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Margherita Solani - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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Pietrasanta, 23/12/2017

stazione, ore 12:31

Ti ho notato da dietro il vetro, mentre il treno frenava in arrivo alla stazione di Pietrasanta. L'orologio a lancette, come ce ne sono a decorare ogni stazione, persino la più piccola, del territorio italiano, testimoniava un ritardo di cinque minuti. Come mio solito. Mi sono infilata il cappotto, quello rosso al ginocchio, lo stesso del nostro primo incontro, e un uomo mi ha aiutato con la valigia. Mentre la tirava giù ha sfiorato non troppo distrattamente il mio fondoschiena. Gli ho sorriso, immaginando quali pensieri ti stessero passando per la mente e godendo di ogni più piccola scintilla della tua rabbia. Che sentimento stupido la gelosia, non credi? Illudersi di possedere qualcuno al punto da sentirlo tuo, rivendicare il diritto di proprietà su una persona, su Margherita.

Ho sceso quei tre gradini sempre scortata dallo sconosciuto gentile e desideroso, che mi ha chiesto se avevo bisogno di un passaggio. Gli ho indicato un uomo fermo sulla banchina e ha capito. Eri lì, immobile, con le mani in tasca e lo sguardo di ghiaccio. Rilassati Antropologo, sono qui per te. Stretto nel tuo cappotto mi hai osservato mentre mi avvicinavo. Mi hai fissato negli occhi. Non hai distolto lo sguardo fino a che non sono stata a pochi centimetri da te e la tua bocca si è unita alla mia. Sono passati solo sette giorni? Anche per te sono stati lunghi quanto lo sono stati per me? Oserei dire di sì, seppur per motivi differenti. Mi hai travolto, sconvolgendo le mie abitudini e costringendomi a un'astinenza alla quale non sono abituata. Il mio letto piange, a ogni invito rileggo le tue parole: dovrò essere il solo, e rivedo le tue teche che mi ricordano la fedeltà. Dalla tasca ho sfilato la cintura della vestaglia di seta blu che mi hai regalato e ti ho chiesto di legarmi i capelli. Mi sono voltata e ho chiuso gli occhi. Mentre le tue mani sfioravano il mio collo ho rivissuto quella sera a Firenze, tu che lo scioglievi e io che immaginavo che uomo fossi: i tuoi capelli, se avessi la barba o se ti fossi ripulito a dovere per la tua prima volta, per me. Non desideravo altro che fuggire da quei binari, diretti a casa tua per perderci l'uno nell'altro. Con una mano hai afferrato la mia valigia e con l'altra hai preso la mia, di mano: «Andiamo, Margherita».

Dove, Antropologo? Avrei voluto chiederti. Non l'ho fatto. Ho lasciato che fossi tu a guidare il nostro incontro. Tornerai, mi avevi scritto, non ti farò male. Baciami, Antropologo, baciami ancora. Nel parcheggio siamo rimasti attaccati ignorando le persone che ci passavano accanto. Come la prima volta a Firenze, solo che a Pietrasanta c'era il sole e di nebbia nemmeno la minima traccia. Una giornata tersa, fredda. Hai preso confidenza. I tuoi gesti si sono fatti più sicuri. Le tue mani, così avide adesso da non temere confini. Hai aperto lo sportello e mi hai fatto sedere. Mi hai portato al mare, subito, prima di ogni altra cosa hai esaudito il tuo desiderio. E il mio.

Avevi prenotato in un ristorante sulla spiaggia, hai chiesto persino che mettessero uno dei loro lettini imbottiti al bordo della piscina vuota, con due coperte, così che potessimo sorseggiare il vino abbracciati guardando il mare. Hai bevuto per me, perché ogni promessa è debito. Forse un po' ti sta piacendo quella confortevole sensazione di torpore che nelle giuste dosi l'alcol sa dare, le inibizioni che piano piano spariscono e fanno emergere il lato più istintivo. Il cameriere ci ha scortato fino al tavolo, ha preso i soprabiti; vi siete detti qualcosa. Hai scostato la mia sedia con la tua solita galanteria. Non è stato necessario che mi preoccupassi di nulla, avevi studiato tutto nei minimi dettagli. Hai gusto, Antropologo, o forse abiti qui da sempre e sai cosa questi luoghi possano offrire. Ogni pietanza è stata accompagnata da un vino diverso, proprio come piace a me. Tutto delizioso. Non sono mancate le parole, non è mancato nemmeno Pietro nei nostri discorsi.

