Polvere - Camilla Galli

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L’oggetto più simile al moderno aspirapolvere fu ideato nel 1908 da James Murray Spangler, un portinaio originario dell’Ohio. Si trattava del bizzarro assemblaggio di un ventilatore, una scatola e un cuscino, ma il brevetto, venduto alla società di un cugino, la Hoover Harness and Leather Goods Factory, fece di William H. Hoover un magnate nel campo degli elettrodomestici, e dell’aspirapolvere un articolo di lusso e oggetto del desiderio di ogni casalinga. Intorno al 1920, la ditta tedesca Vorwerk, che fabbricava tappeti, convertì la sua produzione in grammofoni. Dopo un iniziale successo, l’avvento della radio li rese obsoleti e gli affari precipitarono, finché non si pensò di utilizzare i motori dei grammofoni invenduti per realizzare un nuovo modello di aspirapolvere. Il primo prototipo uscì sul mercato nel 1930, e, grazie a un efficace sistema di vendita porta a porta, divenne un oggetto molto diffuso, tanto da venire esportato anche in Italia, dal 1938, con il nome di Folletto. Nel 1949 il numero di apparecchi venduti raggiunse lo strabiliante traguardo del milione.

Emma e Vittorio si conobbero nel marzo di quello stesso anno, per una banale coincidenza: lui, agente di commercio di ritorno da un giro di visite, si era ritrovato con una gomma a terra nei dintorni della biblioteca comunale in cui lavorava lei, come vice direttrice (con buone speranze di eliminare il “vice” entro un paio d’anni, quando la direttrice in carica, la Signorina Turbati, si sarebbe finalmente ritirata per godersi la pensione). Vittorio era entrato in biblioteca per usare il telefono. Emma aveva alzato gli occhi dall’elenco di libri che stava controllando e aveva visto all’ingresso un ragazzo dall’aspetto piuttosto ordinario, ma in evidente difficoltà, che allungava il collo cercando con lo sguardo qualcuno che lo potesse aiutare. Si diresse verso di lui, si presentò e, una volta che Vittorio le ebbe spiegato cosa gli era accaduto (“Un mio amico fa il meccanico, e ha l’officina proprio da queste parti. Se sono fortunato lo troverò ancora lì” le disse), lo accompagnò nell’ufficio della signorina Turbati, dove gli indicò il telefono. Uscì dalla stanza, ma rimase dietro la porta appena accostata. Sentì che Vittorio dava alcune indicazioni alla centralinista e poi: “Mamma, sono io. Ti sto chiamando dalla biblioteca, ho forato. Non ti preoccupare, sto bene, non è niente di grave.” Il suo tono si era fatto più dolce, come se stesse rassicurando un bambino molto piccolo appena svegliato da un brutto sogno. “No, penso che lascerò l’auto qui e tornerò a casa a piedi. Certo mamma, faccio prima che posso.” E riagganciò. Emma si meravigliò di quella bugia, per quanto innocente: perché inventare la storia del meccanico quando voleva solo avvisare la madre? Certo non si era comportata meglio lei, stando a origliare la conversazione privata di un figlio affettuoso.

“Se non ha fretta, posso accompagnarla a casa io: tra dieci minuti stacco e fuori sta per piovere”. Neanche lei sapeva da dove le fosse uscita una frase così sfacciata. Era stato come sentire la voce di un’estranea. Ma quel ragazzo aveva qualcosa che destava il suo interesse. Sul viso di Vittorio passarono prima la sorpresa, poi l’imbarazzo per quella proposta, e ad Emma parve che stesse per rifiutare, ma poi lanciò uno sguardo fuori dalla vetrata, in fondo al corridoio della biblioteca, e da lì all’orologio, calcolando (o almeno così parve a lei) quanto tempo avrebbe impiegato andando a piedi e quanto invece aspettando che lei smontasse e lo accompagnasse in macchina. “La ringrazio, ma vede, a piedi non mi ci vorranno comunque più di cinque minuti, mia madre mi sta aspettando a casa, e sarà in pensiero, con la storia della gomma bucata e il resto… E poi non voglio che faccia tardi a causa mia, farà stare in pensiero qualcuno…”. Emma fu più decisa di lui: “Posso uscire prima: capita spesso che mi trattenga qui oltre l’orario e se recupero dieci minuti non avranno da obiettare… E comunque vivo sola, non c’è nessuno a stare in pensiero”. Mentre infilava al volo il cappotto e recuperava la borsetta, si rese conto che mai, in quei tre anni, era uscita un minuto prima dell’ora prestabilita. Nemmeno per un raffreddore o per un’emergenza. “Ebbene, c’è sempre una prima volta” pensò senza parlare.

