Amanda Rosso - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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La prima volta che Lucio Morelli ha incontrato Flaminio Vitali aveva appena irrimediabilmente macchiato di terra la sua salopette rosa. Aveva un sacco di vestiti rosa, perché sua zia aveva capito male, quando era nato, al telefono, e aveva mandato a Teresa tutto il guardaroba di sua cugina.

Si potrebbe dire che era un quieto pomeriggio soleggiato e quasi caldo di un estate degli anni '90, ma in realtà aveva appena finito di piovere, di nuovo, e la foschia era così densa da attorcigliare nodi di nebbia fra le corde dell'altalena.

L'odore di ruggine ed erba bagnata rimaneva sospeso fra il tronco, la piramide a gradoni e la casetta di plastica scolorita dove il figlio della signor Dionigi si nascondeva di sera con la sua ragazza, a fare cose che Teresa non voleva mai dire davanti a lui.

Flaminio Vitali era piccolo, più piccolo dei bambini a cui Lucio era abituato, i figli antipatici dei vicini di casa, e quelli che sua mamma voleva obbligare a diventare suoi amici invitandoli a casa la domenica pomeriggio.

Lucio odiava quei bambini, gli chiedevano sempre perché Marco non era suo papà. Che cosa aveva fatto di male per far scappare così suo papà?

Lucio non lo sapeva, ma aveva cominciato a mordere tutti, e la maestra aveva chiamato a casa.

La prima volta che Lucio Morelli ha visto Flaminio Vitali, era dietro una finestra chiusa nell'appartamento di fronte. Lo ha salutato con in mano il pupazzo di un orso vecchio e rovinato e la bocca sporca di budino.

Si potrebbe raccontare al mondo che tutto è nato in quel momento, con Lucio e la sua salopette rosa che tirava calci alla sabbia del recinto, e Flaminio con il suo orsacchiotto rattoppato che ha attraversato il parco recintato e si è seduto a fatica su un'altalena cigolante.

Non toccava nemmeno a terra, e il suo orsetto si è sporcato ancora contro le catene oliate di fresco dall'amministratore di condominio con il gatto soriano cieco da un occhio.

Lucio Morelli è rimasto seduto a gambe incrociate nel recinto di sabbia per sette minuti e quattordici secondi, prima di alzarsi senza curarsi di raschiare via un grammo di terriccio dai vestiti, e si è seduto con un salto – che negli anni sarebbe diventato, nei suoi racconti, sempre più elegante ed agile – sull'altalena vicina.

Zitto, il mento sollevato, perché così vuole il galateo dei bambini. Il più piccolo, quello che arriva dopo, deve attaccare bottone.

Non l'ha deciso nessuno, è vero, ma fidatevi se dico che è così. Lucio la racconta sempre così, come se fosse ovvio.

Flaminio non sapeva spingersi da solo, così è rimasto a far ciondolare le gambe dal sedile mentre l'altro arrivava talmente in alto da toccare quasi i rami del castagno lì vicino. A lui sembrava così, e i bambini sanno quando gli altri bambini arrivano a toccare il cielo. Anche questo è noto.

“Ciao, sei il figlio della Giovanna?” Flaminio Vitali era, per sua natura, un bambino socievole. In quei dodici secondi di altalena condivisa, nonostante Lucio cercasse in ogni modo di farlo sentire piccolo e insignificante flagellando l'aria con le sue piroette da pavone, aveva già deciso che non voleva rimanere solo quel pomeriggio. Bù, il suo orsetto, era il suo migliore amico da tre anni, otto mesi e cinque giorni, e gli sembrava un tempo considerevolmente lungo per avere un amico che non rispondeva mai alle sue domande. Un'aura di mistero, fra amici, andava anche bene, ma Flaminio stava cominciando a trovare difficile fare conversazione.

“Conosci mia mamma?” e così Flaminio ha trovato l'appiglio dove appendersi per imparare a dondolare nelle strane smorfie orgogliose dell'altro. Un po' a sinistra rispetto alle sue manie di protagonismo, e leggermente a destra della sua cocciutaggine.

Ha annuito, con il suo caschetto tremendamente anni '90.

“Mia mamma è amica della tua. Si salutano sempre quando sono in fila alle casse della Conad”

“Io non mi ricordo di te...” è una bugia ma, garantisco, a fin di bene. Tutte le volte che Flaminio racconta la storia, Lucio sembra sempre meno convincente mentre dice questa frase.

“Che hai fatto? Per stare qui e non al cinema con gli altri...”

“Sono in castigo tutta la settimana. Ho detto a mia mamma che è una rompipalle. Non è vero che è una rompipalle, ma voleva farmi andare a dormire presto invece di guardare Balto ” si è stretto nelle piccole spalle, e ha stretto di più anche l'Orsetto Bù, perché lo faceva sempre stare un po' meglio sentire il pelo ispido sotto le dita. “Abbiamo fatto pace, ma sono in castigo lo stesso, per un po'” ha dondolato i piedi, osservandoli con l'attenzione maniacale che maschera sempre l'imbarazzo “Tu perché sei qui e non al cinema? Z la Formica è un film bellissimo!”

Lucio aveva quasi otto anni, ma avrebbe voluto averne già dieci, o undici, essere grande e alto, e guardare Flaminio Vitali dall'alto in basso mentre sfregava i calzoni macchiati di fango sotto il sedile dell'altalena.

“Faccio schifo. Sono vestito di rosa!” una risposta che, necessariamente, per lui, significava discorso chiuso. Ma l'altro aveva l'espressione di uno che non considerava minimamente il colore rosa una buona ragione per saltare un pomeriggio al cinema con i bambini del condominio. Non quando Z la Formica, il film più bello del mondo, era in programmazione.

“E' mia mamma che mi veste sempre di rosa. Perché le hanno regalato un sacco di cose, ma sono tutte da bambine, ma mia sorella è troppo piccola, e le devo mettere io”

Flaminio ha scrollato le spalle, e per poco non è caduto faccia a terra sull'erba

“Mi piace il rosa, anche se tutti mi prendono in giro perché dicono che è un colore da femmine”

Se qualcuno si fosse affacciato, in quel momento, da una delle duecentododici finestre che si affacciavano sul cortile interno, avrebbero visto il testardo e viziato Lucio Morelli sorridere un poco, e annuire, e smettere di atteggiarsi a gran sportivo perché sapeva andare sull'altalena. Non lo avrebbero visto piangere, né tirare la manica della madre in mezzo al viale, per attirare la sua attenzione. E nemmeno tenersi alla larga dalla carrozzina di sua sorella appena nata, con parenti e amici a far da capannello, mentre lui si tirava dietro i suoi vestiti da femmina.

“Ecco, anche a me. Proprio per quello. E io non voglio andare al cinema con quelli che mi prendono in giro. E Tommaso Orsini è uno-” si è guardato intorno, attento che sua madre non lo stesse ascoltando, o fosse affacciata alla finestra, o quella vecchia che puzzava di cavolo bollito della signora Filini passasse di lì con la sua larga bocca sdentata e l'apparecchio acustico acceso “stronzo”

Flaminio era un bambino socievole, ma non abbastanza da avere amici che dicevano le parolacce.

“Che vuol dire?”

“Non lo so bene. Ma il fidanzato di mia mamma lo dice sempre quando guarda il telegiornale. E lei lo fa stare zitto. E' una cosa brutta però...” Lucio sembrava uno spiritello sorridente, e il suono esile di una risata un po' sciocca allargava pian piano il foro che Flaminio stava usando come appiglio

“Se non lo sai te...hai detto rompipalle a tua mamma!”

“Ma le ho chiesto scusa però! Mica volevo dirglielo davvero!” tremava un po', perché si sentiva ancora in colpa, e il biscotto della pace che Anna gli aveva portato in camera la sera prima era ancora appeso nello stomaco, e proprio non voleva decidersi a scivolare via.

“Però in castigo ci sei lo stesso”

“Perché lei ci è rimasta male. E siamo solo noi quindi...”

“E tuo papà?” forse Lucio non era come i suoi compagni di classe, con le loro famiglie di genitori ancora sposati, le cene di Natale con i nonni, e i cugini invitati ai compleanni, ma era curioso, curioso come è curioso il primo bambino sulla Terra che è stato convinto per anni di essere solo, e scopre improvvisamente che non è così.

