila tra le fessure del soffitto e tra le crepe dei vetri infranti, e così facendo riesce ad arrivare sino a me.

I crampi della fame, poi, si fanno sempre più insistenti, non riesco a capire se il boato proviene dal rombo del tuono o dalla mia pancia vuota.

Goccia.

Goccia.

Doccia!

Mi scuoto, spruzzando via tutte queste goccioline infide che hanno intriso il mio pelo grigio come le nubi. Basta, ho fame, sono bagnato, devo uscire di qui, trovare del cibo, ho fame, ho freddo, voglio una casa! Il bus è stato un’ottima base, i suoi colori volteggianti mi hanno rincuorato, ma non sono sufficienti né a scaldarmi né a saziarmi. Ho bisogno di trovare un umano rosa, rosa come la Voce, Maria, ma ho paura di incappare in un umano grigio, uno come quello che mi ha abbandonato.

Indeciso sul da farsi, osservo tristemente le luci che volteggiano placide nell’aria intorno ai sedili bagnati: blu, come l’acqua, verde come l’erba, bianco come il latte.

Il pensiero del latte mi sfinisce. Cercando di farmi coraggio cerco l’uscita, tentando inutilmente di evitare le pozze. Le mie zampine annegano, mi irrito e mi spavento, saltellando disperatamente fino alla porta: lo spettacolo che mi si apre davanti è scoraggiante. Un muro di pioggia blocca l’entrata.

Vorrei arrendermi, ma la fame è troppo forte e quello che vedo eccita i miei sensi. Qualcosa sta saltellando felice tra le gocce, un animale verde e viscido dall’aspetto invitante.

Va bene, non so se sia invitante davvero, ma la fame me lo fa vedere così. Non saprei proprio dire dove trovo il coraggio di tuffarmi letteralmente fuori dall’autobus, pronto a sfidare lo scroscio gelido del diluvio e un anfibio grande quasi quanto me, tuttavia lo faccio, spiccando il volo nel prato zuppo. Mi acquatto, tiro indietro le orecchie, muovo il sederino a destra e a sinistra, pronto a balzare.

E poi balzo.

Mi schianto al suolo, inciampando nei fili verdi, a pochi centimetri dalla rana, che non sembra nemmeno un po’ spaventata dal mio ben poco dignitoso agguato. Il suo occhio fisso e vitreo mi scruta con indifferenza e un pizzico di fastidio, poi salta via, lasciandomi sconfortato a terra.

Ho fame, odio questa doccia perenne. Iniziando a miagolare disperato, mi domando come farò a sopravvivere senza la mia mamma e senza la mia umana.

Improvvisamente una puzza mi investe: da dove viene? L’odore rancido di sudore acido e stantio mi si appiccica al pelo, insieme a un altro fetore fin troppo noto: alcol. L’uomo grigio è tornato! Vuole uccidermi al pensiero che io possa essere sopravvissuto?

«Dove stai miagolando, piccolino? Fatti vedere!» intima una voce maschile e strascicata. L’odore è inconfondibile, ma il suono di questa voce goffa non è lo stesso dell’uomo grigio. «Vieni, ti voglio aiutare!» bofonchia.

Sono talmente esausto che miagolo, sperando di farmi trovare. Anche fosse lui, mi basta uscire da questa situazione.

Un’ombra mi si para davanti: è un uomo con la barba lunga, gli occhi verde palude, pantaloni sporchi e un impermeabile grigio. La sua luce è colorata, ma intermittente: sfuma veloce, assumendo diverse tonalità: sembra quasi un’aurora boreale. Mi domando cosa significhi.

«Miao?» lo chiamo, dubbioso. Lui mi vede.

«Ma sei uno scrisciolo, uno scricchiolo, uno scricciolo!» strascica, avvicinandosi. Vedendolo calare su di me, mi pento di essermi fatto scoprire, ma quando mi infila nel suo cappotto cambio idea, nonostante l’odore. Il fetore di ascella e alcool mi soffoca, il caldo e la sensazione di asciutto, però, mi fanno stringere i denti.

L’uomo che sembra un’aurora boreale mi riporta nell’autobus abbandonato, investendo le mille luci colorate nell’aria, provocando un turbinio, come se non potesse vederle. Si siede pesantemente sul sedile meno sgangherato e tira fuori un panino al prosciutto. L’odore del salume mi ricorda quello della pipì, forse perché è un po’ vecchio, tuttavia la sola vista di quel reperto di discarica mi elettrizza, e così inizio a ringhiare, avventandomi sul pane.

«Ehi, deve bastare anche per me!» mi sgrida quello, attaccandosi a un cartoccio di vino. Ridendo, la sua mano che sa di aurora e che puzza di sporco si apre e mi accoglie donandomi il cibo.

Ringhio, ronfo, mastico, credo di fare anche un po’ di pipì. Lui difficilmente se ne accorgerà, odora già come una carcassa.

È la spazzatura avariata più buona che abbia mai mangiato.

*

Da qualche giorno vivo sul pullman con il barbone puzzolente che mi sta dando da mangiare. Inizialmente credevo di potermi fidare di lui, anche se talvolta parla strano, forse quando ha bevuto troppo. Sembrava volermi bene.

Ogni volta che se ne va mi raccomanda di non andare via, specificando che mi porterà da mangiare. Non devo neppure spiegare che non ho nessuna intenzione di uscire di nuovo sotto il diluvio, lasciando il pullman pieno di luce e colore. Il cielo non ha mai smesso di piangere, in sintonia con il mio stato d’animo. Mi manca la mia mamma, mi mancano i miei fratellini, mi manca Maria.