Il tragitto in macchina fu brevissimo, ma molto piacevole, per entrambi: Vittorio sembrò tranquillizzarsi alla prospettiva di arrivare a casa senza ritardi, Emma provò il brivido di una cosa nuova, e scambiarono quattro chiacchiere stando sulle generali. Arrivati davanti al vialetto della sua palazzina, Vittorio vide una luce accesa in casa e fu preso da una smania improvvisa: la salutò in fretta, profondendosi pur sempre in mille ringraziamenti, e, sceso dall’auto, corse fino alla porta di casa, il bavero del paltò alzato fin sopra le orecchie per proteggersi dalla pioggia che aveva iniziato a cadere. Le sembrò uno scolaro che affretta il passo al suono della campanella, più che un uomo che cercava riparo dal temporale, e sentì affiorare un’ondata di tenerezza.

Inaspettatamente, la mattina dopo Vittorio fece il suo ingresso in biblioteca stringendo tra le mani un mazzolino di fiori, che depose sul banco all’ingresso sotto gli occhi sbalorditi di Emma. “Mi sembra il minimo, per ringraziarla di quanto ha fatto per me ieri sera. Posso invitarla a pranzo?”. Emma naturalmente accettò, e a quel pranzo ne seguirono molti altri, e dopo i pranzi vennero le domeniche pomeriggio ai giardini pubblici, se il tempo lo consentiva, e le passeggiate prima di cena, quando le giornate iniziarono ad allungarsi. Un pomeriggio di aprile lui le prese la mano, ed Emma lo lasciò fare.

Un giorno, Vittorio si presentò ad Emma nervoso e trafelato: era evidente che doveva chiederle qualcosa, ma non sapeva come affrontare l’argomento- “Emma, mia madre vorrebbe conoscerti”. Lei provò un immediato e intenso sollievo: era dunque solo questo? Bene, avrebbe conosciuto la madre di Vittorio. Voleva forse dire che a breve le avrebbe chiesto di sposarla? Emma pensò al suo appartamentino, lo immaginò vuoto, la sua vita impacchettata in qualche baule, pronta per essere spedita a un indirizzo nuovo, e provò una stretta al cuore. Le sue amiche, tutte già sposate, sembravano condividere a riguardo un oscuro segreto. “Un passo alla volta”, si disse. E poi che male le avrebbe potuto fare quella donnina bisognosa solo di affetto e di rassicurazioni?

