Renzo Semprini Cesari - La schiuma dei giorni

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I ricordi sono al tempo stesso una fortuna e una rovina, senza saremmo scatole vuote e solo la mutazione darebbe senso alla vita. Un accadimento resterebbe importante se, pur non avendone memoria, influisse in qualche modo sul nostro cammino. Se non potessimo ricordare il profumo, o il colore di un fiore, non avrebbe senso fermarsi ad ammirarlo, perché un istante dopo sarebbe come se quel fiore per noi non fosse mai esistito, ma se il profumo o il colore di quel fiore, al di là del ricordo mancante, condizionassero le nostre scelte e, per esempio, ci facessero interessare a un uomo perché ha quello stesso profumo o perché ha una camicia di quel colore, allora ci sarebbe ancora un senso nelle cose.
D’altra parte i ricordi possono essere una rovina. Quando resti ancorato alla tua vita passata, quando il ricordo di ciò che non sei più, dei tempi felici, della mancanza di pensieri, ti impedisce di guardare con mente sgombra al futuro, allora sono un peso che opprime, sono una soffocante coltre di fumo.

Da quando l’incidente di Trieste ha obbligato Stefano a vivere in carrozzella e con la misurazione continua della glicemia abbiamo smesso di esistere, offuscati dal ricordo di ciò che eravamo, incapaci di edificare un nuovo futuro. Ha perso la voglia di combattere e io non sono in grado di aiutarlo. I giorni si ammucchiano uno sull’altro. Mescolati alla noia e alla rassegnazione producono una schiuma appiccicosa dentro la quale restiamo sempre più impantanati. Quello spirito agonistico che lo spingeva nella gare di enduro, che gli faceva aggredire la vita, si è spezzato insieme al pancreas e alla colonna vertebrale, e da allora boccheggia, attaccato al respiratore dell’adrenalina.
Tra casa nostra e il mare c’è uno snodo ferroviario dove per la maggior parte del tempo manovrano treni merci e sferragliano vecchi interregionali, ma una volta al giorno, prima che sorga il sole, ci si incrociano anche due intercity.
Un anno fa, quando siamo passati di qui al culmine di una notte insonne, Stefano ha avuto un guizzo. Le luci dei convogli che puntavano l’uno contro l’altro sembravano gli occhi di due pistoleri, e lì è nata la folle idea: tornare la mattina seguente per attraversare i binari prima che i due intercity si incrociassero, mentre correvano l’uno verso l’altro. Non so cosa mi fosse passato per la testa, ero annullata dalla sua rassegnazione, e, trascorsa un’insolita notte serena, l’avevo accompagnato a quello snodo. Una rete metallica scurita dal sole, e venti metri di terra incolta, separavano la strada dal piazzale di cemento solcato da due coppie di rotaie. Erano le cinque di mattina, la strada era buia. Coperti dal furgone lasciato lungo il ciglio avevamo creato un varco nella rete utilizzando le pinze multiuso di cui Stefano un tempo andava fiero. Era stato facile, la rete era lasca e sfibrata. Non c’erano sentieri, ma il terreno era abbastanza regolare e senza grande fatica, nonostante le ruote ogni tanto impuntassero o scartassero di lato, avevamo raggiunto i binari e lì era partita la nostra attesa. Non ci era voluto molto, i treni erano regolari. Cinque minuti, i nostri occhi sembravano sanguinare insieme, poi, Stefano rivolto indietro e io piegata verso di lui, avevamo attraversato le rotaie mentre i due intercity si affacciavano ai lati opposti dell’orizzonte. Era stata una follia, anche se i convogli erano lontani sarebbe potuto succedere qualunque cosa, ma aveva sortito il proprio effetto: la vita era scorsa nelle vene e gli occhi avevano smesso di sanguinare. Per qualche mese l’adrenalina ci aveva reso di nuovo umani. Ma, come ogni cosa artificiale, quella scarica si era affievolita e qualche tempo dopo eravamo dovuti tornare ad affrontare di nuovo la sorte. Varco. Attesa. Paura. Noradrenalina. Anche la seconda volta aveva funzionato, ma l’effetto durava sempre meno, si consumava più rapido di un cerino al vento, e da allora, drogati in cerca della dose, siamo tornati a quello snodo, a questo snodo, a cadenze sempre più ravvicinate come più vicini sono i treni, ogni volta, nel momento in cui attraversiamo.
E siamo qui, l'ultimo velo della notte che avvolge la collina, il forte sentore che la sfida potrebbe giungere a una fine. Come al solito, abbiamo lasciato il furgone fuori dalla rete, chiavi sul cruscotto e portiere solo accostate: quel mezzo è l’unica cosa che Stefano riesca ancora ad amare. “Se non riusciamo ad attraversare”, ha detto una delle prime volte, “vorrei che qualcuno lo potesse prendere senza rompere nulla”. Stefano, invece, è la cosa più importante della mia vita.
La smania ci ha fatto arrivare presto. Siamo a filo della rotaia da più di mezz’ora. I treni merci, dall’altra parte del piazzale, continuano a lavorare senza curarsi di noi. Credo che non ci possano vedere perché siamo offuscati da un grosso faro che punta nella loro direzione. A un tratto, Stefano dice qualcosa sul fatto che quei treni merci sembrano dei piccoli vermi colorati. Lo prendo per un accenno di dialogo, invece lui ne approfitta per trasformare la mia risposta in una provocazione sull’inutilità della nostra vita e sul senso di quello che stiamo per fare. Attraversare i binari mentre due intercity corrono l’uno verso l’altro è solo una follia, che cosa gli dovrei dire? È normale che due persone trovino la forza di andare avanti solo sfidando la morte, in cerca di una scarica di adrenalina? È quanto meno surreale. Ci vorrebbe uno psicoterapeuta, per tutti e due, ma Stefano si rifiuta di affrontare le cose. Ce l’ha sempre fatta da solo, dice, e crede di poterlo fare ancora. Non è così, quello che stiamo facendo ne è la palese dimostrazione. Da parte mia, ho paura a contraddirlo. L’incidente ha condizionato anche la mia vita, non è facile vivergli affianco, ma è solo lui che non potrà mai tornare indietro. Io non lo abbandonerò, ma se volessi potrei farlo. Per lui, invece, non c’è nessuna via d’uscita. Allora accetto le sue scelte, cerco di farle mie, e sono qui, ancora una volta, a mettere in gioco la mia vita.
Oggi è particolarmente freddo. Lo dico anche a Stefano e, mentre lo faccio, esce uno sbuffo di vapore che si dissolve prima di arrivare alla sua testa. Ha sempre avuto dei bei capelli, mossi e folti. Da qualche tempo son diventati sale e pepe e gli danno un tocco di vissuto che, se non fosse per lo sguardo inerme, lo renderebbero più affascinante di prima. Lo riprendo, perché si sarebbe dovuto coprire meglio, e mi accorgo subito della sciocchezza che ho detto. Lui pare che non aspettasse altro e ironizza sul nostro futuro e sul fatto che, se non riusciamo ad attraversare i binari, non saranno il raffreddore o la tosse il problema. È crudele, ma ha ragione, e io sono la solita svampita: continuo a ragionare come se tutto fosse normale. Il fatto è che io penso che potrebbe ancora esserlo, che non sono la carrozzella o l’insulina a distruggere la vita, ma è la sua apatia. Solo che non riesco a dirglielo, ho paura di perdere quel sottile equilibrio sul quale ogni giorno sopravviviamo. E se costringerlo ad affrontare i nostri problemi lo facesse cadere in una vera depressione? Non me lo posso permettere, così cerco di fare mio il suo punto di vista, per comprendere che non ha più tempo o spazio per l’amore, per non rischiare di rimanere sola, per convincermi che sto facendo la cosa giusta, l’unica che mi è concessa di fare: mettere di nuovo la mia vita nelle sue mani, e nella forza delle mie.