Non devi essere geloso di lui, è acqua passata. Non importa quanto lui provi a riavvicinarsi, o quanto sia abile nel comparire a sorpresa quando meno me lo aspetto. Abbiamo un accordo, adesso. Qualcosa di più.

«Cosa vuoi fare ora, Margherita?».

Ho preso la tua mano e ho rivolto il palmo verso l'alto. Ci ho scritto sopra le lettere del mio desiderio. Mi hai sfiorato la guancia, scendendo giù sul collo fino al nastro che pendeva dai miei capelli. Solo a quel punto ho parlato. «È ora che indossi di nuovo il tuo regalo, non credi?».

Hai sorriso. Non sorridi spesso, e hai annuito. Quando il cameriere ci ha servito i dolci hai chiesto il conto. Dopo aver pagato siamo usciti, ero certa che saremmo andati diretti all'auto e invece mi hai sorpreso di nuovo. Abbiamo camminato fino in fondo alla passerella. Premuta contro la ringhiera di quella strana rotonda, a palafitta sul mare, ho potuto godere della tua bocca e del calore del tuo corpo, stretto al mio. Non c'era nessuno questa volta, a parte noi due. Sentivo gli schizzi delle onde arrivarmi sulle gambe e pensavo che non c'era nulla da temere, il male che avresti potuto farmi non sarebbe stato nulla in confronto a quello che potevi offrirmi.

Arrivati a casa mi hai chiesto se volevo fare una doccia per togliere il freddo di dosso. Avevo in mente altro e sono andata in bagno a cambiarmi. Stessa vestaglia della prima volta, di nuovo solo quella. Avrei voluto chiederti subito della cantina e delle teche, ma mi hai sorpreso facendoti trovare lì, seduto su una sedia di fronte alla porta del bagno, quando l'ho aperta.

«Vieni qui, Margherita».

Le luci erano accese, questa volta, lo ricordo bene. C'era una bellissima lampada in salotto, una di quelle con il paralume enorme che scaldava l'ambiente. Hai slacciato la cinta della vestaglia e l'hai fatta scivolare a terra. Sono rimasta immobile di fronte a te. Ho goduto di ogni attimo in cui hai vacillato. Quando hai baciato la mia pancia, che ti piace tanto, quel lieve rigonfiamento proprio sotto l'ombelico, che ai tuoi occhi mi rende così sexy. L'eccitazione che solo il potere sa dare, il tuo desiderio per me.

Non pensavo che potesse essere così divertente avere in pugno un uomo. Di solito sono una brava giocatrice, tiro i dadi e via; pronta a cambiare tavolo. Cos'è che è diverso con te? Forse sei diverso tu, la tua voglia non si ferma alla necessità, no, si espande e mi avvolge fino a farmi godere del piacere di una replica, e di un'altra ancora.

Siamo rimasti a letto fino a ora di cena. Avevamo tutto il tempo per darci da fare, eppure abbiamo replicato subito. Poco dopo essere caduti esausti uno sull'altro nel tuo letto.

È qui che ha vissuto Adamo per quel breve periodo? La tua cavia n° 0. Il bambino che è riuscito a venire fuori dalla teca e a conquistare, giorno dopo giorno, sempre più spazio. L'hai lasciato libero e lui è tornato. È stato merito tuo, contro il tuo e il suo volere. È questo che stai facendo con me? È per questo motivo che sono qui?

Abbiamo fatto la doccia, questa volta te l'ho concessa. Hai accarezzato con la spugna ogni angolo del mio corpo e io ho fatto lo stesso con te. Il vapore era intriso dall'odore speziato del bagnoschiuma, e caldo l'accappatoio nel quale mi hai avvolto prima di lasciare che mi asciugassi nel suo abbraccio, e nel tuo.

