Matteo Pieri - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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La dispensa del vampiro

 

Suonò il campanello nel tardo pomeriggio di una domenica. Andai ad aprire pensando che fosse mio zio e invece mi trovai davanti lei, così gracile e pallida, ma così adulta nell’espressione. La mia sorpresa dovette essere buffa perché sorrise. Ci fu un attimo di silenzio e mio padre si affacciò per controllare; era venuta per il campo in vendita, aveva letto l’annuncio in paese. Mio padre la invitò a entrare, per sedersi con noi a tavola e parlare con calma, ma lei volle restare fuori. Trattavano sul prezzo stando in piedi sulla porta d’ingresso. La vedevo appena, mio padre la copriva quasi completamente. Quando tirò fuori un rotolo di banconote la trattativa si concluse.

Non aspettò nemmeno di firmare il contratto. Sistemò la roulotte in fondo al campo di granturco, in modo che due alberi la proteggessero almeno in parte. Mia madre si arrabbiò molto con papà. Si lamentava del fatto che avremmo avuto una sconosciuta accanto casa. Lui cercava di spiegarle che era stata una vera fortuna, perché nessuno avrebbe mai comprato quel campo isolato se non il proprietario dei terreni vicini, e quello avrebbe atteso per comprarsi tutto quanto, compresa la casa, mentre quella ragazza strana e la sua roulotte avevano fruttato una buona somma. Ma credo che fosse proprio quello il problema: era una ragazza strana, e sola.

Non ho mai visto nessuno con lei. E da allora io non l’ho persa di vista quasi mai.

Non credo che a lei interessi; voglio dire, sa che io la guardo, ma non le interessa. Devo stare attento invece ai miei.

Quella prima domenica presi il binocolo di mio zio e mi piazzai alla finestra di camera. Non vedevo quasi niente, perché era buio e la roulotte era coperta dai meli, ma alle quattro di notte riconobbi la sua ombra muoversi nel campo. In quel momento non riuscii a capire cosa stesse facendo, ma ripeté quel rituale nelle notti seguenti. Ho imparato a distinguere la sagoma scura del suo corpo e quella degli attrezzi. Usciva nel pieno della notte e si metteva a scavare. Lavorava la terra. Si è fatta un bell’orto con una piccola serra. Di giorno a volte fermava mio padre per chiedere consiglio sull’innesto delle piante, sull’esposizione al sole e sugli attrezzi. Teneva sempre il cappuccio in testa, soprattutto quando c’era il sole. Altre volte saliva in macchina e spariva fino a sera. Anche adesso, le poche volte che esce di giorno è sempre nascosta sotto il cappuccio.

All’alba si chiude in roulotte e resta lì dentro tutto il giorno. Allora io mi avvicino, salgo sul melo e la guardo dall’oblò. Sta sempre a studiare. A volte legge dei libri, altre volte un quaderno.

Una sera si è seduta al tavolo e si è messa a copiare le parole di quel quaderno su un altro quaderno. Poi lo ha chiuso, ha raccolto le ginocchia al petto ed è rimasta ferma per qualche minuto.

Forse due, forse dieci. Si è alzata, ha indossato i pantaloni e gli scarponcini. Il sole era tramontato già da tempo e sapevo che sarebbe uscita. Mi sono infilato sotto la roulotte trattenendo il respiro. La notte era ferma. Non c’erano aliti di vento o scricchiolii animali. Lei ha indossato un guanto, uno solo, e si è incamminata. La luna alta era quasi piena. Vedevo i suoi passi allontanarsi e i contorni ortogonali della terra dissodata. Dieci metri per cinque. La base del suo tempio notturno.

