
concorso (56)
Le scimmiette
La scimmietta non dice.
Il silenzio di un placido pomeriggio d’inizio settembre pervade la villa dei coniugi Taddei. Il pendolo dell’orologio a parete scandisce i secondi e a ogni movimento un fruscio accompagna il tintinnare delle tazze di porcellana finissima, decorate a mano, ricordo di un viaggio all’altro capo del mondo. Dalle grandi porte finestra che danno sul giardino, ben curato, entrano raggi di sole soffici e aranciati, dello stesso colore delle foglie dell’autunno che fra poco verrà. La luce fa brillare i pianali di marmo della cucina, talmente lucidi da far dubitare che siano mai stati usati per cucinare, le bomboniere e i gingilli in bella vista sugli scaffali, i fiori freschi nei vasi di cristallo sparsi per il salone, ma, soprattutto, fa brillare le molte cornici che rinchiudono foto di momenti di svago e di ricorrenze. Con una sola occhiata si può vedere lo scorrere della vita: una giovane donna sorridente in sala parto, un uomo fiero di fronte a un grande capannone, i primi passi di due bambini biondi, i viaggi al mare, i molti sorrisi scintillanti, gli abiti da sera, le recite scolastiche, gli anniversari… In quasi tutte le foto ci sono le figure di una donna bellissima e di un uomo di qualche anno in più, che con occhi orgogliosi sempre la cinge.
«Sara, correggimi se sbaglio, tu prendi il caffè amaro, vero?».
«Sì, grazie Masia».
La voce di Sara arriva ovattata dal salone. Masia alza il vassoio con un leggero slancio, impaziente di andare dalle amiche, ma il movimento le provoca un dolore al fianco. Le mani perdono la presa e solo la presenza del lavabo salva due di tre tazzine. Il trambusto attira in cucina Sara, che si affaccia alla porta.
«Tutto bene?». Un sopracciglio inarcato, e l’aria interrogativa.
Dentro la sua testa Masia sente la voce della suocera: “Ricordati che certe cose non si dicono. Gli altri godrebbero di questa tua sconfitta. Se succede non serve parlarne. I panni sporchi si lavano in famiglia”. Le labbra della donna si incurvano automaticamente in un sorriso.
«Oggi ho proprio le mani di burro! Non preoccuparti… Cos’hai trovato?». Le mani curate e ingioiellate di Masia non sembrano salde mentre raccolgono veloci i cocci della tazzina e li fanno sparire. Sara intanto abbassa lo sguardo sulla foto che ha in mano.
«È la foto del fidanzamento tuo e di Renato». Nel dirlo la appoggia sul tavolo della cucina, Masia distoglie lo sguardo.
«Non mi è mai piaciuta quella foto, si vedono solo lui e la sua famiglia, io sembro minuscola nell’angolino che mi hanno concesso».
«Fagocitata dai tuoi suoceri?». Anche se sta mettendo su una nuova moka di caffè, e le dà le spalle, Masia riesce a vedere il sorriso di Sara.
«Esattamente». Il borbottio della padrona di casa viene quasi coperto dal rumore dell’accendigas.
«Forse non erano granché contenti della situazione, si può comprendere… Ma ora ti vogliono bene, ne sono sicura».
Masia evita lo sguardo di Sara. Difficile dimenticare di essersi sposata appena maggiorenne e di essere diventata mamma un anno dopo. Ancora le brucia lo sguardo dei suoi suoceri: la detestavano. All’epoca non capiva perché tenessero tanto a quel matrimonio se in maniera così evidente non la sopportavano. Non aveva altro che la sua bellezza, da portare in dote. Il campanello la esonera dal dover rispondere all’amica.
Valentina fa il suo ingresso nel salone mentre in cucina la foto del fidanzamento è stata rovesciata.
«Scusate il ritardo, il giudice di oggi era un vecchio razzista e l’ha tirata per le lunghe… Ho anche dovuto saltare la palestra». Sbuffa tirandosi indietro la coda di capelli biondi e sostituendo quella frase agli entusiastici saluti di rito.
Finalmente il caffè arriva e tutte e tre si sistemano sui morbidi divani, chiacchierando del più e del meno. Insieme formano ancora un bel gruppo: Sara, piccola e morbida, con gli occhi grandi da cerbiatto e lunghe striature grigie tra i capelli castani; Masia, alta e formosa, con i capelli ricci color mogano e i lineamenti cesellati prima dalla natura e ora dal chirurgo; e infine Valentina, con i muscoli scattanti sotto la pelle sottile e lo smunto viso cavallino.
«Sembri più pallida Vale, va tutto bene?».
«Oh … Sono solo stanca, gli impegni con i gruppi di Francesco occupano tutto il mio tempo libero».
Prese dalle chiacchiere, né Sara, né Valentina sembrano notare Masia spostarsi scomodamente sul divano e tastarsi con discrezione il fianco dolorante. La porta d’ingresso si apre all’improvviso portando con sé una brezza fresca. Sono i figli di Masia che tornano da scuola, accompagnati dalla tata.
«Non ci credo… Sono i tuoi figli?». Domanda stupita Valentina.
«Crescono di mese in mese… Com’è andata a scuola, tesori?». Interviene dolcemente Sara.
I bambini rispondono da copione, sorridenti. Sembrano due statuine, tanto sono perfetti: biondi, belli, con addosso la scintillante divisa di una altrettanto scintillante scuola privata. Nell’insieme fanno a pugni con il maglioncino infeltrito e i jeans sdruciti della ragazza che li accompagna. Masia rivolge alla giovane tata uno sguardo di rimprovero, che non passa inosservato, e poi li congeda con un gesto frettoloso.
«Forza, andate a fare i compiti. Aurora sta qui solo fino alle sette e se non li avete finiti per quell’ora non ci sarà più nessuno ad aiutarvi».
Non appena i bambini spariscono nelle loro camere, Valentina prende la parola.
«Quella ragazza li aiuta anche con i compiti? Per tutte queste ore avrete un contratto regolare…».
«Come va il locale di Massimo? Spero meglio rispetto al nostro ultimo incontro!». Masia interrompe Valentina e si rivolge a Sara continuando a sorridere e tenendosi dritta sul divano, posizione che le provoca molto dolore al fianco e su tutta la schiena, dove i lividi di due sere prima sono ancora freschi. Sara rimane interdetta dall’essere tirata in ballo in maniera così violenta.
«Insomma… Massimo è molto giù, dopo la fine del turno in fabbrica vado a dargli una mano tutte le sere e…».
«Però, Sara, non offenderti, ma il tuo “amico” Massimo non aiuta,» esordisce Valentina, ancora indispettita per essere stata interrotta, virgolettando con le dita la parola “amico”. «Francesco ha sentito che molta gente è scontenta perché lui tratta male i clienti. E dice che mentre tu giri come una trottola e lavori al posto suo, lui se ne sta in panciolle».
«Oh, per fortuna lo dice anche il tuo compagno, Vale! Pensavo che fossimo solo io e Renato a pensarlo. È stato proprio lui a farmelo notare e da allora non riesco a non pensarci, Sara, ogni volta che vi vedo». Masia rincara la dose, sollevata per essere riuscita a cambiare argomento, e si rende conto di quanto sia stata insensibile solo quando vede l’amica sorseggiare silenziosamente il caffè, il viso da bambina in parte nascosto dalla cortina dei capelli. È difficile non pensare, guardandola, a come la vita si sia accanita su di lei. Quando si sono conosciute era lei la più promettente, la più benestante, tanto che è stata proprio Sara a presentare Renato a Masia, e ora si ritrova a vivere in un piccolo appartamento popolare e a lavorare nella sua fabbrica di scarpe, di Renato.
«Ehi, tesoro, non prendertela… Parliamo per dare aria alla bocca, lo sai. Vuoi dell’altro caffè?».
La scimmietta non vede.
È solo dopo aver guardato Masia per qualche secondo che Sara annuisce.
«Lo prenderei anch’io, se ce n’è ,» le fa seguito Valentina porgendo la tazza vuota. Le tazze vengono rapidamente riempite e Valentina domanda di che tipo di caffè si tratti.
«Dovrebbe essere etiope, Renato lo compra direttamente da un rappresentante locale. Una volta ne ha portato a casa uno prodotto dopo essere stato digerito da una specie di scimmia e me lo ha detto solo dopo che l’ho bevuto…Ero disgustata, ma avevano ragione a proclamarlo il migliore al mondo, è davvero buono». Masia fa una risatina stiracchiata mentre racconta l’episodio, Sara si unisce, imbarazzata, mentre Valentina lancia uno sguardo assassino.
«Come puoi ridacchiare di essere stata complice dello sfruttamento di quei poveri animali?».
«Sfruttamento mica tanto, viene raccolto a mano da animali liberi … Si paga a peso d’oro anche per questo». Risponde Maria cercando di mantenere la stessa leggerezza, ma facendo capire che non accetterà altre critiche alle scelte di suo marito.
«È il concetto stesso a essere sbagliato. Gli animali vengono tramutati in macchine da soldi senza poterlo scegliere, né capire. Gli umani li sfruttano e si fanno ricchi. Situazioni come queste mostrano come il sistema capitalistico sia sbagliato per sua essenza…». Valentina non finisce la frase perché intercetta lo sguardo che si scambiano le sue amiche da sopra la tazzina di caffè, tra il divertito e lo stufo, e si interrompe, imbronciata. La coda di cavallo dondola impazzita dietro la sua testa mentre si appoggia allo schienale del divano, le braccia incrociate e lo sguardo perfido. È da quella posizione che, pochi istanti, dopo sferra il suo secondo attacco.
«Ma certo che Masia non è d’accordo con quello che dico, è sposata con uno dei peggiori capitalisti sulla faccia della terra… Dimmi, quanto frutta di nero la vostra fabbrica di scarpe? Abbastanza, presumo, per riuscire a pagare una tata che si occupi dei figli per conto vostro, e chissà quante altre persone: domestici, giardinieri, dipendenti…».
«Avevo dimenticato che sei così permalosa. Le tue sono solo illazioni». Taglia corto Masia, con un sorriso freddo, spolverandosi la gonna con una mano per togliere della polvere invisibile.
«Al contrario, lo so per certo,» la voce è un ringhio «Francesco me lo dice sempre: quando andavano a scuola insieme tuo marito raccontava di quanto si riuscisse a frodare allo Stato con i contabili giusti».
«Peccato che Renato ricordi altrettanto bene di come Francesco sfruttasse la sua famiglia. Cene, pranzi, passaggi in macchina… E non si lamentava quando Renato gli regalava qualcosa di costoso per il compleanno. Il tuo fidanzato è sempre stato geloso del successo di mio marito e il fatto che racconti queste menzogne dimostra molto del suo carattere. Renato mi racconta della sua doppia faccia ogni volta che vi citiamo!».
«Renato non si è guadagnato niente di quello che ha, l’ha solo ereditato, e per avidità ha scelto di cambiare. Francesco ha rinunciato a possibilità molto grosse per non intaccare la propria onestà. Con il sindacato combatte ogni giorno contro gente come tuo marito!».
«Smettetela adesso!». Sara si è alzata. Ha cercato di ignorare quello squallido scambio di battute, ma quando la discussione è degenerata non ce l’ha più fatta. «Io lavoro nella fabbrica di Renato e, per quanto non sia il mio campo, posso assicurarti di non aver mai visto giri di soldi strani… Probabilmente Francesco ha il dente avvelenato per non essere stato richiesto come commercialista e travisa ricordi di quando Renato faceva il gradasso, come tutti i ragazzini».
Poi torna a sedere e Masia sorride.
«Vi ricordavate com’era quando eravamo a scuola? I compiti, il professor Moratti…».
«Quel rompiballe! Non ho mai recuperato quella versione di latino!». Fa seguito Valentina con una risata sincera.
«Eri la migliore a falsificare le firme dei genitori e passavamo giornate intere al mare, noi tre da sole». Lo sguardo di Sara vaga oltre le finestre, sul giardino assolato.
«Ci dicevamo tutto. Eravamo così amiche». Quella frase formulata al passato lascia tutte senza parole e prive di reazione, come se la presa di coscienza dei rapporti cambiati richiedesse per forza il silenzio.
«Scusatemi ragazze, è un periodo un po’ così…». Cerca di riprendersi Valentina.. Un periodo che dura da mesi ormai. Da quando Francesco le ha detto cosa pensava del matrimonio e della monogamia. “Noi non siamo fatti per stare con una persona sola. Il nostro istinto ci porta ad avere più compagne e più compagni. Noi siamo di tutti e tutti sono nostri”. Quelle parole le rimbombano in testa insieme all’immagine di lui con un’altra donna, nel loro letto. Valentina le comprende anche quelle parole, le motivazioni dietro il suo comportamento, ma ogni volta che lo sa con un’altra lo stomaco le si chiude e può solo andare a correre, o in palestra a distruggersi muscoli e articolazioni.
«Dai, che passerà! I brutti periodi passano sempre. Io e Sara non vediamo l’ora di venire al tuo matrimonio, quando sarà!». Masia, all’oscuro di quanto successo, è sincera nel suo intento consolatorio, ma non ottiene che un maggior pallore della sua amica.
«Non ci sposeremo mai, Francesco non crede nel matrimonio». E con questo Valentina vorrebbe chiudere l’argomento, ma le sue amiche la guardano, con tutte le loro domande scritte negli occhi, e lei si ritrova a mentire, prima ancora di rendersene conto.
«Poi, sapete, sono un avvocato che si occupa di libero patrocinio. I miei clienti non possono pagarmi e dovrebbe farlo lo Stato, ma gli assegni arrivano quando arrivano. Senza una buona stabilità economica non me la sentirei neppure di mettere su famiglia».
Sara annuisce con aria triste, mentre Masia si torce le mani, in silenzio.
La scimmietta non sente.
«Oh mio Dio scusami Sara! Sono un’insensibile… Sto qua a parlare di matrimonio quando Massimo con te…». Sara la interrompe con un gesto, poi le sorride, anche se il sorriso non si allunga fino ai suoi occhi che rimangono malinconici. Si vede riflessa nei vetri di una delle credenze del salone. Il viso tondo, struccato, sfumato. “La malinconia è la felicità di essere triste”. Chi l’aveva scritto? Victor Hugo? Sara non riesce a ricordarlo.
«Nessun problema cara, io sono felice che tua sia felice. Con Massimo ormai ho rinunciato, lo amo, ma se non si è accorto di me fino ad adesso e forse non se ne accorgerà più». Dice senza cambiare espressione, con lo stesso sorriso finto. Le sue amiche non sanno che Sara ha sentito Massimo prenderla in giro al locale. “Cane di corte”, “servetta”, “illusa”, “stupida”, così l’hanno definita, ridendone, mentre a Sara, separata da loro solamente da un muro, si spezzava il cuore. «Poi sono molto preoccupata per il locale, Massimo ci ha messo l’anima e non sta andando bene… Io cerco di aiutarlo più che posso». Il caffè si è ormai raffreddato, ma tutte e tre lo bevono pur di riempire l’ennesimo imbarazzante silenzio.
«Sara ti devo dire una cosa, ma ti prego di non rimanerci male». Mentre parla, Masia si china verso Sara e nel farlo le sfugge una smorfia e si porta una mano sul fianco, cui nessuna presta attenzione. «Sei sempre stata la più buona tra noi e non voglio ferirti, ma credo che tu meriti di meglio. Renato ha sempre creduto che Massimo fosse un buono a nulla e, se glielo chiedessi, potrebbe darmi il permesso di presentarti a qualche suo amico. Sei ancora molto bella, con un abito lungo e del trucco potresti accalappiare qualsiasi uomo». Gli occhi di Sara si stanno già annebbiando per le lacrime.
«Mi dispiace cara, ma concordo con Masia». Interviene Valentina, scandendo lentamente le parole, come se Sara fosse un animale selvatico finito per sbaglio in un giardino. «Francesco ti ha conosciuto insieme a lui e vi ha subito accomunato, e siccome anche lui pensa che Massimo sia uno sbandato, uno che non ha mai fatto qualcosa in vita sua, ci ho messo parecchio a fargli cambiare idea su di te. Potresti scoprire che stare insieme a lui ti danneggia…».
Sara piange silenziosamente, seduta composta, a capo chino. Nella sua mente si affaccia un’idea che in poco tempo prende più spazio. Lascia scivolare lo sguardo sul viso delle amiche, familiari quanto il suo stesso viso. Si conoscono da sempre, e fino a quando le loro vite non si sono intrecciate con altri il loro rapporto è sempre stato solido e speciale. I loro uomini le hanno incitate a costruire muri di abbracci non dati, confidenze non fatte, verità non dette. La mancanza di coraggio delle frasi di cortesia e delle chiacchiere facili ha minato la loro amicizia sostituendola con qualcosa senza valore. Si confondono dietro le parole e le idee dei loro uomini senza rendersene conto. La mano di Valentina le accarezza la spalla, mentre Masia si allunga ancora, vincendo il dolore, per richiudere le proprie mani sulle sue.
«Voi non capite! Non volete capire!». Adesso è Sara a urlare contro le sue amiche. «Massimo avrà pure tanti difetti, ma io so che è un uomo profondamente buono! Con che diritto parlate? Potete dire lo stesso di Renato o di Francesco? Davvero i vostri uomini sono nella posizione di poter dare giudizi? Non fatemi ridere!». La rabbia e lo scherno grondano dalla sua voce mentre si tira indietro i capelli castani e poi si asciuga le guance con i palmi delle mani, furiosa come mai le sue amiche l’avevano vista. Sara la buona, in quel momento, non sembra mai essere esistita.
Né Masia, né Valentina proferiscono parola, così rimangono tutte e tre immobili, ancora una volta assorbite dal silenzio. Masia si tiene il fianco, Valentina guarda le lancette dell’orologio a pendolo; non manca molto allo scadere dell’ora e quando finalmente il pendolo suona Masia si ravviva. «Scusatemi ragazze, ma ormai i miei figli dovrebbero aver finito i compiti e devo controllarli… Ma voi restate quanto volete. Poi trovate da sole l’uscita, vero?». Basta un attimo e sparisce su per le scale, con un sorriso frettoloso e formale.
«Tranquilla, io vado già ora. Domani ho una causa impegnativa, devo prepararmi… Buona serata!». Anche Valentina si congeda, il viso serio mentre lascia sbattere la porta d’ingresso.
Gli ultimi raggi del pomeriggio fanno ancora brillare le chincaglierie della casa. Tutto intorno non sembra essere cambiato nulla da quando si sono incontrate poco più di un’ora prima, forse ora è solo un po’ più scuro. Sara si porta la tazzina alle labbra e beve l’ultimo sorso di caffè, freddo. Un presentimento le cresce nel torace ed è sicura che Masia e Valentina provino la stessa cosa: oggi la loro amicizia è definitivamente cessata. Incontri annullati, inviti cortesemente rimandati, si troveranno per dei frettolosi auguri le prossime feste e poi passeranno direttamente ai messaggini, per poi scomparire. Ne sarà valsa la pena?
Sara lancia un ultimo sguardo alla casa di Masia, poi si alza e raccoglie le sue poche cose. Esce piano, chiudendo delicatamente la porta, e spinta dalla brezza fresca di settembre si dirige verso la macchina. Chiederà a Massimo una spiegazione per il suo comportamento e una decisione sulla loro relazione, è risoluta, ma appena si appresta ad avviare l’auto ricomincia a versare calde lacrime, per sé e per le sue amiche, per il tempo passato, per la solitudine del futuro… Poi la suoneria del cellulare riempie l’abitacolo.
«Buonasera, dolcissima Sara! Sei sopravvissuta all’incontro con quelle arpie che tu chiami amiche?». La voce di Massimo, in quel momento, è come acqua per l’assetato. Sara asciuga le lacrime dal viso, come se Massimo potesse vederla e biasimarla anche attraverso il telefono, e in un istante tutta la sua volontà di affrontarlo è stata spazzata via.
«Sai che hai ragione? Sono delle arpie…». Ridacchia nella maniera isterica delle persone tristi.
«Oh-là-là! Finalmente te ne sei accorta anche tu! Mi raggiungi al locale, dolcezza? Non so come farei senza di te…».
«Arrivo subito, Massi!».
Poi sorride al parabrezza e mette in moto.
La Radio Nudista
Sì, capisco! L'esigenza, assolutamente, il gusto, la passione per la Gastronomia nostrana, orgoglio, mediterraneo, meridionale, la famiglia, l'Amore... A proposito sto seduto al mio posto assegnato sul treno proprio affianco a questa signora alla quale è rivolto un tizio. dirimpetto a noi, che le fa gesti teneri specchiandosi nel vetro blindato della alta velocità e resta lì, dolcissimo, fino a che il treno non parte, con i suoi movimenti muti e il labiale sorridente. Un uomo di mezza età, brillante, che saluta una donna di mezz'età, brillante, solo che lui è dall'altro lato del corridoio, e lei è a fianco a me, lato interno, e quindi tra loro ci sono io e un’altra coppia giovane che siede sulle poltroncine vicino al vetro e al mandrillone impegnato a fare il suo romanticissimo saluto da mimo, tanto che la lei della coppia giovane si rivolge al giovane e grasso lui per chiedergli: - Ma questo che vuole?
E comunque il treno parte, e io sto ancora con l'affanno per questa grossa borsa che ho dovuto trascinare lungo i corridoi lerci della stazione, attraverso questo treno lungo quanto la muraglia cinese, e appena ci muoviamo mi trovo a tirare la testa indietro, e diciamo pure che ho l'affanno perché ho appena sgozzato uno spinello, sì, fuori dalla libreria FeltriCazzi, si uno spino mi serviva, e anche un libro, il più cinico e farabutto scritto che abbia mai acquistato mi occorreva, il prima possibile, per fuggire da questa anomala (e neanche tanto) ondata di mediocre miele qualunquista nel quale ero stato recentemente travolto, e soprattutto per dimenticare quella sciagurata fiaba che mi ha consigliato una specie di secchiona con le lenti a culo di bottiglia, la classica tipa da love story di quarta categoria, da voltastomaco, la tipa ipersensibile, crocerossina, sesto, settimo, e ottavo senso, me lo sento!, l'amore!, il romanticismo!, la famiglia!
Eh sì mi sto pure ammorbidendo, ho pensato, conosciamola, vediamo cosa mi consiglia, diamo una chance nonostante già mi ammorbi con questa storia che lei non è una troia (a me piacciono le troie) e che se lavogliosoloscopareleinonèiltipo, che poi non ci penso neanche dato che quelle lenti a culo di bottiglia a me ammosciano anche il cazzo, e in tutti i modi mi consiglia sto fottuto romanzo di un’altra secchiona come lei (che magari avrà anch'ella le lenti a culo di bottiglia?) professoressa di Filosofia all'Università francese, e come un megacoglione sgancio quattordici euro per questa sfilza di luoghi comuni con una scrittura che compiace se stessa e la sua filosofia del cazzo, che non esime dallo spiattellare a ogni inizio dei piccolissimi capitoli furbi per allungare il brodo, un guazzetto edulcorato che mi ha fatto schizzare il diabete a cinquemila e dire che i presupposti magari c'erano anche, c'era un omaggio al mio essere operaio che si vergogna di farsi vedere con un libro in mano, insomma c'è questa donna portiere di un nobile palazzo parisienne grassa sciatta proletaria ma con una cultura mostruosa(che la scrittrice approfitta per esternare in noiosissimi paragrafi nei quali ostenta la sua filosofia trita da docente di Università), talmente charmant da voler nascondere questo suo acume con l'eleganza di una farfalla (anzi di un riccio) per non inquietare i nobili condomini del nobile e antico fabbricato finge invece di essere una buzzurra e l'aspetto fisico l'aiuta pure parecchio non destando sospetti (anche perché chi cazzo se ne frega!?), fino a quando non arriva un principe azzurro giapponese anziano miliardario con tutti i cliché sulla meravigliosa cultura nipponica che la tirerà fuori dall'isolamento della portineria e s'innamorerà di questo cesso trascurato. Il finale era la parte migliore infatti lei moriva, e mi sono anche un po' commosso pover grassona bella…
Eh, insomma avevo bisogno di tornare nel torbido...
