Angela Colapinto - Adius

Scritto da

ADIUS, ANGELA!

Alessandro
Quando faceva quella cosa prima di addormentarsi io proprio non lo sopportavo.
Pensavo che un giorno sarei arrivata a legargli le mani e a tappargli la bocca con del nastro adesivo. Poi gli avrei messo la sua cazzo di pinza da nuotatore nel naso e Adios Alessandro, ci rivedremo nel giardino dell’Eden!
Con tutto l’alcool che ogni giorno offriva in sacrificio al suo fegato non si sarebbe nemmeno accorto di passare a miglior vita. E vi assicuro che non è affatto un modo di dire nel suo caso, dato che il massimo dell’attività giornaliera per lui era ridotta, da mesi, al passaggio dalla poltrona al letto con una breve sosta in bagno, quando era ancora abbastanza in sé da assicurarsi una pisciata in piedi.
Sembrava un asmatico: non appena raggiungeva la posizione supina, prima ancora che potessi accorgermi della sua assenza dal salotto, partiva un rantolo profondo che gli usciva dai polmoni e, passando per l’esofago, si faceva largo in mezzo ai denti saturando la camera da letto di whisky e succhi gastrici.
Lui non era un alcolista.
Ripeteva a tutti: «Lavoro tutto il giorno, non fumo, non vado a puttane. Mi sembra che un bicchiere di vino sia più che meritato!»
Un boccale forse, per non dire una damigiana.
Non so da quanto tempo non dormivo più nel mio letto, so solo che con la scusa che il vecchio divano non andava più bene per ricevere ospiti ne avevo comprato uno nuovo: bastava tirare una levetta ed ecco che in men che non si dica diventava un letto a una piazza e mezzo.
Così, dopo che Alessandro entrava in coma, io andavo in camera a disfare la mia parte per fargli credere che avevo dormito con lui e allestivo il mio rifugio in salotto, lontano da Darth Fener.
Non serviva nemmeno che mi adoperassi per svegliarmi prima di lui, le condizioni in cui si riduceva la sera non gli permettevano di sentire suonare la sveglia. Ero io, ogni mattina, a rovesciargli un bicchiere di acqua gelata in faccia per farlo riprendere.
Non faceva nemmeno lo sforzo di liberare le braccia: sbatteva gli occhi un paio di volte e, svogliato, si dirigeva in bagno a braccia conserte. Data la scarsa mira ho sempre avuto il sospetto che pisciasse anche nella stessa posizione.
Dieci anni e molti perché.

Darth
Ci eravamo conosciuti in oratorio quando ero ancora all’università. Alessandro ha sei anni in più di me e all’epoca lavorava già da cinque. Si è laureato tardi per potersi mantenere agli studi, con un padre infermo era difficile fare affidamento sulla sola pensione di invalidità.
Non ho mai avuto troppa fiducia in certi ambienti, nonostante li frequentassi con regolarità ma lui sembrava veramente un’eccezione alla media di persone che si vedevano circolare in chiesa la domenica.
Avevo lasciato il mio fidanzato di allora, il quale non ne aveva fatto una tragedia visto che la mia scelta gli aveva regalato la possibilità inaspettata di uscire allo scoperto insieme alla mia migliore amica.
Migliore soprattutto di quanto non lo fossi io per lui e anche migliore nell’ars amandi, che poi, oltre che amandi, parliamo di mentendi.
Nessuno prima di allora era riuscito a farmela sotto il naso con tanta maestria. Non mi ero accorta di nulla, nemmeno che quei chili di troppo che diceva di aver messo su negli ultimi mesi nascondevano in realtà un cicciobello in carne e ossa: cinque chili di bebè per cinquantacinque centimetri di lunghezza. Notizia che appresi da conoscenti comuni.
Con l’arrivo di Alessandro mi lasciai alle spalle tradimenti e vecchi rapporti per aprire la porta a nuove esperienze.
Nuovi conoscenze e nuovi tradimenti.
In particolare i suoi. Le sue relazioni erano in media cinque o sei. Contemporanee.
Per fortuna, tra tutte, ero la privilegiata: mi ero assicurata la convivenza, l’anello di fidanzamento e la forza oscura di Guerre Stellari.
Questa storia del respiro pesante andava avanti dalla prima notte in cui dormimmo insieme nel lontano duemilacinque, si era solo aggravata con l’abuso di alcool. Abitudine che gli aveva regalato il soprannome di Darth Fetor.
Alla soglia dei quarant’anni ho iniziato a fare due conti. C’è chi va in crisi per l’età e si vuole sistemare, chi pensa di stare invecchiando a valuta interventi estetici. Io volevo solo sesso, a quarant’anni non si può certo smettere di farlo. Del resto Alessandro aveva il sonno pesante e io, con leggerezza, ogni notte da quando aveva iniziato a bere, prendevo la porta di casa.