La domenica successiva suonò al campanello della palazzina dove viveva Vittorio con sua madre. Le aprì una donna più bassa di lei, della quale per prima cosa la colpì la particolare sottigliezza delle estremità: era come se uno scultore, arrivato il momento di modellare mani, piedi e cranio, avesse terminato l’argilla. Il viso, soprattutto, era affilato e spigoloso. Il naso, leggermente aquilino, sembrava intagliato dal vento. Alcune ciocche di capelli, chiari e sottili, volavano dalle tempie verso le orecchie, come penne di un uccello in picchiata. Gli occhi erano due spilli irrequieti. Durante le presentazioni, frettolose, sulla soglia, le labbra sottili si incresparono in un sorriso, poi la madre di Vittorio si ritrasse per farla entrare. Emma notò che, nonostante l’abbigliamento - non alla moda, ma curato - aveva le movenze rapide e la postura da cameriera. Si accomodarono in un salottino che diede ad Emma l’illusione di trovarsi nella vetrina di un negozio di arredamento: non perché vi fossero dei pezzi di particolare pregio, anzi la mobilia era del tutto ordinaria, ma perché sembrava il set di un film che doveva ancora essere girato. Non c’erano segni di occupazione - segni di vita, pensò - non c’era nulla fuori posto, ma l’ordine estremo, la disposizione dei pochi oggetti, le pieghe perfette e i cuscini senza un’ombra di sgualcitura, rendevano il tutto piuttosto impersonale. Era come prendere il caffè nella hall di una pensioncina di provincia. La madre di Vittorio sembrava riuscire a stare seduta sul piccolo divano senza toccarlo. Né in quell’incontro, né nei successivi avvenne nulla di evidente. Il tutto si svolgeva sempre secondo lo stesso copione: dopo i rapidi convenevoli, Vittorio e sua madre iniziavano a chiacchierare del più e del meno, e lei semplicemente scompariva. La madre di Vittorio le passava attraverso con il suo sguardo cortese ma indifferente, come se anche lei facesse parte dell’arredamento, o come se fosse un’ospite straniera che non parlava la loro lingua. A ogni visita, in particolar modo per le occasioni speciali come il compleanno della signora, Emma portava in dono, secondo quanto le era stato insegnato, un piccolo pensiero: un mazzo di fiori, un libro, dei pasticcini, che venivano immediatamente abbandonati in un angolo oppure occultati in cucina e ignorati per il resto del pomeriggio. Per contro, mai nulla aveva compiuto il percorso inverso, dalle mani della madre di Vittorio alle sue: non un pensiero, non un oggetto, anche di nessun valore, non un biglietto di auguri, che fosse il suo compleanno, o Natale, o Pasqua. Emma era certa che quelle visite avvenissero per volontà di Vittorio, che non fosse mai lei ad invitarla. E la donna le affrontava con lo stesso spirito con cui Emma immaginava si dedicasse alle faccende di casa: rassegnazione, indifferenza e l’intenzione di farle durare il meno possibile. Contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, Emma sentì che più passava il tempo e più la donna la trattava con freddezza. Nei rari momenti in cui il figlio non era presente, non perdeva l’occasione di lanciarle frasi ambigue. Capitò che si incrociassero per strada e che distogliesse lo sguardo, fingendo di non averla vista. Un paio di volte, Emma tentò di spiegare a Vittorio le sue sensazioni, ma non appena le prime parole le uscivano di bocca si andavano ad infrangere contro una scogliera impenetrabile: sua madre era fatta così, certo era una donna poco espansiva, ma quello era il suo carattere, e poi forse Emma era troppo suscettibile, faceva caso a particolari insignificanti, a gesti senza importanza e fatti in buona fede; e si disperdevano in una nebbiolina inconsistente. Emma cercava di pensare che, se mai lui glielo avesse chiesto, era Vittorio che avrebbe sposato, non sua madre, e l’attaccamento che provavano l’uno per l’altra avrebbe sempre appianato qualsiasi questione.

La proposta arrivò, ed Emma e Vittorio si sposarono l’autunno seguente. Si trasferirono in un appartamentino che si era appena liberato sullo stesso pianerottolo della madre di Vittorio. Le visite domenicali divennero incontri quotidiani, tanto sgradevoli quanto inevitabili. Ogni sera, dopo il lavoro, Vittorio passava a salutare la madre prima di rientrare a casa. Un sabato pomeriggio, mentre Vittorio leggeva il giornale e di tanto in tanto lanciava un’occhiata a Emma, intenta a riordinare la sala da pranzo, con il tono leggero di sempre le disse: “Forse è troppo faticoso badare alla casa e mantenere il tuo impiego in biblioteca. Non pensi che, ora che siamo sposati, io possa provvedere a te?”. Emma fermò a mezz’aria il battitappeto e lo osservò attentamente. Quelle parole non erano le sue. Vittorio aveva sempre apprezzato la sua indipendenza e conosceva le sue aspirazioni, il suo desiderio di diventare direttrice della biblioteca. “E poi, per quanto tu ti possa impegnare, e vedo che lo fai, purtroppo con tante ore passate fuori casa, le faccende inevitabilmente vengono trascurate. E la polvere si accumula”. “Oh, se è per quello, tra poco è il mio compleanno: perché non mi regali un aspirapolvere? Ormai ce n’è uno in ogni casa. E mi farebbe risparmiare un sacco di tempo!” ribatté lei. Dopo un attimo di silenzio, gli sentì dire: “Mia madre non ne ha mai avuto uno, eppure il pavimento su cui ho giocato da bambino era sempre immacolato” e questo pose fine alla discussione.

Mentre sgombrava il suo ufficio e raccoglieva le sue cose, Emma pensò che non poteva mettere a repentaglio il suo matrimonio per uno stupido lavoro, che tutte le sue amiche avrebbero dato chissà cosa per avere accanto un uomo affidabile e un’esistenza in cui la più grave preoccupazione fosse l’accumularsi della polvere. Ciononostante, la certezza di aver tradito il futuro che aveva tanto desiderato le procurò una fitta di dolore e le spense per sempre una luce negli occhi.