“Boh, non l'ho mai visto...” e ha sentito, allora – o almeno così dice, quando arriva a raccontare di quel momento, cercando la mano, il ginocchio, la clavicola o gli occhi di Flaminio attraverso stanza – di non voler vedere le fossette sparire dalle sue guance. Le stesse fossette che prima lo irritavano erano quasi diventate una confortante compagnia.

Ha scrollato le spalle come per scacciare l'ombra della tristezza dalle catene dell'altalena.

Si è alzato con un salto non troppo atletico, anche se non ne farà parola con nessuno, ovviamente, nei suoi racconti successivi, ed ha cominciato ad arrampicarsi sulla piramide di tronchi.

“Io nemmeno il mio. Mia mamma dice “stronzo” anche quando parla di lui. Ma Marco è forte, forse mamma starà bene. Non lo so. Mica me le dice queste cose.” sbuffando, è arrivato in cima. Osservare Flaminio da quella posizione, incredibilmente, non lo ha fatto sentire più forte. “E' sempre lì che parla piano, e dice a tutti di stare zitti perché Silvia dorme, e deve mangiare, e deve giocare, è una noia!”

“Non ti piace tua sorella?” sarà stato anche un bambino di sei anni, ma non era stupido. Anzi, e questo è uno zoom nell'animo umano che solo un narratore onnisciente può permettersi, c'era in lui quell'insolita empatia verso il mondo che a volte è così amara da scavare fosse asimmetriche fra una costola e l'altra. Sei anni di bambino magrolino e un orso di peluche sbrindellato rivelavano gli orli di una passione intensa per le cose usate, rotte, scucite, squarciate. Difettose.

“E' piccola. Mangia e piange. E basta. Io volevo un fratello per giocare a calcio” è saltato giù anche dalla piramide, Lucio, sempre in movimento, a scalciare contro il tempo che passa e che mente.

“Posso giocare io a calcio con te se vuoi. Non sono bravo però” ecco, forse, a voler stoppare e mandare avanti lentamente quel momento sullo schermo emotivo del nostro cervello, è stato quello il momento in cui si è deciso - da qualche parte nella bizzarra e sclerotica concatenazione di eventi che hanno portato il destino a raccontare questa storia – che qualcosa era iniziato. Una fluida alleanza, una comunione di intenti. Una silenziosa reciprocità.

“Fa niente, sono bravo anche per te” nella risata di Flaminio non c'era desiderio di far sentire Lucio presuntuoso o illuso, ma solo il genuino divertimento di chi ascolta una sciocchezza, e ne vuole parlare fino allo sfinimento

“E chi te l'ha detto?”

“Boh, mia mamma. Marco, tutti”

“Secondo me te lo dicono perché tua sorella è piccola, e tu sei geloso” se fosse stato un altro, parola mia, Lucio lo avrebbe già preso a morsi. Ma ci sono movimenti sotterranei di intese che non si possono percepire nel loro manifestarsi silenzioso. Si può solo aspettare che si avvicinino, vagamente, alla superficie opaca della consapevolezza.

“Non sono mica geloso. Io sono sempre il preferito di mamma”

“Lo dici tu”

Di Flaminio, a quell'epoca, nell'estate piovosa del 1998, si possono raccontare gli aneddoti migliori, ma c'era nella sua testarda allegria una punta di sfida. Sei anni non erano sufficienti per cucirgli addosso strane abitudini, ma i suoi enormi occhi verdi si stringevano fin quasi a somigliare a spilli, quando chi gli stava di fronte sembrava una preda giusta da mettere alla prova

“Lo dice lei, scemo!” e anche se non aveva mai sperimentato la battaglia all'ultimo sangue, era rimasto deluso nel vederlo andar via.

Il suo spirito combattivo lamentava l'occasione scemata di una bella zuffa, ma dall'altra parte il suo compagno di giochi stava andando via, e non poteva più essere un orso di peluche il suo migliore amico.

“Hei, dai, scherzavo Bù!” lo ha chiamato, rincorrendolo anche con quella voce un po' bassa e roca, scossa da quell'improvviso dietrofront

“Lù, non Bù” se avesse potuto vedere l'espressione di Lucio, Flaminio Vitali avrebbe accolto senza troppe cerimonie il sorriso soddisfatto che si portava dietro.

“Bù è meglio, è più facile” ha insistito con quel nomignolo – avrebbe insistito ancora per quindici anni, garantisce Lucio ridendo ogni volta che si sofferma a descrivere i particolari di quella prima conversazione – perché gli sembrava davvero azzeccato, ma non si può dire che l'altro gli avesse reso le cose semplici

“E' il mio nome, mica deve essere facile!” ma Flaminio aveva intuito il potere persuasivo delle sue fossette, e dell'essere l'unico nome sulla lista dei possibili nuovi amici di Lucio Morelli.

“Ma Bù è meglio”

Non lo era, ma l'altro si è stretto nelle spalle, nella sua maglietta a righe bianche e nere sotto la salopette rosa

“Fa' come vuoi...” è tornato indietro, accovacciandosi sul tronco.

“Puoi trovarmi anche tu un nome nuovo se vuoi...”

“Scemo va bene?” tutti e due sapevano che non era nemmeno in programma, il nome 'scemo'.

Ma Flaminio ha sorriso lo stesso, artigliando il tronco come se stesse affogando, e ha lasciato che Lucio si convincesse di essere lui l'amico da conquistare.

Negli anni quella capacità di farlo sentire prezioso e insostituibile si è affinata, trasformandosi in un talento pressoché introvabile. A sentir loro, adesso, alle cene e le serate in compagnia di amici che si sono fatti sanguinare le orecchie per quante volte hanno ascoltato la storia, quella è stata a malapena l'intuizione di un bambino di sei anni particolarmente sensibile, ma l'equilibrio con cui Flaminio sa concedere a Lucio i margini di quelle morbide e calcolate certezze è una danza ancora da perfezionare, che li lascia volteggiare in aria per giorni, e anche stravolti, a terra, ma è un passo a due che nessuno di loro rifiuta mai di ballare.

“Se ti piace...” fossette e occhi ha sfoderato Flaminio, con un'ingenuità astuta tipica del suo carattere, del modo silenziosamente attento con cui Anna l'ha cresciuto, a volte, forse, da troppo vicino, forse con troppa attenzione.

Lucio con i suoi occhi sbarrati, la sua frangetta tagliata troppo corta a sinistra da una mano frettolosa, forse una mamma un po' stanca, con una neonata appena sveglia che piangeva affamata, semplicemente è rimasto a guardarlo gironzolare per i giardini, con l'orsetto rattoppato a pendere dalla sua mano destra.

Noi si conosce la causa inspiegabile di quel taglio asimmetrico, ma ci son dettagli che è meglio lasciare insoluti, così che non sia proprio una noia, la prossima volta, lasciare che Flaminio racconti tutto di nuovo daccapo.

“Perché non ti arrabbi? Gli altri si arrabbiano se li chiamo scemi”

“Io mica sono gli altri...” sarebbe stato vero ancora a lungo.

Il piccolo forellino di speranza a cui Flaminio si era aggrappato quel pomeriggio, si stava squarciando ad ogni piega.

E a lui, si sa, piacciono i buchi, i tagli, il rumore di qualcosa che finalmente cede e si lascia spalancare.

“Allora ti chiamo Zeta. Ti piace Zeta?”

Cose che si frantumano e lasciano entrare la luce.

“Zeta” sorridere mordicchiando le lettere messe in fila “Zeta...e Bù. Zeta e Bù” e annuire, soddisfatti e rinvigoriti “Fico. Sì è fico”

E anche l'espressione di studiata sufficienza di Lucio era un condimento gradito a quell'euforia da contatto.

“Non così tanto...”

Ma Flaminio aveva cominciato ad avere la meglio su di lui già allora, a sei anni a malapena, con quella risata così profonda e così forte da far voltare le mamme con le carrozzine sul marciapiede e Don Carluccio che ritirava la posta della parrocchia all'altro lato della strada.

Una fragrante risata controllata a stento, prima leggermente squillante, quasi atona nella bocca di Lucio, e poi sempre meno morbida, meno soffice, sempre più profonda.

Due risate così diverse che nessuno, e lo si dice con cognizione di causa, avrebbe mai immaginato potessero vagamente intrecciarsi con un senso, ritrovarsi, affiancarsi e trovare una dimensione.

Ma è stato così, nonostante tutto, già quel pomeriggio nei giardini trasandati del condominio.

“Ma sei una noia anche tu! E non ti piace il rosa, e non ti piace tua sorella, e non ti piace Bù...E cosa ancora non ti piace?”

Ci ha messo più di quanto Flaminio avrebbe immaginato per trovare altre cose da odiare. Erano davvero passi da gigante nella vita brontolona di Lucio Morelli.

“Le carote. Ma ho detto a mia nonna che mi piacevano tanto perché lei ci teneva, e adesso me le prepara tutte le volte che vado da lei...” gli è sembrato tenero, e trovare la parola giusta è stato per Flaminio un processo lungo e doloroso attraverso la concezione vaga di 'sinonimo' che aveva a sei anni, ma quando finalmente quella parola è riemersa dalle sopracciglia aggrottate di concentrazione ha accompagnato un sorriso mesto e una scrollata di spalle.

“Io sono allergico alle noccioline. Divento tutto gonfio e rosso e non respiro. Una volta sono andato all'ospedale e mia sorella piangeva come una matta. È forte mia sorella, è grande. Mi difende quando Giorgio Boldrini cerca di mettermi la testa nel gabinetto. Non sempre, solo i giorni in cui suo padre puzza di Tavernello quando lo accompagna a scuola. Il padre di Giorgio è un po' come il tizio del telegiornale del fidanzato di tua mamma...forse anche di più”

Prima di incontrare Lucio, Flaminio era un bambino socievole, ma non gli piacevano tanto le parole. Non come gli piacevano in quel momento, non come gli piacciono adesso, come gli piace l'effetto che hanno sull'espressione di Lucio. Il modo in cui le lettere in fila distendono la sua espressione, e i suoi muscoli.

Quel pomeriggio ha imparato che Lucio sapeva sorridere se non si nominavano troppo suo padre, e i suoi compagni di scuola, e quanto fosse rosa la sua salopette.

Ha imparato che gli occhi di Lucio non erano davvero così sottili, non sempre.

Ha imparato a vederli distendersi per qualcosa di diverso dalla rabbia, dal disappunto, dalla delusione.

Per Flaminio, Filippo Inzaghi, e per poche altre cose al mondo.

“E comunque Bù è fico. Anche il mio orso si chiama Bù...è il mio migliore amico”

'E tu vuoi essere il mio migliore amico? Anche così come sei, sporco di fango nella tua salopette rosa, anche un po' strappato e difettoso, vuoi essere il mio migliore amico? Vuoi essere tutto quello che c'è, Lucio?'

Glielo avrebbe detto, sicuramente, ma aveva sei anni. A sei anni nessuno sa articolare i pensieri in questo modo, suvvia!

“Flaminio!” e le mamme rompono sempre gli incantesimi, anche nella vita vera.

Anna adora quando Lucio racconta di quel momento. Lo adora perché smette di raccontare e la guarda, anche quando non è lì, e sorride. E sa che Lucio sta pensando che la sua voce è stata davvero una dannatissima stroncatura di una scena d'amore epica, ma non le interessa. Lei c'era.

“E' mia mamma. Devo andare”

E Anna adora quel momento, e anche Lucio. E Flaminio li guarda, seduto sul divano, alla scrivania, sulle scale o davanti al portone, e smette di fare qualunque cosa stia facendo per intrappolare quello sguardo. Lo custodisce accanto all'orsetto rattoppato che è stato il suo migliore amico.

“Forse ci vediamo ancora Bù, se le maestre ti mettono in castigo...e io magari non vado al cinema se so che tu sei qui...”

“Veramente?” aveva solo otto anni, Lucio, quando i suoi occhi si sono spalancati di sorpresa e una speranza che non sapeva di poter indossare comodamente.

