Renzo Semprini Cesari - Ogni cosa è illuminata

Scritto da

C’è stato un periodo della mia vita, un lungo periodo della mia ancora breve vita, durante il quale il mio sguardo sul mondo, diciamo, non ha goduto di una buona messa a fuoco. Riconosco che crescere in una famiglia nella quale la frase più cordiale era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito; e lo scambio di battute più lungo era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito - Perché il macinato era in offerta - Era ora, in quella merda di supermercato non c’è mai uno sconto buono; possa rendere difficile a chiunque trovare equilibrio e mettere a fuoco un obiettivo, ma anche io facevo la mia parte e a quei dialoghi costruttivi replicavo che se pure loro avessero fatto qualche saldo e si fossero scavati un buon cinquanta per cento dai maroni, forse anche la mia vita avrebbe fatto meno schifo. Fine delle discussioni, fertile scambio di idee dopo che in famiglia non ci si era visti per tuta la giornata. Consumato il resto della cena in silenzio, mia madre rassettava la cucina, mio padre sprofondava sul divano e io e mia sorella scomparivamo ognuno all’ombra della propria stanza, lei incontro all’ennesima serata a parlare al telefono con un’amica, che tanto non c’era nessun ragazzo che le filava, e io incontro al solipsismo e alla ricerca di qualche canale tv proibito sulle reti d’oltre mare. Durante quel lungo periodo oscuro ho assolto ai miei doveri di figlio con la devozione di un frate trappista astemio, e la forte convinzione decubertiana per cui l’importante non era vincere, ma partecipare. La scuola era un obbligo e come tale l’affrontavo, ben attento a evitare le luci della ribalta. Serviva almeno un sei in ogni materia per non essere rimandato, e io sei prendevo, salvo un sette in ginnastica, dove non riuscivo ad arginare il mio piacere per il calcetto. Mai una nota, mai una convocazione dei genitori, tutto nell’ordine del minimo sindacale per non attirare attenzione e concludere il percorso il prima possibile, evitando penalità ed errori. Che all’assenza di infamia corrispondesse anche assenza di lode poco interessava, sia a me che ai miei famigliari. Qualche organismo del corpo docente, cellula impazzita nella mediocrità degli insegnanti, aveva provato a manifestare il proprio disappunto.

- Hai delle potenzialità. Diceva Tommassoni alle medie, il professore di tecnica. - Perché le vuoi sprecare?

- Parietti, tu non sei del tutto una capra. Diceva Zaccherani, il professore di diritto privato a ragioneria. - Eppure stai nel gregge, nascosto e allineato. Non vuoi prendere un po’ di luce, combinare qualcosa di buono nella vita?

Io lo volevo combinare qualcosa di buono nella vita, ma non ero convinto che per farlo servisse un maggiore impegno a scuola. Mio padre aveva un’attività in proprio, faceva il barbiere, e mia madre era impiegata al supermercato vicino a casa. Entrambi mi sembravano tutto fuorché dei geni, e per quanto ne sapessi avevano finito la scuola media, ma non erano andati oltre al terzo anno di superiori. Allora a cosa serviva andare bene a scuola? Se bastava non essere del tutto scemo per trovare lavoro io già ero a posto, per il resto, il buono che volevo combinare nella mia vita non riguardava ottenere chissà quale occupazione. Non sapevo neanche io cosa riguardava, ma col tempo l’avrei capito, e intanto macinavo giorni, mesi e stagioni, lasciando che il buio rendesse sempre più opaca la mia visuale.

A scuola non avevo amici, ma non ero neanche impopolare. Nei primi anni di ragioneria, l’aria del dannato, che io rinnegavo, ma che a quell’età si autoalimenta se solo parli poco, sorridi poco e non fai comunella con nessuno, mi rendeva anche attraente agli occhi delle ragazze - e nella mia classe ce ne erano venti, su venticinque che eravamo in tutto - peccato che loro non fossero attraenti per me. Su venti anime femminili, venti cessi, una cosa da non credere, dovevano aver fatto una selezione: ‘Siete gli scarti di Madre Natura? Su con la vita, venite da noi. Sotto la seconda di tette: il sei è assicurato. Denti storti: sei e mezzo. Capelli unti e stopposi: sette meno. Culo basso: otto. Brufoli e alitosi: diploma ad honorem e abbraccio accademico!’ Se l’avessi saputo prima avrei fatto l’Alberghiero.