Per farle dimenticare il dispiacere, Vittorio organizzò una vacanza per il loro primo anniversario di matrimonio. Dopo qualche giorno dalla partenza l’umore di Emma si stabilizzò, mentre lei iniziava ad abituarsi all’idea che d’ora in avanti quella sarebbe stata la sua nuova vita.

Un imprevisto li costrinse ad anticipare il rientro: la madre di Vittorio aveva avuto un colpo apoplettico, che le aveva lasciato pesanti segni. Il volto era contratto in una smorfia, che lo rendeva ancora più truce di prima, le era ormai impossibile camminare e parlare, e il medico li preparò all’eventualità che un secondo episodio potesse sopraggiungere, ed esserle fatale.

Quando venne dimessa dall’ospedale, la trasferirono nel loro appartamento. “È una fortuna che ci sia tu ad occuparti di lei, non so davvero come avrei fatto” le disse Vittorio baciandola sulla fronte. Lanciò un ultimo sguardo alla moglie e alla madre, sedute a tavola davanti ai resti della colazione, e uscì per andare al lavoro.

All’inizio Emma aveva pensato di aiutare la donna e di chiedere a suo padre, medico, il nome di uno specialista, o magari fare lei stessa qualche telefonata. Poi decise di no, l’avrebbe lasciata annaspare, servendole una generosa porzione di indifferenza. Che si arrangiasse. Guardava ormai con disprezzo la versione di sé che subito avrebbe assunto un atteggiamento di sollecita quanto posticcia partecipazione, che avrebbe finto interesse. Ormai era sepolta, più che sotto le mille piccole angherie che aveva subito, o sotto l’immagine di quel volto odioso dal ghigno cattivo, era stata seppellita dal ricordo della cocente umiliazione di se stessa. Quanto si era sentita stupida e a disagio quando aveva fatto un qualsiasi gesto gentile nei suoi confronti, venendo ripagata solo con maleducazione, noncuranza e malcelata cattiveria. Quanta pena aveva avuto di se stessa, per essersi vista troppe volte nei panni di una mendicante senza convinzione. Quante volte aveva provato vergogna per aver teso una mano senza che dall’altra parte una mano venisse a lei tesa di rimando. Anche ora sentiva che, a ondate, quella misera Emma tentava di risorgere. Lei la lasciava fare, solo per ucciderla ogni volta. Che se la sbrigasse da sola. Anzi, si trovò persino a desiderare che la madre di Vittorio si sentisse sdegnata e offesa, vedendo che non muoveva un dito. Nonostante tutto, non traeva alcuna soddisfazione dalla condizione attuale della donna: era convinta infatti che la sua cattiveria sarebbe riuscita a trarla d’impaccio da ogni situazione. Questo forse più di tutto la indispettiva: pensare che se lo stesso incidente fosse capitato a qualcuno di buono (lei?), non avrebbe potuto fare altro che soccombere, mentre quella donna, con la sua incapacità di provare alcunché, la sua subdola, piccola prepotenza, in un modo o nell’altro sarebbe sempre uscita indenne da ogni tempesta. Quella cattiveria sembrava proteggerla, come un mantello, da qualsiasi dolore.

Quando la madre di Vittorio ebbe il secondo colpo apoplettico, lei ed Emma erano in casa da sole. Emma era andata in cucina a prendere un bicchiere di limonata fresca, quando aveva sentito un tonfo sordo e un rumore di vetri infranti. Corse in sala da pranzo e la vide, rattrappita sul pavimento. Una mano artigliava il bordo della tovaglia che aveva strattonato cadendo, il vaso di cristallo dal centro della tavola si era rovesciato a terra ed era esploso in un firmamento di frammenti aguzzi. Le punte dei piedi grattavano sulle piastrelle, come un impiccato che cercava un appiglio. La testa era ripiegata all’indietro in modo innaturale, tanto che i capelli sottili come ragnatele quasi sfioravano un punto tra le scapole. Gli occhi, due crune d’ago color carta da zucchero, sembravano vibrare di odio. Frugavano rabbiosamente cercando qualcosa. Cercavano lei. Emma istintivamente si ritrasse. E poi divenne di pietra. Non mosse un passo, non emise un fiato, non sentì nulla. Quando il torpore la abbandonò, si accorse che stringeva ancora tra le dita il bicchiere di limonata, divenuta tiepida.

