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Mario Red - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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EGEA

Immaginavo già il ben arrivato di Loris, sapevo mi avrebbe accolto con un rimprovero gioioso; o meglio: diciamo che mentre percorrevo la mafiosa tangenziale immaginavo un po’ tutta la situazione, ma non avrei mai immaginato di incontrare lei. I capelli sfibrati, impresentabili e biondicci, e il viso così innaturale e pallido; come il mio. E mentre salutavo Loris, e mentre all’incirca, ancora, lui mi stringeva la spalla, grato, per poi sputare qualunquista sugli squallidi locali perbenino della zona, di fronte a noi, di fronte al mare, caleidoscopi di hit a buon mercato che si servono del mare con lo stesso stile di una macchia di nafta cacata da una petroliera, lei mi fissava. Era tutto così scontato, chiaro, che quasi me lo aspettavo. Lei così simile a me, che quasi mi ci specchiavo.

Erano in cinque, seduti su una sbarra a limitare l’accesso del molo. Io arrivai con passo felpato e salutai a testa bassa. Con Loris c’erano: Fifla, altri due tizi con facce buone - che forse avevo già visto qualche altra volta - e infine lei, timida e consapevole, che si presentò come tale Egea. Gli occhi penetranti, addolorati ma affettuosi. Non pensai subito alla Madonna, non subito, avevo altro in mente; senza rimorsi, quindi senza dipendenza, né consapevolezza.

Sbrigàti i convenevoli girammo le tomaie di gomma delle banali scarpe da tennis e risalimmo verso l’interno. Voltammo le spalle all’acqua violacea, compattati in una sorta di piramide, con Loris in testa che s’era addossato la briga della rollatura da me tanto agognata. Un ragazzotto grosso e simpatico allungò il passo e mi affiancò: mi ricordavo di lui? Sto spesso con Loris, sosteneva. Non avevo voglia di ascoltarlo e non desistetti un attimo dall’assentire, ma anziché silenzio ricevetti in cambio una parlantina entusiasta, uno scoppiettio fitto ma fluido, grosse parole che rimbalzavano in un'alternanza di cartelli a scritte cubitali: principi, diseguaglianze, ideali, tolleranza, ma anche qualche spicciolo non guastava.

L’anticonformismo dell’ora che accentuava la brezza marina, il fetore degli umori salmastri, la luce fioca dei lampioni e il grezzo ciottolato arso di salsedine ci accompagnarono in una piazza. C’erano ancora squadrette di cavallette rumorose che gremivano piccole strisce tra un bar e l’altro: i bambolotti avanzavano qualcosa da smaltire. Come noi, c’era qualcuno, non ben identificato, che sosteneva fosse una magnifica nottata, ma già era una menzogna bella e buona, ché eravamo alieni intimiditi dal domani, mentre io, avviluppato in quel discorso insostenibile, cercavo solo di fuggire dalla mia colpa, dai miei peccati non veniali, dalla mia immaturità.

La mia paranoica asocialità, degna delle persone traumatizzate, mi faceva arroccare in difesa.

Avevamo fame, fame chimica, ma nessuno aveva la forza di raggiungere una bottega alimentare, nessuno volevo spezzare il climax. Mi crogiolavo nel mio incantesimo, sì; forse non era vita, sì, ma sarei tornato; morivo felice perché consapevole di una non remota rinascita dove sarei stato ancora uomo. Anche uomo nel senso arcaico della parola, come i nostri nonni: con le loro responsabilità, con i loro coglioni da esporre in bella mostra e con la battuta sempre pronta.

Sì, ero ancora nella residenza estiva del mio cervello, ma sarei tornato.

Tutto era come una doccia calda invernale: che non s’interrompesse il flusso dell’acqua! Sotto gli effluvi di quella doccia io chiusi gli occhi. Quando li riaprii ritrovai il suo sguardo.

Era bollente, e gelato. Erano gli occhi di una bimba vecchia, rimprovero caro, gas esilarante. Era, in quel preciso attimo, un mantello cremoso che leniva tutti i dolori, causati dall’eccesso che non volevo abbandonare. Mi faceva promesse chiare e fumose. Custodiva un nuovo pensiero consolatorio: sei diverso, ma unico, nebulosamente unico.

Non sapevo niente di lei e tutto sommato non me ne fotteva, l'acqua calda scorreva. Il benessere mi coerse le mandibole e salì graduale fino a sfociare in una risata bastarda.

- Che fai ridi!?

Si materializzò di fronte a me una bella donna, Fifla.

Era la cattiva del romanzo: provinciale, stupida, furba, isterica, egocentrica. Non aveva amiche, solo uomini che se la volevano fare e in quel momento aveva me, e a me non dispiaceva. Si elevava comunque sopra il borioso pattume. Mi strappò dalle grinfie del chiacchierone, strinse la sua mano sotto al mio braccio e posò la testa sulla mia spalla. Confidenzialmente mi guidò verso il pretesto, il solito inflessibile preoccuparsi: dei vaneggi, del sesso con amore, delle astrazioni, della normalità, del senso della vita, del futuro, della famiglia, dei sentimenti, delle porcate, dello stare fermo senza scoppiare per almeno cinque minuti. Giusto il tempo per arrivare a palesare gli argomenti più sentiti, regina del male, oscura figocrate egocentrica, e raccontarmi - quello più contava: esibirsi, scoperchiare cloache, malizie malevole del male - gossip velenosi, faccende sentimentalmente banali, cazzate varie.

Cercai di nuovo sollievo, la doccia calda, gli occhi di Egea, e trovai la sua pelle lunare. Si avvicinò silenziosa, ma decisa, nel suo abito largo e asessuato, niente cosmetici, dipinta solo dei propri occhi tristi e socchiusi.