E adesso potevo rilassarmi, con la testa sul poggiatesta anatomico, la borsa infilzata a fatica in un piccolo spazio avanzante nel vano poggia bagagli che era già bello pieno, e uno dei due libri in una presa immotivatamente forte tra le mie calde mani. Ma non era ancora il momento di leggere e non sapevo neanche se fosse mai arrivato. Forse questo è il motivo vero per il quale noi fumatori fumiamo. Insomma, sono seduto nel mio posto esterno di una fila a quattro poltrone e davanti a me è capitata una donna con un bimbo di pochi mesi in grembo; penso la solita fortuna e d'istinto mi volto a destra col nobile intento di scovare qualche figa. Ma niente, solo uomini che sembrano d'affari, coppie, famiglie, bimbi e anziani. Ok, perché alla fine sto bene anche così, a pensare. La coppia chiatta chiaramente non fa altro che spiluccare patatine unte e puzzolenti per ingannare il tempo.
Il treno ad alta velocità fa solo tre fermate. Alla prima, nella capitale del Paese, dopo circa un’ora, arrivo bello fresco e rilassato, per il vero un po' ansioso solo di farmi uno spino. Entra una donna nello stretto corridoio, alta, bionda, notevole, con ogni probabilità dell'est. Ha difficoltà come ogni nuovo passeggero che si appropinqui nello stretto corridoio ma questa è talmente bona che accorrono tre aitanti maschioni ad aiutarla. Dopo nessuno conosce più il proprio posto, ma tutti conoscono benissimo quello di lei e soprattutto quello affianco a lei, che il più audace e furbo dei tre ormonali riesce ad occupare con solerzia.
Mi viene in mente che era meglio se nascevo femmina e poi anche che dovrei controllare la mail, è una cosa che faccio di rado, ma aspetto un conto spesa da Broob e sono curioso su quanto debba sganciare. Ho il cellulare in mano ma già non ricordo cosa dovessi fare. Beh, questa è una cosa abbastanza torbida che mi fa sentire un ribelle un po' punk e posso mettermi l'animo in pace e spadellare qualche bella frase da trascrivere sul taccuino. Dopo circa una decina di minuti buttati al vento mi ricordo di nuovo della mail, e con solerzia, cercando di non perdere troppo tempo come se il treno sarebbe potuto arrivare entro tre minuti, pigio il tasto della mail, e poi quello per caricare le nuove mail, ed escono una sfilza di inutili spot, che riescono a dribblare come Maradona anche i filtri antispam, che mi abbagliano e mi arringano e quasi non mi fanno vedere una mail con la scritta: EDITORE.
Eh, sì! Ci trovo niente poco di meno che una mail della casa editrice che da a tutti gli aspiranti scrittori la chance e senza mai chiedere i soldi, chi merita va, wow sono dei grandi penso subito, gente seria, ah perché mi stavo dimenticando di raccontarvi che dentro la mail c'è scritto: Siamo lieti di comunicarle che lei(io!) è tra i vincitori del contest;!,eh si sono uno tra i vincitori contest ispirato al grande Carver, sono dei grandi, penso subito, poi però mi assalgono i dubbi: ma saranno seri?, forse è solo una pagliacciata, mi vogliono imbrogliare, farmi illudere e poi spillarmi tutti i soldi? Ma no, penso, non ti buttare giù sei un grande, hai finalmente ricevuto l'apprezzamento da parte di gente competente, si perché son gente competente loro, poi non vogliono soldi, è fantastico che esista ancora della gente così, è magnifico che qualcosa che abbia scritto io finalmente piaccia a qualcuno. Il giovanotto robusto che era riuscito a sedersi a fianco alla stangona probabilmente russa sta tentando di attaccar bottone ma lei sembra decisamente infastidita. Penso che ad uno scrittore, voglio dire ammesso che io veramente lo sia e che in qualche modo lei venga a saperlo, non saprebbe resistere, eh, eh, eh sì lo so che sto esagerando...ma cazzo! se non è bello che qualcuno legga un vostro lavoro, seppur striminzito, e poi dica bello! Questo vince!
Cerco di leggere ma sono troppo eccitato e mi installo sul sito di questi grandissimi Editori per vedere in effetti cosa ho vinto, a che posto sono arrivato, e a dare un’occhiata agli altri racconti vincitori. Il bimbo si è addormentato, lo osservo con tenerezza e la madre sembra gradire. Intanto fuori dal finestrino la campagna si srotola come se fossi in un documentario, che poi è anche l'unica poetica oramai rimasta in questi treni ad alta velocità, il resto è un freddo arredamento sintetico disseminato di Brand e partnership varie, ma devo dire che a me fotte poco della poesia in un treno, cioè mi interessa la poesia ma posso anche abbozzare sul treno visto che adesso ci impiega solo tre comode ore rispetto ai viaggi interminabili di una volta, in definitiva se volete un po' di poesia basta leggerla, anche su internet a gratis, si può fare tranquillamente a meno di stare per ore in un carro bestiame! Solitamente gli angeli dell'editoria premiano uno, max due racconti ogni contest ma leggo che per l'occasione, data la grande partecipazione e l'elevata qualità dei manoscritti inviati, straordinariamente ci sono stati otto vincitori. Ciò mi intristisce un po' e penso che dovrei pisciare anche se non ne ho voglia, che è quello che faccio sempre perché ho la vescica che non funziona bene e non mi dà nessun preallarme e cioè quando mi accorgo che devo pisciare e spesso già troppo tardi. Qualcuno dice che è colpa della prostata. Comunque mi alzo e solo in quel momento mi accorgo che dietro a me c'era tutto un mondo inesplorato, cosa che non mi ecciterebbe neanche tanto (anche perché in questo momento poco mi può toccare) se non fosse per una tipa stivaluta occhialuta, visione peraltro sublimata dalla vista di un libro tra le sue mani, e quando passo alza lo sguardo su di me e addirittura accenna un sorrisetto e o forse lo fa solo perché sto fatto e o mi vede fatto, ma io come niente vado a pisciare e anche se il treno non è molto affollato trovo una mini-fila composta da due pisciasotto e io mi accodo in terza posizione. La seconda posizione è occupata da una donna nana che ha l'aria di essere un po' svitata e mi consolo a testa china pensando alla stivaluta occhialuta seduto nel mondo inesplorato alle mie spalle, solo che a un tratto la tizia mi zompetta dinnanzi agli occhi come una svitata e poi si volta di botto e continuando la sua patetica danza mi rivolge la parola.
- Forte questa Radio!
- A me non prende.
- Neanche a me.
- Allora che senti?
- Internet.
- Ah già internet. - Anche se stavo navigando da circa mezz'ora non ci avevo proprio pensato
- C'è una radio bellissima...
- Ah, sì, e come si chiama?
- LRN
- Comee?
- La radio nudista
- Comeee?
- Non ne hai mai sentito parlare? - E ancora mi zompetta davanti, e ancora il cesso ad alta velocità non si apre, siamo sempre noi tre e il primo sembra una mummia che fissa il cesso senza neanche voltarsi nonostante tutto il baccano che fa la nana
- La radio nudista! - ripete la nana tra il lieve fruscio del treno ad alta velocità.
- Cioè trasmette programmi per nudisti? O i deejay sono nudi?
- No, son loro che son nudi...
- Ma tu non puoi vederli!
- Ma vuoi mettere la differenza che c'è tra parlare ad una radio vestiti o completamente nudi!
Ci penso. E la porta si apre come in un film di fantascienza e ne esce un tipo robusto ma non troppo evidentemente imbarazzato evidentemente per il tempo che ci ha impiegato. Penso a questi tipi della radio, chiusi in quello che nel mio immaginario interamente suffragato dalla tv è il classico loculo vetrato dove incastrano tutti i conduttori radiofonici, completamente nudi che si sentono hippie liberi di dire tutte le porcherie che vogliono in quanto svestiti. La trovo una scena ridicola e domando: - Ma ci sono anche donne?
Nel frattempo, il primo è entrato nel cesso e noi facciamo istintivamente un passo in avanti
- Certo! - Risponde la sciroccata.
- E stanno insieme agli uomini?
- Certo! In qualche trasmissione sì! Perché, che c'è di male?
- Ah, nulla... specialmente se sono belle donne.
Credevo potesse essere una buona battuta, ma lei no perché si volta verso la toilette come se non ci fossimo mai parlati. Cazzo di nana pazza, penso, e allo stesso tempo esce il primo ed entra lei. Adesso sono solo e ho quest'immagine di ‘sti cazzoni nudi chiusi dentro ad uno striminzito stanzino con le pareti vetrate e microfoni e fili ovunque, mi è anche passata di mente la casa editrice Santi Subito. Poi chissà se è vero. Sicuro la nana ha qualche rotella fuori posto, ma lei ballava felice sotto gli input di ‘sti zozzoni radiofonici, e probabilmente lei ha capito tutto ed io niente, come mi accade spesso. Sento dei passi alle mie spalle e non mi faccio pregare prima di voltarmi curioso e vengo premiato e mi sento proprio come ti senti quando dal nulla, o magari dal torbido, nascono così, quando meno te lo aspetti queste giornate speciali, piene di sorprese, premi e soddisfazioni che ti illuminano di una luce nuove che fa sì che tu piaccia a tutti e in special modo alla occhialuta stivaluta che prende la seconda posizione rivolgendomi un altro sorriso che spalanca una bella dentatura bianca tutta allineata, ma richiude la bocca e non parla e qualche secondo dopo mi trovo in quella spiacevole situazione nella quale credi che lei stia pensando ma questo cosa aspetta! e diciamo pure che si è alzata subito dopo me e magari questo è un segno del destino o addirittura l'ha fatto apposta attratta da un oscuro magnetismo che solo gli scrittori possono emanare, allo stesso tempo combatti contro la tua timidezza o magari pensi che è stata tutta un illusione e che ti abbia sorriso solo perché è gentile - alla fine che credi di aver di tanto speciale tu?, questa potrebbe scoparsi chiunque in un attimo con un semplice schiocco di dita, figurati se è interessata a te, però poi penso anche che oramai chissenefrega sento ancora un po' di sballo anche se sta svanendo e prendo coraggio anche perché penso che in effetti non ci voglia neanche coraggio perché non ho nulla da perdere e allora mi faccio questo coraggio che non serve e penso finalmente a qualche modo per attaccare bottone - magari parlandogli proprio della Radio Nudista? - secondo me colpirebbe anche lei come ha colpito me questa storia strana di ‘sta nana pazza che però pazza e buona mi ha cambiato la giornata con questa cazzo di storia paradossale, eh si tanto cosa ho da perdere io povero impiegato anonimo che sogna di fare lo scrittore ma per il momento ha solo vinto un contest inviando un racconto di millecinquecento parole circa, però potrei parlargli proprio di questo! Aveva anche un libro in mano e noto di sottecchi che ha anche un paio di tette non troppo grandi ma sode di quelle classiche che vanno in una coppa di champagne, allora si il gioco vale la candela, mi decido e prendo fiato sto per proferire la prima parola e forse la proferisco pure ma non la sento né io né lei né nessun altro, che forse abbia perso la voce? Lei tra l'altro, qualche secondo dopo essere arrivata a raggiungere la sua seconda posizione, ha calato la testa sul proprio smartphone e questo proprio non è incoraggiante, ma cerco di non pensarci e prendo di nuovo fiato con un forte rinnovato nervosismo derivante dal primo fallimento che mi fa perdere altro tempo prezioso, davvero prezioso perché la porta del bagno si apre ed esce la folle nana sempre zompettando e prima di andarsene via mi saluta
- Arrivederla Signore!
Resto di sasso al punto che la ragazza occhialuta stivaluta rivolge la parola, lei a me: - Signore potete entrare, il bagno adesso è libero!
Riprendo il mio posto, davanti alla signora con il bimbo che adesso dorme beato, mentre lei mi sorride che non faccio a tempo a sedermi, anche rallentato da un dolore articolare al ginocchio destro che mi è appena soggiunto e finalmente serena, si può rilassare e mi chiede:
- Si vede che le piacciono i bambini, magari ha anche qualche nipotino piccolo?
Mi limito a rispondere no, poi scambiamo qualche altra battuta convenzionale ma il discorso non decolla soprattutto per colpa mia. Poi finalmente mi decido a prendere uno dei due libri che ho intensamente preteso qualche ora prima e comincio a sfogliarlo. La mamma ci inserisce su un’altra domanda, magari per non concludere la nostra conoscenza così banalmente:
- Ah, le piace leggere! Ho appena terminato un bellissimo libro di fantascienza, mi è piaciuto tanto!
Molto meglio del film! Vabbè è quasi sempre così....
- Eliminerei il quasi… - Dico subito d'istinto, quasi quasi un po' infastidito.
“E così, finalmente ci vediamo!”
La stanza è grande e accogliente con due grandi finestre all’inglese attraversate da pesanti infissi di legno scuro. Ci sono due poltrone di velluto tinta cammello, un lettino o una chaise-longue, forse, due sedie, una bella scrivania in noce lucidato, con quattro barattoli colmi di penne e un quaderno. Le pareti sono color crema. Non c’è lampadario: solo quattro grandi lampade a terra, una per ogni angolo della stanza più una ricurva sulla scrivania.
Heinrich Wanner è un uomo abbastanza alto, dal viso tondo e corporatura forte. Una fisiognomica spicciola potrebbe definirlo un uomo pacioso e autorevole allo stesso tempo: guance paffute, occhietti chiari e sopracciglia e capelli biondo miele, questi ultimi tagliati corti a mò di istrice. Indossa una camicia bianca a maniche corte, una cravatta mozza carta da zucchero con pantaloni blu scuro e porta tondi occhiali con la montatura dorata. Heinrich non ha gusto nel vestire, d’altronde è tedesco, sebbene trapiantato a Boston da anni e poi è un professionista, non bada all’aspetto esteriore.
Heinrich Wanner, il dottor Wanner, è uno psicoterapeuta. Lo si potrebbe dire dai suoi occhiali, vagamente junghiani.
“Sì, finalmente” aveva risposto lei. La sua nuova paziente, Emma. Una donna bionda e minuta, carnagione chiarissima, vestita di grigio antracite. Emma era bella o forse lo era stata nonostante le occhiaie pesanti e un’espressione persa, che non riusciva a camuffare, sebbene volesse darsi un tono, sembrare distinta, come se non fosse lì per un disperato bisogno di curare la sua psiche.
Emma aveva chiamato lo studio una prima volta, aveva preso appuntamento, poi aveva richiamato e disdetto con una scusa, cui ne seguirono altre cinque. Il dottor Wanner lo sapeva che fanno tutti così. In realtà è una pratica messa in atto più dalle donne, che s’inventano impegni con i figli, con la madre malata e così rimangono attaccate alle proprie sofferenze.
La segretaria del dottor Wanner, Erika, lo sapeva bene anche lei. D’altronde, lei stessa si era comportata così tanti anni fa, aveva ventisei anni ma poi finalmente si decise “ad aprire la sua anima” al dottore, come diceva lei; il quale, oltre a curarla la prese anche a lavorare con sé e lei divenne la sua segretaria. Erika lavorava lì da sedici anni.
“Si accomodi, dove vuole. C’è il lettino, quella chaise-longue lì o la poltrona o la sedia. Forse sulla poltrona sta più comoda”.
Emma era sprofondata nella poltrona.
“Mi parli, Emma. Se preferisce che ci diamo del tu, io sono d’accordo ma preferirei tuttavia il Lei per una forma di rispetto nei suoi confronti. Non so se mi ha capito ma ciò che voglio dire è che io sono adesso il suo psicoterapeuta e Lei la mia paziente”.
“Va benissimo il Lei”.
“Mi dica, Emma”. Il Dottor Wanner la guardava ora con aria impegnata, gli occhi strizzati. Lui si era seduto su uno sgabello che aveva piazzato davanti a lei ma in diagonale rispetto alla sua faccia. Aveva chinato il busto. Sembrava pronto a mungere e ad Emma quasi venne da ridere.
“Cosa devo dirle?”. Emma aveva abbozzato un sorriso. Non sapeva minimamente cosa aspettarsi.
“Ah, certo. Lei non ha idea di come si svolga una seduta. Mi diceva Erika, la mia segretaria, che è la prima volta che lei varca la soglia dello studio di uno psicoterapeuta”.
“Sì”.
“Bene. Mi dica perché è qui. Cosa l’ha spinta a cercare il mio aiuto”. Ora sorrise lui.
Sospiro. Emma guarda a sinistra in alto, poi in basso e poi parla: “E’ un periodo un po’ buio e devo rimettere insieme un po’ i pezzi”.
“Continui a parlare” e il dottore accompagnò alle parola il gesto del suo braccio mosso come un’onda, ma a scatti.
“Sono separata da tre mesi. Mio marito, il mio ex-marito, è in carcere. E’ in carcere, perché ha cercato di uccidermi”.
“Vada avanti”.
Emma si aspettava una parola accorata, uno sguardo compassionevole ma niente. Forse è così che funziona la seduta.
“Mi picchiava, era geloso senza motivo”.
“Quanti anni è stata sposata?”
“Dieci. Lo so, è tanto tempo ma all’inizio non era così”.
“Cosa intende per ‘l’inizio’”?
“I primi tre, quattro anni di matrimonio. Noi siamo stati fidanzati un annetto, ci siamo sposati subito.”
“E come mai, secondo Lei, suo marito è cambiato?”
“Da quando ho ricominciato a lavorare, era infastidito da tutti”.
“E che lavoro faceva Lei?”
“Io lavoravo in un canale televisivo. Oh, niente di importante. Una rete locale ma mi piaceva”.
“E come lo ha trovato quel lavoro?”
“Dopo la scuola di giornalismo, aveva fatto uno stage nella rete in cui lavorava il mio direttore e poi lui mi ha contattato qualche anno dopo, quando hanno aperto il nuovo canale”.
“E perché ha chiamato proprio Lei?”
“Suppongo, perché avessi lavorato bene prima. Si era ricordato di me e così ho ricominciato”.
“E lavora ancora lì?”
“No”
“E che cosa faceva, che ruolo aveva?”
“Ero in redazione. Poi mi hanno proposto un programma pomeridiano leggero, di quelli con un divano, cinque-sei ospiti e un tema da dipanare, era divertente”.
“E perché?”
“Lavoravo ma non sentivo pressioni. E poi si parlava di cucina, musica country, elezioni presidenziali ma sempre in modo leggero, al limite dell’inconsistenza, insomma, niente di impegnativo”.
“Ma a Lei piaceva”.
“All’inizio ho cercato di dare un taglio più serio al programma ma non era stato proprio possibile”, Emma aveva sorriso: “Come puoi parlare di politica internazionale, quando gli opinionisti sono un giocatore di baseball, un cantante country, e un grosso allevatore dell’Arkansas”.
“Ha mai pensato di fare un altro lavoro?”
“Sì, certo. Però al Quincy Channel ci stavo bene, eravamo una famiglia”.
“Perché le donne pensano sempre di dovere trovare una famiglia ovunque vadano. E poi pretendono di ricevere indietro quell’affetto che devono riversare comunque e sempre”, pensava Heinrich tra se e sé e intanto la guardava attento.
Aveva bussato Erika.
“Sì?”
“Sono Erika, Dottore”.
“Cosa c’è?”
“C’è sua moglie al telefono”
“E cosa vuole?”
“Non lo so ma è urgente”
“Mi scusi”. Il Dottor Wanner si alzò di scatto e si incamminò verso la porta dicendo con un sorriso garbato “Mai una volta che mi lasci in pace!”
Intanto Erika era entrata nella stanza, ne aveva approfittato per sistemare alcune cartelline sulla scrivania del Dottore. Incrociò lo sguardo di Emma. Le sfuggì un: “Come va?” Emma rispose nell’unico modo in cui si risponde in questi casi: “Bene, grazie”.
Nel frattempo, il Dottor Wanner era rientrato di fretta e con uno scatto si era seduto sullo sgabello ma prima aveva chiamato fuori dallo studio Erika, per dirle che non doveva mai rivolgere parola ai suoi pazienti. Le disse così: “Non mi piace che interloquisci con i miei pazienti, d’accordo, Erika? Chi ti dà il permesso?” Erika rispose: “Le ho chiesto solo come stesse, così per educazione” e lui: “Ecco, lascia perdere la tua educazione. Sei una segretaria? Bene, fai la mia segretaria e basta. E poi ti prego, evita di passarmi quella rompipalle! Ah, un’altra cosa: evita anche questo tremendo smalto rosso, sai che non mi piace”.
Emma, che si era alzata per guardare fuori dalla finestra era rimasta incuriosita per la verità dalla voce bassa e concitata del dottore e aveva voluto avvicinarsi alla porta che dava sul corridoio, dove era piazzata la scrivania di Erika.
Aveva sentito tutto.
Possibile che quel pacioso dottore fosse così volgare? Forse sua moglie era una specie di virago, forse Erika non aveva rispettato una sorta di protocollo che vige negli studi degli strizzacervelli: non interagire con i pazienti. Forse. Eppure quell’atteggiamento non le era piaciuto ma aveva deciso di dare tempo a Wanner e di darsi tempo per capire.
Il Dottore, dunque, si era piazzato sullo sgabello.
“Mi scusi, contrattempi ogni tanto. Dunque…” ma Emma lo interruppe: “la signora Erika è proprio gentile” e lui: “Ma sì, è la mia segretaria, cosa vuole. Ci conosciamo da tanti anni e ancora mi sopporta!” disse ridacchiando. “Comunque, mi diceva del suo lavoro alla tivù dove non lavora più”.
“Esatto. No, non ci lavoro più da un anno”
“E perché?”
“Perché mio marito era convinto che avessi una storia con il mio direttore, è arrivato a minacciarlo”.
“E lei ce l’aveva, la storia?"
“No, certo che no. John era diventato come un padre per me”.
“E allora perché l’ha licenziata?”
“Non poteva più subire le minacce di mio marito. E poi le voci avevano cominciato per davvero a circolare, insomma, tutti pensavano che fossi la sua amante”.
“Se tutti lo pensano, forse qualcosa di vero c’è. Certe donne, forse tutte, non lo so, prima lanciano il sasso e poi nascondono la mano. Suvvia, avrà voluto essere carina con lui, per sdebitarsi dell’assunzione. Guarda Erika, sempre a sorridermi, con quello smalto rosso, ma cosa vuole da me? Lo so io cosa vuole da me” pensava Heinrich. “Era una mezza depressa, l’ho ripulita per benino e le ho dato pure un lavoro, ci credo che voglia essere carina, però poi la colpa sarebbe mia”, pensava convinto, Heinrich.
Silenzio. Il Dottore era assorto nelle sue considerazioni.
Emma non capiva se stesse elaborando una qualche teoria o semplicemente pensasse ai fatti suoi.
All’improvviso, il Dottore riprese con le domande: “Dunque, Emma, al tempo in cui faceva la soubrette” /”Scusi?”/”Dicevo, nel periodo televisivo”/”Guardi che non facevo la soubrette”/”Ah ma non ci sarebbe nulla di male!”/”Certo, solo che non facevo la soubrette”.