Sei andato in cucina a preparare la cena e hai lasciato che finissi di sistemarmi, mi hai concesso la mia intimità. Te ne sono grata. Per te ho indossato di nuovo la vestaglia e mi sono seduta a tavola.

Il buon cibo e un ottimo vino sanno accompagnare alla perfezione le chiacchiere. Abbiamo parlato a lungo del nostro progetto insieme, di come poter continuare i nostri esperimenti. Lo sapevo che la mia avversione verso il genere umano si sarebbe sposata alla perfezione con la tua inclinazione allo studio della sua natura.

È stato allora che mi hai condotto in cantina tra le tue teche.

Dentro quegli enormi cubi di vetro rinchiudevi i tuoi topolini. Li portavi via dalle loro tane e osservavi il loro comportamento per giorni, fino all'esalazione del loro ultimo respiro. Hai un giardino sufficientemente ampio nel quale regalare loro un posto in cui riposare in eterno. Troppo grandi per cibare i tuoi gatti. Fino ad Adamo, il bambino che amava disegnare. Avevi comprato anche degli acquerelli per lui. Perché lui era diverso. Aveva visto in te qualcosa di simile a quello che ho visto io, e aveva imparato ad amarti. Ho potuto vedere quello che agli altri tieni nascosto: il buio nel quale volevi che ci immergessimo per la tua prima volta. Adesso chi di noi due deve avere paura? Non ci sono coltelli qui, sei in salvo.

Mi hai condotto nella teca che è stata di Adamo e su quel pavimento abbiamo fatto quello che piace a me. Scomodi ed eccitati, a luci spente ci siamo spinti in fondo alla tua anima e abbiamo goduto della libertà di non avere segreti. Ti sei sciolto dall'abbraccio per cercare l'interruttore. Al primo clic la luce non si accesa. È successo al secondo tentativo e ti ho visto, al di là del vetro.

Ho spinto, ma non si è mosso. Non ci sono maniglie all'interno della teca. Mi hai sorriso, da fuori, una luce diversa illuminava i tuoi occhi. Non farmi male, Antropologo, me l'avevi promesso. Tu le promesse le mantieni. Non si può cambiare la propria natura, questo lo so. Apri la porta, ti prego, non salire quelle scale da solo. Hai accesso una telecamera, l'ho capito dalla lucina rossa che ha iniziato a lampeggiare. Ti sei dato una sistemata. Hai appoggiato il palmo della mano sul vetro, dove io avevo il mio.

«Buonanotte, Margherita».

Non andartene.

Mi hai lasciato lì, da sola, con addosso soltanto la vestaglia.

Memento I

Il tempo di mettere a posto la cucina e sarai di nuovo da me, Antropologo. Mi farò desiderare un po' quando aprirai questa porta. Giocare è pane per i miei denti. Farò finta di rimettere le mie cose dentro alla valigia, pronta a ripartire, nel bel mezzo della notte. Tu che cerchi di trattenermi, che mi preghi di restare e io che vado verso la porta con già il mio cappotto addosso. La vestaglia abbandonata sopra una sedia. Chiara intenzione di non rimettere più piede in casa tua e di non rivedersi tanto presto. Un po' di sofferenza, non troppa, non sono poi così cattiva. Solo l'intento di farti provare di nuovo quel senso di solitudine che adesso forse per te è lontano. Non siamo a distanza di sicurezza dalle nostre debolezze. Questo dovresti saperlo meglio di chiunque altro.

È come essere dentro a un grande ninnolo natalizio. Queste pareti di vetro sono davvero molto alte, troppo per essere scavalcate. Tutti ambienti vuoti, per terra solo cemento. Le tenevi così le tue cavie, o davi loro qualcosa con cui intrattenersi durante la prigionia? Il pavimento è freddo, impossibile in questa stagione sdraiarsi per dormire. Era questa la loro tortura durante i mesi invernali, cercare di restare svegli il più a lungo possibile per non morire di freddo? Chissà come facevano quando dovevano andare in bagno, forse eri clemente con loro e al momento dei pasti concedevi una breve gita di sopra. No, non hai mai parlato di cibo. Di acqua sì. Ricordo i primi topi, i primi bambini, sette. Insieme e poi separati in gruppi. La prima perdita, e le conseguenti altre. La sepoltura in giardino, i tuoi gatti. Fine dell'esperimento e sei passato a quello dopo.

