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Vincenzo Datteo - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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L’AMORE È MANNAGGIACRISTO

 

Come ogni giorno ti ritrovi a fare le stesse e identiche cose: alzarti presto, menare due bestemmie, portare il cane a pisciare, buttare l’immondizia. Poi capita un lunedì, che no, non ci vai in ufficio, ma solo perché la spia dell’olio ti supplica di portare l’auto dal meccanico. Allora chiami Matteo, il meccanico di fiducia, si dai portamela che facciamo subito. Esci di casa e anche se sei grigio dentro scopri che fuori è primavera.

Matteo è un tipo che definiresti, come si dice, alternativo. Ha il pizzetto biondo, tatuaggi a vista, piercing dappertutto, capelli rasati a zero sopra la classica tuta da lavoro. Voleva fare il pittore, poi un giorno suo padre, innamoratissimo della famiglia, dice che va a comprare le sigarette e gli lascia una madre con una rotella fuori posto, l’officina piena di debiti e un fratello tossico.

«Tra quando?».

«Ripassa tra un paio d’ore».

Eppure aveva detto che faceva subito.

Gli consegni l’auto con le chiavi all’interno. L’aria è ancora troppo fresca e desideri tanto un buon caffè. Le strade da percorrere sono due. O fai a ritroso quella da cui sei venuto, oppure prosegui dritto. Non l’hai mai fatta quella via. Non hai voglia di rifare la stessa e quindi decidi per la seconda. Te ne vai con le mani in tasca pensando ai fatti tuoi: bollette, altre settanta euro che dovrai sborsare da lì a un paio d’ore, tua moglie che ieri t’ha fatto un cazziatone senza un apparente motivo. Anche quello è amore, dicono. Sarà. Speri che lungo quel percorso possa esserci un bar.

Poca gente in giro, troppo presto, o forse già tutti a guadagnarsi la pagnotta. Belli questi alberi, queste piante, questa pista ciclabile. Esiste una pista ciclabile in paese?

Percorri la pista, stranamente integra e pulita, così pulita che non c’è nemmeno una cicca di sigaretta.

Cammini veloce, sempre con quel bisogno di caffè che non ti abbandona mai, adesso unito a quello di una sigaretta. Senza accorgertene ti ritrovi all’interno di un tunnel, una specie di galleria. Che ci passa sopra? Binari, autostrada, filobus? Ti sembra di essere altrove, entrato in una dimensione parallela. Senti freddo lì dentro. Ti aggiusti il colletto del giubbotto.

L’eco dei tuoi passi rimbomba nelle orecchie e rallenti perché hai paura di fare troppo rumore. A metà del percorso ti viene un po’ d’angoscia: sei da solo in un buco del mondo, se qualcuno volesse farti del male, o rapinarti non potresti far nulla. Per fortuna non hai l’aria di uno che valga la pena derubare; delle cento euro che hai in tasca il settanta percento è già impegnata. È tra questi lugubri e idioti pensieri che ti accorgi che lì dentro non sei solo. Nel silenzio dei tuoi passi fermi, la vita pullula. Non è esistenza fisica, reale. Cioè, non lo è, ma lo è. Pullula di pensieri, idee, emozioni. Si fanno strada con prepotenza, tra graffiti e murales. La luce arranca tra l’entrata e l’uscita della galleria, ma le pareti colorate si riescono a vedere benissimo. Disegni grandiosi, simboli politici, scritte volgari, oscenità, idiozie. Realizzi finalmente di non trovarti in un luogo inventato, quella galleria esiste davvero e forse eri il solo che non la conosceva: centinaia di mani, occhi e menti sono transitate lì dentro; e hanno sofferto, gioito, cazzeggiato, inneggiato al Milan fino a creare un intero unico dipinto. Una scritta che entra dentro un disegno, un paesaggio che si fonde con delle frasi. E allora torni indietro per vedere se quell’immensa opera d’arte comincia dall’inizio della galleria, hai voglia di leggere tutto, di capire cosa ha portato quei ragazzi – chi dice che siano per forza solo ragazzi – a scrivere, a disegnare quello che i tuoi occhi affamati stanno divorando. Juve merda, Marina ha la fica larga, Girasole duemilacinque – duemilacinque? – la Brigata degli invalidi. E continui a camminare, abbagliato da quelle firme, da quegli insulti, da quei messaggi. Ma a un certo punto ti fermi, tiri fuori le mani dalle tasche, lanci un fischio e ammiri degli autentici capolavori. Il volto di Joker, una ragazza assorta nella lettura di un libro, due mani che si incontrano, il viso di John Lennon, il bacio di due uomini. Sei così sconvolto dalla loro esplosiva realtà che l’indice dello Zio Sam sembra che ti stia toccando il petto. Non riesci a staccare gli occhi da quelle immagini, non hai più voglia neanche del caffè. Per un attimo ti viene in mente che, all’interno di una mostra d’arte moderna, per ammirare molto meno avresti dovuto pagare.

