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Andrea Gori - Di cosa parliamo quando parliamo d’amore

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ovvero: Il colore della cenere

«La neve, mamma!».

Era agosto, un caldo agosto. Uno dei più caldi che riuscissi a ricordare.

Non avevo mai visto la neve. Neanche lei, perché nella nostra città non era mai caduta, e lei, mi aveva detto, non si era mai allontanata da lì. Forse non lo avrebbe mai fatto se non fosse stata costretta.

La sua manina indicava il vortice che dall’alto si posava con leggerezza sulla terra. Si distendeva in un tappeto d’argento dalla consistenza fugace. Se si fosse chinata a raccoglierla le fessure tra le sue dita avrebbero fatto cadere tutto. Non avrebbero lasciato che una tenue sfumatura: la sua pelle, allora, sarebbe sembrata grigia, di un grigio chiaro. Lo stesso colore della cenere. Del riflesso della luna sulla cenere.

La sua mano era davvero piccola. E anche lei era piccola. Così piccola per affrontare quel viaggio.

«È solo polvere, tesoro», le risposi con un filo di voce, alzando gli occhi al cielo.

La cenere scendeva fitta accompagnata dal vento. Un vento sordo, silenzioso. Innaturale. Come la città dopo le bombe. Le belle strade, ora coperte di macerie, erano diventate vuote. Tristi.

«Sono le stelle, vero? È la polvere delle stelle?».

Mentre tutto si copriva di grigio e di bianco, risplendendo per contrasto nella notte sempre scura, la città sembrava ancora più morta. Era la cenere ad accendere le tenebre. E i sogni della bambina che camminava vicino a me.

Osservando i detriti che brillavano come statue immortali sorrisi, perché in mezzo alla morte, alla morte delle persone e delle cose, quella bambina alta poco più di un metro era ancora in grado di sognare. E sognava forte, con orgoglio.

«Esprimi un desiderio», le dissi.

Mi prese la mano e se la portò sul cuore. La punta del naso iniziò a disegnare cerchi leggeri nell’aria, verso l’alto. Scorsi i suoi occhi chiusi e la parte centrale della bocca scossa da leggere vibrazioni. Piccoli movimenti. Inconfondibili. Era una preghiera, una preghiera silenziosa. Le parole si erano fermate sulle sue labbra ed erano morte prima di toccare l’aria. Nessuno le avrebbe ascoltate. Nessuno avrebbe potuto. La bambina, però, non lo sapeva. Per lei un desiderio era solo un desiderio: avrebbe tanto voluto che diventasse realtà.

Così a lei restava la speranza, mentre io vedevo soltanto le briciole dei palazzi, dei rifugi e dei sogni. Erano ridotti in polvere. E nonostante la loro lucentezza restavano cenere. Cenere e macerie. Spettri di cadaveri in decomposizione.

Non c’era più niente. Niente che mi tenesse davvero lì, in quella che per dieci anni era stata la mia casa.

«Ti mancherà questo posto?».

Lo chiese senza lasciare la mia mano, continuando a stringermi. E pensai che stesse sorreggendo tutto il mio dolore, il peso che mio malgrado portavo sulle spalle.

Mi voltai a guardarla e incrociai i suoi occhi. Mi parvero meno brillanti, più velati. Forse erano stanchi. O forse tristi.

Così piccola. Così infelice.

«Ho con me tutto quello che mi serve...».

Provai a sorridere per rassicurarla, ma ne uscì fuori una smorfia, perché mi sentivo anche io piccola e infelice. Perché anche io avevo paura: di non essere in grado di badare a lei, quella bambina che la madre mi aveva affidato prima di morire. Ci separavano solo quattro anni, e i ruoli che la guerra ci aveva affidato senza chiederci il permesso, ma l’avrei cresciuta. Le avrei fatto da madre. E lei mi avrebbe fatto sentire un po’ meno malferma, un po’ meno mortale. Un po’ meno sola.

Finii per non chiederle che desiderio avesse espresso, anche se i suoi occhi sembravano aspettare quella domanda. Non avevo voglia di parlare. Ero anche io stanca. Avevamo camminato tutta la notte e dovevamo trovare un nascondiglio per il giorno. Contrariamente a quanto si potesse pensare, non era la notte il momento più pericoloso: chi guardava dall’alto, di notte trovava il mondo celato dal buio.

La bambina infilò le mani nelle tasche, ma avevo notato che erano sempre più grigie: la cenere si era infilata sotto le unghie e nelle venature del palmo. Anche il piccolo anello che portava all’indice aveva mutato colore. Era stato il regalo di sua madre. Se l’era sfilato appena in tempo. Aveva trovato la forza di sorridere mentre lo faceva. Sorridere per l’ultima volta.

Ogni giorno mi sembrava più spenta e iniziai a capire che dentro stava bruciando. Che stava morendo. Di una di quelle morti atroci, che sembrano lontane quando non si è provato sulla pelle che cosa sia la guerra.

Neanche noi la conoscevamo prima di allora. Non così bene, almeno. A scuola i libri ne parlavano, ma pensavamo fosse una cosa stupida, una cosa superata. Chi avrebbe voluto la guerra? E perché?

No, non avrei creduto che potesse esistere ancora. Che al mondo ci fosse qualcuno così incosciente da riportare la morte in vita.

Era l’ultimo giorno di scuola il giorno in cui il mondo è finito, per i morti, ma anche per i sopravvissuti. C’era una festa, una grande festa, ed erano presenti molti genitori. Eravamo appena entrati in classe e avevamo appoggiato i nostri libri sopra il banco. Leggere, per noi, era un lusso.

Un libro, un libro di carta e cartone, con la fodera a colori, era un dono che ricevevamo una volta all’anno dai nostri insegnanti e dalle nostre famiglie. Dovevamo resistere alla tentazione di leggerlo tutto d’un fiato. Era necessario diluire l’attesa per mesi, e quando purtroppo le pagine erano esaurite, o le ultime erano strappate, cosa assai frequente nella nostra zona, ricominciavamo da principio la lettura, sottolineando appena con il lapis le parole che alla prima lettura avevamo pronunciato senza comprenderle fino in fondo. Un libro doveva durare un anno intero. Poi sarebbe stato requisito, ripulito e ridistribuito. E non c’era modo di sottrarsi alla confisca della carta: la carta avrebbe composto lettere, biglietti in codice. Sarebbe stata lo sfondo di mappe e di conti complicati. O sarebbe rimasta ancora la base di un libro, la sua casa, il suo letto, pur cambiando forma. Il suo contenuto sarebbe mutato, come gli occhi di chi lo avrebbe scorto.

Il libro che mi era stato consegnato, e che avevo appena appoggiato sul banco, aveva la copertina azzurra. Era il mio colore preferito e speravo fosse di buon auspicio. Avrei tanto desiderato leggere di terre lontane, diverse dalla mia. Vivevo in una città senza cuore, priva d’anima.

Per fortuna c’erano molte pagine di carta: annusai il loro odore, in cerca di quel ricordo che io non custodivo, ma che la maestra ci aveva tramandato.

Trovate il profumo della carta.

E io lo cercavo ogni giorno, nella speranza che prima o poi uscisse fuori dal libro usurato e non ancora restituito, senza sapere come fosse quell’odore, il profumo di un libro fresco di stampa, forse asettico, forse impersonale. Così quella mattina lo annusai.

Il libro dalla copertina azzurra non emanava che un vago profumo acido che mi ricordava quello di una cantina. Le sue pagine erano leggermente taglienti e disegnavano un merletto imperfetto. Anche le cuciture erano grossolane: sapevo di dover prestare attenzione a non perdere la carta, l’oro bianco e ruvido che custodiva un bene ancora più prezioso, stampato appena in nero.

Sentii un aereo passare vicino al nostro tetto. Tremarono i vetri, e le gambe della maestra. I suoi occhi preoccupati ci osservarono con fare interrogativo e tutto vibrò ancora più forte, mentre un tuono accompagnava le scosse. La nostra insegnante urlò di nasconderci sotto i banchi. Di non pensare ad altro che a nasconderci. E io, prima di farmi ancora più piccola e chinarmi sul pavimento, ricordo di aver stretto più forte il libro azzurro per salvarlo da tutta quella distruzione. Invece sarebbe stato lui a salvarmi, ma io non potevo saperlo. Sarebbe stata la sua mano a posarsi sul mio cuore.

Quando le finestre schizzarono via in mille frantumi pensai che fossero simili a coriandoli. Coriandoli dalle magiche sfumature. E quei pezzi, pezzi appuntiti, si scagliarono contro i nostri corpi e i nostri sogni, tagliando e trafiggendo la carne e le cose.

Avevo paura a uscire fuori: non ero pronta a vedere la morte intorno a me. C’era qualcuno ancora vivo: si lamentava, farfugliava parole che per me non avevano senso. Sì, là, tra i vetri e il sangue, stavano pregando, chiedendo perdono. Chiedevano perdono prima di morire, come se una morte così violenta non fosse sufficiente a cancellare ogni colpa. E io, anziché aiutarli nella loro inutile preghiera, strinsi più forte il libro azzurro e mi accorsi che si era rotto: la copertina era squarciata dal vetro, proprio all’altezza del mio petto. Se non l’avessi avuto con me, probabilmente sarei morta.

Nell’aria si sparse un odore diverso. Non aveva una fragranza precisa, ma quando entrava nelle narici, quando si depositava sulla pelle, sentivo bruciare. Non vedevo niente di strano, oltre i frantumi di vetro e i corpi a terra che perdevano la vita.

Anche i vestiti bruciavano, tutto era fuoco, anche senza fiamme, anche senza vento ad alimentarlo. E anche io ero come fuoco: bloccata a terra, con le braccia impotenti rivolte al cielo. Avrei voluto gridare, ma nella gola tutto si fermava e si strozzava, incapace di uscire. Così mi trascinai fuori dalla classe, verso il bagno. Mi spogliai, mi spogliai di tutto. Lasciai cadere vestiti e libro a terra, e iniziai a lavare via quel bruciore, mentre i lamenti, nel corridoio, nelle altre aule, si facevano più deboli e più disperati.

Non sapevo dove andare, né che cosa fare.

Era la guerra quella?

Perché noi, noi bambini?

Sarei dovuta tornare a casa? O l’avrei trovata distrutta, come le finestre della scuola, come il libro dalla copertina azzurra?

Sarei riuscita a sopravvivere a tutto quel dolore?

Fu allora che la sentii. Era la voce di una bambina che continuava a chiamare la madre. Seguii la voce fino all’atrio: la piccola era nascosta sotto il corpo della mamma. Tossivano entrambe, ma la donna era stremata, stanca di disperarsi.

Poi la donna mi vide. E qualcosa nei suoi occhi cambiò.

«Vieni», mi disse. La sua voce era ridotta a un filo.

Obbedii, come un automa.

Si alzò sulle braccia, liberando la bambina dalla morsa sicura che l’aveva salvata. Si tolse l’anello e lo mise al dito della figlia.

«È mia figlia...».

Un colpo di tosse le impedì di finire la frase.

«…te la affido».

E sorrise, mentre la bambina mi prendeva la mano. E capendo che la sostanza invisibile aveva colpito anche la piccola, corsi a lavarla come meglio potei.

Quando ripassammo attraverso l’atrio, nude, impaurite, ma vicine, la donna non si muoveva più. Non avevo fatto in tempo a chiederle come si chiamasse la bambina.

La luce, fuori, era diversa dal solito. Poggiavamo i nostri piedi su un tappeto di macerie, vetro e carne.

«Stai attenta a non tagliarti», le dissi.

Non sapevo dove andare, né se fossimo al sicuro. Il sole era ovattato da nuvole sottili. I frantumi di vetro, a terra, riflettevano la sua luminosità. E poi c’era quello strato grigio, che prima non avevo mai notato. Non avevo mai notato perché non c’era. Non c’era la cenere. Non quella cenere d’argento. Risplendeva più del sole e del vetro. Per capire da che parte andare mi tappai gli occhi con una mano. Ma tutte le vie erano cancellate. C’erano nuove strade, strade di detriti, che i nostri piedi non erano pronti a calpestare.

«Cos’è successo alla mia mamma?», mi chiese quando eravamo arrivate in cima a un cumulo di ferro, cemento e polvere d’argento.

Io non sapevo che risponderle. Perché eravamo sole, adesso. Sole in quel mondo. Avrei voluto la mia di madre. O anche la sua. Qualcuno che mi proteggesse e che badasse a me. Avevo voglia di piangere e di gridare, ma rimasi in silenzio.

«Sei la mia nuova mamma, ora? Dove andiamo, mamma?»

La sua mano strinse più forte la mia.

Un palazzo era sopravvissuto. Dopo settimane di cammino, quella mattina avevamo trovato quello scheletro ancora eretto. Era il primo che trovavamo quasi intatto.

«Aspettami qui, Amal».

Avevo scelto questo nome. A lei era piaciuto. E le calzava a pennello. Amal: speranza. Perché era lei la mia speranza.

La bambina si rannicchiò nella buca nascondendosi sotto la coperta grigia. Per la prima volta saremo state lontane alcune ore. E i rischi non erano pochi. Più di tutti mi preoccupava la possibilità di non ritrovare il suo nascondiglio: dovevo memorizzare bene i numeri dei passi, ma non avrei potuto prendere punti di riferimento precisi. Il sole non era affidabile. E poi c’era il vento. Il vento avrebbe potuto coprire l’entrata. Avrebbe, certo. Mi restava da sperare che non si alzasse. Disegnare una mappa sarebbe stato ancor più pericoloso: se ci fosse stato qualcuno, là, dentro o intorno al palazzo, e avesse avuto cattive intenzioni… Se mi avesse catturato e avesse trovato quel foglio… No, non potevo correre quel rischio. Per il bene della bambina.

Gli occhi di Amal erano spalancati e fissi su di me. Riuscivo a vederli, perché brillavano come la polvere. Come la cenere. Erano dello stesso colore, ormai. Di un grigio intenso.

Era entrato dentro di lei quel grigio. L’avrebbe uccisa? Non volevo pensarci.

«Non avere paura...», le dissi spingendole via una ciocca di capelli. Grigia. Anche la ciocca. E adesso, anche la mia mano.

Ero io ad avere paura. Amal riusciva a sentirlo.

«Canta, canta nella testa, Amal. Canta tutte le canzoni che ti ho insegnato. Se alla fine non sarò tornata, aspetta la notte e scappa».

Non volevo andarmene. Non avrei dovuto lasciarla lì. Lo sentivo.

«Mamma...».

«Sì?».

«Tornerai, vero?».

Avrei voluto dirle di sì, rassicurarla. Ma non potevo mentirle. Non più. Anche se era una bambina, anche se io ero una bambina. Ero stanca delle bugie, delle bugie che i grandi dicono ai bambini, o che i più piccoli si raccontano tra loro.

Le detti un bacio sulla testa e le scompigliai i capelli: adesso anche la mia bocca era appena coperta di grigio. Ormai la cenere era entrata ovunque. Difficilmente saremmo sopravvissute a lungo.

«Stai attenta, per favore, mamma».

Le strizzai un occhio e mi allontanai prima che facesse giorno. Non avrei potuto aspettare la sicurezza della notte, perché avevo bisogno di luce, di più luce. Di vedere. Di vedere, da lassù, se in quel deserto di cenere qualcun altro come noi era vivo e in cerca di aiuto. Qualcuno buono, non uno dei soldati. Vedere se c’era qualcosa, oltre la cenere: una città sopravvissuta, una città ricostruita.

Non c’era niente. Avrei dovuto immaginarlo. Solo polvere: immense distese di polvere grigia. Era tutto uguale. La terra era tutta morta. Almeno da lì. Qualche duna, qualche buca. Eravamo le uniche formiche del formicaio. Neanche i militari si facevano vedere. Non ce ne era traccia, neppure nel palazzo.

Non c’era traccia di vita, là dentro. Di carne, invece, ce ne era fin troppa.

L’appartamento in cui entrai era sulla via del ritorno, all’ultimo piano. Avevo trovato la porta accostata. Ero in cerca di cibo, di provviste.

Il primo corpo era nella sala, a terra, sul tappeto. Non c’erano tracce di sangue. Solo la posizione era innaturale. L’uomo era steso su un fianco. Le braccia sigillate sul petto e le gambe adagiate una sopra l’altra. Il suo viso era rivolto verso una porta bianca.

Il tempo, là dentro, sembrava aver smesso di correre. C’erano ancora le patatine su un tavolo basso, tra il divano e la televisione. Ne presi una: da quanto non ne mangiavo?