Degli altri quattro sventurati conoscevo il cognome per assuefazione all’appello, e a quello avevo associato un nome per mero spirito enigmistico: ‘Colora gli spazi bianchi con il puntino e scopri cosa apparirà’, ma anche associando nome e cognome gli sparuti colleghi maschi rimanevano quattro emarginati. Carletti Matteo, un metro e settanta di ossa e occhiali, propensione allo sport zero meno. Ersili Ersilio, un metro e ottanta, buon difensore centrale, ma troppo incline alla rissa. Galimberti Fabio, un metro e settantacinque, normale fino alle caviglie, da lì in giù due ferri da stiro. Sariotti Tommaso, un metro e ottantadue di boria, figlio di un grosso commercialista: un predestinato. Dalla prima superiore per fare ginnastica si cambiava le scarpe e si metteva calzoncini e polo con le iniziali ricamate. Ho scoperto solo in quarta che non erano le sue di inziali, ma quelle di un certo Tacchini Sergio, e Sariotti mi sembrava ancora più sfigato.

Fuori dalla scuola andava meglio. Erano anni nei quali si giocava in strada. Non abitavo in un quartiere di bande, ma si creavano alleanze tra i ragazzi della stessa via e io ero uno dei leader di Via Medusa, gemellata con Via Andromeda e un tratto di Via Vega. Per noi, cresciuti con Goldrake Ufo Robot, confinare con Via Vega era una figata assurda, ma oggi nessuno lo può capire. In ogni caso, anche in strada non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Facevamo di tutto: truccavamo i motorini, ci lanciavamo con lo skateboard o le caratelle, andavamo a pescare al vicino lago della Cava, rientravamo a casa solo quando faceva buio e le madri strillavano affacciate ai balconi, o attraverso gli infissi aperti delle cucine. Eravamo liberi, ero libero, eppure mi mancava qualcosa, non riuscivo a trovare la mia luce.

Verso la fine della quinta, Mirco detto Lillo, un ragazzo di Via Andromeda sempre aggiornato su impianti stereo e videogiochi, se ne era uscito fuori con la fissa per la fotografia. Erano arrivate le prime macchine digitali e all’improvviso si potevano scattare foto su foto senza preoccuparsi di comprare rullini, centellinare gli scatti, sviluppare e poi stampare, che di trentasei foto che aveva un rullino la metà erano sempre mosse o col soggetto tagliato. Io non ero un patito del settore, ma, per quanto la mia fosse una famiglia disgraziata, andavamo tutti gli anni in vacanza e anche mio padre, come la maggior parte dei padri, in vacanza teneva al collo una compatta con rullino a colori. Le fotografie che si ammucchiavano nella scatola di legno, dove venivano assiepati i raccoglitori a libretto di plastica trasparente con il logo del fotografo sul fronte, erano sempre le stesse: orizzonti, campeggi, la neve d’inverno sulle colline limitrofe e il mare d’estate, qualche scatto ai monumenti, le pose stanche, le pance sfasciate. Ma il digitale era una vera e propria rivoluzione.

- Puoi scattare quante foto vuoi, le rivedi subito e quelle brutte le puoi cancellare. Anzi, non ti devi neanche preoccupare di cancellarle, perché su una scheda come questa, da centoventotto mega, ci stanno più di cento foto, e se le salvi sul computer la scheda la resetti e torna come nuova. Non è una figata?

Era una figata, non me ne fregava niente, ma dovevo riconoscere che era una figata.

- Ma la fotografia vera resta quella con la reflex. Aveva ripreso Lillo una volta raccolto il mio entusiasmo. – Gli apparecchi digitali sono divertenti, ma non potranno mai sostituire l’ottica di una buona macchina fotografica: il gioco dell’esposizione, la messa a fuoco, la luce.

Lillo sosteneva che la fotografia era un’arte. Gli avrei anche potuto credere, quello che non capivo era perché lo stava confidando a me. Diceva che una fotografia fatta bene sapeva cogliere sia l’anima del soggetto che del fotografo. Io restavo smarrito tra le ombre della mia ignoranza, ma il tema iniziava a catturare la mia attenzione.

- Per fare davvero una bella foto non si tratta solo di inquadrare un bel soggetto, ma di cogliere l’attimo, immortalare quello che c’è dietro l’immagine. Se parliamo di paesaggi bisogna giocare con la luce, beccare una nuvola in un momento particolare, l’inclinazione del sole, ma il bello, per me, è se parliamo di soggetti animati: la fatica di un muratore, il salto di un cane, il momento esatto in cui il piede impatta sul pallone. Per fare queste foto non c’è macchina digitale che tenga, non ancora, e forse mai ci sarà.

