Marilena Fonti - La schiuma dei giorni (Saraya)

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La mattina in cui l’avevano trovata nella cunetta era un grumo di disperazione e di paura, ripiegata su se stessa, nuda, tremante. Il suo corpo, il cui colore si confondeva con quello della terra su cui posava, era scosso da un fremito incessante, sembrava quello di un animale ferito che aspetta la morte sperando che arrivi. La sua anima era stata presa a morsi e ridotta in brandelli, così come la sua carne.
Dopo il ricovero in ospedale era rimasta in uno stato di semi-incoscienza per qualche giorno: con gli occhi chiusi, muta, scollegata da tutto quello che le accadeva attorno. Quando aveva ripreso contatto col mondo, e la donna che le aveva detto di essere un’ispettrice di polizia le aveva chiesto chi fosse, lei aveva risposto che si chiamava Saraya e aveva diciotto anni. Ma ne aveva sedici, appena compiuti. Le avevano proibito di dire la sua vera età a chiunque, con le solite minacce che ormai incombevano sulla sua vita come un harmattan fitto e soffocante. Lo aveva fatto nel suo inglese sconnesso, il suo italiano non le consentiva ancora di avere una conversazione normale: le avevano insegnato le parole necessarie per lavorare, e ne aveva imparata qualcuna dai clienti. Avevano dovuto fidarsi, poiché non aveva documenti; non avevano trovato neanche i suoi vestiti, nelle cui tasche avrebbe potuti riporli, né una borsa. I documenti non li aveva più avuti da quando, un anno prima, era salita sul camion che l’avrebbe portata in Marocco: il suo passaporto, da quando era arrivata in Italia, era finito nelle mani della maman. Non aveva mai saputo come si chiamasse quella donna in realtà, le era stato intimato di chiamarla sempre e soltanto così. Ne aveva avuto paura sin dal primo momento, forse ancora più degli uomini che l’accompagnavano la sera e, a volte anche la mattina, nello slargo lungo la tangenziale dove aspettava l’arrivo dei clienti. Quegli stessi uomini, dopo il suo primo incontro con la maman, le avevano fatto una specie di corso intensivo e accelerato, prima di avviarla alla strada.
Nella stanza tutta bianca, con una finestra da cui si intravedevano degli alberi alti, dalle foglie grandi, di un verde intenso, quasi come quelli attorno al suo villaggio, si sentiva al sicuro. Ma se avvertiva dei passi che si avvicinavano alla sua porta tratteneva il respiro, incapace di dominare la paura che partiva a piccole onde, quasi increspature sul cuore, fino a diventare uno tsunami ingovernabile. L’infermiera, quando aveva saputo della sua storia, le aveva assicurato che lei e i suoi colleghi non avrebbero permesso a nessuno di entrare, però l’idea di ritrovarsi la maman, o uno dei suoi scagnozzi, la atterriva. Nella camera c’era solo lei, non voleva sapere perché, sebbene potesse immaginarlo, ma le andava bene così. Gli sguardi sospettosi, curiosi, sicuramente sdegnati, di altre donne, avrebbero accresciuto l’angoscia che già la tormentava, un macigno che le premeva sul petto, mozzandole il respiro, ogni istante, di giorno e di notte.
In quel letto, da cui cominciava a staccarsi da poco, dopo gli interventi che aveva subito, le tornavano alla mente le ultime immagini del suo villaggio dopo l’attacco dei Boko Haram. Lei, suo padre e sua sorella più piccola, erano andati in città per il mercato dove vendevano i prodotti del loro piccolo pezzo di terra e, nei momenti del massacro, erano sul loro pickup, in viaggio verso casa. Il fratello maggiore lavorava a Maiduguri, non tornava quasi mai. Il resto della famiglia però era finito nel groviglio di corpi smembrati e carbonizzati, confusi tra i frammenti delle case che il fuoco, nella sua ingordigia rabbiosa, non era riuscito a divorare. Quando giunsero al villaggio, davanti ai loro occhi si presentò l’inferno: Saraya ne aveva sentito parlare dall’imam in moschea. A quel punto sapeva com’era, non doveva più immaginarlo.
Era passato un mese dall’assalto al villaggio quando quella donna, col costume locale, ma piena di gioielli, si era fermata davanti alla loro merce al mercato. Riferì loro che era appena tornata dall’Italia per far visita alla sua famiglia. Non le ci volle molto a sapere dal padre di Saraya che loro erano tra i pochi superstiti della razzia dei miliziani: lui non parlava d’altro, forse per esorcizzare il suo mondo da altre incursioni degli spiriti del male. Lo sguardo della donna si posò sulla ragazza, scrutandola con un’insistenza fastidiosa, insolita, e poi suggerì: «Sono sicura che in Italia un lavoro per lei si trova, in poco tempo può guadagnare tanto e aiutare anche voi che restate.».
Saraya ricordava ancora la luce che vide brillare negli occhi del padre a quelle parole e che, dopo tanto tempo, per lei era l’altra faccia delle tenebre profonde in cui sarebbe stata risucchiata da quel momento in poi, in un vortice che avrebbe travolto tutto.