“Sì, già immagino: minigonna, trucco eccessivo, tacchi alti, lustrini. A chiedere il parere di un cantante country. L’hanno messa lì perché è avvenente, diciamo trombabile”, pensava Heinrich.
“Va bene, mi scusi, allora. Noi scienziati tendiamo a vedere il mondo della tivù tutto lustrini ma sappiamo che non è così dappertutto. Facciamo una cosa. Io non le faccio più domande, lei mi parli, mi parli liberamente ora non solamente del suo periodo lavorativo, ma di suo marito, di come si è sentita lei. A proposito, avete dei figli?”
“No”
“Sposati da dieci anni, senza un figlio. Quel poveraccio è andato fuori di testa. Forse lei non ne ha voluti, per tentare di essere una giornalista d’assalto oppure non è neanche in grado. Certe donne sono così inutili. Lo sanno anche loro, che diamine, che se non fanno figli sono donne a metà, persone a metà. Non me ne importa un accidente di quello che dice la psicologia moderna, anni e anni di evoluzione e siamo sempre qui: donne che frignano, che cercano disperatamente di essere come noi e non si arrendono al fatto che non sono come noi”.
Emma lo destò dal suo teorizzare interiore: “Dunque, allora, visto che abbiamo cominciato con il lavoro, io proseguo. Come Le dicevo, a mio marito non andava che comparissi in video, non voleva che parlassi con i miei ospiti, perché erano quasi sempre uomini. Era geloso del mio direttore. Ha cominciato prima ad essere geloso, cioè un po’ lo è sempre stato ma non in maniera, come dire, pesante; ma adesso si mostrava triste, mi diceva che non ce la faceva a pensarmi circondata da ‘tutti quegli uomini’, a me una volta è venuto da ridere. Ma quali uomini? L’allevatore dell’Arkansas? O l’attorucolo da avanspettacolo con il parrucchino biondo platino? Solo che lui si è alzato dal divano e mi ha dato uno schiaffo. Era la prima volta. Io sono rimasta di sasso. Lui mi ha guardato, si è messo a piangere. Mi ha detto che lo avevo fatto sentire stupido, mi ha abbracciato e l’ho abbracciato anche io. La gelosia ti fa stare male, ti fa dire e fare cose tremende, di cui ti penti subito dopo, perciò ho cercato di comprendere. Lui è stato tranquillo per un po’, poi è tornato all’attacco. In una maniera diversa. Ha cominciato a sminuirmi. Mi diceva che il mio lavoro non valeva niente, che anche una senza laurea avrebbe potuto farlo, che tanto vale mostrare le cosce, che si vergognava a dire in giro ciò che facevo. Alle cene con i suoi colleghi, si faceva beffe di me e, intanto, flirtava con tutte quelle che gli capitavano a tiro. Una sera, tornando da una di quelle orribili serate, appena entrati in casa, mi tira per i capelli, da dietro e mi dice ‘ma chi cazzo era quello con cui hai parlato o dovrei dire ti sei comportata come un’oca?’-mi scusi per il linguaggio ma devo raccontare come stavano le cose- Comunque, io sinceramente non sapevo proprio di chi stesse parlando. Era una specie di festa con tante persone. Lui mi ha detto che era stufo delle mie balle e che stava male e poi mi ha detto ‘sei una troia’, così come se niente fosse. A quel punto ho avuto paura e non ho detto niente. Tremavo. Avevo paura di andare a dormire. Volevo andarmene via ma poi come avrei fatto a tornare a casa mia? Mi sono messa a letto, alla fine, ma sempre all’erta. La mattina dopo ero a pezzi. Quando mi sono alzata lui era già uscito, io mi sono preparata per andare a lavoro, nel frattempo mi avevo mandato dieci messaggi al telefono con le sue scuse, che era un periodo nero e mi augurava buona giornata, con tanti cuoricini. Io gli ho risposto “anche a te”. Quando sono tornata,in serata, lui era sul divano. Io ho pensato tutto il giorno a come affrontarlo ma soprattutto durante il tragitto di rientro. La verità è che ero terrorizzata. Alla fine ho pensato che avrei fatto come sempre, lo avrei salutato, forse con un bacio. Ho aperto, ho detto “Eccomi” e lui niente, allora mi sono avvicinata e lui: ‘Oh, è arrivata la diva!’ e…”
E Qualcuno bussò. Era Erika.
“Dottore, mi perdoni“ e lui: ”Ma quante volte devo dire di non interrompermi? Ma Lei mi ascolta o cosa?” e lei, assurdamente composta, davanti alla reazione esagerata di lui: ”Volevo solo dirLe che c’è il Dottor Blooming, è arrivato ora da New York, mi scusi, altrimenti non l’avrei disturbata” e lui: ”Ah, ma se è così! Arrivo subito! Emma mi perdoni!” E se ne uscì.
Il Dottor Blooming era un luminare, uno di quelli che se parlano male di te, tu sei finito. Ma il Dottor Blooming non parlava male di nessuno, era un professionista serio, infatti redarguì subito Wanner, appena saputo che aveva lasciato una paziente in studio per salutarlo. Gli disse che sarebbe andato in albergo, che si sarebbero visti dopo e si congedò. Wanner lo salutò garbatamente e non appena Blooming chiuse il portone dietro di sé, Wanner si scagliò contro Erika: “Belle figure mi fa fare!” e lei: “Ma Dottore, è uscito Lei e…” ma lui la interruppe:” Erika, stia zitta e torni a badare alle sue unghie”.
Emma, che si era messa a girovagare per la stanza, non appena il dottore era uscito, anche questa volta, si era avvicinata alla porta e aveva sentito tutto. Avrebbe voluto abbracciare quella donna e poi scuoterla: ma come poteva farsi trattare così, fosse anche lui il più scienziato degli scienziati della Terra?
Ed ecco ricomparire Wanner. Emma era ancora in piedi.
“Mi scusi, Emma. Mi scusi davvero ma non potevo proprio dire di no al Dottor Blooming”.
“Ah no? E allora perché te la sei preso con la tua segretaria, razza di meschino?” pensava Emma. Era soprattutto la frase sulle unghie che l’aveva mandata in bestia. Ma come si permetteva…
“Dunque, riprendiamo, mi diceva di suo marito, della sua ostinata gelosia, mi dica”.
“Mi chiedevo se conoscere da tanto tempo una persona, dia il diritto di trattarla male”, disse Emma.
Wanner stava zitto e ad Emma venne da dire: “Lei che ne pensa?”
“Ah, non è importante ma se lo vuole sapere, dico no, certo. Suo marito si è approfittato del suo ruolo e della confidenza che si era giustamente creta fra voi”. Disse Wanner, in modo accademico.
“Quindi, anche lei con la signora Erika”.
“Prego?”
“Vi conoscete da sedici anni, ha detto, giusto?”
“Sì, giusto e allora?” rispose Wanner con un finto stupito sorriso.
“Lei la tratta malissimo, la offende. Perché non dovrebbe mettersi lo smalto? Perché a Lei, dottore, non piace?”
Wanner era imbarazzato e pensava che sicuramente il marito di Emma era stato portato all’esasperazione. Chi mai era questa soubrette, sì soubrette, che osava mettere il becco nelle sue faccende? E poi cosa mai aveva fatto di male?
“Emma, questi sono fatti miei.” Disse Wanner, con il solito sorriso di cortesia, “Non siamo qui per parlare della mia segretaria”
“E invece sì. Piuttosto, stavo parlando di Lei. Come posso fidarmi di Lei ed essere sicura che anche Lei non sia uno di quelli che odiano le donne? Non c’è bisogno di arrivare ad uccidere, sa. Basta trattare una donna come un essere senza cervello, dicendole se deve o no mettere lo smalto o pensare che una faccia la soubrette, solo perché lavora in tv. Dottor Wanner, la mia seduta finisce qui. Ho lasciato un maschio meschino e ora non posso ritrovarlo camuffato nel mio terapeuta” e se ne uscì, con l’intenzione di scuotere Erika e di pregarla di andare a lavorare altrove. Si sentiva come liberata. Forse meglio di una terapia.
Lei non avrebbe potuto più permettere a nessun uomo di comportarsi da maschio arrogante ma soprattutto non lo avrebbe più permesso a quelli “perbene”, quelli istruiti, lupi travestiti da agnelli, in realtà, più bigotti e più medievali di tutti.
Wanner rimase fermo, nel mezzo della stanza, incredulo, con lo sguardo fisso alla porta e disse sottovoce: “Troia”.
Fece tre grossi respiri e uscì dal bagno. Finse di non aver trovato nulla, che fosse tutto normale. Lo baciò sulle labbra, come ogni mattina, un bacio rapido, di cortesia. "Buon lavoro". Lo guardò allontanarsi col passo lento, quasi trascinato, e sparire dietro al portone nero. Attese, senza respirare, il motore dell’auto che si allontanava lasciandola sola e al sicuro. Fino a una settimana prima la presenza di suo marito la faceva sentire protetta, adesso la spaventava. Matteo andava a caccia, amava il senso di potere che trovava nell’imbracciare e usare un fucile, scovare una preda e decidere della sua vita. Diceva che lo avvicinava a Dio. Gliela aveva trasmessa il padre di Alice quella passione, prima che legasse con lui ne era addirittura disgustato. Ma quello che Alice aveva trovato tra i suoi trofei era uno scalpo, non erano peli di animali. Ciò nonostante, dopo la sorpresa e prima della paura, quello che aveva sentito più di tutto era delusione. Credeva che tra loro non ci fossero segreti.
Si erano conosciuti alle elementari, durante la ricreazione. Frequentavano due classi differenti perché lui era più grande di due anni. La loro scuola era molto piccola, aveva in tutto cinque classi e una sola sezione, quindi i bambini si conoscevano tutti. Fu lei a presentarsi. Lo vedeva ogni giorno starsene seduto in un angolo del giardino a guardare gli altri che giocavano. Lo chiamavano il pappagallo. Gli si avvicinò presentandosi.
"Ciao, io sono Alice".
Lui continuava a guardarsi i piedi.
"Io sono Alice, tu come ti chiami?".
"Mm-m-matteo".
"Vieni a giocare con me?". Lo prese per mano e se lo trascinò dietro, e se gli altri ridevano di lei perché giocava col balbuziente a lei non interessava.
Iniziò così la loro amicizia, e cominciarono a frequentarsi anche fuori dalla scuola. Matteo fu il primo e l'unico che Alice invitò a casa, perché si vergognava di quella piccola costruzione di mattoni con l'intonaco scrostato che cadeva a pezzi, e l'esterno era nulla in confronto alla desolazione che trovavi dentro. C'era la poltrona sformata dal culo di suo padre, con a fianco il posacenere rosa a forma di reggiseno pieno di tabacco masticato. C’era la vecchia televisione tutta scocciata e di fianco il tiro a segno, alcune freccette attaccate, altre a terra. C’era il fucile da caccia sempre poggiato sul tavolo di legno, distante qualche passo dalla poltrona. Era l’unico tavolo della casa, sul quale mangiavano a pranzo e cena, ma non importava, suo padre doveva avere sempre vicino il proprio fucile. E poi c’erano i suoi vestiti sporchi, ovunque, buttati a terra come capitava. La cameretta di Alice era uno sgabuzzino con incastrati solo il letto e un armadio a due ante. Nel piccolo spazio che rimaneva a terra lei e Matteo passavano i pomeriggi a fantasticare.
Seduto alla cattedra Matteo si godeva quegli attimi di silenzio. I suoi alunni stavano svolgendo un compito in classe. Odiava il proprio lavoro. Ripensò a come fosse finito lì. Lui e Alice stavano insieme da quindici anni e convivevano da cinque. Quella sera tornò a casa e si accorse che lei era diversa. Una vita trascorsa a osservare gli altri, in disparte, gli aveva permesso di sviluppare un'eccezionale capacità visiva: solo guardando una persona, anche pochi secondi, percepiva le sue emozioni, ne scorgeva i tratti del volto mutati; e quella sera Alice era spaventata. Aveva le sopracciglia lievemente alzate e le labbra in fuori. Proprio come stamani, rifletté. Che fosse di nuovo incinta? Ci avevano dato dentro quel mese, era possibile, ma strano che non gli avesse detto niente. Forse voleva aspettare. Aveva sofferto molto l’altra volta, quando poi aveva perso il bambino. Raccontare a tutti di un aborto spontaneo l'aveva straziata. E anche a lui era dispiaciuto, ma non poteva condividerla con nessuno. Finse gioia alla notizia di quella nascita. Su richiesta di Alice lasciò il suo lavoro precario come redattore e accettò l'incarico di docente nell’Istituto privato. Avrebbe guadagnato di più, era per il bambino, lei ripeteva. E lui l'aveva accontentata. Ma accettare quell’incarico era stato solo un diversivo, un gioco di prestigio: mentre lei gioiva per la sua accondiscendenza, lui scioglieva del veleno nella tisana, e senza macchiarsi di nulla si era disfatto del feto. Lei non lo aveva mai scoperto. Tornare a scuola, poi, dopo quel lutto così atroce, era stata una prova di coraggio e di profondo amore, ma il gioco di prestigio non si era concluso e quello che Matteo aveva creduto, che sedere su una cattedra gli avrebbe dato potere, che avrebbe stretto fra le mani le testoline di quei ragazzetti come faceva con i suoi trofei di caccia, non si era mai avverato. Entrare ogni mattina in quell'Istituto era come tornare indietro nel tempo e ridiventare il pappagallo, perché tra i colleghi professori c'era Alessandro, l'aguzzino della sua giovinezza. Era arrivato lì perché ce lo aveva piazzato il padre, ed era rimasto il solito sbruffone. Lo aveva incontrato il primo giorno del suo nuovo lavoro. Si erano incrociati nel corridoio. Matteo, il cuore che spaccava il petto, aveva finto di non riconoscerlo. Alessandro, invece, si era girato verso di lui e a voce alta aveva gridato:
"Non ci posso credere...sei davvero tu? Pappagallo? Dai, e che ci fai qui? Non mi dirai mica che sei un insegnante adesso??? T-ti cc-ci vorrà tutto il g-gg-giorno a ff-f-finire una l-lezione!". E gli diede una pacca sulla spalla. Poi ebbe la premura di presentarlo a tutti i colleghi raccontando come si erano conosciuti, lui e pappagallo.
Alice aveva veramente compreso il suo amico Matteo solo quando era entrata in quell'abitazione di via Pontichelli. Di per sé era una normale casa popolare, molti suoi compagni vivevano in luoghi simili, ciò che la turbò furono i suoi inquilini. Matteo viveva con la madre, Barbara, e una sua amica, Elena. Le stanze delle due donne erano grandi e luminose, con alte finestre. Erano arredate in maniera simile: avevano entrambe un letto matrimoniale, un grande armadio a sei ante con specchio centrale, due comodini con abat iour e uno specchio sul soffitto. La cameretta di Matteo, invece, era piccola e sembrava ricavata in quello che in origine aveva dovuto essere un ripostiglio. Aveva un letto, un armadio a tre ante e una scrivania, ma nessuna finestra. Le prime volte che vi entrò ad Alice sembrò di essere un criceto in una scatola di cartone, uno di quei contenitori angusti nei quali vengono messi quando li compri alle fiere di paese. Poi si abituò. Con il passare del tempo non fece neppure più caso ai molti uomini che si aggiravano per l'appartamento. Arrivavano, si sedevano sul divano e poi si intrufolavano nella camera di una delle due amiche. Dalla stanza di Matteo si sentiva tutto: rumori, colpi ritmici che crescevano di intensità e poi le urla, sempre uguali. A volte era la voce di Barbara a emettere un gemito, a volte quella di Elena, seguivano sempre i grugniti maschili.
Il giorno in cui Matteo conobbe la morte aveva quattordici anni. Era il compleanno di Elena, la bella amica di sua madre. Aveva passato le due settimane precedenti a intagliare nel legno il manico di un coltello, assemblandovi poi una lama. Lo aveva incartato in un foglio di quaderno e si era seduto ad aspettare che l'ultimo cliente del giorno uscisse da camera della donna. Poi si era fatto avanti.
"T-tieni questo è per te...".
"Grazie...Cos'è? Un regalo...che carino che sei...". Lo scartò.
Lui si avvicinò e le dette un bacio sulle labbra. Elena ricambiò quel bacio e infilò la sua lingua morbida nella bocca del ragazzo. Poi lo avvolse con le sue prosperose forme iniziandolo a un mondo di piacere. Lui, una volta distesi nudi nel letto, le confessò il suo amore.
"Era solo sesso...piccolo...ti ho fatto un favore, nessuna sarebbe mai venuta con uno come te...che dolce!". E iniziò a ridere fragorosamente. Quella risata acuta penetrò nelle orecchie di Matteo e arrivò fino al cervello innescando una reazione, un istinto primordiale. Afferrò il coltello e trafisse il corpo di lei più volte fino a che l'adrenalina non si affievolì e lui ritornò ad essere il quieto Matteo, il pappagallo. Elena non venne più nominata. E qualche tempo dopo una certa Gina prese il suo posto.
Alice si mise a cercare indizi nella camera da letto. Il pulsare del sangue era così forte che le rimbombava nel cervello, ma doveva concentrarsi e rimettere tutto nell'esatto modo in cui lui l'aveva trovato. Col cellulare fotografava ogni cosa prima di spostarla e poi ricomponeva il puzzle con attenzione. Le mani le tremavano, ma doveva sapere. Stava frugando nel cassetto dei calzini quando trovò una foto, ma era solo il ritratto di sua suocera: Barbara che sorrideva abbracciata a Matteo. L’aveva già vista mille volte e si domandava sempre in quale occasione avesse dato prova di tanta maternità, lei che lo aveva sempre considerato un ritardato. Quando ancora erano ragazzini l’aveva vista sputargli in faccia e urlargli che era un buono a nulla, come suo padre. “Almeno lui ha avuto il buon gusto di andarsene, tu invece stai qui con quell'aria da fesso a farti mantenere!". Solo perché aveva sbagliato a prepararle il caffè. Veniva picchiato o insultato almeno una volta al giorno, quando sua madre era di buon umore. Alice ripensò a quante volte Matteo avesse provato a fare colpo su quella donna, ad avere un legame con lei, senza mai riuscirci, tranne, evidentemente, in occasione di quella foto.
Si sedette sul letto e scrutò l’immagine da vicino cercando di carpire dove fosse stata scattata e quando. Riconobbe la casetta in legno alle loro spalle, gliela aveva lasciata sua madre. Si alzò di scatto e con ancora le mani tremanti rimise la foto quasi al proprio posto.
Alice era sempre stata una ragazzina socievole che coltivava molte amicizie, ma quando aveva incontrato Matteo, che si era insinuato nella sua vita come un piccolo corso d'acqua, e giorno dopo aveva scavato il proprio percorso spazzando via tutto ciò che lo intralciava, aveva lasciato che lui la allontanasse dai propri amici. Lo aveva fatto con apparente dolcezza, brandendo come lama il suo apparente amore. Anche più tardi, quando c'erano stati i primi episodi di violenza, aveva sempre usato quella scusa: non riusciva a controllarsi da quanto la amava. E lei ci aveva creduto, lo aveva giustificato, all'uomo poteva scappare qualche ceffone, lo aveva già vissuto in casa da bambina, ciò che contava era il resto del tempo, quando lui era calmo e la trattava come una signora.
Era una rosa sotto un vetro, non poteva lavorare né uscire da sola, ma era il prezzo dell'amore.
Alice, quella sera, lo aveva pregato di fare una gita nel bosco, l'indomani. Voleva andare alla piccola dimora di montagna, quella che gli aveva lasciato sua madre. Era una donna determinata la sua Alice, aveva già preparato tutto, e lui non aveva potuto negarle quella piccola fuga. Prima di coricarsi, però, aveva notato dentro il cassetto la foto fuori posto. Niente di strano se lei avesse aggiunto dei calzini, ma erano gli stessi dodici che c'erano la mattina quando si era vestito. Quell'istantanea gli ricordava un evento speciale. Lui e sua madre, di notte, avevano camminato per ore nel bosco, sulle spalle un lungo e pesante sacco, sui sessanta chili, nella sua mano una torcia, in quella della donna una pala. Avevano poi scavato, arrivati al posto giusto, e sotterrato quel segreto di nome Elena. Si erano poi coricati nella baracca di montagna, di loro proprietà da varie generazioni, e l'indomani Barbara aveva voluto scattare una foto, orgogliosa. Matteo controllò sua moglie, era ancora sul divano a guardare un programma in televisione, e andò ad aprire il suo nascondiglio. C'era qualcosa di strano in lei, che avesse scoperto tutto? Ne ebbe la conferma nell'istante in cui guardò i suoi trofei di caccia: i capelli erano stati spostati.
Alice seguiva Matteo lungo il sentiero cercando di memorizzare il percorso, ma non era facile: non aveva mai avuto un buon orientamento. La paura del giorno precedente aveva lasciato il posto alla curiosità, molte domande le risuonavano nella testa. Era tutto frutto della sua fantasia? No, i capelli erano veri, li aveva toccati con le sue stesse mani. Vagarono per quasi venti minuti nel bosco, in un tratto non segnalato, per raggiungere la casa. Non sapeva neanche lei cosa si aspettava di trovarvi, ma sentiva che quel posto nascondeva qualche segreto. Quando varcarono la soglia un forte odore di chiuso e muffa le penetrò nelle narici. Salì al piano superiore, quello della camera, e aprì le finestre, qualche minuto, giusto per far circolare l'aria. Matteo la aiutò a scoprire il letto dal telo di plastica e a prendere le lenzuola pulite. Poi uscirono fuori a godersi il panorama. Matteo si mise al suo fianco e le cinse la vita, si baciarono. Alice poi, con la scusa di dover cucinare, rientrò in casa. Aprì il frigo e vi trovò della carne. La prese, ma suo marito la fermò subito: era il cibo per i cani. Strano, a casa non mangiavano mai carne, lui non voleva, gli rifilava sempre quelle crocchette del supermercato dicendo che era quello il loro cibo. Forse era carne scaduta. Più tardi, mentre Matteo dormiva, si alzò dal letto, tornò in cucina, si avvicinò al frigo e aprì il contenitore. Notò, tra quei pezzi di carne, quello che era di sicuro un dito umano. Si precipitò fuori, al freddo, e iniziò a vomitare, prima di svenire. Quando riprese conoscenza era di nuovo in casa e Matteo la stava legando alle sponde del letto. Per un istante i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di sorpresa, poi ricordò tutto.
"Volevi sapere...ecco ti mostro cosa facevo a quelle donne...avrai lo stesso trattamento...".
"Ma...perché? Chi erano? Quando è iniziata questa storia? È colpa mia?".
E mentre le tagliava via i vestiti di dosso, iniziò a raccontare: "Non è colpa tua, non lo è mai stato. Tu mi hai salvato, però non dovevi intrometterti, non dovevi curiosare...vuoi sapere come è iniziato tutto questo? La prima è stata Elena. Te la ricordi? Mi aveva preso per il culo con i suoi modi affettuosi, ma l'ha pagata. Poi, circa un anno fa, giravo di sera per il centro e mi vidi passare accanto una donna molto simile a lei. Sul momento pensai di avere di fronte proprio Elena. Incuriosito la seguii fino al locale ed entrai. Dopo poco mi accorsi che era un'altra persona, ma qualcosa dentro di me si era riacceso, avevo provato nuovamente il senso di potere che si sperimenta rubando una vita, e mi piaceva. A lavoro ero divenuto lo zimbello di tutti, i miei alunni non mi ascoltavano, lanciavano le sedie in aula durante le mie lezioni, mi deridevano. Avevo bisogno di amplificare il potere che mi dava la caccia. Alla fine anche noi siamo animali, giusto?". La violentò selvaggiamente, proprio come aveva fatto con le altre, niente sconti. E di nuovo svenne.