Tutte queste cose dietro una fotografia? Non ci avevo mai pensato, di certo non l’avevo colto dagli scatti sempre uguali delle nostre vacanze, ma qualcosa si era aperto dentro il mio animo inquieto. Su indicazione di Mirco detto Lillo ero andato a parlare con Luciano Gioia, quello di Foto Gioia. Teneva corsi di fotografia gratuiti per il primo mese e per quel mese ti prestava pure l’attrezzatura. Se fosse tornato a non fregarmene niente, niente avevo speso.

Quando Luciano Gioia mi parlava di fotografia sembrava facesse catechesi. Tra le altre cose, io non ero esattamente un estimatore degli enti religiosi - per dirla con un giro di parole - non lo ero mai stato.

- Parietti, non sei del tutto una capra.

- Questo me l’hanno già detto.

- Sì, però stai zitto. Quello che voglio dire è che sembri un cinghiale e forse ti piace dare questa immagine di te, ma hai qualcosa di umano dentro che è più solido di quel che pensi.

- Scusa Luciano, ma cosa c’entra con la fotografia?

- C’entra, perché tu fino a oggi è come se avessi vissuto sottoesposto. Se dai poca esposizione alla pellicola questa non prende i colori, resta sciapa. E tu sei sciapo, ma non capra.

- Se andassimo avanti e questo concetto sottile lo dessimo per assodato?

- Hai sempre guardato le cose con poca attenzione, e non ti sei accorto che dove c’è ombra, c’è anche luce.

- Perdonami Luciano, ma fino a qui ci arrivavo.

- Voglio sperare. Ma dove c’è ombra e buio, tu vedi solo quello, buio.

- In mancanza di occhi felini…

- Vuoi stare zitto accidenti? Anche nel buio, invece, ci può essere un cambio di luce. Più buio e meno buio, sono una variazione. Se spegni la luce e chiudi le imposte di una stanza in un primo momento vedi solo buio, ma dopo un poco abitui i tuoi occhi e inizi a scorgere il profilo delle cose.

Insomma, sembrava che Luciano Gioia di foto Gioia, tra un consiglio sull’uso dell’otturatore e un altro sulla duttilità della fotografia digitale, si fosse messo a impartirmi lezioni di vita. Diceva che ogni individuo è illuminato, in ognuno c’è un talento, e diceva che questo talento non va sprecato. Questo - ho scoperto in seguito - lo diceva già Matteo in un passo del suo vangelo, mentre Luciano, dalla sua, continuava aggiungendo che con una buona macchina fotografica e tanta pazienza si possono fare fotografie anche in quasi assenza di luce.

- Non ci sono scatti impossibili, solo scatti difficili. La differenza la fa la macchina, ma soprattutto l’operatore. Dove la maggior parte della gente vede immondizia un fotografo può vedere un’opera d’arte, e se riesce a coglierla, a immortalarla, la rende fruibile all’umanità, e questo è un dono.

Sarà stato vero, se c’erano esseri umani che campavano di fotografia voleva dire che tanti altri apprezzavano quel dono e lo pagavano bene, ma io, concluso il mese di prova, avevo ringraziato Luciano Gioia di Foto Gioia e riconsegnato tutta l’attrezzatura. La sua passione, e Mirco di Via Andromeda detto Lillo, avevano iniziato a farmi vedere sotto una nuova luce l’arte della fotografia, ma questa non era diventata né il mio lavoro, né il mio grande amore. Nel frattempo, però, avevo terminato ragioneria, seppure con il minimo dei voti, e per tirare su due soldi in attesa di una vera occupazione ero andato un paio di mesi in negozio da mio padre. Tempo qualche anno e ho rilevato l’attività, e ancora adesso, il mio bel diploma in tasca, con soddisfazione faccio il barbiere. Non me l’ha imposto nessuno, l’ho fatto per scelta. Ero, e sono, contento, e posso dire che finalmente mi sento a fuoco, anche se non credo di essere un soggetto illuminato.

Mirco di Via Andromeda, detto Lillo, ha aperto un negozio di generi alimentari. Gli altri ragazzi della strada non li ho più visti. I quattro emarginati della scuola ancora meno. Ogni tanto faccio ancora un salto da Foto Gioia, dove Luciano dispensa la sua saggezza lenticolare. Continua a dire che il bravo fotografo non deve mai perdere la fiducia nella propria ispirazione anche quando sembra che non ci sia nulla da fotografare, quando per una giornata intera non gli è riuscito un solo scatto degno di nota, quando vede solo buio e ombre e contorni sfumati. - In quel buio. Dice, - il bravo fotografo sa trovare la propria luce e cogliere il momento, l’opera d’arte, l’animo pulsante del genere umano.

Continuo a non capire cosa vuole dire, ma sono sicuro che può aver ragione.