Avrebbe imparato solo dopo a dissimulare, e nemmeno troppo bene.

Non con Flaminio.

“Certo! Tanto non posso vedere i film da grandi, e al cinema devo stare sempre zitto, e non mi va” Flaminio lo ha guardato, tutto sporco e infangato, e ha riso “Tu sei meglio...”

Lucio ha affondato tutte le mani nelle tasche, in attesa. E sapeva già allora, anche se era troppo piccolo per realizzarlo, che non gli sarebbe mai andata giù l'idea di vederlo andare via. Un sentore di panico e solitudine che non voleva nemmeno assaggiare sulla lingua. Non voleva avere niente a che vedere con Flaminio Vitali che si allontanava da lui.

Certe cose, semplicemente, restano uguali.

“Tu mi piaci” ha urlato, con la sua voce sottile ma cristallina. Una corsa di parole fino alle orecchie di Flaminio, fino a scompigliargli i capelli sottili.

“Eh?” in fondo non si conoscevano abbastanza bene perché lui desse per scontato di aver capito bene.

Ma il sorriso di Lucio, uno di quelli veri, originali, di quelli che avrebbe imparato a riconoscere e rubargli dal viso di tanto in tanto, ha risposto prima che qualsiasi altra parola si arrotolasse alla nebbia e al cigolio un po' stanco delle catene delle altalene.

“Non è vero che non mi piace niente, tu mi piaci un po'...”

Sapevano tutti e due che era stato incredibilmente difficile. E Flaminio non avrebbe lasciato che quelle fatiche cadessero nel vuoto.

Anche allora.

“Anche tu mi piaci. Forse dovresti essere il mio migliore amico. Prima era Bù il mio migliore amico, ma se vuoi puoi essere tu...vuoi?”

'Davvero?' gli avrebbe risposto l'altro incerto, con quel tremore timido e incredulo che solo Flaminio sarebbe stato tanto fortunato da scorgere, e solo in pochi momenti 'Davvero posso?'

Ma in realtà ha scrollato le spalle, con il suo solito, comico, tenero atteggiamento falsamente incurante.

“Ok, tanto non c'è niente di meglio in giro”

E Flaminio lo ha semplicemente smascherato. A sei anni, la prima di un'infinità di volte.

“No, io sono meglio”

Anna lo aspettava, e probabilmente Giovanna osservava Lucio da un'ora da dietro la tendina con i fiori della finestra della cucina, chiedendosi come potesse quel ragazzino mingherlino trascorrere un'ora intera con suo figlio senza rimanere coinvolto in una rissa di morsi e abrasioni.

Non se lo sarebbe mai più chiesto.

“Forse sì” Lucio ha semplicemente accettato una resa mescolata ad una vittoria, come il tè al latte che ama tanto bere.

Ha raccontato a Flaminio del tè al latte, un pomeriggio a caso dei migliaia che hanno spezzato, strappato e ricucito insieme.

Ha raccontato tutto a Flaminio.

“Ciao Zeta”

“Ciao Lu-” ha tentennato il mezzo secondo giusto per lasciargli il tempo di dire, essere e fare quello che voleva. Come sempre.

“Bù non fa tanto schifo” ha ammesso alla fine.

Una concessione capace quasi di diradare la nebbia e addolcire il cigolio delle altalene.

Quasi, perché nella vita reale queste cose non succedono.

“No, è bello”

Succedono solo piccoli momenti microscopici, che le persone amano raccontare, si vergognano di raccontare, o magari raccontano e basta, senza rendersi nemmeno conto di quanto i pezzi di quei racconti riescano a sopravvivere e a ridisegnare i contorni.

E questa storia magari non è completamente vera, ma non si può pretendere che lo sia dopo essere stata raccontata cinquecento volte in centinaia di situazioni diverse, in modo diversi, a persone diverse. Rimangono solo i dettagli, le immagini che uno ricorda, chissà perché, a cui rimane aggrappato.

Forse nemmeno è successo a loro, a Flaminio e Lucio, forse erano affacciati ognuno alla propria finestra, a vederlo accadere a qualcun altro. Ma alla fine dei fatti, non impora a nessuno.