Al secondo risveglio era libera, ma nuda e in mezzo al bosco. Avrebbe voluto piangere e chiamare aiuto, ma non c'era nessuno. Prese a correre cercando di non sentire i tagli che le si stavano formando sotto i piedi, di non tremare per il freddo, cercò di sopravvivere. Aveva paura, ma combatté fino alla fine.
La promessa
Era stata una giornata lunga, difficile, faticosa. Alice era esausta e sapeva già che a casa non avrebbe potuto riposarsi. L’aspettavano due bambini che non le davano respiro. Inoltre, suo marito non era certo una persona comprensiva o accogliente. Doveva subire pure i suoi rimbrotti sul perché si ostinasse a lavorare.
Era talmente stanca, dopo una giornata in piedi, che rischiava di addormentarsi al volante.
E invece non toccò a lei, ma al guidatore di un’auto che procedeva a velocità sostenuta.
Sbandò, e invece di decelerare, sembrò acquistare terreno. Un albero lo fermò, sul ciglio della strada.
Alice arrestò subito la macchina, scese e, di corsa, si avvicinò.
Il cofano era accartocciato e l’uomo, riverso sul volante, perdeva sangue dalla fronte.
Lei non capiva se respirasse o no, ma non se la sentiva di muoverlo per controllare. Da quel poco che sapeva di pronto soccorso, le pareva fosse sconsigliabile.
Altri automobilisti intanto stavano accostando. Qualcuno prese il cellulare per sollecitare gli aiuti.
Alice comprese che non poteva star lì a guardare senza far nulla. E se l’uomo stava morendo? Sarebbe morto da solo, su un’auto, in mezzo a una via qualsiasi, senza il più piccolo conforto.
Aprì la portiera, che fortunatamente era ancora in buone condizioni, e lo chiamò.
- Signore.
L’altro non la udì, ma accostando il viso al suo, Alice sentì un lamento.
Almeno è ancora vivo, si disse.
Lui sollevò appena le palpebre. La guardò, o così sembrò ad Alice.
- Signore, mi sente? – chiese.
L’uomo continuò a fissarla.
- Stia tranquillo, hanno telefonato per un’ambulanza. Non ci vorrà molto.
Istintivamente, allungò una mano e gliela posò sulla spalla.
- Chi è lei? – esalò il ferito.
Lei gli sorrise.
- Mi chiamo Alice.
Si sentì spingere via.
- Mi scusi – le disse un uomo. Era un paramedico. I suoi colleghi inziarono ad armeggiare nell’auto.
Alice venne gentilmente allontanata.
Rimase a osservare per un po’, poi notò che era tardissimo, suo marito l’avrebbe rimproverata per tutta la sera, e decise di andarsene.
L’accoglienza fu come se l’aspettava: fredda e carica di malumore. Se non altro i bambini avevano già cenato ed erano a letto. La donna aveva spesso l’impressione che preferissero evitare il padre, e non poteva dar loro torto, a volte avrebbe voluto evitarlo anche lei.
Si mise subito ai fornelli, giusto il tempo di raccogliere i capelli in una coda e lavarsi le mani.
- Sono stanco questa sera e tu non c’eri, come al solito – grugnì Fabio.
- Non è colpa mia – si giustificò Alice, pronta. – Un incidente ha bloccato la circolazione.
- E scommetto ti sei messa in mezzo.
- Volevo dare una mano.
- Mai che ti facessi i fatti tuoi.
- Un uomo era in macchina, ferito, poteva essere grave, morire anche. Mi è sembrato naturale confortarlo.
- Poteva voler morire in pace – sbraitò Fabio.
Alice si limitò ad arrossire e a chinare il capo.
Avrebbe dovuto reagire, ma non l’aveva mai fatto, non era capace di ribellarsi. Sempre stata così fin da piccola. E molti ne avevano approfittato e continuavano a farlo, in primis suo marito.
Lui cominciò a mangiare, senza aspettarla. Un altro sgarbo, l’ennesimo.
Alice si asciugò furtiva una lacrima, prima di sedersi a tavola.
La settimana trascorse in fretta, tra casa e impegni lavorativi. A lei piaceva il suo lavoro, quindi non le pesavano i sacrifici che doveva affrontare; suo marito non era dello stesso parere.
Il sabato di solito lo dedicava a rimettersi in pari con le faccende domestiche, e non aveva mai neppure il tempo di rilassarsi un po’ o di godersi i figli; suo marito li portava sempre dalla madre, dicendo che voleva stare in pace, peccato che poi uscisse anche lui e non si rifacesse vivo fino a sera. Alice taceva, sentendosi in colpa. Per fortuna, i suoi genitori abitavano in un’altra città, così non doveva litigare con loro che, ovviamente, avrebbero desiderato incontrare i nipoti.
La sua routine venne interrotta nella mattinata da una visita inattesa. Non aveva l’abitudine di aprire la porta agli sconosciuti, ma le bastò un’occhiata attraverso lo spioncino, per non esitare.
- Mio Dio, è lei! – esclamò trovandosi l’uomo davanti.
- Sì, proprio io – le sorrise. – Mi scusi se piombo qui in questo modo, ma ero troppo impaziente. Volevo salutarla, ringraziarla e appena uscito dall’ospedale, per rimettermi in sesto ci è voluto un po’, mi sono dato da fare per rintracciarla. Spero mi perdonerà l’intrusione.
Alice sorrise e lo invitò ad accomodarsi.
Per fortuna, il soggiorno era già riuscita a riordinarlo.
L’uomo le porse un grande mazzo di gladioli.
- Sono bellissimi – disse Alice, chiedendosi subito come li avrebbe potuti giustificare con il marito. – Vado a metterli in un vaso. Le offro qualcosa? Se può bere, dico, cioè se i dottori le hanno dato il permesso – si impappinò Alice.
- Sì, posso. Non che sia il tipo da dar retta agli altri, medici compresi, decido sempre io.
Beato lui, pensò la donna. Infilò i fiori nel primo vaso a portata di mano, si recò in cucina per riempirlo di acqua, mentre pensava come liberarsene. Li avrebbe regalati alla sua vicina, decise, anche se le piangeva il cuore a darli via.
Tornò dal suo ospite.
- Non volevo imporle la mia presenza, come le dicevo, ma non potevo esimermi dal venire. Non scorderò mai quello che ha fatto per me – disse l’uomo.
- Lei esagera – si schermì Alice. – Chiunque si sarebbe comportato allo stesso modo.
- Non credo proprio. Alcuni infatti si sono limitati a osservare, lei invece ha dimostrato di interessarsi, di voler essere utile. Non si sottovaluti, non è da tutti.
- Mi imbarazza.
- Mi sa che non è difficile – constatò lo sconosciuto. – Mi scusi, ma pare un pulcino bagnato.
Notando l’espressione di Alice, si affrettò ad aggiungere:
- Non voglio offenderla. E che è talmente timida, non credevo fosse possibile al giorno d’oggi. Ascolti, le spiegherò la ragione della mia visita e me ne andrò subito. Va meglio così?
- C’è una ragione?
- Sì, ho una proposta, che mi auguro troverà interessante. Io non amo avere debiti, e quindi voglio togliermi quello con lei.
Alice azzardò un’interruzione, ma l’altro la fermò con un gesto della mano.
- Mi faccia finire, poi potrà chiedermi tutto ciò che desidera. Vede, io faccio un mestiere insolito, direi rischioso, non per me, quanto per chi mi incontra. Non ci sono molte definizioni per questo lavoro, anche se ci si potrebbe sbizzarrire su. Ma sono una persona pratica, diretta, mi limito a un solo nome: killer. O se preferisce, sicario. È lo stesso. Uccido su commissione, chiunque mi chiama, e mi paga bene, molto bene, può usufruire dei miei servizi. Basta essere chiari, precisi: nome, indirizzo e foto, a volte niente recapito, li ho dovuti rintracciare, ma non voglio annoiarla con divagazioni; sono molto efficiente, abbordo il mio uomo, o donna, lo pedino, e colpisco.
Non ho mai fallito, nessuno si è mai lamentato di me. E per lei i miei servigi sono gratuiti.
L’uomo tacque e la fissò. Alice era pietrificata. Non respirava, non si muoveva, era come intrappolata in un brutto sogno.
- Non si spaventi – la rassicurò – non sono un pazzo, non vado in giro ad ammazzare persone a casaccio, non mi converebbe. Lo faccio solo per denaro.
Alice, con un immenso sforzo fisico e di volontà, si alzò.
Lui la imitò.
- Non sono un pericolo, glielo assicuro, non le farei mai del male.
La donna tremava. Il killer se ne rese conto e tentò di avvicinarsi. Alice si rannicchiò su stessa, pronta a subire l’aggressione.
Ma l’uomo le parlò gentilmente.
- Signora, non volevo davvero impaurirla. Le sto solo offrendo assistenza. Tutti abbiamo qualcuno che non sopportiamo, che detestiamo, che addirittura odiamo. Immagino anche lei, è una persona molto gentile, posso testimoniarlo, ma persino lei può avere chi le crea talmente tanti problemi da volersene liberare. Ed eccomi qui.
Alice ritrovò la voce.
- No, no, se ne vada, la prego.
- Alice, mi ascolti solo un altro momento; le ripeto che non mi piace avere debiti, con nessuno, e ne ho uno grosso con chi mi ha salvato la vita. Non intendo andarmene senza che mi abbia risposto.
- Io non odio nessuno – bisbigliò la donna.
- Ha ragione, sono troppo insistente. Sediamoci e discutiamone con calma.
La prese gentilmente da un braccio e la sospinse verso il divano.
Alice ubbidì, come era solita fare.
- Le espongo ogni cosa dal principio: in ospedale mi hanno dovuto rimettere insieme; ero ridotto molto, molto male, ho rischiato di morire in un paio di occasioni, per fortuna ho il cuore forte.
Mi hanno dimesso, anzi mi sono dimesso, non ne potevo più; stare chiuso ventiquattrore su ventiquattro in un posto mi rende nervoso, al limite dell’isterico. Sa, vecchi traumi legati a esperienze passate.
Ho cominciato subito a pensarla, a come trovarla. Sapevo soltanto il suo nome, ma scovare persone è il mio lavoro. Ho indagato, chiesto in giro, l’ho descritta, in fondo la vostra è una piccola città, e comunque ho i miei metodi, che preferisco non svelarle.
È libera di cacciarmi, capisco di averla sconvolta, ma vorrei che riflettesse su ciò che le ho detto. Le lascio il mio biglietto da visita, ci sono tutti i miei domicili, mi può telefonare quando vuole, in qualsiasi momento, anche di notte. Non si faccia scrupoli, ci sono abituato.
Si avviò verso l’uscita.
- Ne approfitti ora che sono libero, sono, per così dire, in convalescenza, perciò posso essere a sua completa disposizione. Altrimenti potrei essere chiamato per qualche servizio, e dovremmo rimandare, non si sa per quanto.
Uscì, e Alice rimase a fissare la porta domandandosi se fosse pazzo lui, o fosse impazzita lei.
Le settimane non passarono invano. Alice aveva un tarlo che non la faceva più vivere, né dormire, né lavorare.
L’unica cosa che la scuoteva erano gli abituali rimproveri del marito, a cui però rispondeva a monosillabi, riuscendo soltanto a farlo infuriare di più.
Non poteva confidarsi con nessuno, non aveva amiche, Fabio le aveva fatto il vuoto intorno, e neppure colleghe con cui fosse in confidenza. E poi non è facile raccontare che una persona vuole uccidere qualcuno per te, è troppo da digerire, per chiunque.
Non che Alice avesse intenzione di approfittare della sua protezione, non detestava nessuno, non augurava la morte a nessuno. Eppure, a volte, si diceva: la maestra di suo figlio che non gli dava remore, una vicina di casa prepotente, il collega astioso, qualcuno ci sarebbe stato.
Ma poi si rimproverava: non avrebbe potuto, non se lo sarebbe mai perdonato, era orribile soltanto fantasticarlo.
Meglio dimenticare. Non aveva scelta.
Anche lui, il killer, la pensava e si chiedeva se avesse un senso ormai aspettare. Aveva compreso che Alice non era una donna decisa, tutt’altro, era una persona debole, impaurita, una che ha sempre bisogno che le dicano cosa fare, quando farla, e come. Probabilmente non l’avrebbe più sentita. Inoltre, nel frattempo, aveva ricevuto un incarico interessante che lo avrebbe condotto dall’altra parte del mondo, in un paese mai visitato prima. Era molto tentato, e nel suo ambiente era meglio non rifiutare un lavoro, potevi essere sostituito, in alcuni casi eliminato, se si cominciava a ritenere che non servissi più.
E poi odiava avere debiti, dover essere riconoscente a qualcuno lo faceva stare letteralmente sulle spine. Non aveva idiosincrasie, con la sua attività non poteva permetterselo, ma essere in svantaggio verso il prossimo lo innervosiva.
Sapeva cosa fare per star meglio: non indugiare oltre, prendere l’iniziativa.
Si vestì in fretta e uscì.
Seguire Alice non era molto piacevole, non che avesse scrupoli di coscienza, per quelli ormai…, solo che aveva una vita tanto monotona che più di una volta aveva rischiato di addormentarsi al volante.
Ufficio, casa, scuola, supermercato, ecco il suo tragitto settimanale. E il sabato e la domenica, quando avrebbe potuto dedicarsi un po’ allo svago, non metteva il naso fuori. Probabilmente si dedicava alle pulizie, neppure al marito o ai figli, dato che li aveva visti uscire la mattina presto, recarsi sempre allo stesso indirizzo, e tornare la sera tardi.
Possibile, si chiedeva, non avesse amici con cui fare almeno una passeggiata? O prendere un caffè? Era una vita così incolore.
Lui era un assassino, un killer, però viaggiava, conosceva sempre persone nuove, anche se molte non potevano raccontarlo, e si divertiva, in ogni posto che visitava scopriva sempre qualcosa che l’affascinava.
Alice invece… cominciava a dispiacersi per lei.
Quindi, pure se la donna non era d’accordo, avrebbe portato a termine il suo compito, l’avrebbe affrancata da un incomodo; non poteva mutarle l’esistenza, tuttavia poteva migliorargliela togliendo di mezzo un essere molesto, qualsiasi esso fosse. Già un’idea su chi puntare se l’era fatta in quei giorni.
E cominciò, perciò, a pedinare qualcun altro.
Alice era appena rientrata dalla scuola dove aveva parlato con le maestre dei suoi figli. Una di loro era stata particolarmente aggressiva; aveva sottolineato che il bambino era una vera peste, sempre in movimento, sempre a disturbare.
Ne era rimasta mortificata. Aveva chinato il capo e mormorato qualche parola. Non poteva confessare all’insegnante che il figlio verosimilmente sfogava in classe tutto quello che si teneva dentro a casa. Il padre lo fulminava con gli occhi appena provava solo a muoversi, quindi dove e quando avrebbe dovuto comportarsi come uno della sua età?
Si asciugò una lacrima. Era una pessima madre, pessima.
Piantala di lagnarti, si disse, pensa a quante cose devi ancora fare prima che torni tuo marito.
Andò in cucina e cominciò a sbucciare le cipolle: un’ottima scusa per piangere.
La telefonata giunse la mattina presto; i bambini stavano vestendosi e Fabio era in cucina davanti a una tazzina di caffè.
Toccò ad Alice rispondere e se ne pentì all'istante.
Era una brutta notizia, tanto brutta da non sapere come riferirla al marito.
Gli si sedette davanti e lo guardò.
- Che succede? – le chiese lui incuriosito.
- Io, Fabio, io… – cominciò Alice per zittirsi subito.
- Dannazione – sbottò Fabio, con l’abituale garbo – che ti piglia? Possibile che tu non possa sostenere una conversazione senza farfugliare?
- Fabio, tua madre, tua madre non c’è più – compitò la donna.
- Ma sei più pazza ogni giorno che passa! Mia madre sta benissimo.
- No, mi dispiace, no. Hanno chiamato per avvertire che ha avuto un incidente domestico e non hanno potuto salvarla. Mi dispiace tanto, Fabio.
Suo marito la fissò per un minuto che parve durare all’infinito, poi si alzò adagio.
Ora mi picchia, si disse Alice, deve sfogarsi con qualcuno, su qualcuno.
L’uomo, al contrario, la ignorò e si diresse verso la loro camera da letto.
Alice udì sbattere forte la porta, dopo silenzio, infine urla belluine, urla di disperazione.
Non si mosse, rimase ferma lì a contemplare le piastrelle azzurre della cucina.
Il killer decise che era ora di chiamare Alice. Voleva salutarla e augurarle ogni bene. Forse sarebbe stata più serena, dopo il suo intervento.
Gli rispose la donna. Se avesse invece risposto il marito, avrebbe inventato un pretesto qualsiasi, ma ebbe fortuna.
- Alice – esordì – come sta?
- Chi è? – la donna esitò, poi comprese. – Ah, è lei.
- Non sembra felice di sentirmi.
- Mi scusi, sono stravolta, sa, mia suocera…
- Sì, lo so, condoglianze.
- Grazie.
- Volevo dirle addio; devo andarmene dall’Italia, per un po’.
- Bene, allora addio – tagliò Alice.
- Aspetti, volevo anche avvisarla che non mi considero più in debito con lei. Ormai siamo pari, dopo la morte di sua suocera.
Alice non replicò.
- È ancora lì? – domandò l’uomo.
- Come ha detto? – sussurrò.
- Sì, non è stato complicato. Un banale incidente nel suo appartamento. A proposito: confortevole, spero lo ereditiate. Era una donna anziana, sopraffarla è stato un gioco da ragazzi.
Alice taceva.
- Alice?
- No, non può essere stato lei.
- Certo, è stata opera mia. Pensava fosse caduta da sola? No, non proprio. Ho capito quanti problemi le causava e ho deciso di agire, dato che non avrebbe mai preso una decisione. Mi scusi, ma iniziavo ad avere una certa fretta.
- Mia suocera.
- Sì, sì, un’intrigante. Ho assistito a qualche scena tra voi tre: lei, suo marito e la madre. Troppo opprimente quella donna.
- No, no.
- Suo marito è quello che è a causa di una cattiva educazione. Non è stato mai svezzato; è il classico tipo che suppone tutto gli sia dovuto, tutto debba andare come vuole lui. Non so se cambierà dopo questa perdita, le confesso che ci credo poco, però potrebbe pure accadere. Se vuole proprio continuare a essere sposata con un simile individuo.
- Non la volevo morta.
- No, immagino di no. Lei è troppo buona, troppo amabile, non mi avrebbe mai incaricato di ucciderla, però le dovevo un favore, e ho ritenuto che fosse la persona più molesta della sua vita.
- No, lei non capisce – urlò Alice. – Mia suocera non era cattiva, era una debole, subiva mio marito come lo subisco io. Non era invadente; mio marito voleva che i bambini stessero sempre da lei, perché così non li aveva tutto il giorno tra i piedi. E non si intrometteva: era una brava persona, una brava persona.
- Io… ho visto un litigio tra voi tre in strada, la signora sembrava aggressiva.
- Si era solo ribellata all’ennesima prepotenza di Fabio.
- Mi dispiace molto, molto. A volte la fretta è cattiva consigliera. È stato un errore, una svista.
- Una vista? Una persona è morta! – strillò Alice, ormai senza controllo.
- Sono mortificato. Proverò a rimediare.
- No, no, la prego, non faccio altro. Mi dimentichi, le domando solo questo: dimentichi che ci siamo incontrati, che l’ho soccorsa.
- Non volevo finisse così. Ma l’ascolterò, non ho alternative a questo punto.
Alice riattaccò. Le lacrime stavolta sgorgarono copiose.
Povera povera donna, non avrebbe meritato una tale fine. Sapeva lei chi l’avrebbe meritata; aveva sprecato l’occasione di diventare vedova.
Si asciugò il viso, e comprese che quelle lacrime non le stava versando solo per la suocera.
Fabio tornava a casa sempre più tardi, quando rientrava; Alice non se ne preoccupava, al contrario era contenta di potersi godere figli e casa senza le sue contumelie e le sue prepotenze.
Non si allarmò quindi neppure all’ennesima sparizione, anzi, messi i bimbi a letto, si concesse un prolungato bagno caldo.
Il campanello della porta la disturbò. Imprecò e fu tentata di ignorarlo. Poi il suo senso innato di responsabilità prevalse e si costrinse a muoversi. Si infilò l’accappatoio, stringendoselo bene addosso e si recò nell’anticamera. Guardò dallo spioncino e restò interdetta: due uomini in divisa erano sul suo pianerottolo. Che potevano volere? Forse era per lui, il killer, sicuramente era un ricercato, un latitante; magari qualche vicino lo aveva notato entrare nel suo appartamento, gli abitanti del palazzo erano persone discrete, tuttavia non si può mai stare tranquilli, un impiccione può sempre farsi vivo.
Da fuori insistevano; si fece coraggio e aprì, infischiandosene di essere poco vestita. Suo marito l’avrebbe insultata, o peggio, se l’avesse vista, ma non era lì, e poteva approfittarne.
- Buonasera, signora – esordì il più anziano dei due, probabilmente il più alto in grado – possiamo entrare? Dovremmo parlarle.
Alice si limitò ad annuire.
Rimasero in piedi nel vestibolo a fissarsi, finché il poliziotto non seguitò.
- È sola? Non c’è nessun altro con lei?
- Ci sono i miei figli, dormono – rispose Alice, capendo subito che non si riferiva ai bambini. Si sentì una stupida, ma era talmente confusa.
- Signora, dobbiamo comunicarle una brutta notizia. Abbiamo rinvenuto un uomo, un corpo. Mi dispiace, dai documenti risulta essere suo marito.
- Fabio… è morto?
- Sì, signora. Lo ha trovato un ragazzo che consegna pizze, sul ciglio di una strada, una strada di periferia.
- Cosa gli è successo? Un incidente?
- No, mi addolora dirglielo, però siamo sicuri si tratti di un omicidio. Gli hanno sparato.
- Sparato? Chi? Come?
- Chi non lo sappiamo. Come… non vorrei darle i dettagli. Un unico colpo, non ha sofferto, se la può consolare.
Alice cominciò a tremare. I due la guidarono in salotto e la fecero accomodare sull’ampio divano.
- Per questo le ho domandato se fosse sola, sarebbe il caso di chiamare un parente, un amico. I suoi genitori?
- No, no – replicò Alice, in un bisbiglio – i miei abitano lontano, in un’altra città.
- Parenti? O un’amica.
- Sto bene, sto bene – disse la donna, senza nessuna convinzione.
- Avviseremo noi i congiunti di suo marito, se preferisce.
- Mio marito non ha… non aveva più né padre, né madre. Mia suocera è morta da poche settimane.
- Le mie condoglianze, signora. Le faccio portare un bicchiere d’acqua?
- No, no, grazie.
L’agente giovane, che finora aveva fatto solo presenza, si avvicinò al collega e gli sussurrò brevemente all’orecchio.
- Sì, giusto – commentò il più anziano e tornò a rivolgersi ad Alice. - Un’ultima cosa e poi la lasceremo in pace, signora. Sul corpo, a parte i documenti che ci hanno permesso di scoprire l’identità di suo marito, abbiamo trovato un foglietto, in una tasca della giacca. È scritto a mano, in stampatello. L’ho qui con me, posso mostrarglielo? Dovrebbe confermarci sia la scrittura di suo marito.