Memento II

Dovresti aver finito ormai di riordinare. Chissà perché ci stai mettendo così tanto a tornare da me. Vieni a prendermi, Antropologo, prometto che farò la brava. Niente finte questa volta, lo giuro. Salirò quelle scale con te e ci metteremo sul divano a parlare, oppure nel letto, a fare quello che più ci piace. Magari mi stai preparando una sorpresa. Stai cambiando le lenzuola pensando a un bagno caldo, oppure hai scelto una musica di sottofondo e stai versando del brandy nei bicchieri, pronti ad accogliermi, tra pochi minuti. Forse ti sei messo un attimo al pc e stai chattando con qualcuno, o stai pubblicando i risultati dei tuoi ultimi studi.

Inizia a fare freddo qui, e sono stanca di stare in piedi. Non c'è nemmeno nessuno con cui parlare. Ho provato a gridare sperando che là in fondo, in quell'angolo, il buio nascondesse una presenza, qualcuno che mi potesse fare compagnia. Ti sentivi così, vero, prima che arrivassi io? Stai godendo dei miei lamenti, ora? È bello essere potenti, avere la certezza del dominio assoluto sull'altro. Tu lassù che cammini sopra la mia testa; ascolto i tuoi passi cercando di capire i tuoi movimenti. Il gioco è bello finché dura poco. Ho capito la lezione, Antropologo, non c'è bisogno che mi tratti come fossi un topo. Sono Margherita, quella Margherita.    

Memento III

Mi fanno male le mani. A forza di battere sul vetro finirò per lussarmi qualcosa. Cazzo, Antropologo, liberami! Cosa vuoi farmi, eh? Vuoi farmi restare qui tutta la notte, o forse giorni, vuoi studiarmi, è questo che vuoi? Mi stai forse dicendo che sono una delle tue cavie, sì, uno di quei dannatissimi topi che hai lasciato morire di stenti? Se speri che come Adamo, quando potrò di nuovo essere fuori di qui, starò buona nella tua stanza in attesa di un tuo cenno, o a mendicare un tuo regalo, te lo puoi proprio scordare. Me ne andrò, ecco cosa farò, tornerò da dove sono venuta e ci resterò per sempre. Non posso nemmeno denunciarti. Non ho paura di morire, razza di psicopatico, non voglio finire in galera! Io so quello che hai fatto e tu sai quello che ho fatto io. Potremmo accordarci e stringerci la mano da buoni amici. Che ne dici, non ti sembra una buona idea? Ottima, ottima.

Quando mi hai chiesto se volevo vederle da dentro o da fuori, le tue teche, e io ti ho detto che ti avrei lasciato la scelta, che sapevo i rischi che correvo, non credevo che avresti avuto il coraggio di farlo sul serio. È da sempre che mi studi, vero? Sin dal primo istante hai tenuto il tuo sguardo puntato su di me in attesa che arrivasse il momento adatto per colpire. Affondata, Antropologo, hai centrato il bersaglio. Portami almeno una coperta, per favore, affacciati, chiedimi se va tutto bene. Fammi capire che non sono come quei bambini. Concedimi almeno di essere Adamo.

Memento IV

Nessuna premura per la tua povera Margherita. Chissà che ore sono, non mi hai lasciato nemmeno l'orologio. È già mattina? Speriamo che aprendo gli occhi tu ti ricordi di me, di venirmi a liberare. Spero che tu mi dica che è stato uno scherzo, che ti sei addormentato contro la tua volontà ed è per questo che hai aspettato tanto. Ti svegli presto, Antropologo, non manca molto a uscire di qui; mi preparerai la colazione e mi riempirai di baci, io ti perdonerò e faremo l'amore fino a cadere esausti uno nelle braccia dell'altro.