Incontro
Nel disco-pub dietro l’angolo avevo incontrato il mio principe azzurro: come la tradizione vuole non aveva nemmeno la patente e non potendo utilizzare il cavallo, prendeva l’autobus. Abitava dall’altro capo della città, da solo, faceva lo scrittore (o almeno così raccontava) e amava la birra fresca.
Ero appoggiata al bancone intenta a rispondere a un messaggio:
«Sei qui da sola?» mi chiese.
«Sì ma non voglio compagnia» rimpiansi queste cinque parole un secondo dopo averle pronunciate.
«Come vuoi, ti lascio stare» fece per voltarsi e andare via.
«Aspetta,» aggiunsi «sono stata scortese. È che non vorrei dare l’impressione sbagliata…»
«E quale sarebbe?»
«Di quella che è qui ad aspettare un uomo che con un paio di complimenti se la porti a casa» che era quello che volevo.
«Ok.» fece una pausa «Hai un bel culo, scopiamo?»
«Sono a piedi e abito qui dietro. Da me no, c’è il mio fidanzato.»
«Andiamo in cambusa, conosco il proprietario.»
Chiavi in mano, preservativi in tasca e rotolo di carta igienica.
La nostra prima volta fu molto più romantica di quanto a prima botta possa sembrare. Restammo sdraiati sul pavimento della cambusa a chiacchierare fino a chiusura e ci salutammo con un lungo e appassionato bacio alla fermata del bus.
Frittata alla fermata del bus, i pomodori verdi fritti forse Alessandro li avrebbe pure graditi ma di treni su cui salire, per me, nemmeno l’ombra. L’avevo fatta grossa, era la prima volta che lo tradivo ed era successo con un perfetto sconosciuto. Perfetto però sotto molti aspetti.
Ci eravamo scambiati i numeri e la nostra relazione andò avanti per qualche mese. Mi desiderava, mi capiva, mi riempiva di complimenti, promesse e regali e non mancava mai un appuntamento. Non trovavo i suoi romanzi in nessuna libreria della città ma poco importava, ero pronta a partire con lui su un intercity qualsiasi.
Una voce metallica un giorno mi avvertì che il numero da lei chiamato è inesistente. Aveva preso il treno, lui. Vaffanculo principe azzurro, vaffanculo!

Ultimatum
Fino a che non fui sostituita dalla bottiglia, credetti davvero che Alessandro per me fosse l’uomo ideale e che la nostra storia potesse durare per sempre.
Per sempre, che locuzione impropria. Come se non sapessimo che niente è per sempre, forse nemmeno la morte.
Eppure i primi anni della nostra relazione mi diedero tutto quello che da sempre desideravo. Alessandro era bello, profondo, intelligente, sensibile, innamorato e presente. Aveva amici quasi simpatici e il padre mi adorava.
Un giorno mi chiese di sposarlo con una semplicità disarmante: eravamo rientrati da una cena, mi aveva guardato e mi aveva detto «Io sono pronto».
«Per cosa, amore mio?»
«Per passare il resto della mia vita con te.»
In quel momento avevo sentito partire la sigla di Beautiful e visto cadere in una coppa di champagne un solitario in oro bianco. Mi fece trovare sul comodino una fedina in argento per bambini poiché le mie dita non concedevano acquisti superiori alla misura numero sette, accompagnata da una rosa e da un bigliettino sul quale aveva spruzzato un po’ del suo profumo. Mi ero sentita Cenerentola e in fretta avevo radunato squadre di topini che mi avrebbero aiutato col vestito e i preparativi.
Al rientro dalla luna di miele Alessandro di dolce non aveva che lo zucchero contenuto nell’alcool e, oltre all’hostess, con noi erano tornate anche una decina di bottiglie di whisky. Tutte nel suo stomaco.
Cosa avesse causato questo tracollo non l’ho mai saputo. Mi accontentai della sua risposta al mio «O lei o me.»
«Te. Purché resti anche il whisky.»
Fu così che decisi di provarci, per l’unica e ultima volta.

Sindrome
Ero sdraiata, prona, con il cranio fracassato, sul pavimento della cucina.
Anche in quelli che sapevo essere i miei ultimi istanti di vita Alessandro riusciva a mancarmi.
Era stata colpa mia se gli avevano preso i cinque minuti e, dopo aver distrutto tutta casa con una spranga di ferro, aveva deciso di farmi fuori.
Io non dovevo nemmeno essere lì.
La mia sindrome da crocerossina non era stata in grado di guarire lui più di quanto, in quel momento, non lo fosse di curare me.
Qualche settimana prima Alessandro aveva scoperto del mio tradimento: aveva chiesto di usare il mio cellulare perché il suo era scarico e nella cronologia della chat aveva visto i suoi messaggi. Si era infuriato, gli avevo rinfacciato di essere stato un ottimo insegnante. Allora lui si era calmato mostrando un finto perdono poi, aveva duplicato la sua dose giornaliera di whisky.
Presi la decisione irrevocabile di fare le valigie e di andarmene di casa. Non sarebbe stato facile, se me la fossi lasciata sfuggire, che un’altra via di fuga mi venisse offerta in maniera così semplice.
Mi sembrò l’occasione della vita fino a che il vuoto non divenne peggio della presenza di Alessandro.
Un giorno suonai al campanello della nostra vecchia casa.
Mi aprì. Mi fece entrare. Parlammo per quasi due ore e piansi a lungo sulla sua spalla. Mi tenne abbracciata fino a che non mi calmai. Iniziò a baciarmi lentamente, prima la testa, il viso, poi il collo, le spalle. Facemmo l’amore e ci addormentammo accoccolati.
Quando riaprii gli occhi lui non c’era. Mi affacciai in salotto e lo vidi seduto sulla poltrona. Ubriaco.
Io non so che cosa non gli piacque nel mio sguardo. So solo che prese la spranga da dietro la credenza e pochi secondi dopo mi ritrovai distesa per terra. Distrusse tutto quello che aveva intorno, l’unica cosa che risparmiò fu la bottiglia in cui teneva il whisky. Finito il lavoro, scansò una sedia dal tavolo e si sedette esausto.
Mentre respiravo muta dentro a tutto quel dolore, udivo solo queste tre parole: Adius, Angela! Adius!