Alice tese la mano e il poliziotto prese un foglio bianco, ripiegato in quattro e glielo porse.
Lei lo aprì e indugiò, come se avesse scordato come si legge. Poi le lettere le si materializzarono davanti agli occhi, divennero sempre più chiare, come fossero in rilievo. Erano due parole, nerissime sullo sfondo candido: Ho rimediato.
Alice si bloccò. Mille pensieri le arrivarono addosso, come un fiume in piena: lui, lui, era stato lui. Aveva sbagliato e voleva farsi perdonare, ed era stato di parola. L’aveva ucciso lui suo marito, l’aveva freddato per strada e gliel’aveva fatto sapere. L’aveva liberata.
- Signora? Comprendo la sua pena, tuttavia devo avere una risposta – insistette il poliziotto.
Alice sollevò il viso e lo guardò.
- Non è la scrittura di Fabio – disse.
L’agente conservò il foglio.
- Dobbiamo andare, signora.
- Sì, sì.
- Davvero non possiamo avvertire nessuno che venga a tenerle compagnia?
- No, no, grazie. Ho la mia dirimpettaia, se avessi bisogno, posso rivolgermi a lei – non specificò che la donna aveva più di ottant’anni, era sorda, e si reggeva in piedi a malapena.
- Allora torniamo in commissariato. Potrà avere ulteriori ragguagli domani - si congedarono.
Alice non li accompagnò. Rimase seduta a riflettere.
Non c’era più Fabio nella sua vita. Niente più ingiurie e vessazioni. Aspettò lo strazio, il rimpianto, ma non arrivò nulla, nessun sentimento a travolgerla.
Si alzò e si guardò allo specchio. Si accorse che le lacrime luccicavano nei suoi occhi.
Le lasciò scorrere, senza asciugarle.
Dopo tanto, tanto tempo, erano le sue prime lacrime di gioia.
UNO
C’è qualcosa che non va. Anzi, non c’è niente che torna. Mi deve essere sfuggito il filo che teneva insieme cuore e cervello e adesso ciao, non riesco più né a riprenderlo, né a districarlo, né tanto meno a buttar via l’intero groviglio. Ho quella dannata sensazione di essermi introdotta in una stanza rotonda con il preciso intento di mettermi a sedere in un angolo. Che idiota, come ho potuto cascarci di nuovo? Mi faccio quasi compassione, qui appallottolata sulla poltrona a guardare un film che sembra raccontare la storia della mia vita. Possibile che ci si riveda tanto spesso nei film? Siamo davvero così banalmente tutti uguali? Forse sì. Eppure Ramiro no, lui non è uguale a nessuno. Anzi, è talmente fuori dal comune - o fuori di testa - che non saprei nemmeno bene come descriverlo. Un malandrino, ecco cos’è, che si sta prendendo tutto lo spazio nelle mie giornate senza lasciare impronte del suo passaggio, come se non esistesse. Bell’affare davvero, brava Tessa, la tua vita è quasi più patetica di questo film strappalacrime.
Meno male che ogni tanto c’è lo stacco pubblicitario a sdrammatizzare: merendine sane, creme miracolose e automobili superveloci da pagare in comode rate; l’occasione perfetta per andarmene in cucina ad arraffare un po’ di biscotti al cioccolato. No, decisamente così non si può andare avanti; ma non si può nemmeno tornare indietro. Dannazione.
Mollalo. Sprechi il tuo tempo. Esci con qualcun altro. Tutti saggi i miei amici: facile giocare al buon consigliere coi miei di problemi. La verità è che una volta che abbiamo attraversato di corsa un prato ricoperto di neve fresca non possiamo ripensarci tornare indietro e sperare di ritrovare il prato immacolato: le impronte di noi tutti restano lì a ricordarci la precisa traiettoria della corsa, fa eccezione solo Ramiro? Non siamo cassette musicali, non si può riavvolgere il nastro e aspettarsi di riascoltare la stessa canzone. Nella vita il tasto rewind non è previsto. C’è una sola opzione obbligata: l’effetto palla di neve, che rotola sempre più giù tirandosi dietro sbagli, dolori, fili ingarbugliati e molto altro. Alla fine della discesa ciò che potremo ascoltare sarà talmente diverso dalla maledetta canzoncina iniziale, che faremo quasi fatica a riconoscerla.
DUE
Alle 21.45 Edo saltò giù dal treno con l’agilità di un’otaria e trotterellò rapidamente verso l’uscita della stazione, il cappuccio della giacca bordato di pelo a coprirgli la faccia facendolo somigliare a un eschimese. Pioveva, faceva freddo e non aveva ancora avuto nemmeno tempo di mangiare qualcosa. Scese le scale della metro e il cellulare iniziò a suonare. Tentò di rispondere senza smettere di camminare e senza posare né l’ombrello, né i tre libri che stringeva sottobraccio. Lo zaino gli s’impigliò nel corrimano e gli fece perdere l’equilibrio, ma riuscì a non cadere.
“Pronto. Sì sono io. Mh. Va bene non si preoccupi, contatto il professore domani in mattinata. No, nei prossimi giorni sarò all’estero, potremmo organizzare un incontro verso metà della settimana prossima. Perfetto. La ringrazio. Ci sentiamo domani per definire il tutto. Buona serata”.
Nel frattempo era riuscito a salire sul metrò senza sbagliare direzione, aveva trovato un posto a sedere, e già si apprestava a fare una nuova telefonata per risolvere quella nuova questione. Si chiese come mai il suo cellulare funzionasse anche lì, nelle viscere della terra, mentre sua sorella ovunque si trovasse non riusciva mai a fare una chiamata senza che cadesse la comunicazione. Da quando si era trasferito a Roma si vedevano di rado e la cosa pesava a entrambi. Lei era petulante e polemica, ma gli parlava di ogni cosa e vedeva in lui un punto fisso nella sua vita traballante. Lui la adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per supportarla nelle sue volubili e folli iniziative. Il loro rapporto poteva riassumersi con un “mi appoggio a te così intanto ti sorreggo” e la lontananza geografica era chiaramente un ostacolo molesto. Edo, il cellulare all’orecchio, si rosicchiò un’unghia nervosamente mentre pensava che stava perdendo il controllo della situazione: non sapeva nemmeno più con chi stesse uscendo sua sorella. La frenata brusca e il rumoroso aprirsi delle porte della metropolitana scacciarono il moto di gelosia, che già stava affiorando, e ritornato quello di prima uscì spedito dal convoglio, sbadigliando sia per la fame sia per il sonno. E dimenticando l’ombrello sul sedile. Quando riuscì a ricordarsi la strada e imboccò il vialetto che conduceva al portone erano quasi le 23.00. Speriamo bene, pensò mentre suonava il campanello.
TRE
Quando Ramiro spense il computer e guardò l’orologio gli venne un colpo: non aveva cenato, non era andato a giocare a tennis, non aveva chiamato Tessa per il loro rituale aperitivo sul fiume - estate e inverno, tanto il fiume è sempre bello, e guarda come siamo fortunati ad avere questa bella vista gratis - insomma il tempo era volato. Almeno era riuscito a rimettere a posto le foto dell’ultimo viaggio e aveva quasi ultimato la presentazione per la promozione del suo prossimo tour-avventura, doveva solo rivedere il discorso. Si grattò la testa già spettinata peggiorando l’effetto scienziato pazzo e si alzò dalla scrivania.
Potrei mangiare qui in ufficio già che ci sono, devo avere qualcosa nel frigo. No, magari chiamo Simon e passo da lui per qualche dolcetto di quelli che fa sua mamma, buonissimi. Chissà se Tessa è rimasta a casa visto che non l’ho chiamata? Domani ho il volo per andare a discutere il nuovo progetto e non l’ho nemmeno avvertita.
Non si chiedeva spesso cosa facesse quella ragazza, così aperta e chiusa allo stesso tempo, quella strana ragazza capace di non fare domande quando urge una risposta e con il singolare potere di ottenere risposte senza domandare nulla. Non se lo chiedeva perché non ne aveva il diritto, se ne rendeva conto da solo, ma in fondo avrebbe voluto saperlo. Lei sembrava non arrabbiarsi mai, ma soffriva parecchio a causa sua. Forse non era ancora andata a dormire, avrebbe potuto passare per un saluto, le avrebbe di certo fatto piacere. Uscì dall’edificio, sorrise, e si incamminò a piedi per prendere il treno che portava in città.
QUATTRO
Ma chi diavolo suona alla porta, a quest’ora, senza avvertire? Il principe azzurro non credo, anche se dopo quel film ci starebbe bene. Che tanto, Tessa, a te i principi azzurri non piacciono, a cosa ti serve aspettarli se poi li mandi via? Un cavaliere nero magari, ma già non se ne trovano di cavalieri, figuriamoci neri. Tutti di un grigio topo sbiadito che fanno passare la voglia ancor prima che ti venga.
Brava Tessa, brava, alla larga i principi azzurri, via i cavalieri grigi, non ti resta che lanciarti tra le braccia degli squilibrati, ottima scelta. Ma chi sarà alle undici di sera? Ramiro non si presenta mai all’improvviso, più propriamente non si presenta e basta, bisogna andare a recuperarlo chissà dove se si vuole avere il piacere di vederlo. Magari mi ha fatto una sorpresa, magari gli è successo qualcosa - ma avrebbe telefonato, no, non può essere lui, stasera sarà uscito con un’altra. Forse è solo lo scherzo di qualche ragazzino, lo facevo anch’io da piccola.
Fammi vedere che faccia ho, ecco i soliti capelli da strega, dannazione c’è un motivo se odio le visite a sorpresa, spero solo che non sia di nuovo il vicino con la scusa che ha perso il gatto perché stasera non sono proprio in vena. Ma dove diavolo sono le chiavi? Questo posto si mangia le cose, le fa sparire e poi le risputa quando ormai non servono più. O peggio, quando le ho già rimpiazzate. Ah eccole, giuro che se è il vicino … EDO! E TU COSA CI FAI QUI?
“Ah, meno male che sei a casa, mi si è cancellata un’altra volta la rubrica del cellulare, non ricordo il tuo numero a memoria e non sapevo come avvertirti. Ho fatto scalo all’aeroporto, ma ho perso la coincidenza, cerco di partire con il primo volo di domani perché devo essere in università in mattinata a tutti i costi, poi c’è il benedetto articolo che sto scrivendo con il professore della mia tesi, ti ricordi che te ne ho parlato no? Ho la scadenza tra due giorni e mi mancano ancora tutte le conclusioni. Fa un freddo cane e mi sono pure bagnato i piedi, uffa mi vien già da starnutire, meno male che ci sei, ma dove ho lasciato il mio ombrello?”
CINQUE
A metà strada tra l’ufficio e la stazione Ramiro si ricordò di avere lasciato gli appunti e la documentazione del nuovo progetto a casa del suo collega e amico Lucio. Doveva assolutamente recuperare quel materiale. Ma dove aveva la testa? Certi errori non li commetteva nemmeno da giovane; forse era proprio perché stava invecchiando che succedevano cose del genere, la troppa sicurezza non aiuta. Sorpresa a Tessa rimandata. Girò sui tacchi e si diresse spedito a casa di Lucio, in cima alla collina, circondata da un bosco dove non arrivava neppure la strada asfaltata.
Lassù c’era una vista spettacolare: le luci della città brillavano tremolanti e lontane, con la montagna alle spalle. Spesso si trovavano lì quando avevano scadenze che li costringevano a fare gli straordinari. Lucio era un tipo silenzioso, gentile e intelligente, privo di difetti, ma non affascinante. Anche Tessa lo conosceva e pensava che fosse il fidanzato ideale per qualsiasi ragazza - quindi anche per lei - poi però tornava a casa con Ramiro, che ascoltava poco, parlava tanto, assomigliava a un selvaggio ed era sfuggente.
Arrivato da Lucio, Ramiro ne approfittò per stampare il biglietto elettronico e fare il check-in on line, così da evitare la fila il giorno dopo, e tra una chiacchiera e l’altra tornò a casa a mezzanotte passata. Si dispiacque per non avere visto Tessa, ma non si può sempre fare tutto.
SEI
“Tu rifiuti di vedere le cose dal mio punto di vista, ovvio che non ci capiamo”.
“C’è poco da capire Tessa, a me dispiace solo vedere che stai male e che ti racconti una storia assurda per dimostrare a te stessa che sei contenta”.
“Forse hai ragione, sono patetica. Però penso veramente che dobbiamo imparare a prendere dalle persone quello che possono offrirci senza tentare di ottenere ciò che non sanno, o non vogliono darci!”
Ogni volta la stessa storia, mio fratello è tanto caro ma certe cose non c’è verso di fargliele capire; lui deve sempre pensare male, che nervoso. Per me invece è il contrario, ogni brandello di positività che si possa scovare nella gente va apprezzato per ciò che è, e bisognerebbe anche farselo bastare. Certo, poi spesso va a finire che sì, cogli una nota positiva da uno, una nota positiva dall’altro, e anche un bel concertone di note negative da tutti quanti, ma ne vale comunque la pena, o no? Insomma se uno è bravo in matematica ma è una schiappa in italiano, storia e geografia, probabilmente verrà bocciato e tutti penseranno che è un asino, ma se era bravo in matematica, perché dimenticarsene?
Forse però dovrei essere un po’ meno indulgente, questo devo ammetterlo. Diciamo pure un po’ meno stupida, dai. Se mi fossi lasciata scoraggiare di più da tutte le bassezze di Ramiro probabilmente la mia vita sentimentale sarebbe stata più semplice.
Ho sempre creduto che essendo esigenti e selettivi si rischiasse di rinchiudersi nella propria intransigenza, fermi a guardare il mondo da una finestrella che ci restringe inesorabilmente la visuale, e così mi ostino a giustificare qualsiasi cosa le persone mi facciano, con una tolleranza che nemmeno io so bene da dove venga. Ramiro è solo l’ultimo gradino di una lunga scala che si ricongiunge con se stessa come un otto volante. Con persone come lui si può resistere solo se capaci di apprezzare il viaggio, o una tratta di esso, senza pensare alla meta, e soprattutto senza pensare a cosa fare una volta arrivati.
“Capisci Edo? Lui è così, ma non è cattivo. Cioè, sono sicura che è convinto di volermi bene, ci tiene a me, solo che è impossibile pensare di costruirci qualcosa insieme e allora tutti ne deducono che sia uno stronzo e basta. Non è vero, ha un sacco di qualità positive, mi devi credere, altrimenti non ci uscirei, non sono proprio così cretina. Hai capito cosa intendo dire?”
Lo so che non capisce e non ha nessuna intenzione di sforzarsi. Ramiro a lui non piace anche se non l’ha mai visto, e il fatto che io gli corra dietro come un cocker scodinzolante, leccandogli pure le mani quando si degna di portarmi a fare una passeggiata, lo manda su tutte le furie.
“Sì, sì Tessa, come no. Hai una capacità strabiliante di indorarti la pillola. A me sembra tutto molto più semplice, e cioè che hai tra le mani un maschilista, egoista, infantile e playboy che approfitta del fatto che al mondo esistano ancora delle rimbambite come te, che si raccontano le favole da sole, e mentre lui ti usa, tu gli faciliti pure il compito facendogli credere che per te vada tutto bene”.
SETTE
Il primo aereo della mattina era alle 6.30, presto, prestissimo, soprattutto per uno come Edo che sembrava avere dei ghiri tra i suoi lontani discendenti. Quella mattina riuscì ad alzarsi, vestirsi e farsi trasportare all’aeroporto senza nemmeno svegliarsi del tutto. Lo faceva da quando era piccolo, apriva gli occhi a metà e si trascinava come un automa, neanche fosse in sonnambula. Tessa mal sopportava quel comportamento, ma le sue frecciate non erano mai riuscite a cambiare la situazione. Così alle sei in punto Tessa, sveglissima, scaricò all’aeroporto il fratello addormentato e se ne tornò alla lunga giornata frenetica che l’avrebbe attesa.
L’imbarco iniziò in orario, Edo mostrò la sua carta senza aprire la seconda metà degli occhi, trovò il suo posto accanto al finestrino e in pochi secondi dormiva di nuovo come se non si fosse mai mosso dal letto.
Poco dopo il decollo il suo sonno fu disturbato dalla voce gracchiante del capitano che dava il benvenuto a bordo e pubblicizzava i prodotti in vendita durante il volo. Maledette low cost, sembrava di stare al mercato. Sbadigliò con la bocca spalancata e pensò che sua sorella l’avrebbe sgridato. Per fortuna non era lì. Il suo vicino di posto stava leggendo una rivista scientifica, ma continuava a passare da un articolo all’altro senza concentrarsi su niente in particolare. Magari ha paura di volare, pensò con aria già meno assonnata. Se un minuto prima avrebbe potuto essere scambiato per una specie di panda in letargo, ora l’opportunità di intavolare un qualsiasi discorso con un perfetto sconosciuto l’aveva svegliato.
“Scusi, ha per caso sentito quanto durerà il volo? Ho un appuntamento alle 11.00 e non vorrei arrivare in ritardo, già ho perso l’aereo di ieri sera, meno male che mia sorella mi ha ospitato per stanotte…”
“No non ho sentito, ma di solito questo volo dura circa un’ora e mezza, lo prendo spesso per lavoro. Tu sei in viaggio di lavoro o di piacere?”
No, non sembrava aver paura di volare, ma era comunque amichevole. Edo aveva la tendenza a intrattenere discorsi con chiunque e appena ne aveva l’occasione non esitava a lanciarsi in lunghi monologhi, durante i quali a volte era davvero difficile non perdere il filo. Lo sconosciuto, però, ascoltò la storia dei suoi viaggi per un minuto scarso e poi lo interruppe con una domanda che non aveva alcun nesso con l’argomento: “Tu credi esistano altre forme di vita nell’universo? Stavo leggendo qui le varie ipotesi che negano la presenza di extraterrestri, ma io non sono tanto convinto”.
“Ehm, a essere sincero non ci ho mai pensato”. Balbettò Edo a disagio. Odiava addentrarsi in conversazioni in cui non si sentisse il più ferrato in materia, ma ricorrendo alla sua capacità di cadere sempre in piedi aggiunse: “Non so se gli extraterrestri esistano, ma spero proprio di sì. Magari tra le ragazze marziane potrei incontrare una fidanzata adatta a me, visto che le terrestri sembrano non apprezzarmi abbastanza”.
Non credeva minimamente a quell’idiozia, ma era soddisfatto per aver riportato il discorso su un terreno più neutrale. L’altro lo guardò serio, fissandolo con due occhi così scuri che era impossibile distinguere la pupilla dall’iride. Un’espressione indefinita, a metà tra la curiosità e la rassegnazione, un’espressione estremamente vivace ma in fondo triste. E poi, inaspettatamente, cominciò a parlare.
“Extraterrestri…di solito intendiamo omini verdi che viaggiano su dischi volanti, per forza ci riesce difficile credere alla loro esistenza. Prendi invece una formica, che vive nel tuo giardino e non andrà mai molto più lontano: per lei l’universo è il giardino, i fili d’erba saranno i paesi, le foglie le città e gli alberi che ne so, forse i grandi raccordi anulari. La formica non si pone certo il problema che vi possa essere un mondo al di là del suo. Per noi umani però il giardino è solo una minuscola parte di tutto ciò che chiamiamo universo. Per la piccola formica noi siamo gli extraterrestri, enormi e venuti da chissà dove. Eppure il nostro mondo è lo stesso della formica, solo che lei non lo sa e ne esplora solo una minima parte. E allora non potrebbero esistere degli altri esseri in giro, diversi da noi, che non potremmo riconoscere come appartenenti al nostro mondo per lo stesso motivo per il quale la formica non può riconoscere noi?
Pensa alle bamboline Matrioske: la bambola più grande ha percezione di tutte le altre, mentre la più piccola ha percezione solo di se stessa. E non parlo unicamente in termini di dimensioni; parlo anche dell’incapacità di riconoscere l’essenza dell’altro, confondendolo con qualcosa che ci fa più comodo vedere. I così detti extraterrestri potrebbero essere il vicino di casa, il collega, il barista, chiunque. Alieno non è necessariamente qualcuno che viene da fuori, può essere benissimo qualcuno che non si trova tanto bene dentro. Come me. Io mi sento extraterrestre, non perché vengo da un altro pianeta, ma perché vivo questo pianeta in un modo diverso. Ho cercato di spiegarlo alle persone, ma tutti invece di capire hanno cominciato a pensare che ero matto; ovvio eh, per la gente è più comodo trovare una spiegazione come la follia piuttosto che mettere in discussione le proprie convinzioni.
E’ raro che qualcuno resista alla tentazione di provare a farmi tornare “normale”. Si avvicinano in tanti, curiosi. E poi si allontanano poco dopo, frastornati dalle mie strane abitudini e incapaci di conciliare le reciproche differenze. Chissà perché, fanno tutti fatica ad avere un rapporto continuativo con me e poco a poco mi sono convinto che nemmeno io desidero nulla di più. Alieno anche ai rapporti soffocanti dunque, meglio avere più alternative. Se non mi vedo con una persona ne contatto un’altra, difficilmente resto solo. E’ comodo questo metodo, funziona. La fregatura però c’è, il rapporto con gli altri non è mai vero del tutto. Extraterrestre, già me ne stavo dimenticando.
La ragazza marziana che cerchi io credo di averla trovata sai? E’ un po’ aliena anche lei, ha i piedi per terra ma la testa no, quella ce l’ha tra le nuvole. La conosco da parecchio tempo e all’inizio avrei giurato che avrebbe seguito lo stesso percorso di tutti, curiosità-novità-insofferenza-allontanamento. Invece no, ha deciso da sola se poteva o meno sopportare certe cose, spesso si fa delle domande ma trova le sue risposte senza coinvolgermi. Mi ha visto, mi ha seguito un po’ da lontano in modo da poter sempre scappare, e non ha mai cercato di farmi diventare altro. Qualche volta mi sgrida, ma se lo fa è perché ha già deciso di passarci sopra e lo fa con il sorriso. Quando è davvero arrabbiata nemmeno mi vuole vedere, perché sa che non si può cancellare quello che l’ha ferita e sa che io non sono abituato a chiedere scusa. Vedi? Non è una tipica terrestre, anche se lei come me non viene da nessun’altra galassia.
Quando un alieno incontra un altro alieno accadono cose strane. Mi sono accorto che mi stavo perdendo tante cose, della marziana e anche di tutti i terrestri. Forse potrei essere migliore, ma non riesco a lasciare la sicurezza delle vie di mezzo. Viaggiare su un treno è rassicurante, incontri tanta gente che sale e che poi scende e infine sparisce. Io in genere viaggio così, anche se so che salire su un taxi con un solo compagno di viaggio e arrivare esattamente dove si vuole sarebbe molto diverso. A volte mi sorprendo a comportarmi come una persona comune, ma dura sempre poco. Per fortuna la marziana non mi fa mai vedere la delusione nei suoi occhi, così continuo a fare male un po’ a me e un po’ a lei. E intanto aspetto che si stanchi e sparisca. Per lei sarebbe decisamente meglio se si stancasse, ma io non riuscirei mai a mandarla via prima del tempo.
Mi piacerebbe presentartela, ti troverebbe simpatico. Si chiama Tessa e guardandoti bene addirittura un pochino vi somigliate”.