È così che si è sentito Greg negli ultimi istanti della sua vita? Povero Gregorio, chiuso dentro quella cella frigorifera. L'hai fatto per farmi capire, per farmi provare quello che io ho fatto provare a lui. Un regalo. Poter gustare fino in fondo il piacere di infliggere sofferenza a chi si crede invincibile. Basta un attimo, una distrazione. Com'è successo a lui, e da carnefice per magia ti ritrovi vittima. No, riaccendila per favore, lasciami almeno la luce. Ti supplico, non mi serve dormire, voglio vedere, voglio restare vigile. Devo ricordare di essere qui, nella tua cantina. Lascia almeno che i miei occhi possano avere qualcosa su cui distrarsi. Sono prigioniera, sono tua Antropologo, sono tua.

Memento V

Sono lacrime, queste? Ho il viso bagnato, sento ancora più freddo adesso. Non lo so quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho pianto. Non me lo ricordo. Forse è stato quando sono morti i miei genitori, ero solo una bambina. Sei un uomo galante, Antropologo, fammi almeno andare in bagno. Ho bisogno di andare in bagno. Ho sete, Antropologo, non ce la faccio più a urlare. Mi fa male la gola, le mie gambe hanno ceduto. Il pavimento è freddo. Mi fa male anche la testa. Il cranio è duro e per quanto abbia sbattuto la fronte contro il vetro non sono svenuta. Accadrà presto se non mi darai qualcosa da mangiare. Ho fame.

Non voglio più tornare a casa. Ti prometto che resterò qui con te, povero, dolce assassino. Uccideremo insieme Pietro, così lui non sarà più un problema. Non mi importa di lui, non mi è mai importato nulla. Può tornare da me tutte le volte che vuole, io non sarò mai sua. Voglio te, Antropologo, ancora non l'hai capito? Cos'altro devo fare? Amami, Antropologo, non chiedo altro. Ma tu non mi farai uscire, vero? Morirò qui, con addosso soltanto la vestaglia che mi hai regalato. Dovrei ridere in vece di piangere. Che ironia, morire nei propri panni. Sei un uomo abile, è per questo che mi piaci. Va bene così, Andrea, hai vinto tu.

Clic. La luce si è accesa. Clic. La telecamera non lampeggia più. Ho sentito le tue braccia, mi hanno cinto da dietro e mi hanno sollevato da terra.

«Che ore sono?».

«È da poco passata la mezzanotte».

«Scorre così lento il tempo senza riferimenti...».

Mi hai preso in braccio. Mi hai portato su e mi hai avvolto in una coperta. Lasciandomi sul divano, sei andato in cucina e mi hai portato una tazza di tè bollente. Ti sei seduto di fianco a me e mi hai abbracciato. Ti ho guardato e tu mi hai sorriso, questa volta con dolcezza. Hai aspettato che smettessi di tremare e mi hai lasciato andare in bagno. Mi sono sciacquata il viso e ho risistemato il trucco. Quando sono tornata avevi gli occhi chiusi, la nuca appoggiata alla spalliera. Sono rimasta immobile, in piedi di fronte a te per qualche secondo. Hai allungato la mano e hai sciolto il nodo della cinta. Ti sei alzato per legarmi i capelli e scoprirmi le spalle, lasciando scivolare la seta sul pavimento. I tuoi gesti erano sicuri, forti della conquista appena ottenuta. Mi hai fatto chiudere gli occhi. Ho sentito qualcosa di freddo appoggiarsi al mio petto. Un ciondolo. Il mio regalo di Natale. Come lo sai che mi piacciono i gioielli? Non ne sbagli una, Antropologo. Un diamante: simbolo di purezza, resistenza, unione, perfezione, amore eterno. Ti ho ringraziato, nel modo in cui può far piacere a un uomo. A te, Andrea. Mi hai aperto gli occhi. Siamo andati a letto e ci siamo addormentati abbracciati.

«Domani riguarderemo il video, insieme,» hai sussurrato.