Mi sentivo come al centro tra il bene e il male, nel fulcro di tutto, e forse quel posto oscuro era il posto più bello del mondo. Non per Fifla, che all’arrivo di Egea si squagliò, forte della sua bella figa, con un tipo magnificamente adornato e si trascinò dietro gli altri due buontemponi. Ne approfittai per voltarmi verso di lei, ma Loris ebbe un sussulto dal suo stato catatonico e con una magnificenza inopportuna spezzò un silenzio per poi crearne un altro più attivo, meno imbarazzato. - Entriamo lì. Disse. - Beviamo qualcosa.

Eravamo rimasti solo noi tre.

Ci infilammo in un vicolo stretto, piuttosto cieco, tra palazzine colorate estivamente, diretti verso un atrio pieno di voci ebbre. Martiri volontari illuminavano il nostro ingresso con le loro cicche incandescenti e con i carnevaleschi colori delle loro pacchiane diavolerie tecnologiche. Io ed Egea ci guardavamo in silenzio, finanche negli occhi. Non riuscivo a decifrare la sua estetica, aveva un modo di muoversi inedito

- Chi sei? Il mio angelo redentore?

Sorrise, come la classica bimba con le narici arrossate.

- …a volte penso proprio che vorrei morire. Mi sussurrò l’angelo all’orecchio, per poi volare in alto e staccarsi da tutto e ulteriormente da me

- Se vuoi ti uccido io. Risposi, e il suo profilo ellittico si contrasse in un sorriso da labbro distorto, che sapeva tanto di smorfia preconfezionata. Ritornò così di colpo sulla terra da schiantarsi al suolo, e subitanea mi venne voglia di scoparla.

- Quanti anni hai? Le chiesi.

- Gli angeli non hanno età.

- Quanti anni hai?

- Ventitré.

È vero, pensai, gli angeli non hanno età.

Una fosca prevalenza di faretti rossi rifletteva in maniera sinistra su tavoli scarni, abbinati a seggiole spartane, perlopiù abbandonate da gente sudata che preferiva dimenarsi al centro della sala. Dalla luce dei neon azzurrognoli, che impastavano l'aria tra il bancone bar e il cesso, ci apparì la testa calva di Loris, turbolento, lesto a piantarmi un bicchiere in mano e fuggire via verso una nuova ennesima paranoia.

- Non bevi?

- No. Rispose l’angelo, secco.

Peccato, perché la serata andava spedita come culo sul ghiaccio, la musica, che strisciava da qualsiasi fessura come un serpente ovattato, rimbombava nello spazio acustico ristretto, e io cominciavo a percepire lei, Egea, come cominciavo a percepire tutto: un rebus che non riuscivo, o non avevo voglia, di decifrare.

Nel palazzo bianco tutto era bianco e accecante, e quando l'aria fu satura una puttana con l'abito bianco, bianco, bianco mi prese per mano conducendomi all'interno di una enorme e claustrofobica campana infernale, dove la vastità era la mia prigione. Egea mi prese la mano carica d’apprensione, sembrava avere il peso del mondo sulla testa, che si inclinava sempre più a ogni singola parola

- Chi sei?

- Il tuo angelo custode.

- Ne avevo proprio bisogno.

- I tuoi occhi mi incuriosiscono…

- Vuoi scopare?

- Forse… anzi no, credo… credo proprio di no, la devo dare a un altro domani, credo che la occupi tutta…

- Sono incorreggibile eh?

- Ci sono io, ti salverò!

Già. Eravamo vicinissimi ai ragazzi danzanti, ignari su chi avesse fatto il primo passo, e ci trovavamo immobili tra corpi in trambusto. Ogni tanto ci colpiva una spalla sudata. Loris era tornato alla sua malinconia, seduto ortopedicamente e nervosamente vigile su una poltrona. Egea s’allontanò in direzione opposta alla mia. Avrei voluto seguirla, ma nel contempo ero invaso, pervaso dal sangue rosso delle pareti. D'un tratto non trovai sbocchi. Le linee di passaggio erano tutte occupate. Suadenti invasati m’invadevano, resi mutilati dall’intaso sociale, resi invisibili dalla friabilità strutturale. Siringhe di cemento nelle vene. Mazze di scopa nel culo. Melanina alterata, pelle edulcorata. I cervelli erano il deserto del Sahara e Loris era il cammello divertito con la sabbia sulle sopracciglia e tra i denti, serrati in uno dei suoi ghigni. Terribili mosche mi si posavano addosso spingendomi nel baratro più profondo, succhiandomi linfa vitale al mero scopo di disperderla in maniera impune.

Ero esausto e dissanguato - Loris era ricolmo di sabbia, e le mosche non lo divoravano più - ma non volevo crollare sino a che non fosse rimasto un unico lembo di pelle non putrefatta, una piccola porta dove sarebbero potute passare grandi sensazioni.

L’attimo dopo seguivo il cammello che si era scrollato tutta la sabbia di dosso e marciava verso il sole bollente, alla velocità della luce. Prima che andasse via, prima che fosse notte.

- Dobbiamo andare…

Passo attraverso nutriti spiragli, faretti rossi e ciottoli pece. Una marcia decisa e sonnolenta che poco dopo tramuta in incedere più comodo, meccanizzato.

Ora lo seguo seduto, ma si va sempre, in tre, ma non solo, anche con il mio lembo di pelle e la febbre che mi fa brillare gli occhi. Il lembo si estende fino a una vita intera, sì che la mia pelle possa assorbire di nuovo tutto, ma in dosi minimali per i miei micro-pori. Nulla di grosso mi può toccare. Sottigliezze mi aiutano a vivere all’alba di un nuovo giorno.