I funerali si celebrarono di lì a due giorni, le poche persone che intervennero erano per lo più amici di Vittorio. La donna fu cremata, secondo le sue volontà, e l’urna fu posta accanto alle foto di famiglia sul vecchio cassettone in sala da pranzo. Emma non ebbe cuore di opporsi, ma quando Vittorio riprese a lavorare e si trovò per la prima volta sola in casa, il silenzio che seguì al rumore del motore dell’auto che si allontanava lungo il vialetto si chiuse sopra di lei. Il cuore prese a batterle più forte, come quando da piccola sua madre la mandava a prendere una bottiglia di vino in cantina e lei immaginava di vedere la porta richiudersi intrappolandola al buio. Pensava che se non avesse abbandonato il suo lavoro alla biblioteca, almeno avrebbe avuto un altro posto dove stare, qualcos’altro a cui pensare. Prese a riordinare la cucina, le camere da letto, pulì a fondo il bagno, lavò le finestre di tutta la casa, ma si tenne lontana dalla sala da pranzo. Uscì per delle commissioni e fece in modo di stare fuori quasi tutto il pomeriggio. Solo quando sentì Vittorio rientrare, si decise ad apparecchiare la tavola, con gesti automatici, senza togliere gli occhi dall’urna, muta al proprio posto.

Quella notte Emma dormì di un sonno leggero e agitato. Sognò di affacciarsi sulla sala illuminata solo dalla fredda luce del lampioncino sul vialetto. L’urna era sparita. Ricordava di aver pensato che Vittorio se la sarebbe presa con lei e che l’avrebbe costretta a comprarne una identica, con dentro nuove ceneri. Mentre rimestava questo assurdo pensiero, l’aveva vista. Seduta a tavola, immobile, a fissarla. Cancellato ogni segno del primo colpo apoplettico, il ghigno era tornato. L’urna non c’era più perché lei non era morta. Emma si svegliò di soprassalto, impiegando alcuni istanti a riemergere dall’incubo e quando le nebbie si furono sfilacciate fino a svanire, rimase a fissare il soffitto e non tentò più di prendere sonno. Fu con sollievo che vide, dopo un tempo che le parve eterno, le prime luci dell’alba filtrare dalle persiane accostate. Scese dal letto con la sensazione di avere sulla pelle una pesante coperta ghiacciata, e si chiuse in bagno. Guardandosi allo specchio vide i suoi occhi segnati da pesanti occhiaie, e due profonde rughe che le correvano agli angoli della bocca, piegati all’ingiù. Si sforzò di pensare che prima o poi si sarebbe abituata, che l’urna con le ceneri sarebbe scomparsa, come tutto ciò che abbiamo sempre sotto gli occhi. E poi non avrebbe saputo come chiedere a Vittorio di eliminarla. In fondo era solo polvere. Non rimaneva nulla, se non un chilo scarso di polvere. Polvere. Emma sentì la larva di un pensiero emergere dal gelo della notte appena trascorsa. La osservò agitarsi e crescere e prendere forma, come una creatura indipendente, dotata di volontà propria. Ed Emma la lasciò fare.

Non appena Vittorio uscì, corse a prepararsi. Avvertiva un leggero formicolio alle mani mentre estraeva dal cassetto il libretto degli assegni e lo infilava rapidamente nella tasca del paltò, come se temesse di farsi scoprire. Passando davanti all’urna con le ceneri della madre di Vittorio (“Solo polvere” pensò), non poté fare a meno di affrettare il passo. Si chiuse la porta di casa alle spalle e fu fuori. Il calore di un raggio di sole le si posò addosso, facendola sentire reale. Salì in macchina, uscì dal vialetto in retromarcia, lanciando un’occhiata alla finestra della sala, aspettandosi di vederla affacciata, i suoi occhi freddi puntati verso di lei. Parcheggiò davanti ai Grandi Magazzini Gaspari, ed entrò. Si diresse al reparto elettrodomestici, dove fu avvicinata da un commesso che le chiese in tono gentile se le servisse aiuto.