Debora Gatelli – La vita segreta delle parole
UNO
C’è qualcosa che non va. Anzi, non c’è niente che torna. Mi deve essere sfuggito il filo che teneva insieme cuore e cervello e adesso ciao, non riesco più né a riprenderlo, né a districarlo, né tanto meno a buttar via l’intero groviglio. Ho quella dannata sensazione di essermi introdotta in una stanza rotonda con il preciso intento di mettermi a sedere in un angolo. Che idiota, come ho potuto cascarci di nuovo? Mi faccio quasi compassione, qui appallottolata sulla poltrona a guardare un film che sembra raccontare la storia della mia vita. Possibile che ci si riveda tanto spesso nei film? Siamo davvero così banalmente tutti uguali? Forse sì. Eppure Ramiro no, lui non è uguale a nessuno. Anzi, è talmente fuori dal comune - o fuori di testa - che non saprei nemmeno bene come descriverlo. Un malandrino, ecco cos’è, che si sta prendendo tutto lo spazio nelle mie giornate senza lasciare impronte del suo passaggio, come se non esistesse. Bell’affare davvero, brava Tessa, la tua vita è quasi più patetica di questo film strappalacrime.
Meno male che ogni tanto c’è lo stacco pubblicitario a sdrammatizzare: merendine sane, creme miracolose e automobili superveloci da pagare in comode rate; l’occasione perfetta per andarmene in cucina ad arraffare un po’ di biscotti al cioccolato. No, decisamente così non si può andare avanti; ma non si può nemmeno tornare indietro. Dannazione.
Mollalo. Sprechi il tuo tempo. Esci con qualcun altro. Tutti saggi i miei amici: facile giocare al buon consigliere coi miei di problemi. La verità è che una volta che abbiamo attraversato di corsa un prato ricoperto di neve fresca non possiamo ripensarci tornare indietro e sperare di ritrovare il prato immacolato: le impronte di noi tutti restano lì a ricordarci la precisa traiettoria della corsa, fa eccezione solo Ramiro? Non siamo cassette musicali, non si può riavvolgere il nastro e aspettarsi di riascoltare la stessa canzone. Nella vita il tasto rewind non è previsto. C’è una sola opzione obbligata: l’effetto palla di neve, che rotola sempre più giù tirandosi dietro sbagli, dolori, fili ingarbugliati e molto altro. Alla fine della discesa ciò che potremo ascoltare sarà talmente diverso dalla maledetta canzoncina iniziale, che faremo quasi fatica a riconoscerla.
DUE
Alle 21.45 Edo saltò giù dal treno con l’agilità di un’otaria e trotterellò rapidamente verso l’uscita della stazione, il cappuccio della giacca bordato di pelo a coprirgli la faccia facendolo somigliare a un eschimese. Pioveva, faceva freddo e non aveva ancora avuto nemmeno tempo di mangiare qualcosa. Scese le scale della metro e il cellulare iniziò a suonare. Tentò di rispondere senza smettere di camminare e senza posare né l’ombrello, né i tre libri che stringeva sottobraccio. Lo zaino gli s’impigliò nel corrimano e gli fece perdere l’equilibrio, ma riuscì a non cadere.
“Pronto. Sì sono io. Mh. Va bene non si preoccupi, contatto il professore domani in mattinata. No, nei prossimi giorni sarò all’estero, potremmo organizzare un incontro verso metà della settimana prossima. Perfetto. La ringrazio. Ci sentiamo domani per definire il tutto. Buona serata”.
Nel frattempo era riuscito a salire sul metrò senza sbagliare direzione, aveva trovato un posto a sedere, e già si apprestava a fare una nuova telefonata per risolvere quella nuova questione. Si chiese come mai il suo cellulare funzionasse anche lì, nelle viscere della terra, mentre sua sorella ovunque si trovasse non riusciva mai a fare una chiamata senza che cadesse la comunicazione. Da quando si era trasferito a Roma si vedevano di rado e la cosa pesava a entrambi. Lei era petulante e polemica, ma gli parlava di ogni cosa e vedeva in lui un punto fisso nella sua vita traballante. Lui la adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per supportarla nelle sue volubili e folli iniziative. Il loro rapporto poteva riassumersi con un “mi appoggio a te così intanto ti sorreggo” e la lontananza geografica era chiaramente un ostacolo molesto. Edo, il cellulare all’orecchio, si rosicchiò un’unghia nervosamente mentre pensava che stava perdendo il controllo della situazione: non sapeva nemmeno più con chi stesse uscendo sua sorella. La frenata brusca e il rumoroso aprirsi delle porte della metropolitana scacciarono il moto di gelosia, che già stava affiorando, e ritornato quello di prima uscì spedito dal convoglio, sbadigliando sia per la fame sia per il sonno. E dimenticando l’ombrello sul sedile. Quando riuscì a ricordarsi la strada e imboccò il vialetto che conduceva al portone erano quasi le 23.00. Speriamo bene, pensò mentre suonava il campanello.
TRE
Quando Ramiro spense il computer e guardò l’orologio gli venne un colpo: non aveva cenato, non era andato a giocare a tennis, non aveva chiamato Tessa per il loro rituale aperitivo sul fiume - estate e inverno, tanto il fiume è sempre bello, e guarda come siamo fortunati ad avere questa bella vista gratis - insomma il tempo era volato. Almeno era riuscito a rimettere a posto le foto dell’ultimo viaggio e aveva quasi ultimato la presentazione per la promozione del suo prossimo tour-avventura, doveva solo rivedere il discorso. Si grattò la testa già spettinata peggiorando l’effetto scienziato pazzo e si alzò dalla scrivania.
Potrei mangiare qui in ufficio già che ci sono, devo avere qualcosa nel frigo. No, magari chiamo Simon e passo da lui per qualche dolcetto di quelli che fa sua mamma, buonissimi. Chissà se Tessa è rimasta a casa visto che non l’ho chiamata? Domani ho il volo per andare a discutere il nuovo progetto e non l’ho nemmeno avvertita.
Non si chiedeva spesso cosa facesse quella ragazza, così aperta e chiusa allo stesso tempo, quella strana ragazza capace di non fare domande quando urge una risposta e con il singolare potere di ottenere risposte senza domandare nulla. Non se lo chiedeva perché non ne aveva il diritto, se ne rendeva conto da solo, ma in fondo avrebbe voluto saperlo. Lei sembrava non arrabbiarsi mai, ma soffriva parecchio a causa sua. Forse non era ancora andata a dormire, avrebbe potuto passare per un saluto, le avrebbe di certo fatto piacere. Uscì dall’edificio, sorrise, e si incamminò a piedi per prendere il treno che portava in città.
QUATTRO
Ma chi diavolo suona alla porta, a quest’ora, senza avvertire? Il principe azzurro non credo, anche se dopo quel film ci starebbe bene. Che tanto, Tessa, a te i principi azzurri non piacciono, a cosa ti serve aspettarli se poi li mandi via? Un cavaliere nero magari, ma già non se ne trovano di cavalieri, figuriamoci neri. Tutti di un grigio topo sbiadito che fanno passare la voglia ancor prima che ti venga.
Brava Tessa, brava, alla larga i principi azzurri, via i cavalieri grigi, non ti resta che lanciarti tra le braccia degli squilibrati, ottima scelta. Ma chi sarà alle undici di sera? Ramiro non si presenta mai all’improvviso, più propriamente non si presenta e basta, bisogna andare a recuperarlo chissà dove se si vuole avere il piacere di vederlo. Magari mi ha fatto una sorpresa, magari gli è successo qualcosa - ma avrebbe telefonato, no, non può essere lui, stasera sarà uscito con un’altra. Forse è solo lo scherzo di qualche ragazzino, lo facevo anch’io da piccola.
Fammi vedere che faccia ho, ecco i soliti capelli da strega, dannazione c’è un motivo se odio le visite a sorpresa, spero solo che non sia di nuovo il vicino con la scusa che ha perso il gatto perché stasera non sono proprio in vena. Ma dove diavolo sono le chiavi? Questo posto si mangia le cose, le fa sparire e poi le risputa quando ormai non servono più. O peggio, quando le ho già rimpiazzate. Ah eccole, giuro che se è il vicino … EDO! E TU COSA CI FAI QUI?
“Ah, meno male che sei a casa, mi si è cancellata un’altra volta la rubrica del cellulare, non ricordo il tuo numero a memoria e non sapevo come avvertirti. Ho fatto scalo all’aeroporto, ma ho perso la coincidenza, cerco di partire con il primo volo di domani perché devo essere in università in mattinata a tutti i costi, poi c’è il benedetto articolo che sto scrivendo con il professore della mia tesi, ti ricordi che te ne ho parlato no? Ho la scadenza tra due giorni e mi mancano ancora tutte le conclusioni. Fa un freddo cane e mi sono pure bagnato i piedi, uffa mi vien già da starnutire, meno male che ci sei, ma dove ho lasciato il mio ombrello?”
CINQUE
A metà strada tra l’ufficio e la stazione Ramiro si ricordò di avere lasciato gli appunti e la documentazione del nuovo progetto a casa del suo collega e amico Lucio. Doveva assolutamente recuperare quel materiale. Ma dove aveva la testa? Certi errori non li commetteva nemmeno da giovane; forse era proprio perché stava invecchiando che succedevano cose del genere, la troppa sicurezza non aiuta. Sorpresa a Tessa rimandata. Girò sui tacchi e si diresse spedito a casa di Lucio, in cima alla collina, circondata da un bosco dove non arrivava neppure la strada asfaltata.
Lassù c’era una vista spettacolare: le luci della città brillavano tremolanti e lontane, con la montagna alle spalle. Spesso si trovavano lì quando avevano scadenze che li costringevano a fare gli straordinari. Lucio era un tipo silenzioso, gentile e intelligente, privo di difetti, ma non affascinante. Anche Tessa lo conosceva e pensava che fosse il fidanzato ideale per qualsiasi ragazza - quindi anche per lei - poi però tornava a casa con Ramiro, che ascoltava poco, parlava tanto, assomigliava a un selvaggio ed era sfuggente.
Arrivato da Lucio, Ramiro ne approfittò per stampare il biglietto elettronico e fare il check-in on line, così da evitare la fila il giorno dopo, e tra una chiacchiera e l’altra tornò a casa a mezzanotte passata. Si dispiacque per non avere visto Tessa, ma non si può sempre fare tutto.
SEI
“Tu rifiuti di vedere le cose dal mio punto di vista, ovvio che non ci capiamo”.
“C’è poco da capire Tessa, a me dispiace solo vedere che stai male e che ti racconti una storia assurda per dimostrare a te stessa che sei contenta”.
“Forse hai ragione, sono patetica. Però penso veramente che dobbiamo imparare a prendere dalle persone quello che possono offrirci senza tentare di ottenere ciò che non sanno, o non vogliono darci!”
Ogni volta la stessa storia, mio fratello è tanto caro ma certe cose non c’è verso di fargliele capire; lui deve sempre pensare male, che nervoso. Per me invece è il contrario, ogni brandello di positività che si possa scovare nella gente va apprezzato per ciò che è, e bisognerebbe anche farselo bastare. Certo, poi spesso va a finire che sì, cogli una nota positiva da uno, una nota positiva dall’altro, e anche un bel concertone di note negative da tutti quanti, ma ne vale comunque la pena, o no? Insomma se uno è bravo in matematica ma è una schiappa in italiano, storia e geografia, probabilmente verrà bocciato e tutti penseranno che è un asino, ma se era bravo in matematica, perché dimenticarsene?
Forse però dovrei essere un po’ meno indulgente, questo devo ammetterlo. Diciamo pure un po’ meno stupida, dai. Se mi fossi lasciata scoraggiare di più da tutte le bassezze di Ramiro probabilmente la mia vita sentimentale sarebbe stata più semplice.
Ho sempre creduto che essendo esigenti e selettivi si rischiasse di rinchiudersi nella propria intransigenza, fermi a guardare il mondo da una finestrella che ci restringe inesorabilmente la visuale, e così mi ostino a giustificare qualsiasi cosa le persone mi facciano, con una tolleranza che nemmeno io so bene da dove venga. Ramiro è solo l’ultimo gradino di una lunga scala che si ricongiunge con se stessa come un otto volante. Con persone come lui si può resistere solo se capaci di apprezzare il viaggio, o una tratta di esso, senza pensare alla meta, e soprattutto senza pensare a cosa fare una volta arrivati.
“Capisci Edo? Lui è così, ma non è cattivo. Cioè, sono sicura che è convinto di volermi bene, ci tiene a me, solo che è impossibile pensare di costruirci qualcosa insieme e allora tutti ne deducono che sia uno stronzo e basta. Non è vero, ha un sacco di qualità positive, mi devi credere, altrimenti non ci uscirei, non sono proprio così cretina. Hai capito cosa intendo dire?”
Lo so che non capisce e non ha nessuna intenzione di sforzarsi. Ramiro a lui non piace anche se non l’ha mai visto, e il fatto che io gli corra dietro come un cocker scodinzolante, leccandogli pure le mani quando si degna di portarmi a fare una passeggiata, lo manda su tutte le furie.
“Sì, sì Tessa, come no. Hai una capacità strabiliante di indorarti la pillola. A me sembra tutto molto più semplice, e cioè che hai tra le mani un maschilista, egoista, infantile e playboy che approfitta del fatto che al mondo esistano ancora delle rimbambite come te, che si raccontano le favole da sole, e mentre lui ti usa, tu gli faciliti pure il compito facendogli credere che per te vada tutto bene”.
SETTE
Il primo aereo della mattina era alle 6.30, presto, prestissimo, soprattutto per uno come Edo che sembrava avere dei ghiri tra i suoi lontani discendenti. Quella mattina riuscì ad alzarsi, vestirsi e farsi trasportare all’aeroporto senza nemmeno svegliarsi del tutto. Lo faceva da quando era piccolo, apriva gli occhi a metà e si trascinava come un automa, neanche fosse in sonnambula. Tessa mal sopportava quel comportamento, ma le sue frecciate non erano mai riuscite a cambiare la situazione. Così alle sei in punto Tessa, sveglissima, scaricò all’aeroporto il fratello addormentato e se ne tornò alla lunga giornata frenetica che l’avrebbe attesa.
L’imbarco iniziò in orario, Edo mostrò la sua carta senza aprire la seconda metà degli occhi, trovò il suo posto accanto al finestrino e in pochi secondi dormiva di nuovo come se non si fosse mai mosso dal letto.
Poco dopo il decollo il suo sonno fu disturbato dalla voce gracchiante del capitano che dava il benvenuto a bordo e pubblicizzava i prodotti in vendita durante il volo. Maledette low cost, sembrava di stare al mercato. Sbadigliò con la bocca spalancata e pensò che sua sorella l’avrebbe sgridato. Per fortuna non era lì. Il suo vicino di posto stava leggendo una rivista scientifica, ma continuava a passare da un articolo all’altro senza concentrarsi su niente in particolare. Magari ha paura di volare, pensò con aria già meno assonnata. Se un minuto prima avrebbe potuto essere scambiato per una specie di panda in letargo, ora l’opportunità di intavolare un qualsiasi discorso con un perfetto sconosciuto l’aveva svegliato.
“Scusi, ha per caso sentito quanto durerà il volo? Ho un appuntamento alle 11.00 e non vorrei arrivare in ritardo, già ho perso l’aereo di ieri sera, meno male che mia sorella mi ha ospitato per stanotte…”
“No non ho sentito, ma di solito questo volo dura circa un’ora e mezza, lo prendo spesso per lavoro. Tu sei in viaggio di lavoro o di piacere?”
No, non sembrava aver paura di volare, ma era comunque amichevole. Edo aveva la tendenza a intrattenere discorsi con chiunque e appena ne aveva l’occasione non esitava a lanciarsi in lunghi monologhi, durante i quali a volte era davvero difficile non perdere il filo. Lo sconosciuto, però, ascoltò la storia dei suoi viaggi per un minuto scarso e poi lo interruppe con una domanda che non aveva alcun nesso con l’argomento: “Tu credi esistano altre forme di vita nell’universo? Stavo leggendo qui le varie ipotesi che negano la presenza di extraterrestri, ma io non sono tanto convinto”.
“Ehm, a essere sincero non ci ho mai pensato”. Balbettò Edo a disagio. Odiava addentrarsi in conversazioni in cui non si sentisse il più ferrato in materia, ma ricorrendo alla sua capacità di cadere sempre in piedi aggiunse: “Non so se gli extraterrestri esistano, ma spero proprio di sì. Magari tra le ragazze marziane potrei incontrare una fidanzata adatta a me, visto che le terrestri sembrano non apprezzarmi abbastanza”.
Non credeva minimamente a quell’idiozia, ma era soddisfatto per aver riportato il discorso su un terreno più neutrale. L’altro lo guardò serio, fissandolo con due occhi così scuri che era impossibile distinguere la pupilla dall’iride. Un’espressione indefinita, a metà tra la curiosità e la rassegnazione, un’espressione estremamente vivace ma in fondo triste. E poi, inaspettatamente, cominciò a parlare.
“Extraterrestri…di solito intendiamo omini verdi che viaggiano su dischi volanti, per forza ci riesce difficile credere alla loro esistenza. Prendi invece una formica, che vive nel tuo giardino e non andrà mai molto più lontano: per lei l’universo è il giardino, i fili d’erba saranno i paesi, le foglie le città e gli alberi che ne so, forse i grandi raccordi anulari. La formica non si pone certo il problema che vi possa essere un mondo al di là del suo. Per noi umani però il giardino è solo una minuscola parte di tutto ciò che chiamiamo universo. Per la piccola formica noi siamo gli extraterrestri, enormi e venuti da chissà dove. Eppure il nostro mondo è lo stesso della formica, solo che lei non lo sa e ne esplora solo una minima parte. E allora non potrebbero esistere degli altri esseri in giro, diversi da noi, che non potremmo riconoscere come appartenenti al nostro mondo per lo stesso motivo per il quale la formica non può riconoscere noi?
Pensa alle bamboline Matrioske: la bambola più grande ha percezione di tutte le altre, mentre la più piccola ha percezione solo di se stessa. E non parlo unicamente in termini di dimensioni; parlo anche dell’incapacità di riconoscere l’essenza dell’altro, confondendolo con qualcosa che ci fa più comodo vedere. I così detti extraterrestri potrebbero essere il vicino di casa, il collega, il barista, chiunque. Alieno non è necessariamente qualcuno che viene da fuori, può essere benissimo qualcuno che non si trova tanto bene dentro. Come me. Io mi sento extraterrestre, non perché vengo da un altro pianeta, ma perché vivo questo pianeta in un modo diverso. Ho cercato di spiegarlo alle persone, ma tutti invece di capire hanno cominciato a pensare che ero matto; ovvio eh, per la gente è più comodo trovare una spiegazione come la follia piuttosto che mettere in discussione le proprie convinzioni.
E’ raro che qualcuno resista alla tentazione di provare a farmi tornare “normale”. Si avvicinano in tanti, curiosi. E poi si allontanano poco dopo, frastornati dalle mie strane abitudini e incapaci di conciliare le reciproche differenze. Chissà perché, fanno tutti fatica ad avere un rapporto continuativo con me e poco a poco mi sono convinto che nemmeno io desidero nulla di più. Alieno anche ai rapporti soffocanti dunque, meglio avere più alternative. Se non mi vedo con una persona ne contatto un’altra, difficilmente resto solo. E’ comodo questo metodo, funziona. La fregatura però c’è, il rapporto con gli altri non è mai vero del tutto. Extraterrestre, già me ne stavo dimenticando.
La ragazza marziana che cerchi io credo di averla trovata sai? E’ un po’ aliena anche lei, ha i piedi per terra ma la testa no, quella ce l’ha tra le nuvole. La conosco da parecchio tempo e all’inizio avrei giurato che avrebbe seguito lo stesso percorso di tutti, curiosità-novità-insofferenza-allontanamento. Invece no, ha deciso da sola se poteva o meno sopportare certe cose, spesso si fa delle domande ma trova le sue risposte senza coinvolgermi. Mi ha visto, mi ha seguito un po’ da lontano in modo da poter sempre scappare, e non ha mai cercato di farmi diventare altro. Qualche volta mi sgrida, ma se lo fa è perché ha già deciso di passarci sopra e lo fa con il sorriso. Quando è davvero arrabbiata nemmeno mi vuole vedere, perché sa che non si può cancellare quello che l’ha ferita e sa che io non sono abituato a chiedere scusa. Vedi? Non è una tipica terrestre, anche se lei come me non viene da nessun’altra galassia.
Quando un alieno incontra un altro alieno accadono cose strane. Mi sono accorto che mi stavo perdendo tante cose, della marziana e anche di tutti i terrestri. Forse potrei essere migliore, ma non riesco a lasciare la sicurezza delle vie di mezzo. Viaggiare su un treno è rassicurante, incontri tanta gente che sale e che poi scende e infine sparisce. Io in genere viaggio così, anche se so che salire su un taxi con un solo compagno di viaggio e arrivare esattamente dove si vuole sarebbe molto diverso. A volte mi sorprendo a comportarmi come una persona comune, ma dura sempre poco. Per fortuna la marziana non mi fa mai vedere la delusione nei suoi occhi, così continuo a fare male un po’ a me e un po’ a lei. E intanto aspetto che si stanchi e sparisca. Per lei sarebbe decisamente meglio se si stancasse, ma io non riuscirei mai a mandarla via prima del tempo.
Mi piacerebbe presentartela, ti troverebbe simpatico. Si chiama Tessa e guardandoti bene addirittura un pochino vi somigliate”.
Vivo in una piccola città protetta da un’enorme teca trasparente. Faccio una vita riservata e solitaria ed esco solo per andare a scuola. Frequento il dodicesimo corso di base, come tutti quelli della mia età. I miei diciotto anni sono un peso enorme e vivo schiacciata tra la voglia di andare via e la paura dell'ignoto. Non so nulla sul mondo che mi circonda, non sono mai uscita dalla teca: è proibito. So che ne esistono altre, ma per andarci occorre un visto particolare rilasciato dal Governatore. Poche persone l’hanno ottenuto, dicono, e io ne conosco nemmeno una.
I racconti della vita prima delle teche si sono persi negli anni e restano solo aneddoti, che sembrano più fiabe che realtà. Nessuna traccia storica, niente di scritto, nessuno ricorda più cosa sia successo, si sa solo che al di fuori delle teche l’aria è malsana e velenosa.
La mia fantasia viaggia parecchio, quella sì: nelle ore di solitudine, e a volte anche durante le ore di scuola, immagino il mondo meraviglioso che si potrebbe trovare al di fuori di Liggen, la nostra teca. Lo sto facendo anche ora, ma la sirena della fine lezioni mi desta dai miei pensieri. Il foglio degli appunti si è fermato alle prime righe... Non abbiamo che questi su cui studiare, i professori ci dettano decine di pagine ogni giorno e noi le dobbiamo imparare praticamente a memoria; dopo le verifiche ci ritirano i fogli e li macerano per riciclare la carta e farne di nuovi. A causa della mia smania di evadere, oggi non ho trascritto la lezione: ora sì, che sono nei guai! Lancio uno sguardo a Lydia, la mia vicina di banco, che mi fa un cenno di assenso. Nemmeno dopo le lezioni abbiamo il permesso di parlare tra noi: una navetta ci porta alle nostre case e durante il viaggio è imposto il silenzio assoluto.
Saluto distrattamente mia madre, mangio un panino in fretta e poi la aiuto a fare le faccende domestiche, come tutti i giorni. Questa vita noiosa non mi basta, ci deve essere dell'altro: da fare, da vedere e da vivere.
Mia madre mi sta richiamando, e dalla faccia severa credo lo stia facendo da molto.
- Emma! Ci sei?
- Scusa, ero distratta.
- Ho visto, spicciati con quelle verdure.