Poi il rito col baba-loa, il suo corpo ceduto per quarantamila naira necessari per il viaggio e la prima sistemazione. E il giuramento di non rompere il patto per non attirarsi le ire degli spiriti che dovevano proteggerla. Avrebbe restituito il denaro alla donna che la stava guidando verso una nuova vita col proprio lavoro. Solo dopo aver saldato il debito sarebbe tornata a essere di nuovo padrona del suo corpo. Era stata l’idea di riprendersi quanto aveva da sempre considerato suo, a spingerla a guadagnare sempre di più, sempre più in fretta, con turni massacranti che riusciva a reggere perché era giovane, il suo fisico irrobustito dal lavoro nei campi. Uno strumento, in quei giorni, a disposizione dei suoi carcerieri e di chiunque pagasse: un passaggio obbligato, il pedaggio per la libertà.
Una sera, quella, come tante. Un cliente come gli altri: guardingo, negli occhi un misto di desiderio e di ribrezzo, come tutti. Sembrava africano anche lui, ma del nord, a giudicare dalla pelle ambrata e dai tratti del viso. Come le persone che aveva incontrato in Marocco, nella prima tappa del lungo viaggio, prima di salire, insieme a una settantina di sconosciuti, su un barcone che, da lì, l’avrebbe consegnata alle coste della Sicilia. L’uomo l’aveva caricata in macchina per portarla in un posto tranquillo che raggiunsero dopo aver percorso un sentiero di campagna: un casolare che sembrava abbandonato, ma la cui porta era socchiusa. Lui la invitò a seguirlo, spingendo la porta. Era buio, ma una volta assuefatta all’oscurità, Saraya riuscì a distinguere un gruppo di sei, forse sette uomini, che si alzavano lentamente dal pavimento su cui erano seduti. Con un guizzo fece per guadagnare l’uscita, ma braccia robuste la bloccarono e qualcuno le sferrò un pugno in pieno viso. Nello stordimento che seguì avvertì che la stendevano per terra e, mentre lei si divincolava con le poche forze che le erano rimaste dopo il colpo, sentì mani che la spogliavano con urgenza febbrile. E ricevette un calcio su un fianco, poi un altro su una spalla, ancora un pugno in pieno petto. Parlavano una lingua incomprensibile, qualcuno urlava sempre la stessa parola. Lei non capiva. Uno di loro si sdraiò su di lei, poi un altro. Poi il buio. Quando si risvegliò era quasi l’alba e lei era in una culla di terra umida, sotto un cielo che iniziava ad aprirsi, ma che riusciva a vedere appena, gli occhi lividi e tumefatti ridotti a due fessure. L’aveva notata un ciclista che si allenava di prima mattina.
Cinque giorni dopo il suo arrivo in ospedale, l’ispettrice di polizia, che l’aveva interrogata dopo il suo ricovero, era tornata in compagnia di un uomo giovane: le aveva detto che era un prete, lei lo aveva capito subito dalla piccola croce di metallo appuntata sul colletto della camicia. Anche i preti che venivano qualche volta al villaggio, dalla missione vicina, ne avevano una. L’uomo le aveva detto che c’era una casa, in campagna, dove poteva andare quando l’avessero dimessa dall’ospedale, se voleva. Vi avrebbe trovato altre donne, sfregiate dalla brutalità della vita, come lei, «e quando starai meglio, cercheremo un lavoro per te.», aveva concluso. Al suo sguardo smarrito, aveva aggiunto: «un lavoro in un albergo, come donna delle pulizie. Ci sono tanti alberghi in questa zona. Oppure come aiuto per qualche anziano. Lavori che ti garantiranno un posto dove dormire, e pasti regolari, più la paga.». A Saraya, mentre l’uomo parlava, era venuto in mente il suo debito, e si limitò a fissare i due in piedi davanti a lei senza dire una parola. La donna, come se le avesse letto nel pensiero, intervenne: «Non preoccuparti di nulla, non devi niente a nessuno». Quindi sorridendo, con espressione risoluta, aveva aggiunto: «col tuo aiuto contiamo anche di arrivare alle persone che ti tenevano in ostaggio.». Dopo che se ne furono andati si era rannicchiata sotto le coperte e aveva pianto come non faceva da mesi.
Quando un medico e la solita infermiera erano passati a dirle che, se gli ultimi esami fossero risultati buoni, sarebbe stata dimessa due giorni dopo, Saraya era stata investita da una valanga di emozioni contrastanti: paura, curiosità, attesa, desiderio, diffidenza, fiducia. Tutte insieme, in un unico grande miscuglio in cui i giorni che aveva vissuto in Africa, nel suo villaggio, con tutta la famiglia, e quelli che comprendevano il lungo viaggio verso l’Italia e la cattività inattesa, si fondevano. E da quella fusione lei, forse, a quel punto, poteva sperare che affiorasse la parte migliore: la schiuma candida e lieve di giorni che contenessero la promessa di una vita piena zeppa di voglia di vivere. Che non le facesse vedere nella morte l’unica via di scampo, ma fosse fatta di giorni scanditi da azioni ordinarie, un’esistenza al riparo dalla ferocia, a cui ancora temeva di doversi piegare. Lei avrebbe separato quella schiuma sana dal resto, dagli scarti di una vita creata da incubi e inganni. Disorientata e in preda a mille paure, ma anche impaziente di inventarsi i suoi primi giorni nuovi.

harmattan - vento secco e polveroso che soffia in Africa a nordest e ovest, dal Sahara al Golfo di Guinea, tra novembre e marzo
baba-loa – santone africano che pratica riti voodoo
naira – valuta nigeriana