Riprendi a muoverti senza guardare dove metti i piedi perché non ti interessa di pestare una merda e perché sei sicuro che merde lì dentro non ce ne sono. Continui a sgranare gli occhi e a leggere i graffiti: l’indifferenza uccide ogni giorno, Never back down, l’amore è mannaggiacristo.

Ti fermi di nuovo. Non riesci a crederci. Cazzo, di tutti quei capolavori, il più orribile, scritto da mano tremula, con un pennarello nero su altri disegni, è quello più grandioso di tutti.  

L’amore è mannaggiacristo.

Ti viene in mente che alle medie, al liceo, all’università, in casa, con gli amici, con le ragazze, con tua moglie, la domanda che più ti ha tormentato, che ti ha colto in fallo, a cui ogni volta hai dato risposte vaghe era sempre la stessa.

Che cos’è per te l’amore?

Pensavi che alla soglia dei quaranta non saresti mai riuscito non solo a rispondere a quella domanda, ma anche a cogliere un significato che si avvicinasse pur vagamente a quello reale, o almeno a quello che tu ritieni essere quel valore, e adesso lì, davanti ai tuoi occhi, in un giorno qualsiasi, uno sconosciuto dalla grafia incerta ti ha regalato la risposta alla domanda eterna.

Ti sembra di aver scoperto il Santo Graal. Quella frase, scritta male, ha colto nel segno anni di delusioni, gioie, tormenti, farfalle, rabbia, sorrisi e lacrime. E serotonina.

L’amore è mannaggiacristo. Spettacolare.

Rimani lì a lungo ricordando tempi passati e recenti che si fondono tra loro, proprio come stanno facendo quei colori davanti ai tuoi occhi, quei segni, quelle immagini. Si scompongono e ricompongono come materia in balia delle emozioni.

Quando ti riprendi dal viaggio nel tempo decidi di proseguire. Continui a vedere altri disegni ma non ti affascinano più come prima. Per te, che hai scoperto la verità, nulla ha più senso. Pensi solo a quella frase. E ti riassale il desiderio di caffè. Mentre punti diretto verso l’uscita colpisci qualcosa con il piede e vedi volar via un oggetto leggero. Si ferma a qualche metro davanti a te. Lo raggiungi, ti chini e lo raccogli. È un pennarello nero. Togli il tappo, annusi un vago odore di solvente e con aria furtiva fai uno sforzo: vuoi scrivere una frase a effetto, una di quelle citazioni che ti lasciano in silenzio a pensare. Alla fine non ti esce niente, un po’ perché non sei il tipo da aforismi, un po’ perché dopo quella frase tutto ti sembra banale.

Allora fai uno scarabocchio con le tue iniziali e passa la paura.

L’inchiostro e il tratto sembrano gli stessi della frase illuminante. Forse lo ha perso il tizio che l’ha scritta da poco. Chiudi il tappo e lo infili in tasca, senza motivo, o forse solo perché ti dispiace ributtarlo a terra. Riprendi il cammino con la testa che ti fa male e il cuore che batte.

All’uscita dal tunnel la luce del sole ti colpisce in pieno. Ti viene in mente quella canzone di Capareza, ti piaceva così tanto. Continui il tuo percorso e scopri che da questa parte del paese ci sono belle villette, un campo da calcio e un fiume.

Cristo, c’è un fiume!

Qualcuno fa jogging, qualcun altro va in bici, una coppia passeggia mano nella mano. Chissà se hanno visto anche loro quello che hai visto tu. Sembra che non finisca mai questa pista ciclabile e già pensi al ritorno, alla tua scoperta e alla voglia di dirlo a qualcuno, magari a tua moglie; dirle che nonostante tutto… Ma forse, chissà perché, sai che non la prenderà bene.

Un vecchio è appoggiato al cornicione, sotto c’è il fiume. Sembra pensieroso e assorto. Ha il busto sporto in avanti, i gomiti che fanno da leva, le mani incrociate come se pregasse. Deve essere stato un bell’uomo: spalle larghe, capelli folti, taglio dell’occhio espressivo e profondo. Gli passi vicino, troppo, al punto da notare le mani grosse, senza unghie e segnate da tracce nere.

Lo superi e ti convinci di aver fantasticato, anche se ne sei fottutamente sicuro. Fai ancora qualche passo, ma è più forte di te. Non riesci più a proseguire, a comandare le tue gambe. Ti fermi, proprio nel bel mezzo della pista e porti una mano sul capo, grattandotelo. Ti volti appena, incerto. Sta guardando altrove, in un punto che sa vedere solo lui. Pensi che ti stai rincoglionendo, che stai diventando paranoico, che in fondo è soltanto una cazzo di frase buttata lì. Riprendi a camminare. Niente, non è così. Lo sai e cominci a scalpitare. Hai davanti l’autore di quella verità assoluta e tu lo stai trascurando senza fargli nemmeno una domanda, senza sapere neanche il perché.

È come se trovassi Leonardo da Vinci e non gli chiedessi del sorriso ambiguo della Gioconda.

Sbuffi, vuoi sapere, ma non sei il tipo che rompe i coglioni alla gente; soprattutto a uno più grande di te. Soprattutto a un genio. Ti fai forza, ti impunti, e pensi che farai uno strappo alla regola. In fondo è un giorno speciale, in barba a quelli tutti uguali, senza sapore né di carne, né di pesce, e alla fine torni indietro.        

«Scusi!».

Lui non si gira. Non ti caga di striscio. Pensi che stai facendo una figura di merda, ma anche che nessuno se ne è accorto e hai tutto il tempo per ritornare sui tuoi passi, ma non lo fai. Ormai ci sei entrato dentro e l’acqua ti sta toccando i polpacci. Un passo in più e sei arrivato quasi alla cintola. Fanculo se l’acqua è fredda.

«Scusi!».

Alzi la voce di un paio di tonalità facendo uscire un suono non tuo, troppo acuto. Ti viene da rabbrividire e pensi che neanche questa volta, nonostante tutto, ti abbia sentito.

Il vecchio rimane così, nella stessa posizione. Sembra una statua. Poi gira il capo lentamente verso sinistra come se avesse sentito un fruscio, troppo lentamente. Ti punta gli occhi addosso con quel colore limpido e cristallino che solo il mare d’estate sa eguagliare. Ti senti come uno che sta sulle rotaie abbagliato dai fari della locomotiva.

«Dice a me?».

Ci siete solo voi due.

«Credo che questo le appartenga».

Lui sposta lo sguardo, dai miei occhi all’oggetto che ho in mano; poi ritorna a guardare quel suo punto disperso altrove.

«Non è mio».

Rimani in silenzio, perplesso, con quello stupido pennarello in mano e con le tue idee idiote. Quando te ne stai andando senti un movimento alle tue spalle, e una voce più morbida e accogliente di quella di prima.

«Le va un caffè?».

Venti minuti dopo ti ritrovi al tavolino di un bar, quel bar che cercavi tanto e che era nascosto in una stradicciola appena visibile, con la tua bevanda fumante e un perfetto sconosciuto. E te ne freghi di tutto il resto: delle tasse da pagare, dell’appuntamento col dentista, della spesa da fare. Te ne freghi anche dei settanta euro che dovrai scucire al meccanico. Sorseggi caffè e fumi tabacco di seconda scelta. E ascolti quel vecchio che ti sta svelando il sorriso di Monnalisa.