- Sì, faccio presto. Scusami.
Ricomincio a lavare le verdure per la cena, ma la mia mente riprende presto a vagare per gli affari suoi.
Dopo cena si va subito a letto.
Fuori dalla finestra un rumore richiama la mia attenzione. Mi affaccio e vedo Lydia che si ripara sotto il ciliegio del mio giardino. Apro le imposte e le faccio cenno di avvicinarsi. Si arrampica con destrezza sul pergolato, che arriva fino al piano della mia camera. La aiuto a entrare.
- Ma sei pazza? Sei in giro durante il coprifuoco?
- Lo faccio spesso, non preoccuparti. Ti ho copiato gli appunti di oggi, tieni.
Mi lascia in mano i fogli e si accinge a uscire dalla finestra da cui è entrata.
- Grazie, mi hai salvato la vita. Corri a casa adesso, non avresti dovuto rischiare!
- Volevo darti il tempo di studiare, ma sarei uscita lo stesso, la sera mi piace andare a correre.
- Come fai con le ronde?
- Conosco a memoria gli orari e i percorsi, non cambiano mai: potrei girare tutta la notte senza che mi vedano. Vuoi venire con me?
Senza pensarci un secondo, col sangue che mi pulsa nelle tempie, sono già sul davanzale e la sto seguendo mentre scende dal pergolato. Se mi vedesse mia madre le prenderebbe un colpo.
Sorrido, mi sento leggera come non mai e mi affido completamente a Lydia standole dietro, passo dopo passo. Dopo aver attraversato una zona boschiva siamo senza fiato e ci fermiamo in una radura. Non mi ero mai allontanata così tanto da casa e non mi ero mai sentita così eccitata. Il silenzio è praticamente assoluto, rotto solo dal nostro respiro affannoso, e anche il buio è quasi totale. Aspiro l’aria come se respirassi per la prima volta e il profumo che sento, un misto di erba e resina, mi dà un senso di libertà mai avvertito prima.
All'improvviso sentiamo un rumore provenire dalla boscaglia. Per un attimo restiamo paralizzate. Una figura si sta avvicinando, ci hanno scoperte, mia madre mi ammazzerà!
- Salve! Per quale ragione girovagate solinghe a quest’ora tarda?
Soffochiamo una risata per il suo modo strano di parlare.
- Facciamo jogging - risponde altezzosa Lydia - e tu che ci fai qui? Non hai paura delle ronde?
- Le ronde, vi prendete gioco di me? Avete il coprifuoco?
- Avete? Abbiamo semmai!
- Noi non l’abbiamo, io non sono di Liggen, vengo da Waarheid, una teca vicino alla vostra. Non sapevo lo aveste, vengo qui spesso e non ho mai incontrato nessuno, prima di questa sera.
- E vi lasciano andare nelle altre teche? Chiedo, estasiata all’idea di potermele girare tutte.
- In realtà no, i tunnel sono chiusi a chiave, ma si dà il caso io ne abbia una copia…
- Non sono mai uscita da Liggen. Esclamo senza pensarci.
Lui mi sorride. Ha un aspetto gradevole, deve avere pochi anni più di noi. È un tipo strano, non solo nel modo di parlare, ma anche per come è vestito: indossa un completo grigio con tanto di fazzoletto al taschino, calza delle lucidissime scarpe nere e porta una borsa a tracolla. Mai visto nulla del genere.
Mi devo essere incantata di nuovo, distolgo lo sguardo, ma temo si sia accorto che lo stavo fissando perché sembra a disagio e borbotta:
- Scusate la mia goffaggine, non mi sono introdotto a voi come si conviene. Piacere di fare la vostra conoscenza. Mi chiamo Reed. Dice allungandoci la mano.
Io mi avvicino cautamente e gliela stringo, sussurrando a fil di voce.
- Io sono Emma e lei è la mia amica Lydia. Ora però è meglio che andiamo a casa o passeremo dei guai.
- È stato un piacere inaspettato incontrarvi e spero facciate jogging di nuovo da queste parti, io vengo spesso qui. Aspettate, vorrei lasciarvi un presente.
Rovista nella borsa e tira fuori uno strano oggetto, me lo deposita in mano e mi sussurra: - Leggetelo, parla di una donna che porta il vostro nome... spero vi piacerà.
È pesante, l’esterno è liscio e fresco.
- Che cos'è?
- Un libro, come quelli di scuola, ma più bello da leggere.
- Noi non usiamo questi cosi... Rigiro tra le mani il plico e a un certo punto si scompone. - Oh, cielo! L'ho rotto!
La sua risata mi indispettisce. Mi mostra come farlo tornare della forma originale e me lo riconsegna. Non so perché, ma mi dà gioia stringere questo oggetto tra le mani. Sulla superficie ci sono scritte parole con lettere strane, ma leggibili: “Madame Bovary”. Me lo avvicino istintivamente al viso e aspiro il profumo: mai sentito nulla di così buono.
- Grazie mille, lo leggerò e ve lo riporterò appeno lo avrò finito. Addio.
- Spero sia piuttosto un arrivederci a presto. Naturalmente lo potete leggere anche voi, Lydia.
- Dubito. Adesso dobbiamo andare, Emma: alle due, le guardie fanno il secondo giro.
- A presto allora. Gli dico mentre ci inoltriamo nella boscaglia.
Torniamo a casa senza parlare, arrivate sotto casa mia, Lydia dice bisbigliando: - Non torneremo mai più laggiù, potrebbe essere un malintenzionato.
- A me sembrava una brava persona.
- Non possiamo rischiare. E così dicendo mi fa un cenno di saluto con la mano e si dirige verso casa sua.
L’arrampicata fino alla mia finestra è più difficoltosa del previsto, ma riesco a raggiungere indenne il piano superiore. Mi infilo a letto e decido di cominciare subito a leggere questo... come lo aveva chiamato? Ah, sì, libro.
L’alba arriva troppo in fretta. All'inizio la lettura era stata difficoltosa: i caratteri non erano tutti uguali a quelli che conoscevo, col passare dei minuti, però, quelle parole scritte così ordinatamente, messe nelle righe tutte così regolari e con i margini perfettamente allineati, hanno cominciato a diventarmi più familiari e leggerle non mi procurava più difficoltà, anzi non riuscivo più a smettere di farlo e non ho potuto decidermi a riporlo. Quando mia madre mi chiama per la scuola, nascondo accuratamente il mio tesoro sotto il materasso, non voglio rischiare che qualcuno lo trovi.
Appena finite le lezioni torno a casa di corsa e con la scusa di avere mal di testa mi rinchiudo in camera per proseguire con la lettura. Sono oltre ai tre quarti delle pagine quando mia madre mi chiama per la cena. Le dico che non mi sento abbastanza bene per mangiare e che preferisco stare a letto. Non fa domande e non insiste, per fortuna. Dopo un paio d'ore arrivo all’ultima pagina e provo una sensazione di euforia mista a un senso di vuoto... cosa farò adesso che l'ho finito? Come farò a sentirmi di nuovo così? La risposta è semplice: tornerò a cercare quel ragazzo. Sono le undici, e come la sera prima sgattaiolo fuori dalla finestra e mi dirigo alla radura oltre il bosco. Mi metto nello stesso punto in cui l'avevamo incontrato, e aspetto. Quando sto per rinunciare all'impresa, eccolo. Si avvicina sorridendo.
- Non ditemi che la lettura non vi piace.
- Al contrario, mi è piaciuta molto! Gli dico restituendogli il libro.
- L’avete già terminato? Diventeremo grandi amici allora. Possiamo essere meno cerimoniosi?
Lo guardo stranita, non capisco tutto quello che dice, lui mi sorride e aggiunge.
- Potremmo darci del tu, se per te va bene.
- Oh! Sì, per me va benone.
Reed ripone il libro nella borsa con espressione compiaciuta, e vi armeggia dentro.
- Allora, eccone un altro. E mi porge un nuovo volume.
Lo prendo con timore, come se avessi paura di sciuparlo, quasi con devozione.
- Posso farti una domanda, Reed?
- Prego, la curiosità è sintomo di intelligenza.
- Davvero? Mia madre dice che è un difetto. Comunque, mi chiedevo: come mai tu passi qui le tue serate e non nella tua teca?
- Mi piace molto stare qui. Ho scoperto questo posto per caso dopo aver letto un articolo su un vecchio giornale di prima del conflitto.
- Quale conflitto?
- Per tutti i numi! Non ti hanno fatto studiare la terza guerra mondiale?
- Non ne ho mai sentito parlare.
- Ma non fate storia a scuola? Cosa vi insegnano? C’è stato un tempo in cui le teche non c’erano, più di cinquecento anni fa. Poi un capo di stato ha deciso di conquistare il mondo e ha usato delle armi che hanno irreparabilmente danneggiato il nostro pianeta. L’aria era malsana e piena di radiazioni pericolose. I pochi sopravvissuti hanno vissuto sottoterra per decenni e poi hanno costruito le teche che ora ci proteggono. Per questo non possiamo vivere all’esterno, l’ambiente è ancora contaminato.
Ascoltarlo mi dà pace e gioia, e più ascolto le sue parole, più ne voglio sentire: nessuno mai mi aveva raccontato cose così interessanti.
- Avremo modo di parlarne… Per rispondere alla tua domanda, ho letto su questo vecchio giornale che le stelle nel cielo sono molto più luminose se c’è buio totale e da noi, purtroppo, c’è sempre troppa luce anche di notte e si vede a malapena la luna quando è piena. Invece qui c’è il buio quasi assoluto e si vedono tutte le miriadi di stelle.
Guardo in alto e in effetti lo spettacolo è incredibile, possibile che non ci abbia mai fatto caso? Avevo sopra di me questo spettacolo e non me ne sono mai curata? Resto a bocca aperta e giro su me stessa cercando un punto in cui non ci sia uno di quei puntini luminosi e tremolanti, ma niente: tutto il cielo ne è pieno. Riabbasso il capo giusto in tempo per vedere il viso di Reed, raggiante, intento a guardare la mia faccia strabiliata. Si ricompone subito e inizia a indicarmi i vari punti in cui ci sono le costellazioni, che sono gruppi di stelle, e per ciascuna mi racconta la leggenda a cui è legata: un viaggio incredibile che mi toglie il fiato.
Il tempo vola, e arriva il momento di rientrare a casa. A malincuore ci salutiamo e ci diamo appuntamento all’indomani sera.
Le serate si erano susseguite numerose, ritrovarmi a parlare con lui era diventato un rituale a cui non avrei mai potuto più rinunciare. Nessuno sapeva usare le parole come lui e di sentire quello che aveva da dirmi non mi sarei mai stancata.
Ogni sera, dopo cena, mi trovo nella mia camera a pensare a lui e a leggere l’ultimo libro che mi ha dato; oppure, sempre più di frequente, a sistemarmi i capelli e a scegliere qualcosa da mettermi per andare da lui. E poi giù dalla finestra e di corsa attraverso il bosco, fino alla nostra radura, col cuore che trepida dal desiderio di stare con lui e di ascoltare le sue storie. Ogni volta mi porta dei nuovi libri, ormai sono come una droga.
Questa sera, per la prima volta, non mi ha portato un libro. Mi sento strana e delusa.
- Come mai? Non dirmi che ho già letto tutti i libri che hai!
- No, Emma, non li hai letti tutti, ce ne sono ancora molti. Proprio per questo non intendo più portatene. Devi cominciare a scegliere tu quali leggere.
- Ma mi sono piaciuti tutti. Hai buon gusto. Come posso scegliere dei libri? Non ce ne sono a Liggen.
- Per questo ho un regalo per te.
- Un regalo? Per me? Mi hai già regalato tante serate meravigliose in compagnia tua e dei tuoi libri… sono in debito.
- La gioia che vedo nei tuoi occhi quando stringi tra le mani un libro nuovo è una ricompensa più che sufficiente. Ma non sei curiosa di sapere cosa ti voglio regalare?
- Certo che sì.
Mi trovo a saltellare come una bambina e lui sorride, si sta godendo il momento e si capisce dal suo sguardo che non vede l’ora di darmi il regalo. Io sono impaziente, non sono molto abituata a riceverne, in effetti, e la curiosità mi divora. Reed estrae dal panciotto una chiave e me la porge. La prendo in mano e la soppeso con titubanza, non capisco a cosa mi possa servire.
- Oltre quelle colline troverai una porta d’acciaio: apri la serratura con questa chiave e mi troverai là tutte le volte che vorrai. Mi piacerebbe che tu conoscessi il mio mondo, troveresti un’infinità di libri...
- Ma perché stai facendo questa cosa?
- Dal nostro primo incontro ho visto nei tuoi occhi una curiosità inconsueta e a quanto pare non erravo.
- Io ci voglio venire adesso!
- Aha aha, subito? Immaginavo che ti sarebbe piaciuto il mio regalo, ma non avrei mai pensato saresti stata così impaziente. Va bene, andiamo.
Mi prende per mano e ci dirigiamo verso le colline, le superiamo e arriviamo alla fatidica porta d’acciaio. Mi tremano le mani mentre cerco di introdurre la chiave nella serratura, sono eccitata al pensiero di cosa potrò trovarci al di là. Reed mi aiuta a girarla e apre insieme a me la pesante porta. C’è un buio molto intenso e lui estrae dalla tasca una piccola torcia che illumina il pavimento davanti a noi, mi stringo a lui senza nemmeno rendermene conto: ho paura. Lui mi stringe a sua volta e mi dà quella sicurezza che mi serve per camminare nella semi oscurità, verso l’ignoto.
Camminiamo un bel po’, non so bene per quanto tempo, so solo che non sento la stanchezza perché non vedo l’ora di scoprire il suo mondo. Arriviamo di fronte a un’altra porta uguale a quella attraversata prima e infiliamo la stessa chiave nella serratura. Reed la apre appena e controlla dalla fessura che non ci sia nessuno nei paraggi. Poi fa cenno di andare e oltrepassiamo l’uscio richiudendoci la porta alle spalle.
Vengo investita da una luce accecante, sembra sia giorno da quanto è alta l’illuminazione, e subito dopo arriva il rumore assordante della città. Nulla a che vedere con il silenzio di Liggen. C’è movimento e tutti parlano e ridono senza che nessuno li rimproveri, o li fermi. Dopo qualche attimo di stupore guardo Reed e gli chiedo: - Ma se mi scoprono?
- Non ti scopriranno, vieni con me.
Mi riprende per mano e mi fa entrare in un enorme palazzo con un portone di legno massiccio. Appena entro non credo ai miei occhi: un’immensa distesa di libri messi in bell’ordine sugli scaffali, ovunque mi giri vedo librerie zeppe. Ce ne sono di ogni colore e dimensione. Mi gira la testa a forza di vorticare su me stessa per godere quello spettacolo. Reed è estasiato dal mio stupore, gli sembrerò sciocca, ma non avevo mai visto nulla di così maestoso.
- Ma dove siamo?
- Nella biblioteca di Waarheid, la più grande di tutte le teche.
- Santo cielo! Mai visto nulla di così bello in vita mia. Di chi sono tutti questi libri?
- Nostri. Ci sono tutti i libri che sono stati scritti dai tempi dei tempi. E chiunque può prenderli in prestito e leggerli, senza pagare. Quelli che hai letto tu li ho presi da qui. Le storie che ti ho raccontato sulle costellazioni, le ho lette su libri presi qui.
Mi sento sopraffatta dall’emozione, non so cosa dire, lo abbraccio stretto e gli dico solo grazie, non mi viene altro da dirgli. Ci aggiriamo a lungo tra gli scaffali, mai avrei pensato che potessero esistere così tanti libri e vorrei prenderli tutti, non so davvero da quale iniziare. Alla fine decido di andare in ordine, comincio dal primo scaffale accanto all’ingresso e prendo il primo volume: ho intenzione di leggerli tutti.
- Ora andiamo, prima che ti sorprendano le guardie della tua teca.
Stringo tra le mie mani il nuovo volume e seguo Reed che mi scorta fino all’uscita del tunnel.
Sono passati due anni da quando Reed mi ha dato la chiave e io non ho perso tempo. L'ho usata moltissime volte. Ho divorato un libro dopo l'altro, conoscendo personaggi magnifici e viaggiando in mille mondi diversi, in epoche passate e future.
Qualche volta indugiamo ancora nella radura, sdraiati sull’erba a guardare le stelle, come oggi. Il cielo sembra più luminoso del solito, il cielo è limpido e la luna illumina i nostri corpi sdraiati. All’improvviso una scia luminosa attraversa la volta celeste strappandomi un grido di stupore.
- Hai visto anche tu?
- Sì, l’ho vista. È una stella cadente. In questo periodo dell’anno se ne vedono molte. Aspettiamo la prossima ed esprimiamo un desiderio. Una leggenda narra che se esprimi un desiderio mentre cade una stella, quel desiderio si avvererà.
- Davvero?
Setaccio tutto il cielo in cerca di un’altra scia luminosa, ma sono tutte immobili, adesso che ne cerco una non cadrà mai, lo so, la solita fortuna! Saprei cosa desiderare, so quello che voglio.
- Tu cosa desidereresti, Reed?
Mi squadra con uno sguardo strano e carico di emozione e sussurra.
- Io ho già tutto quello che desidero, non saprei.
- Io desidero una cosa, invece.
- No, non dirmela, se lo dici ad alta voce poi il desiderio non si avvera.
- OK, allora lo terrò per me e per la prossima stella cadente.
Mi metto a sedere sempre con il naso verso il cielo, lui si avvicina e mi mette un braccio intorno alle spalle, non eravamo mai stati così vicini e sento lo stomaco in subbuglio. La sua vicinanza mi dà contemporaneamente gioia e spavento. Non avevo mai provato nulla del genere. Ed ecco la scia che attraversa il cielo dall’orizzonte verso l’alto! Sospiro, chiudo gli occhi ed esprimo nella mia mente il mio più grande desiderio. Mi sento molto felice anche solo per aver potuto consegnare a quella stella cadente il mio pensiero, quello che più vorrei al mondo, confidando che la storia raccontata da Reed sia vera e che si avvererà. Si deve avverare.
Non voglio aprire gli occhi, ho paura che tutto possa svanire e che quindi il mio desiderio vada disperso.
- Emma, tutto bene?
- Sto solo ripetendo il mio desiderio affinché quella stella non lo dimentichi.
- Come sei dolce, piccola Emma.
Mi abbraccia stretta e io provo smarrimento e di nuovo quella strana sensazione alla bocca dello stomaco, non so cosa mi stia capitando, ma so che il giorno in cui si avvererà il mio desiderio potrò sentirmi così tutti i giorni.
Liggen mi è sempre stata stretta, ma da quando ho conosciuto Reed e il suo meraviglioso mondo, non è più tollerabile vivere qui.
Oggi è il fatidico giorno: entro questa sera saprò se mi hanno accordato il visto per andare a vivere a Waarheid, saprò se il mio desiderio si può avverare. Sarebbe magnifico poter stare sempre in mezzo ai libri, con Reed, e non dover più leggere e vederci di nascosto!
Mi presento all’orario stabilito presso la sede del Governo. Il Vicegovernatore mi riceve nel suo ufficio e senza mezzi termini mi comunica che il mio visto è stato negato. Non è possibile. Le lacrime mi salgono agli occhi senza che io lo possa impedire. Vorrei urlare, imprecare, protestare, ma è contro la legge. Chino mestamente la testa e corro verso casa.
Tutto, intorno a me, sembra diventare ancora più insopportabile: il silenzio è assordante e l’aria sembra irrespirabile. Avevo fatto affidamento su questo visto e ora dovrò vivere per sempre sapendo di non poter vedere avverato il mio sogno. Mi chiudo in camera, mi butto sul letto con il cuscino sopra la testa e sfogo tutto il mio dolore.
Alle undici, col viso gonfio dal pianto e la testa che mi scoppia, metto qualche vestito in una borsa e stringo al petto l'ultimo libro che ho letto, con l'intenzione di usare la chiave per l'ultima volta: fuggirò al di là della porta d’acciaio, a ogni costo. Vado oltre le colline. Davanti alla porta, c'è Reed, con un sorriso meraviglioso sulle labbra.
- Non è andata come speravamo, mi hanno negato il visto.
Mi guarda e non smette di sorridere, mandando tutte le mie certezze all'aria, pensavo che anche lui volesse che andassi a vivere con lui a Waarheid, ma quel sorriso sembra esprimere tutt'altro. Sono confusa, delusa, mi pulsa la testa, ho la nausea e mi sento una perfetta idiota.
- Perché sei così afflitta? Non è cambiato nulla: il piano è sempre lo stesso. Noi due insieme, però a Liggen.
- Dove starai? Non puoi scappare giorno e notte.
- Sapevo che il tuo arretrato governo non ti avrebbe mai concesso il visto e allora l'ho richiesto anche io. A me lo hanno elargito e da oggi sono un fiero cittadino di Liggen. Abbiamo anche la chiave... possiamo avere tutto.
Le lacrime mi impediscono di vedere la sua espressione, ma dal tono della sua voce sembra felice almeno quanto lo sono io. Improvvisamente capisco: non ho bisogno di andarmene dal mio paesino bigotto per essere libera, mi basta la possibilità di stare con lui e di viaggiare in tutto il mondo attraverso le parole scritte nei libri.
Viaggeremo in un mondo nuovo e diverso tutte le volte che vorremo e vivremo le avventure descritte nei libri, perché la libertà, dopotutto, non è un luogo.
La prima volta che Lucio Morelli ha incontrato Flaminio Vitali aveva appena irrimediabilmente macchiato di terra la sua salopette rosa. Aveva un sacco di vestiti rosa, perché sua zia aveva capito male, quando era nato, al telefono, e aveva mandato a Teresa tutto il guardaroba di sua cugina.
Si potrebbe dire che era un quieto pomeriggio soleggiato e quasi caldo di un estate degli anni '90, ma in realtà aveva appena finito di piovere, di nuovo, e la foschia era così densa da attorcigliare nodi di nebbia fra le corde dell'altalena.
L'odore di ruggine ed erba bagnata rimaneva sospeso fra il tronco, la piramide a gradoni e la casetta di plastica scolorita dove il figlio della signor Dionigi si nascondeva di sera con la sua ragazza, a fare cose che Teresa non voleva mai dire davanti a lui.
Flaminio Vitali era piccolo, più piccolo dei bambini a cui Lucio era abituato, i figli antipatici dei vicini di casa, e quelli che sua mamma voleva obbligare a diventare suoi amici invitandoli a casa la domenica pomeriggio.
Lucio odiava quei bambini, gli chiedevano sempre perché Marco non era suo papà. Che cosa aveva fatto di male per far scappare così suo papà?
Lucio non lo sapeva, ma aveva cominciato a mordere tutti, e la maestra aveva chiamato a casa.
La prima volta che Lucio Morelli ha visto Flaminio Vitali, era dietro una finestra chiusa nell'appartamento di fronte. Lo ha salutato con in mano il pupazzo di un orso vecchio e rovinato e la bocca sporca di budino.
Si potrebbe raccontare al mondo che tutto è nato in quel momento, con Lucio e la sua salopette rosa che tirava calci alla sabbia del recinto, e Flaminio con il suo orsacchiotto rattoppato che ha attraversato il parco recintato e si è seduto a fatica su un'altalena cigolante.
Non toccava nemmeno a terra, e il suo orsetto si è sporcato ancora contro le catene oliate di fresco dall'amministratore di condominio con il gatto soriano cieco da un occhio.