Si è accucciata all’angolo e ha afferrato un ciuffo d’erba che insidiava la coltivazione. Lo ha strappato ed è passata al successivo. Poi si è avvicinata alle insalate. Si è fermata ad accarezzare le foglie della lattuga, grassa e aperta. Era pronta, era la sua prima raccolta; presto lo sarebbero stati anche i ravanelli, le carote e i pomodori, quasi rossi. Ha proseguito su tutti i lati dell’orto estirpando le erbacce, poi ha afferrato il cesto di lattuga più grande e lo ha staccato. Lo ha portato in casa, ha acceso la radio su un programma musicale e si è messa a lavare l’insalata foglia per foglia. È stata la prima volta che l’ho vista preparare qualcosa da mangiare. Con un coltello ha tagliato una decina di foglie in strisce sottili, le ha messe in un piatto e le ha condite con olio, sale e aceto di mele. Si è seduta a tavola con un bicchiere di acqua e le posate. Ha guardato il quaderno appoggiato sul tavolo. Ha infilato la forchetta in un ciuffo di insalata, ha chiuso gli occhi e l’ha messo in bocca. Masticava lentamente e digrignava i denti. Con una mano davanti alle labbra tese ha trattenuto il boccone e ha inghiottito. Tossiva e scuoteva la testa. Poi ha respirato, ha guardato di nuovo il quaderno e ha preso un altro ciuffo di insalata. Lo ha spinto in bocca come se fosse acido, e così ha fatto con il terzo e il quarto. Aveva il naso arrossato e gli occhi lucidi. Inghiottiva e le lacrime le solcavano il viso. Svuotato il piatto è corsa in bagno. L’ho sentita tossire e trattenere i conati, e quando è uscita ha preso il quaderno e si è infilata di nuovo a letto. A quel punto sono andato anche io a dormire qualche ora.

Nei giorni seguenti quella scena si è ripetuta. Sempre peggio. Prende la verdura dall’orto, la lava e la cucina in tanti piatti diversi. Cuoce al vapore, alla brace; prepara stufati e pasticci di ogni tipo. Poi si mette a tavola, sempre da sola. Nelle sere più calde si accomoda nella veranda apparecchiando di tutto punto, con candele e stoviglie. Comincia a mangiare composta, ma mi accorgo che trattiene il dolore. Il cibo la fa contorcere. Mangia e poi continua a star male per ore, e si consuma. Quando era arrivata era già pallida, ma adesso stenta anche ad alzarsi.

Questa sera ha mangiato delle melanzane marinate e ora non fa che tossire. Non riesce a smettere e cade accanto al tavolo stringendosi la pancia. Resta immobile sul pavimento e lentamente la tosse si placa. Si siede di nuovo e finisce tutto. Beve. Poi si appoggia al tavolo e fa per alzarsi, ma le braccia non la sostengono e rotola ancora in terra. Non si muove, non tossisce nemmeno più. Scendo dall’albero, mi avvicino e la chiamo sottovoce. Non risponde. Allungo una mano ma appena la sfioro scatta in piedi e mi afferra la maglia. Ha gli occhi gialli e la bocca secca. Non sembra riconoscermi. Scuote la testa e corre in roulotte. Faccio un passo verso la porta, ma lei ha già chiuso la serratura. Mi guardo intorno, sembra tutto normale.

Prima che cominciasse a mangiare le verdure non stava così, sembra avvelenarsi giorno dopo giorno. Annuso il piatto, ma non trovo niente di strano. Sto per andarmene, quando lo vedo. Ha lasciato il quaderno sul tavolo. Mi guardo di nuovo intorno, non resisto.

Lo porto in camera e mi metto a leggere.

Ho venduto l’appartamento. Ho comprato una roulotte e un pezzo di terra. È una terra fertile e pianeggiante, me l’ha venduta un agricoltore che vive con la famiglia qua vicino. Il figlio mi spia ogni notte, da quando uscivo per dissodare il terreno.

Ho cominciato a lavorare la prima notte, quando ti ho portato qui.

Ho comprato dall’agricoltore una vanga, una zappa e un rastrello. Ho ordinato dei libri sulla cura della terra e la coltivazione. Ne ho comprati anche altri di cucina.

Ho tracciato un rettangolo nel campo e lì ho scavato cinque fila, smuovendo trenta centimetri di terra. L’ho seminata, l’ho concimata e l’ho innaffiata ogni mattina.

Sono passati due mesi. Ci ho messo due mesi a decifrare le tue parole. Adesso ne ricopio alcune qui. Riscriverle è come ricalcare i tuoi pensieri, rivivere il tempo con i tuoi occhi.