Da quando siamo arrivati è come se avessi la testa altrove. Ho risposto a Stefano col suo stesso modo di fare: monosillabi e interruzioni. Ho uno strano presentimento, ma non è questo il punto, se andasse male sarebbe semplicemente la fine del nostro patire. No, quello che mi rende distante da questa scena non è la paura di non attraversare in tempo, ma qualcosa che dipende dalla giornata, dal cielo che ci mette più del solito a schiarire, dai residui tossici che si sono ammucchiati negli ultimi mesi. E quando Stefano mi chiama, e grida, e la mia testa e il mio corpo tornano a essere una cosa sola, la sua voce mi arriva accompagnata dalle note frenetiche degli intercity, già vicini. All’improvviso sento le punture del freddo per il quale lo avevo stupidamente ripreso. Poi mi accorgo che non è quello a farmi tremare, ma le vibrazioni del suolo e, ancora di più, le scariche che il mio cervello produce senza che io me ne renda conto, quel meccanismo che fiuta il pericolo e mette in allerta ogni parte del mio corpo e sembra dire: è ora degli straordinari, signori! I due intercity sono davvero vicini. Quel poco di raziocinio che non è ancora stato surclassato dalla noradrenalina mi fa pensare, per un istante, che è troppo tardi e troppo rischioso. Solo una breve e inutile riflessione, solo quella, prima che arrivi di nuovo il grido di Stefano. Urla, e guarda davanti a sé. Esistono solo i binari la carrozzella e i treni. Dice che è ora di andare. Impreca. CAZZO VIRGINA ANDIAMO! E allora, anche se so che questa volta abbiamo esagerato, smetto di pensare, getto anche io lo sguardo oltre i binari e mi lancio insieme a lui, mi lancio a sfidare la sorte in cerca della vita. Cemento, ferro e acciaio trasmettono vibrazioni che si disperdono tra le ruote della carrozzella e le mie braccia irrigidite. Le luci dei due treni abbagliano, sono talmente vicine da farmi sentire avvolta da lampi. Immagino che, per la prima volta, ci vedano anche i macchinisti perché sento il fischio delle loro sirene, mai udite prima. Avvisi inutili: non possono fermare i treni e neppure farci attraversare in maniera più veloce. Solo la nostra volontà, la mia volontà, la mia energia, il mio attaccamento a questa dannata vita, può tirarci in salvo prima che si incrocino i due treni. E io spingo e scalpito, mentre tempo e spazio sembrano diluiti. Dieci metri da bruciare in pochi secondi, eppure ritorno a pensare e mentre scavalco la terza rotaia mi viene il dubbio che non servirà a nulla: il vuoto creato dal secondo intercity ci risucchierà indietro, siamo spacciati. E se non sarà il vortice a farci morire, saremo noi stessi, sarà l’assuefazione alla noradrenalina, sarà la voglia di Stefano di stare male, la sua paura di fidarsi di nuovo della vita, la mia, di non riuscire a stargli affianco. E allora, anche se siamo a un passo dalla salvezza, smetto di spingere. Mi lascio andare. Che la sorte compia il nostro destino.
Ma la sorte, lo avrei dovuto immaginare, è più avanti del mio pensiero. Nella frazione di secondo in cui mi illudo di sconfiggere la vita, l’inerzia mi porta oltre la terza e la quarta rotaia. C’è il risucchio dell’intercity, ma è poco più forte di una folata di vento. Il cuore mi scoppia dentro il cervello. I polmoni si comprimono e cercano di dilatarsi senza tregua. Lo sferragliare dei convogli, a pochi metri da me, sovrasta ogni rumore come un mare in burrasca. Appena riesco a riprendere fiato mi volto per guardarli correre via, due luci che si perdono in direzioni opposte in questa lacrima di notte mista al mattino. Solo quando mi giro di nuovo, il sudore che si ghiaccia intorno alle tempie e lungo la schiena, mi accorgo che davanti a me c’è Stefano sulla carrozzella.
Non dice nulla. Non lo faccio neanche io. Non vado neppure in cerca del suo sguardo. Quando i treni sono svaniti e il cuore rientra nell’angusto spazio in mezzo al mio petto, torno a stringere i manici di plastica. Inermi. Isolanti. Manovro la carrozzella, cambio direzione e insieme a lui ritorno indietro. Non so cosa passi per la sua testa, ma nella mia sento che è ora di cambiare. Da qui in avanti voglio ritrovare almeno un briciolo di gusto per la vita.