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[Particolari] L’ultimo sogno

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L’ultimo sogno
di Selene Capodarca e Serena Barsottelli

Sibilla l’aveva vista in un sogno o era saltata fuori dal barattolo, non ricordava con precisione. O forse si era posata sul suo cuscino quando dormiva ed era entrata nell’orecchio come una formica, a passi piccoli e svelti. Da dove venisse l’idea Sibilla non lo sapeva, se l’era ritrovata davanti agli occhi come un’apparizione, un ricordo sbiadito, senza sapere se fosse reale o frutto del sonno.

Era schizzato tutto fuori dal barattolo: c’erano tracce di luce sul cuscino, sul comodino e persino sul vetro della finestra. Era colpa loro, delle idee, perché esplodevano quando meno ci si aspettava e non si era mai pronti a fermarle in tempo. E quella mattina di luce ce ne era molta: una luce scura, quasi buia, ma Sibilla non ne aveva paura, perché alcune figure lì dentro si muovevano e si affaccendavano. C’era chi lavorava e chi semplicemente si dedicava a morire, chi aveva tutto chiaro e chi era pieno di dubbi. Così mutavano le forme di nebbia nella luce scura, con velocità sempre più lenta e Sibilla si sforzava di guardare meglio, con la penna tra le dita, per fermare l’idea sul foglio prima che svanisse del tutto.

La luce, il buio, la nebbia. La storia prendeva forma. La nebbia, il buio, la luce. L’immagine era la forma.

Aveva visto Amret, il fachiro del materasso, rigirarsi sulle comode reti di un letto nello spazio espositivo azzurro del centro commerciale. Di svegliarsi non ne voleva sapere: dopo tanti anni passati a dormire sui chiodi, non si era ancora abituato al suo nuovo incarico da animatore del reparto materassi. Così Amret dormiva per giorni, anzi per settimane, e si sarebbe detto in catalessi, o forse morto, se il referto di Ishtar non avesse confermato l’esatto contrario. Perché la morte era simile al sonno, Ishtar lo sapeva bene, ma Sibilla, la spettatrice del sogno, non ne era poi così tanto sicura.

Successe più di una volta che Amret il fachiro fosse morto o quasi morto, poi i colleghi avevano quasi iniziato ad abituarsi a queste sue morti temporanee. Una volta si era addormentato sul bordo di una testiera in rovere. Rimase così, immobile, per 8 giorni, finché i responsabili del reparto non cominciarono a sospettare che la sua rigidità fosse dovuta più al rigor mortis che non alle sue capacità trascendentali. Ma Alice, la ragazzina bionda del reparto biancheria, sapeva che il fachiro non era morto, almeno non quel giorno. Lei certe cose le sentiva, e poi non aveva ancora avuto modo di esaurire il suo ultimo sogno. Per Alice i sogni erano più di quello che gli altri potessero immaginare. Per Alice sognare era creare.

Questa storia dell’ultimo sogno era cominciata dieci anni prima, inaspettatamente. In quei giorni si trovava a far visita a sua nonna, ricoverata in ospedale per una brutta frattura. Non aveva occasione di scambiare molte parole con la canuta signora del letto accanto, finché un giorno questa non le si avvicinò e cominciò a raccontare. Le raccontò del suo primo amore, di come lui la guardasse con quei grandi occhi verdi, di quando si erano scambiati il primo bacio al fiume. Continuò parlandole delle nuvole dense, di come le spighe le pungessero la camicetta e di come il cuore le battesse impazzito per il terrore di essere scoperta.

Alice ascoltava attenta, ma si chiedeva perché le stesse raccontando tutto questo, e con tale dovizia di dettagli. Lo capì soltanto il giorno dopo, quando si risvegliò stanca morta. Aveva fatto un sogno stranissimo. Ricordò di aver lavorato tutta la notte a sistemare spighette di forasacchi sull’erba, a condensare le nuvole, a spostare i raggi di sole e sistemare i due amati all’ombra dell’albero. Tutto era stato ricreato alla perfezione, anche il suono dei grilli e il battito dei cuori in sottofondo. Quando tornò a trovare la nonna, il letto accanto al suo era vuoto.

E da lì fu un susseguirsi di regie: nascite, amori proibiti, ricordi di figli persi troppo presto. Un uomo di affari cinese che aveva sempre vissuto in solitudine, le raccontò di aver amato per una notte una prostituta di Hong Kong. E Alice, diligente, eseguì. Sistemò la bottiglia di whiskey sulla moquette accanto al letto, li spogliò e mise le braccia della donna attorno all’uomo. Le ordinò di rimanere così fino al mattino, fin quando Alice non avrebbe chiesto al cielo di albeggiare sui grattacieli della città.

Recentemente si era imbattuta in un curioso libro. Un fotografo americano aveva fotografato gli ultimi pasti dei condannati a morte. Anche lei avrebbe desiderato fare altrettanto con i suoi ultimi sogni.

Con Augusto era capitata una cosa stranissima. Augusto continuava a tornare da lei e Alice non capiva. La prima volta le raccontò di essere stato fuoco e le parlò del senso di onnipotenza provato nel distruggere con tutta la violenza che aveva dentro le foreste della California del Sud. Quella notte Alice lavorò alacremente per regalargli il suo sogno, il più difficile tra tutti quelli che aveva creato.  