Inizio a rassegnarmi all’idea che dovrò restare con questo beone a lungo: la mia infanzia è finita tempo fa, quando sono strappato dal mio nido. Tuttavia inizio a sforzarmi di volere bene anche a questa persona dai colori discontinui. Mi sono posto come obiettivo quello di capire a cosa siano legati questi flash di colori, e come mai Maria e suo figlio fossero invece di un solo colore.

Potrei anche farmi piacere questa vita, tutto sommato: sono trattato bene, ho da mangiare, il tetto del pullman e stato impermeabilizzato con del nylon, così come i vetri.

Tuttavia oggi è successo qualcosa. Lui mi ha fatto male.

Oggi pomeriggio è tornato più tardi del solito, portando con sé solo avanzi di cibo, senza custodire il suo solito cartone di vino. Forse non è riuscito a procurarselo, questo credo lo abbia innervosito, l’ho capito da come ha armeggiato a lungo per aprire la scatoletta. Parlava da solo, come se vedesse qualcuno troppo timido per mostrarsi a me.

«Vai via, lasciami stare, non voglio parlare con te! Voglio del vino, non ho i soldi, vattene!» bofonchia e poi urla, in preda al delirio, scuotendo la scatola del cibo. Non ho badato al suo monologo folle: l’odore del tonno in scatola mi ha agitato e sono corso verso di lui, arrampicandomi come mio solito sul suo pastrano maleodorante. Credo di averlo graffiato, perché lui si è tinto dello stesso colore del fumo e ha urlato di sparire, scaraventandomi contro un sedile.

Ho urlato e subito dopo i suoi occhi si sono riempiti di lacrime. È scappato nel prato, allontanandosi. Quando mi è passato davanti gli ho soffiato, usando tutto il tremante coraggio che avevo nelle ossa.

Sono rimasto tutta la notte sul chi vive, temendo che potesse tornare e picchiarmi di nuovo, lui però è tornato soltanto il mattino seguente.

«Scusami...» ha detto, avvicinandosi piano. Vedendo la mia fuga spaventata si è afferrato la testa tra le mani. «Non puoi stare con me. Sono un pericolo.» ha sussurrato, provocandomi una strana paura. Non mi potrò più fidare di lui, è vero, ma anche l’idea di andarmene dal pullman arcobaleno mi terrorizza allo stesso modo. Dove andrò se mi caccerà?

*

Lasciami, lasciami!

Soffio, graffio, mi dimeno, ma nulla posso dinanzi alla forza dell’uomo dai mille colori che mi ha afferrato mentre dormivo, a tradimento.

«Stai tranquillo, non ti farò del male.» cerca di rassicurarmi lui, tenendomi stretto. Sfinito, mi accascio tra le sue mani che mi tengono saldamente. Il mio vecchio amico alcolizzato cammina veloce, seppur con passo indeciso: il pullman si allontana dietro di me, la strada sterrata scorre sotto i suoi piedi, divenendo asfaltata e poi di nuovo sterrata, e poi asfaltata. Per fortuna non piove più, ma ho paura.

Non lo so per quanto cammina, fermandosi solo per sorseggiare il suo orribile vino scadente. Piange, mi chiede scusa, non è mai stato così ubriaco.

Arriviamo finalmente in una piazzetta, è sera, non c’è nessuno, nemmeno le auto. Ci sediamo su un marciapiede, mentre io mi divincolo.

«Scusami, non volevo colpirti. Sono solo un vecchio pazzo e ubriacone, non so prendermi cura di me stesso, come potrei prendermi cura di un gattino così piccolo?» piange. Le sue luci cambiano veloci, ma si confondono con il cielo cupo, assumendo le nuance del cielo dopo un temporale.

Cosa ne sarà di me?

Il pensiero di restare solo ancora una volta mi paralizza, non ha nemmeno più bisogno di tenermi stretto. Producendo un orribile suono dal naso, mentre richiama a sè una palla di muco colata per il lungo pianto, estrae qualcosa dalla tasca.

«Ora esprimerò un desiderio, per te.» mi dice. Chiude gli occhi, il piccolo oggetto che tiene in pugno si anima: tra le fessure delle sue mani si riversano improvvisamente piccoli raggi di luce rosa, rosa come Maria! Cosa avrà espresso?

«Non dovrei dirtelo, ma ti ho augurato di trovare una casa» confessa, alzandosi e andando verso l’angolo della piazza. Si gira di spalle e getta la moneta colorata, impregnata del suo desiderio, nel pozzo di mattoni dietro di lui. Spalanco gli occhi: al contatto della moneta con il fondo del pozzo, ecco uscire un magnifico arcobaleno che tinge il muro e l’aria accanto a noi.

«Ho fatto centro? Hai visto, vuol dire che si avvererà!», mi dice, adagiandomi sul bordo del pozzo. Sono frenetico, devo vedere cosa ha provocato i mille colori, causando questo riverbero!

Mi affaccio e resto incantato: mille monete, ognuna di un colore diverso, giacciono in quel buco che dovrebbe essere nero come il petrolio, gettando su di noi la sua meravigliosa luce pastello.

Mi perdo in quello spettacolo: i colori misteriosi sono causati dai desideri? Possibile che la risposta che sto cercando sia in una pozza di malefica acqua? Umano, lo vedi anche tu questo meraviglioso spettacolo?

Mi volto facendo le fusa: l’umano non c’è più.

 

[disegno di Silvana Sala]

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