Mentre leggo guardo la roulotte in fondo al campo, dalla finestra. Quando si sveglierà cercherà il quaderno e capirà subito, ma non mi fermo. Sfoglio le pagine rapidamente, qui ha trascritto le parole di qualcuno:

“Ho adottato un canarino mannaro. Viene a trovarmi ogni giorno al calar del sole; si toglie il guscio, scioglie i veli e si avventa su di me. Io l’attendo come la terra fa con l’acqua. Ma come la terra, dell’acqua mi spoglio allo splendere del suo sole.

Trascorrerò con te ogni attimo che mi resta da vivere fin quando non mi prenderai.

Quando non staremo insieme io ti farò compagnia con le parole che lascerò in questo quaderno.

Non so che ore sono. Ti ho vista allontanarti dalla finestra e ho chiuso gli occhi.

Perché non mi hai svegliato? Da quanto tempo sei tornata?

Ho mangiato. Ho finito il pane e ho bevuto l’acqua. Ti sei seduta sul letto, mi hai accarezzato i capelli e io ho abbandonato la testa sul cuscino. Hai fatto scorrere la mano attorno all’orecchio e lungo il mio collo teso. I tuoi polpastrelli seguivano i contorni della macchia. Vedevo attraverso la tua pressione i grani viola e le tenui diffusioni che si allungano fino alla clavicola.

-Sei riuscito a scrivere? Mi hai chiesto.

-Poco.

Il quaderno era in terra accanto al letto. Lo hai raccolto e hai sfogliato due pagine.

La grafia ti è ancora incomprensibile. Mi sono sollevato sui gomiti e ti ho baciata al bordo della

bocca.

-Non hai sete? È tutto il giorno che ti aspetto.

La tua testa è scattata indietro come fai quando ne vorresti di più. Mi hai guardato e mi hai risposto che saremmo dovuti uscire, invece, perché mi avrebbe fatto bene.

Mi sono sfilato la maglietta. Altre rose pallide erano fiorite sulla pelle bianca. Una sulla spalla destra, una più ampia sul torace e una spunta dal pube per raggiungere quasi l’ombelico. Ti ho invitata.

-Perché torni qui? Non certo per passeggiare.

Ti sei piegata su di me. Il tuo piccolo naso mi sfiorava. Sentivo il tocco sugli ematomi dove ti fermavi per annusare, e attorno all’areola, dove si addensano i capillari. Poi hai seguito una vena attraverso le scapole e fino al bacino, sopra l’elastico dei pantaloni. Hai baciato il punto in cui la vena sprofonda nella carne, hai appoggiato la lingua grassa e hai percorso quel ruscello a ritroso. Ho disteso le braccia lungo il corpo. Erano fiorite ai polsi e al centro. Sei scivolata su di me. Hai premuto il bacino sulla mia erezione calda. Sentivo il sangue affluire tra le tue gambe strette. Non c’è altro che possiamo fare. Non c’è niente tra la tua bocca e la mia pelle.

Con le ultime forze ti ho afferrata per un polso. Sei scattata avanti. Ho sentito i tuoi denti affondare nella spalla ferita. Una volta non riuscivo a capire. Sentivo soltanto il calore diffondersi. Ma adesso ti sento. Percepisco la resistenza breve della mia pelle l’attimo prima di strapparsi. La stretta ermetica della tua mandibola, il succhio avido delle tue fauci. Bevi. Ho il braccio paralizzato, ma con l’altro ti stringo a me. Spalanco gli occhi e non vedo più niente. Un crampo tende tutti i miei muscoli. La vita defluisce. Il ferro irrora. Colo. Hai aperto gli occhi e ti sei spinta via con un balzo. Il solito balzo da cane ferito. Gridavi. Hai sbattuto la testa contro l’armadio e ti sei gettata in terra colpendo il pavimento coi pugni. Scalciavi. Ti contorcevi. Ho aspettato che l’ossigeno tornasse nel mio sangue e il respiro si quietasse, poi sono rotolato fuori dal letto e mi sono trascinato fino al tuo feto tremante.

-Ancora. Ho detto.

Hai aperto le pupille dilatate su di me. Ti stringevi le mani sulla bocca insanguinata. Dietro di me una striscia rossa segnava il mio tragitto sul materasso e sul pavimento.

-Portami con te. Smetti di smettere.

Ti sei raccolta in un angolo, sbattevi le braccia sulla parete, ringhiavi. Poi ti sei sollevata sulle gambe e ti sei voltata verso il muro.