Augusto tornò da lei tre volte. La seconda volta le confessò il suo segreto.

“Posso entrare nei quadri che voglio e prendere forma e sembianza di quanto raffigurato”, le disse. Alice trattenne a fatica le risate.

L’ultima volta le disse di chiamarsi Marat, e le parlò di folle e di rivoluzioni. Lei lo guardò stupita. Sapeva benissimo che era Augusto ma non fece domande, come del resto non faceva mai. La notte stessa eseguì l’ennesimo ultimo sogno di Augusto.

Alice non fu la sola a essere confusa. La prima volta che portarono Augusto sul suo tavolo, Ishtar riuscì piuttosto rapidamente a confermare le cause della morte. “Lesioni da ustione estesa”, avrebbe scritto il giorno dopo sul referto autoptico, se le cose non fossero andate diversamente. La sera stessa pensò a quei residui di plastica bruciata ritrovati sul corpo ustionato di Augusto. Sorrise pensando a quanto assomigliassero a una delle Combustioni di Burri, quella che Ferdinand aveva in sala. Se lo ricordava bene, a non tutti capita di fare l’amore davanti a un Burri.

Quando il giorno dopo sollevò il telo dal corpo ebbe un sussulto. Corse subito a ricontrollare il fascicolo: Augusto Berdini, nato il primo luglio del 1963. Era lui indubbiamente, ma dei residui di plastica e dei segni di ustione non vi era più traccia. Anche i vestiti che indossava nei reperti fotografici erano diversi.

Da dove era uscito quell’ampio camicione e quel pantalone giallo? Guardò meglio la foto e trovò ironico come la luce, quel mucchio di corpi riversi e il paesaggio sullo sfondo le ricordassero il famoso quadro di Goya. Doveva smettere di rapportare tutto ciò che la circondava con l’arte. “Torniamo ad occuparci della verità”, si disse.

Ishtar esaminò accuratamente la documentazione, esplorò il cadavere e giunse alla conclusione, anche stavolta piuttosto ovvia: “morte per arma da fuoco”. Neanche quella sera riuscì a stilare il referto autoptico. Alle 7.30 dovette scappare. Avrebbe incontrato Paul e non voleva fare tardi. Aveva una voglia pazza di vederlo.

“Ma cazzo, no! Non è lui!”, urlò la mattina dopo quando scoprì nuovamente il corpo. Quello non era il cadavere che aveva esaminato il giorno prima. “Cioè sì, porca troia! È lui, eccome se è lui”.

Ma dove era finita la ferita di arma da fuoco? E quella melma argillosa che ricopriva il corpo di Augusto? E questa ferita da taglio all’altezza del petto? Infastidita da quella assurdità, si affrettò a stilare il referto autoptico dopo aver eseguito gli esami da procedura. Caso chiuso.

Respirò profondamente, si legò i capelli e uscendo dalla stanza si fermò a guardare la riproduzione de “La morte di Marat” di David appesa al muro del suo studio. Ricordava ogni dettaglio di quel quadro a memoria, eppure quella sera non aveva dubbi, era comparso un ghigno burlone sul viso di Marat. Si affrettò a uscire, Sean Ruddy l’aspettava a teatro.

Sul tavolo di Ishtar c’era posto per Amret il fachiro? Era morto davvero, quella mattina, quando non dormiva sul materasso da circa undici giorni e sette ore? Alice conosceva la risposta, perché un giorno, prima di cadere nel sonno, le si era avvicinato e le aveva parlato a lungo di sua madre, del caffè che le faceva trovare ogni volta in cui tornava a casa dopo ore di riposo sui chiodi e degli abbracci con cui lo circondava ogni volta che se ne doveva andare, quasi a bloccarlo, a non farlo ripartire. Quello che Amret non diceva, ma che Alice sapeva, era che il fachiro sentiva la mancanza della sua terra e più di tutto della sua famiglia, semmai terra e famiglia possano essere scisse tra loro.

Alice, quel giorno, aveva ascoltato ogni dettaglio, trattenendo a fatica le lacrime perché sentiva il dolore di Amret e soprattutto sapeva perché le stesse raccontando tutto questo.

Quando Ishtar si trovò di fronte il corpo di Amret il fachiro, si accorse che il suo viso era sereno, la sua pelle rilassata anzi luminosa. Alice la aspettava fuori dalla stanza per parlarle, le disse, e togliere ogni dubbio dalla faccenda di Amret il fachiro dormiglione. Sul fascicolo Ishtar scrisse soltanto “suicidio” e non ne parlò più, ricordando le lacrime di Alice, la dolcezza del cadavere e quel caso altrettanto strano di Augusto il mutaforma.

E Sibilla, con la sua luce, fece fatica a stare dietro alle idee che prendevano forma nella nebbia, ma quando la mattina si addormentò, fece un sogno stranissimo e bellissimo, dove con la penna dalla punta fatta a sole raccontava questa e altre storie, poi sorrise ricordandosi di Alice.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore