Marilena Fonti - Lo Straniero (Non ritorni)

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«Si sta proprio bene qui, eh?!»

     Assorto com’è nei suoi pensieri non si è neanche accorto che qualcuno si è seduto vicino a lui sulla panca. È un uomo anziano, molto, con una giacca forse troppo pesante per la temperatura primaverile. In testa ha un basco blu, di quelli che portavano gli operai negli anni ’50, anche suo padre ne aveva uno. Gli occhiali non riescono a nascondere un occhio offeso, forse cieco, fisso e senza espressione. Gli ricorda qualcuno, ma non riesce a metterlo a fuoco tra le poche immagini della sua vita passata rimaste impresse nella memoria.

     «Buongiorno. Sì, si sta bene.», risponde un po’ scostante. Vorrebbe godersi quei momenti da solo, non vuole condividere con nessuno il grumo di sensazioni che gli è salito in gola da quando è arrivato in questo luogo.

     L’uomo lo scruta, come fanno a volte gli anziani, senza pudore e senza timore di creare imbarazzi, sembra deciso a capire con chi ha a che fare. Forse abita da queste parti, pensa lui, ma se anche fosse non può essere salito fin quassù a piedi, sono più di due chilometri da qui al paese, non ce l’avrebbe fatta.

     »Non ti ho mai visto qui. Sei un turista?», chiede curioso, con un tono di familiarità che lo spiazza. Non sa cosa rispondere. Turista? Dopo tanti anni magari sì, lo è, sebbene l’idea un po’ gli ripugni. D’altra parte non può neanche più pensare di appartenere a questo luogo. Qualcuno – una donna? - qualche tempo fa lo ha definito cittadino del mondo, e lui si è sentito lusingato. Ora l’espressione gli pare un po’ stupida. Incoerente. Straniante. Però non sa cosa rispondere.

     «Lei è di qui?», chiede di rimando, le parole escono in modo quasi involontario.

     «Sì. Abito giù in città, ma vengo qui quasi tutte le mattine a respirare aria buona.», risponde l’uomo con aria complice e un po’ compiaciuta. « Prendo il pullman proprio davanti a casa mia,» continua, «e passo un paio d’ore fuori dal mondo e dal traffico». Gesticola nel parlare, muove le mani in modo nervoso, a scatti. Lui ha ancora la strana impressione di averlo già visto, sente che non gli è del tutto estraneo.

     «È un bel posto, ci venivo spesso da bambino e da ragazzo.», dichiara, più per dare soddisfazione all’anziano compagno, imprevisto e inatteso, che perché ne abbia davvero voglia.

     «Ma allora sei proprio di qui! Dovrei saperlo chi sei! Conosco tutti in città, sai, col mio lavoro non immagini quanta ne ho vista di gente!». Nell’unico occhio capace d’espressione balenano in un istante nostalgia e rimpianto.

     «Ah sì? E che lavoro faceva?». Gli dà ancora del lei, lo sente che stona, in fondo neanche lui è più un ragazzo e il vecchio gli ha dato subito del tu. E poi si rende conto di non riuscire a infondere alle sue parole la benché minima traccia di calore, è rigido e distaccato tradisce il fastidio iniziale per l’irruzione dell’estraneo.

     «Avevo un’edicola all’inizio del quartiere Castello e, prima ancora, consegnavo i giornali a domicilio.», risponde pronto l’anziano, che sembra non rendersi affatto conto della sua freddezza.

   Era il quartiere dove abitava lui. Ora il ricordo affiora nitido: quest’uomo ha portato il giornale tutte le domeniche a suo padre per anni, loro abitavano al piano rialzato e suo padre prendeva il giornale e gli dava il denaro dalla finestra. E poi, da bambino prima e da adolescente poi, è nella sua edicola che lui ha comprato l’Intrepido per sé e La domenica del Corriere per suo padre, tutte le settimane.