Quando fermò l’auto nuovamente in fondo al vialetto, rimase un istante a fissare l’immagine che le rimandava lo specchietto retrovisore. Sul sedile posteriore, ancora imballato, c’era l’ultimo modello di Folletto. La scritta verde smeraldo sullo scatolone risplendeva alla luce del sole, mandando bagliori rassicuranti. Sembrava quasi animata: Emma ebbe la sensazione di aver dato un passaggio a un buon amico. A quel pensiero le piombò addosso la solitudine che aveva provato negli ultimi tempi. Sentì quell’enorme peso cadere di schianto sulle sue spalle: l’isolamento, l’impotenza, l’indifferenza, la sordità disperante di Vittorio, incapace di ascoltare o di credere, solo teso nello sforzo di minimizzare o ridicolizzare ciò che lei cercava di mostrargli. Posò la fronte sul volante e pianse.

Aprì la porta di casa: la sentì vuota e silenziosa. Respirò un’aria di resa. Guardò le sue mani scartare l’imballaggio, estrarre l’aspirapolvere e inserire la spina nella presa a muro. Poi si volse verso l’urna. Per la prima volta da quando Vittorio l’aveva portata a casa le apparve per ciò che era: un oggetto inanimato, inoffensivo. Mentre allungava una mano per afferrarla fu attraversata da un pensiero assurdo: non sarebbe riuscita a muoverla, il peso delle ceneri, e di ciò che quella polvere significava, l’avrebbero tenuta inchiodata al cassettone. Perciò si stupì quando senza sforzo la sollevò a mezz’aria. Svitò il coperchio e si scoprì a pensare che era lo stesso gesto con cui ogni mattina apriva il barattolo del caffè. Imbracciò l’urna con entrambe le mani. La inclinò lentamente, chinandosi piano. Una finissima polvere grigia iniziò a scivolare fuori, andando a depositarsi sul pavimento. Emma la guardava scendere, tendendo l’orecchio affascinata per percepirne il leggero fruscio. Era come guardare i granelli che scorrevano in una clessidra; le tornarono in mente i giochi che faceva da bambina sulla spiaggia: quel velo di sabbia chiara e asciutta che svaniva nelle fessure tra le dita delle mani chiuse a coppa. Il pensiero della madre di Vittorio, della sua presenza reale, anche se in un passato ancora molto vicino, si era ormai sganciato da ciò che stava guardando: un cumulo di polvere.

Posò nuovamente l’urna, ora più leggera, sul cassettone e riavvitò il coperchio. Poi azionò l’aspirapolvere. Non sentiva il rumore secco dell’aspirazione, era come se si muovesse sott’acqua. Osservava la spazzola fare avanti e indietro in una danza sul pavimento. Non volle attaccare subito la piccola montagnola grigia: iniziò a girarle intorno e di tanto in tanto mandava il beccuccio più vicino, ne aspirava una boccata e di nuovo lo allontanava, come in un balletto. Era come guardare un piccione che prende a beccate un tozzo di pane. Dopo poco sentì che l’aspirapolvere la guidava, scivolando sicuro e senza fretta. Il braccio di Emma serviva solo a dargli l’inclinazione giusta, per il resto faceva tutto da solo. E lei non voleva che finisse subito. Già metà del mucchietto era stata ingoiato ed era scomparso. Un incantesimo aveva tramutato la strega in polvere, e ora toccava a lei sbarazzarsene. Quando non rimase più nulla, spense l’apparecchio, staccò la spina e rimase un istante ad ammirare ciò che aveva fatto. Poi corse ad aprire le tende e spalancò le finestre della sala per far entrare più luce e aria pulita.

Quella sera, al rientro dal lavoro, Vittorio trovò la casa perfettamente linda e in ordine. Emma colse l’occasione per mostrargli timidamente il suo nuovo acquisto. Lui tacque per qualche istante, poi stancamente disse: “Ma sì, hai fatto bene. Ormai ce l’hanno proprio tutti. E poi, dopo quello che hai passato anche tu, te lo meritavi”. “Lo credo anche io” rispose. Dopo cena, come al solito, Vittorio indossò il cappotto per portare fuori la spazzatura. “Tesoro – disse Emma – potresti buttare anche il sacco dell’aspirapolvere? Me ne sono completamente dimenticata”. Emma rimase alla finestra, a guardare Vittorio che percorreva il vialetto, illuminato appena dal lampioncino, e gettare nel cassone il sacco pieno di polvere.