-Devi riposare. Hai detto. Devi riposare e mangiare.

Hai preso la giacca e sei uscita. Sono rimasto solo sul pavimento. Non mi ero accorto di piangere fin quando non sono stato solo. Ho allungato il braccio e ho afferrato l’erezione intatta”.

La roulotte è ancora buia. Non so se sto leggendo una storia o un diario. Qui ha trascritto

ancora:

“Mi sono svegliato e non ci sei ancora. Che ore sono? Riconosco il tempo dalla luce sull’albero che vedo dalla finestra. Ma oggi non c’è il sole e sembra che il giorno non sia mai arrivato. Come te. Voglio restare sveglio. Forse sei venuta e sei tornata via. Non sento più gli odori. O forse tu non hai un odore. Ma sospetto che tu sia stata qui e te ne sei andata senza svegliarmi. Forse confondo l’oggi con l’ieri. Da quanto sono qui? Sei giorni, o forse nove. Per quanto potremo andare avanti? Quando saprai decifrare la mia scrittura non servirà più. L’ultima volta ho sentito i sensi che svanivano. Ero con te quasi completamente. Perché aspettare ancora? Capiterà una volta soltanto, mi hai detto. E ho pensato a quante volte devi averlo fatto. Hai portato con te qualcuno che ti ha delusa?

Ti ho chiesto cosa succederà e tu non hai risposto. Quando mi hai bevuto dall’inguine ti ho sentita perdere il controllo. Ho avuto una vertigine e poi mi sono abbandonato. Ero sicuro che lo avresti fatto, che saresti arrivata fino in fondo. Era un piacere così perfetto. Sentivo che lo volevi quanto me. Sentivo i tuoi muscoli tesi e mi hai stretto con le mani, come fai quando godi. Cosa ti ha trattenuta? Ne abbiamo parlato tante volte. Non so più quante. Non so quando è stata l’ultima volta. Ho paura che quando accadrà non me ne renderò nemmeno conto. Hai detto che potrei essere con te per sempre, ma potrei anche morire. Mi chiedo se ci sia una differenza. Non c’è altra possibilità per noi, e io voglio sentirti portarmi via.

Ho bisogno di un caffè. Riesco a stare seduto davanti alla cucina. Ho riempito una moka e l’ho messa sul fornello. Passo il panno umido di amuchina sulla ferita più recente. Aspetterò il caffè e poi mi farò un bagno caldo”.

La finestra della roulotte si è illuminata. Forse dovrei fermarmi, invece vado avanti per capire cos’è successo al ragazzo.

Quando sono rientrata ti ho trovato in terra davanti alla cucina. Il gas continuava a uscire dal fornello spento. La tua faccia era una massa informe e scura, bruciata e macellata dall’esplosione. I pezzi della moka erano sparsi per tutta la stanza e uno ti aveva trinciato di netto il collo. Sotto al tuo corpo c’era un lago di sangue appiccicoso.

Io non sapevo cosa sarebbe potuto succedere. Non ho mai portato qualcuno con me, come tu pensavi. Non sapevo nemmeno come avrei potuto farlo. Non c’è un manuale per queste cose. Non ci sono maestri o genitori. Forse ti avrei solo ucciso. Lo sapevi e lo volevi. Ma io non posso morire.

Non hai pensato che io non posso morire.

Ti ho seppellito accanto alla roulotte e ho arato il terreno sopra di te. Ho visto i colori degli ortaggi evolvere alla prima luce del mattino. Ho costruito anche una piccola serra per proteggere i pomodori e allungare la stagione. Come se servissero più stagioni.

Mangerò i prodotti della terra che tu hai fertilizzato. Biologici. Biodinamici. Privi di sapore e di odore.

Inghiottirò quel veleno fin quando non avrò più le forze di muovermi. Potrei magari morire così, giorno dopo giorno, un boccone per volta. Posso sperare di morire così.

Un grido feroce spezza il buio. Cos’è questa follia? Il delirio di una ragazza malata?

La sento avvicinarsi e anche i miei si svegliano, nella camera accanto. Sta venendo da me. Si regge appena in piedi, ma quando mi afferra quasi mi solleva.