Sputai a terra il boccone: sapeva di cenere. Ormai la polvere aveva contaminato anche il cibo. Non mi avevano ucciso le bombe e, iniziai a temere, mi avrebbe fatto morire quella polvere. Se fosse stato così avrei prima dovuto mettere in salvo Amal.

Il resto delle patatine cadde di fianco all’uomo. Feci attenzione a non calpestare la carne e aprii la porta che conduceva in un’altra zona della casa.

Il corridoio interno era buio. Ero costretta a procedere a tastoni. Sulla destra trovai una maniglia fredda. La tirai giù e un po’ di sole filtrò da una persiana di legno leggermente aperta. La prima cosa che vidi fu un carillon: non girava, non suonava più. Poi vidi il cadavere sul letto. La ballerina era rimasta immobile, forse già da tempo, o forse nel momento esatto della prima esplosione. Il suo tulle era ancora bianco: era il primo oggetto ad aver conservato il suo candore su cui si fossero posati i miei occhi negli ultimi mesi.

La avvicinai al raggio di luce e sfiorai il suo vestito.

Tornai la bambina che ero, per un momento.

Quanto tempo era trascorso? Quanto ero rimasta nella cameretta a osservare il carillon e la bambina che ne era stata proprietaria? Aida, a giudicare dal nome scritto sulla parete sopra il letto. Colei che torna. Ma non sarebbe tornata. Non sarebbe tornato nessuno. Erano tutti morti. Soltanto morti.

Afferrai il carillon e lo misi nello zaino. Aida mi avrebbe perdonato, pensai. In fondo non era per me. Era un regalo. Spalancati verso il soffitto c’erano i suoi occhi. Incapaci di piangere. Incapaci di vedere. Occhi ciechi. Sarebbero rimasti così per sempre? Quel pensiero era insopportabile.

Di tanto in tanto sogno ancora quei grandi occhi. Spalancati. Sul niente. Sul buio. Un buio eterno. Allora, mi dico, immagino di dirle, continua a dormire, Aida.

Lo zaino adesso era pieno: provviste, qualche abito, il solito binocolo. Il regalo per Amal. Sarebbe stata felice. Avrei fatto di tutto per vederla sorridere. Per vederla sognare, ancora, come facevamo entrambe prima della grande pioggia di cenere.

Il vento aveva concesso una tregua. Si alzava soprattutto di notte. O quando stava per cambiare il tempo. Mentre mi avvicinavo alla buca sentivo che qualcosa non andava. La notte stava arrivando e non c’erano nemici intorno. Era un posto sicuro. Perché quel terrore?

«Amal?».

La chiamai sottovoce, quasi per non svegliarla.

«Amal? AMAL?!».

Girai intorno all’ingresso della buca e realizzai che era vuota.

Amal non c’era più.

La coperta grigia era rimasta a terra, tra la polvere e i disegni. Sì, Amal aveva raccolto uno stecco e disegnato. Aveva reso l’attesa meno pesante, ma non era bastato.

Solo allora notai delle impronte. Impronte di passi, passi di bambina e di qualcuno più grande, impossibile dire di quanto. Non sembravano lontani gli uni dagli altri: procedevano a distanza costante sulla cenere, almeno fino a dove riuscivo a vedere.

E mi misi a seguire le tracce, mentre il vento si alzava e quella notte, sì, faceva freddo. Minacciava di cadere altra polvere e dovevo fare in fretta, prima che le orme fossero cancellate. E con esse, la speranza di ritrovare Amal.

Cercai di capire, guardai dappertutto. Dopo un’ora di cammino le due file di impronte erano diventate una sola. I piedi erano quelli più grandi. Nessuna traccia di quelli di Amal.

Osservai meglio, con più attenzione: sembravano trascinarsi. Inciampare. Le impronte erano più profonde. Il solco, nella cenere, più marcato.

Non c’era traccia di sangue. Nessuna macchia rossa intorno a quelle orme.

Cosa era successo ad Amal? L’avevano presa in braccio?

Amal stava morendo.

Stavamo morendo. Perché la cenere continuava a entrare dalla pelle e dalle narici. La sentivo. Percorreva tutto il corpo scorrendo nelle vene. La polvere stava rendendo tutto grigio. Sì, era il grigio il colore della morte.

Ma Amal stava morendo un po’ di più. Non riusciva a camminare per troppo tempo. Faceva fatica anche a respirare. E allora doveva aprire la bocca, e respirare con quella. Incamerare più aria. La stessa aria avvelenata.