     La pineta sarebbe la stessa, riflette sollevando lo sguardo, se non fosse per il chiosco proprio lì, accanto alla panchina su cui sedeva sempre per riposare dopo la passeggiata, e su cui è seduto anche adesso. Tornare in questa città, quasi cancellata dallo scorrere brutale degli anni, gli era sembrata la cosa giusta da fare per rimettere un po’ di tasselli in ordine e ridare alla propria vita la prospettiva giusta. Nell’ultimo viaggio a Monaco, durante una passeggiata con dei colleghi tedeschi nei boschi attorno alla città, a un certo punto gli era sembrato di essere proprio lì, tra quegli abeti, dove aveva passato tanto tempo da ragazzo, arrivandoci spesso anche a piedi, dopo aver lasciato la moto vicino alla stazione, per inerpicarsi lungo la Via Crucis che procedeva in salita fino a un chilometro circa dal bosco. Il pezzo più duro era proprio quel tratto di strada asfaltata, che doveva affrontare prima di buttarsi nel labirinto di sentieri che aveva imparato a conoscere così bene. Le prime passeggiate le aveva fatte con suo padre, da bambino: partivano a piedi, mentre sua madre e sua sorella andavano in pullman. Il luogo dove si fermavano per il picnic, sempre lo stesso, era un’area attrezzata dove a volte accendevano anche il fuoco per il barbecue. E, giunti in pineta, loro due sceglievano il tavolo migliore e lasciavano una tovaglia o uno zaino per segnalare che era occupato. Di ritorno dalla loro passeggiata trovavano la madre e la sorella che si organizzavano per il pranzo.

     Non ricorda neanche più l’ultima volta che è stato in questa città, che non sa più se è ancora la sua. Aveva quasi dimenticato di averne una. Dopo la laurea e i corsi di specializzazione era cominciato il suo peregrinare da un punto all’altro del mondo, che lo ha portato molto in alto nella professione, certo, ma, ora se ne rende conto, gli ha anche tolto molto. Più di quanto voglia ammettere. Conosce un numero incalcolabile di persone, ma poi, alla fine della giornata, è solo con se stesso e i suoi assilli: la sua rete di rapporti ruota intorno al lavoro, ma sul piano personale c’è il vuoto assoluto, un deserto in cui sa di essersi inoltrato in piena consapevolezza, ma da cui non sa più come uscire. Non riesce a farsi tornare in mente i motivi per cui ha perso i contatti con sua sorella, forse non ve ne sono: alla morte dei genitori, a un anno l’uno dall’altra, è stato come se si fosse spezzato l’unico legame che li teneva insieme. Lei ora vive con la sua famiglia in un paese qui vicino, si fanno gli auguri per le feste e i compleanni ma, se la incontrasse, forse stenterebbe anche a riconoscerla, si sa che il tempo cambia le persone: non si vedono da più di dieci anni. Dei suoi due nipoti, gli unici che abbia, conserva ritratti dai contorni sfocati, che risalgono ai tempi dei funerali dei nonni. Del cognato ricorda sì e no il nome. Si è sottoposto a un processo di straniamento graduale e forse irreversibile e, di colpo, sente di non appartenere a nessun luogo. Neanche a questo.

     Vorrebbe dire due parole di cortesia al vecchio giornalaio, ma quando si gira non c’è più: deve essersi alzato mentre lui si perdeva nel groviglio dei suoi pensieri. Alza lo sguardo e lo vede allontanarsi a passo lento, un po’ curvo, verso quella che sembra una fermata del pullman. C’è una panchina anche lì: si sorprende a pensare con sollievo che non dovrà aspettare in piedi, potrà sedersi. Suo padre ora avrebbe più o meno l’età di quest’uomo. Sarebbe fiero di lui quell’operaio orgoglioso che conosceva tutti i romanzi di Giovanni Verga e comprava il quotidiano solo la domenica perché gli altri giorni non aveva tempo per leggerlo. Sarebbe fiero del suo successo, si sentirebbe ripagato dei sacrifici. Ma non sa più dove andare a cercare neanche lui, perfino le sue tracce sono state cancellate dalla successione implacabile di stagioni smemorate.

     Si alza quasi senza rendersene conto e si avvia verso l’auto parcheggiata più in là. Si prepara a rientrare nella sua vita di sempre, un’esistenza appesa al filo inconsistente di un’identità precaria, l’unica che ha, adesso. Se in autostrada non c’è troppo traffico forse stasera potrà usare i due biglietti del teatro che gli hanno regalato. Gli basterà cercare un nome nella rubrica per trovare qualcuna con cui condividerli, si tratta di una commedia di Neil Simon, è sicuro che non sarà difficile.