Mi lasciai cadere sulle ginocchia, alzando cenere. Il vento cominciava a mulinare. E sembrava chiamare il mio nome. Il nome che neppure ricordavo, perché da tempo nessuno lo pronunciava. Ma chiamava me, ne ero certa.

E allora, con le ultime forze, seguii il vento. Non sapevo se mi avrebbe condotto alla morte, ma se non fossi più riuscita a trovare Amal tutta la mia vita avrebbe perso importanza.

C’era della musica. Non era una voce. Erano note. E io stavo seguendo quel suono, quasi ipnotizzata. Sapevo che mi avrebbe portato da lei. Era una delle canzoni che le avevo insegnato da quando ero diventata sua madre, quella che cantavamo sempre, quando una delle due era stanca o triste. Ci faceva sentire meno sole, più unite.

Il vento l’aveva portata, leggera come un soffio, a chilometri di distanza. È incredibile quanto viaggi il suono, nella notte, nel buio, nel deserto grigio di cenere.

Raggiunsi la capanna, messa su con le macerie di mattoni e di ferro, alla periferia della città fantasma. Tutte le città, ormai, erano così. Tutte le città. E tutti noi. Spettri. Scheletri. Senza vita.

La musica, dentro, era davvero forte. Me ne accorsi prima di aprire la porta. Nella capanna c’era odore di chiuso. E di cenere. L’odore della cenere era ovunque.

Il giorno era vicino e nella stanza iniziava a filtrare la luce dell’alba.

Su un tavolo, di fronte a me, c’era una lenzuolo bianco. Gonfio.

Sotto c’era qualcuno, qualcuno di piccolo.

Ne alzai un margine e guardai sotto. La vidi.

Amal, con la sua bocca a cuore colorata di grigio. E la pelle, dura, fredda, anch’essa d’argento. E i capelli, i vestiti, tutto era così. Sotto una nuvola bianca, c’era il corpo, il cadavere grigio di Amal.

Prima di piangere portai lo zaino in avanti ed estrassi il carillon, quello che non avrei più potuto donarle. Lo lasciai lì, un’altra macchia candida vicino alla coperta. Lo lasciai aperto, illudendomi che potesse vederlo, ovunque fosse.

Dietro di me sentii dei passi.

E quando mi voltai, vidi uno come me. Un ragazzo, intendo. Appena poco più di un bambino. Aveva una sciarpa a coprirgli il naso e la bocca. I suoi capelli erano grigi.

«La conoscevi?», mi chiese.

«Chi sei?».

«Adham».

«Cosa le hai fatto?».

Senza accorgermene mi ritrovai a pochi passi da lui. Stavo urlando, piangendo. Sentivo che le vene della mia testa erano sul punto di esplodere.

Sì, un’esplosione di sangue e cenere.

«Mi dispiace. Non sono riuscito a salvarla...».

«Non ti credo».

«L’ho trovata nella buca, sola. Era quasi svenuta».

Era il senso di colpa quello che sentivo? Quella fitta che mi trapassava in due il centro del petto, leggermente a sinistra?

«Ha camminato per un po’, poi non ce l’ha più fatta. L’ho portata in braccio fino a qui».

Non volevo più ascoltarlo.

«Non ti credo».

«Quando si è svegliata mi ha chiesto se fossi il suo nuovo papà».

E dubitai, per un istante. Pensai che potesse essere sincero.

No, non poteva.

L’aveva fatta morire. E avrebbe ucciso anche me.

«Non ti credo».

Infilai la mano destra in tasca e impugnai il coltellino.

«Mi dispiace per quello che è successo...».

Ma i suoi occhi non piangevano. Erano freddi, di pietra. Grigi. Come la cenere.

«Ti prego, non farlo...».

Ma io avevo già deciso.

Lo colpii. Lo colpii finché non smise di muoversi. Di respirare.

Sono caduta nella cenere.

Ho tirato fuori il coltello.

Poi l’ho riposto.

Non sono riuscita a fare quello che dovevo.

La notte non è fredda. Stanotte non c’è neppure il vento.

Penso che ad Amal sarebbe piaciuta.

E allora mi alzo e continuo a camminare.

In questo deserto di polvere grigia.