Lucio Morelli è rimasto seduto a gambe incrociate nel recinto di sabbia per sette minuti e quattordici secondi, prima di alzarsi senza curarsi di raschiare via un grammo di terriccio dai vestiti, e si è seduto con un salto – che negli anni sarebbe diventato, nei suoi racconti, sempre più elegante ed agile – sull'altalena vicina.
Zitto, il mento sollevato, perché così vuole il galateo dei bambini. Il più piccolo, quello che arriva dopo, deve attaccare bottone.
Non l'ha deciso nessuno, è vero, ma fidatevi se dico che è così. Lucio la racconta sempre così, come se fosse ovvio.
Flaminio non sapeva spingersi da solo, così è rimasto a far ciondolare le gambe dal sedile mentre l'altro arrivava talmente in alto da toccare quasi i rami del castagno lì vicino. A lui sembrava così, e i bambini sanno quando gli altri bambini arrivano a toccare il cielo. Anche questo è noto.
“Ciao, sei il figlio della Giovanna?” Flaminio Vitali era, per sua natura, un bambino socievole. In quei dodici secondi di altalena condivisa, nonostante Lucio cercasse in ogni modo di farlo sentire piccolo e insignificante flagellando l'aria con le sue piroette da pavone, aveva già deciso che non voleva rimanere solo quel pomeriggio. Bù, il suo orsetto, era il suo migliore amico da tre anni, otto mesi e cinque giorni, e gli sembrava un tempo considerevolmente lungo per avere un amico che non rispondeva mai alle sue domande. Un'aura di mistero, fra amici, andava anche bene, ma Flaminio stava cominciando a trovare difficile fare conversazione.
“Conosci mia mamma?” e così Flaminio ha trovato l'appiglio dove appendersi per imparare a dondolare nelle strane smorfie orgogliose dell'altro. Un po' a sinistra rispetto alle sue manie di protagonismo, e leggermente a destra della sua cocciutaggine.
Ha annuito, con il suo caschetto tremendamente anni '90.
“Mia mamma è amica della tua. Si salutano sempre quando sono in fila alle casse della Conad”
“Io non mi ricordo di te...” è una bugia ma, garantisco, a fin di bene. Tutte le volte che Flaminio racconta la storia, Lucio sembra sempre meno convincente mentre dice questa frase.
“Che hai fatto? Per stare qui e non al cinema con gli altri...”
“Sono in castigo tutta la settimana. Ho detto a mia mamma che è una rompipalle. Non è vero che è una rompipalle, ma voleva farmi andare a dormire presto invece di guardare Balto ” si è stretto nelle piccole spalle, e ha stretto di più anche l'Orsetto Bù, perché lo faceva sempre stare un po' meglio sentire il pelo ispido sotto le dita. “Abbiamo fatto pace, ma sono in castigo lo stesso, per un po'” ha dondolato i piedi, osservandoli con l'attenzione maniacale che maschera sempre l'imbarazzo “Tu perché sei qui e non al cinema? Z la Formica è un film bellissimo!”
Lucio aveva quasi otto anni, ma avrebbe voluto averne già dieci, o undici, essere grande e alto, e guardare Flaminio Vitali dall'alto in basso mentre sfregava i calzoni macchiati di fango sotto il sedile dell'altalena.
“Faccio schifo. Sono vestito di rosa!” una risposta che, necessariamente, per lui, significava discorso chiuso. Ma l'altro aveva l'espressione di uno che non considerava minimamente il colore rosa una buona ragione per saltare un pomeriggio al cinema con i bambini del condominio. Non quando Z la Formica, il film più bello del mondo, era in programmazione.
“E' mia mamma che mi veste sempre di rosa. Perché le hanno regalato un sacco di cose, ma sono tutte da bambine, ma mia sorella è troppo piccola, e le devo mettere io”
Flaminio ha scrollato le spalle, e per poco non è caduto faccia a terra sull'erba
“Mi piace il rosa, anche se tutti mi prendono in giro perché dicono che è un colore da femmine”
Se qualcuno si fosse affacciato, in quel momento, da una delle duecentododici finestre che si affacciavano sul cortile interno, avrebbero visto il testardo e viziato Lucio Morelli sorridere un poco, e annuire, e smettere di atteggiarsi a gran sportivo perché sapeva andare sull'altalena. Non lo avrebbero visto piangere, né tirare la manica della madre in mezzo al viale, per attirare la sua attenzione. E nemmeno tenersi alla larga dalla carrozzina di sua sorella appena nata, con parenti e amici a far da capannello, mentre lui si tirava dietro i suoi vestiti da femmina.
“Ecco, anche a me. Proprio per quello. E io non voglio andare al cinema con quelli che mi prendono in giro. E Tommaso Orsini è uno-” si è guardato intorno, attento che sua madre non lo stesse ascoltando, o fosse affacciata alla finestra, o quella vecchia che puzzava di cavolo bollito della signora Filini passasse di lì con la sua larga bocca sdentata e l'apparecchio acustico acceso “stronzo”
Flaminio era un bambino socievole, ma non abbastanza da avere amici che dicevano le parolacce.
“Che vuol dire?”
“Non lo so bene. Ma il fidanzato di mia mamma lo dice sempre quando guarda il telegiornale. E lei lo fa stare zitto. E' una cosa brutta però...” Lucio sembrava uno spiritello sorridente, e il suono esile di una risata un po' sciocca allargava pian piano il foro che Flaminio stava usando come appiglio
“Se non lo sai te...hai detto rompipalle a tua mamma!”
“Ma le ho chiesto scusa però! Mica volevo dirglielo davvero!” tremava un po', perché si sentiva ancora in colpa, e il biscotto della pace che Anna gli aveva portato in camera la sera prima era ancora appeso nello stomaco, e proprio non voleva decidersi a scivolare via.
“Però in castigo ci sei lo stesso”
“Perché lei ci è rimasta male. E siamo solo noi quindi...”
“E tuo papà?” forse Lucio non era come i suoi compagni di classe, con le loro famiglie di genitori ancora sposati, le cene di Natale con i nonni, e i cugini invitati ai compleanni, ma era curioso, curioso come è curioso il primo bambino sulla Terra che è stato convinto per anni di essere solo, e scopre improvvisamente che non è così.
“Boh, non l'ho mai visto...” e ha sentito, allora – o almeno così dice, quando arriva a raccontare di quel momento, cercando la mano, il ginocchio, la clavicola o gli occhi di Flaminio attraverso stanza – di non voler vedere le fossette sparire dalle sue guance. Le stesse fossette che prima lo irritavano erano quasi diventate una confortante compagnia.
Ha scrollato le spalle come per scacciare l'ombra della tristezza dalle catene dell'altalena.
Si è alzato con un salto non troppo atletico, anche se non ne farà parola con nessuno, ovviamente, nei suoi racconti successivi, ed ha cominciato ad arrampicarsi sulla piramide di tronchi.
“Io nemmeno il mio. Mia mamma dice “stronzo” anche quando parla di lui. Ma Marco è forte, forse mamma starà bene. Non lo so. Mica me le dice queste cose.” sbuffando, è arrivato in cima. Osservare Flaminio da quella posizione, incredibilmente, non lo ha fatto sentire più forte. “E' sempre lì che parla piano, e dice a tutti di stare zitti perché Silvia dorme, e deve mangiare, e deve giocare, è una noia!”
“Non ti piace tua sorella?” sarà stato anche un bambino di sei anni, ma non era stupido. Anzi, e questo è uno zoom nell'animo umano che solo un narratore onnisciente può permettersi, c'era in lui quell'insolita empatia verso il mondo che a volte è così amara da scavare fosse asimmetriche fra una costola e l'altra. Sei anni di bambino magrolino e un orso di peluche sbrindellato rivelavano gli orli di una passione intensa per le cose usate, rotte, scucite, squarciate. Difettose.
“E' piccola. Mangia e piange. E basta. Io volevo un fratello per giocare a calcio” è saltato giù anche dalla piramide, Lucio, sempre in movimento, a scalciare contro il tempo che passa e che mente.
Automat
- Permette signorina? - .
All’interno della tavola calda il silenzio è assordante. La luce al neon del locale permea ogni cosa e lo starter difettoso emette un ronzio basso e costante che tende ad ovattare l’ambiente.
L’effetto acustico è lievemente lisergico, l’aria viziata e stagnante del luogo fa capire che durante la serata c’è stata ressa ma che ora, con il protrarsi delle ore, la folla si sia dileguata altrove.
Fazzoletti sporchi, briciole e aloni di boccali che non hanno centrato i sottobicchieri, testimoniano che su quei tavoli si sono consumati pasti, chiacchiere, vite.
Vicino alla porta d’ingresso un ombrello è abbandonato a terra, nero con il manico rosso, qualche stecca ha una brutta piega, probabilmente avrà lottato con qualche acquazzone in passato. Ora sono mesi che non piove. Qualcuno l’avrà certo dimenticato.
I caloriferi, le maniglie, una striscia che corre lungo tutto il battiscopa e un'altra nella parte alta vicino al soffitto, sono di uno strano colore giallo. Voluto a quanto sembra.
Sopra un mobile, vicino la vetrata, una ciotola ospita delle ridicole riproduzioni di frutta in plastica. Potremmo stare qui delle ore a disquisire sulle problematiche psichiche di chi ha avuto quella pensata.
Il caldo è soffocante, i vetri si appannano lasciando risaltare le impronte di chi ci ha appoggiato le mani sporche.
Qualcuno sembra anche averci disegnato qualcosa ma non si capisce bene dalla forma.
Guardo l’ingresso nella speranza che qualcuno entri a cambiare aria in questo posto, ma vista l’ora non credo che venga più nessuno.
Notte fonda, non c’è appeso nemmeno un orologio, potrebbe essere qualsiasi ora.
Le pareti sono spoglie, qualche quadro appeso ogni tanto senza troppa fantasia, qualche pubblicità e qualche specchio che non fa altro che rimandare quello che vede. Probabilmente l’avventore tipico di questo posto è abituato a guardare nel piatto, nel fondoschiena della cameriera dopo che glielo ha portato e nel portafoglio per pagare prima di andare via. Nessuna pretesa.
La sala si è quasi completamente svuotata, fatta eccezione per un barbone che con la complicità del buon cuore della cassiera, sta scaldando le sue quattro ossa dal freddo e l’umidità della notte.
Il vecchio è seduto sul bordo della sedia, ginocchia piegate e divaricate che puntano sulle gambe del tavolo che gli sta di fronte, proteso in avanti, poggiando la fronte sullo spigolo. Una posizione innaturale, in precaria stabilità, il respiro è pesante e l’aria arranca a fatica in quella laringe strozzata, sbava, forse sta dormendo.
Davanti a lui un bicchiere di qualcosa di scuro, forse ha scroccato un drink a qualche cliente, forse ha riversato in quel lurido bicchiere tutti i fondi che era riuscito a trovare sugli altri tavoli e avanzi, avanzi di altri avventori, tutto quello che la donna al bancone aveva avuto premura di non gettare nella spazzatura.
Il cappello liso come i suoi indumenti rimane ancorato inspiegabilmente al cranio, sembra che glielo abbiamo appuntato con una sparachiodi e non ne vuole sapere di scivolare via, la giacca a quadri che indossa è di qualche taglia più grande e probabilmente ha visto tempi migliori e sicuramente anche proprietari migliori.
L’odore di alcool e sudore quando gli si passa accanto è importante, tanto che la puzza di aceto utilizzato per lavare le posate e i piani di preparazione è una liberazione.
Se non fosse stato per quel rantolo strozzato che emette quando espira, se fosse dipeso solamente dal fetore, si sarebbe potuto chiamare direttamente un becchino.
Qualcuno di la in cucina sta pulendo, probabilmente è a fine servizio perché è in quel momento che si passano le posate.
Hanno appena iniziato e si sentono, forchette, cucchiai e coltelli, una volta passati con uno strofinaccio che finiscono in una cassetta.
Dalla frequenza delle posate che vengono lanciate saranno probabilmente più sguatteri o uno solo con una tremenda fretta di ritornare a casa.
Forse entrambe le cose, certo è che quelle posate saranno venute uno schifo.
La luce della cucina filtra attraverso una porta a spinta e un piano passavivande, ma non si vede nessuno. Non si sente nessuno a parte questo tintinnare metallico continuo. A quest’ora di notte la cucina di qualunque locale è chiusa e si possono consumare solamente caffè e avanzi. Quindi al barbone non è andata poi così male.
La cassiera è arrampicata su di uno sgabello davanti la cassa, gonna corta, gambe accavallate, tacchi alti che a malapena riesce a mettere sul poggiapiedi.
Altro...
EGEA
Immaginavo già il ben arrivato di Loris, sapevo mi avrebbe accolto con un rimprovero gioioso; o meglio: diciamo che mentre percorrevo la mafiosa tangenziale immaginavo un po’ tutta la situazione, ma non avrei mai immaginato di incontrare lei. I capelli sfibrati, impresentabili e biondicci, e il viso così innaturale e pallido; come il mio. E mentre salutavo Loris, e mentre all’incirca, ancora, lui mi stringeva la spalla, grato, per poi sputare qualunquista sugli squallidi locali perbenino della zona, di fronte a noi, di fronte al mare, caleidoscopi di hit a buon mercato che si servono del mare con lo stesso stile di una macchia di nafta cacata da una petroliera, lei mi fissava. Era tutto così scontato, chiaro, che quasi me lo aspettavo. Lei così simile a me, che quasi mi ci specchiavo.
Erano in cinque, seduti su una sbarra a limitare l’accesso del molo. Io arrivai con passo felpato e salutai a testa bassa. Con Loris c’erano: Fifla, altri due tizi con facce buone - che forse avevo già visto qualche altra volta - e infine lei, timida e consapevole, che si presentò come tale Egea. Gli occhi penetranti, addolorati ma affettuosi. Non pensai subito alla Madonna, non subito, avevo altro in mente; senza rimorsi, quindi senza dipendenza, né consapevolezza.
Sbrigàti i convenevoli girammo le tomaie di gomma delle banali scarpe da tennis e risalimmo verso l’interno. Voltammo le spalle all’acqua violacea, compattati in una sorta di piramide, con Loris in testa che s’era addossato la briga della rollatura da me tanto agognata. Un ragazzotto grosso e simpatico allungò il passo e mi affiancò: mi ricordavo di lui? Sto spesso con Loris, sosteneva. Non avevo voglia di ascoltarlo e non desistetti un attimo dall’assentire, ma anziché silenzio ricevetti in cambio una parlantina entusiasta, uno scoppiettio fitto ma fluido, grosse parole che rimbalzavano in un'alternanza di cartelli a scritte cubitali: principi, diseguaglianze, ideali, tolleranza, ma anche qualche spicciolo non guastava.
L’anticonformismo dell’ora che accentuava la brezza marina, il fetore degli umori salmastri, la luce fioca dei lampioni e il grezzo ciottolato arso di salsedine ci accompagnarono in una piazza. C’erano ancora squadrette di cavallette rumorose che gremivano piccole strisce tra un bar e l’altro: i bambolotti avanzavano qualcosa da smaltire. Come noi, c’era qualcuno, non ben identificato, che sosteneva fosse una magnifica nottata, ma già era una menzogna bella e buona, ché eravamo alieni intimiditi dal domani, mentre io, avviluppato in quel discorso insostenibile, cercavo solo di fuggire dalla mia colpa, dai miei peccati non veniali, dalla mia immaturità.
La mia paranoica asocialità, degna delle persone traumatizzate, mi faceva arroccare in difesa.
Avevamo fame, fame chimica, ma nessuno aveva la forza di raggiungere una bottega alimentare, nessuno volevo spezzare il climax. Mi crogiolavo nel mio incantesimo, sì; forse non era vita, sì, ma sarei tornato; morivo felice perché consapevole di una non remota rinascita dove sarei stato ancora uomo. Anche uomo nel senso arcaico della parola, come i nostri nonni: con le loro responsabilità, con i loro coglioni da esporre in bella mostra e con la battuta sempre pronta.
Sì, ero ancora nella residenza estiva del mio cervello, ma sarei tornato.
Tutto era come una doccia calda invernale: che non s’interrompesse il flusso dell’acqua! Sotto gli effluvi di quella doccia io chiusi gli occhi. Quando li riaprii ritrovai il suo sguardo.
Era bollente, e gelato. Erano gli occhi di una bimba vecchia, rimprovero caro, gas esilarante. Era, in quel preciso attimo, un mantello cremoso che leniva tutti i dolori, causati dall’eccesso che non volevo abbandonare. Mi faceva promesse chiare e fumose. Custodiva un nuovo pensiero consolatorio: sei diverso, ma unico, nebulosamente unico.
Non sapevo niente di lei e tutto sommato non me ne fotteva, l'acqua calda scorreva. Il benessere mi coerse le mandibole e salì graduale fino a sfociare in una risata bastarda.
- Che fai ridi!?
Si materializzò di fronte a me una bella donna, Fifla.
Era la cattiva del romanzo: provinciale, stupida, furba, isterica, egocentrica. Non aveva amiche, solo uomini che se la volevano fare e in quel momento aveva me, e a me non dispiaceva. Si elevava comunque sopra il borioso pattume. Mi strappò dalle grinfie del chiacchierone, strinse la sua mano sotto al mio braccio e posò la testa sulla mia spalla. Confidenzialmente mi guidò verso il pretesto, il solito inflessibile preoccuparsi: dei vaneggi, del sesso con amore, delle astrazioni, della normalità, del senso della vita, del futuro, della famiglia, dei sentimenti, delle porcate, dello stare fermo senza scoppiare per almeno cinque minuti. Giusto il tempo per arrivare a palesare gli argomenti più sentiti, regina del male, oscura figocrate egocentrica, e raccontarmi - quello più contava: esibirsi, scoperchiare cloache, malizie malevole del male - gossip velenosi, faccende sentimentalmente banali, cazzate varie.
Cercai di nuovo sollievo, la doccia calda, gli occhi di Egea, e trovai la sua pelle lunare. Si avvicinò silenziosa, ma decisa, nel suo abito largo e asessuato, niente cosmetici, dipinta solo dei propri occhi tristi e socchiusi.
Mi sentivo come al centro tra il bene e il male, nel fulcro di tutto, e forse quel posto oscuro era il posto più bello del mondo. Non per Fifla, che all’arrivo di Egea si squagliò, forte della sua bella figa, con un tipo magnificamente adornato e si trascinò dietro gli altri due buontemponi. Ne approfittai per voltarmi verso di lei, ma Loris ebbe un sussulto dal suo stato catatonico e con una magnificenza inopportuna spezzò un silenzio per poi crearne un altro più attivo, meno imbarazzato. - Entriamo lì. Disse. - Beviamo qualcosa.
Eravamo rimasti solo noi tre.
Ci infilammo in un vicolo stretto, piuttosto cieco, tra palazzine colorate estivamente, diretti verso un atrio pieno di voci ebbre. Martiri volontari illuminavano il nostro ingresso con le loro cicche incandescenti e con i carnevaleschi colori delle loro pacchiane diavolerie tecnologiche. Io ed Egea ci guardavamo in silenzio, finanche negli occhi. Non riuscivo a decifrare la sua estetica, aveva un modo di muoversi inedito
- Chi sei? Il mio angelo redentore?
Sorrise, come la classica bimba con le narici arrossate.
- …a volte penso proprio che vorrei morire. Mi sussurrò l’angelo all’orecchio, per poi volare in alto e staccarsi da tutto e ulteriormente da me
- Se vuoi ti uccido io. Risposi, e il suo profilo ellittico si contrasse in un sorriso da labbro distorto, che sapeva tanto di smorfia preconfezionata. Ritornò così di colpo sulla terra da schiantarsi al suolo, e subitanea mi venne voglia di scoparla.
- Quanti anni hai? Le chiesi.
- Gli angeli non hanno età.
- Quanti anni hai?
- Ventitré.
È vero, pensai, gli angeli non hanno età.
Una fosca prevalenza di faretti rossi rifletteva in maniera sinistra su tavoli scarni, abbinati a seggiole spartane, perlopiù abbandonate da gente sudata che preferiva dimenarsi al centro della sala. Dalla luce dei neon azzurrognoli, che impastavano l'aria tra il bancone bar e il cesso, ci apparì la testa calva di Loris, turbolento, lesto a piantarmi un bicchiere in mano e fuggire via verso una nuova ennesima paranoia.
- Non bevi?
- No. Rispose l’angelo, secco.
Peccato, perché la serata andava spedita come culo sul ghiaccio, la musica, che strisciava da qualsiasi fessura come un serpente ovattato, rimbombava nello spazio acustico ristretto, e io cominciavo a percepire lei, Egea, come cominciavo a percepire tutto: un rebus che non riuscivo, o non avevo voglia, di decifrare.
Nel palazzo bianco tutto era bianco e accecante, e quando l'aria fu satura una puttana con l'abito bianco, bianco, bianco mi prese per mano conducendomi all'interno di una enorme e claustrofobica campana infernale, dove la vastità era la mia prigione. Egea mi prese la mano carica d’apprensione, sembrava avere il peso del mondo sulla testa, che si inclinava sempre più a ogni singola parola
- Chi sei?
- Il tuo angelo custode.
- Ne avevo proprio bisogno.
- I tuoi occhi mi incuriosiscono…
- Vuoi scopare?
- Forse… anzi no, credo… credo proprio di no, la devo dare a un altro domani, credo che la occupi tutta…
- Sono incorreggibile eh?
- Ci sono io, ti salverò!
Già. Eravamo vicinissimi ai ragazzi danzanti, ignari su chi avesse fatto il primo passo, e ci trovavamo immobili tra corpi in trambusto. Ogni tanto ci colpiva una spalla sudata. Loris era tornato alla sua malinconia, seduto ortopedicamente e nervosamente vigile su una poltrona. Egea s’allontanò in direzione opposta alla mia. Avrei voluto seguirla, ma nel contempo ero invaso, pervaso dal sangue rosso delle pareti. D'un tratto non trovai sbocchi. Le linee di passaggio erano tutte occupate. Suadenti invasati m’invadevano, resi mutilati dall’intaso sociale, resi invisibili dalla friabilità strutturale. Siringhe di cemento nelle vene. Mazze di scopa nel culo. Melanina alterata, pelle edulcorata. I cervelli erano il deserto del Sahara e Loris era il cammello divertito con la sabbia sulle sopracciglia e tra i denti, serrati in uno dei suoi ghigni. Terribili mosche mi si posavano addosso spingendomi nel baratro più profondo, succhiandomi linfa vitale al mero scopo di disperderla in maniera impune.
Ero esausto e dissanguato - Loris era ricolmo di sabbia, e le mosche non lo divoravano più - ma non volevo crollare sino a che non fosse rimasto un unico lembo di pelle non putrefatta, una piccola porta dove sarebbero potute passare grandi sensazioni.
L’attimo dopo seguivo il cammello che si era scrollato tutta la sabbia di dosso e marciava verso il sole bollente, alla velocità della luce. Prima che andasse via, prima che fosse notte.
- Dobbiamo andare…
Passo attraverso nutriti spiragli, faretti rossi e ciottoli pece. Una marcia decisa e sonnolenta che poco dopo tramuta in incedere più comodo, meccanizzato.
Ora lo seguo seduto, ma si va sempre, in tre, ma non solo, anche con il mio lembo di pelle e la febbre che mi fa brillare gli occhi. Il lembo si estende fino a una vita intera, sì che la mia pelle possa assorbire di nuovo tutto, ma in dosi minimali per i miei micro-pori. Nulla di grosso mi può toccare. Sottigliezze mi aiutano a vivere all’alba di un nuovo giorno.
La dispensa del vampiro
Suonò il campanello nel tardo pomeriggio di una domenica. Andai ad aprire pensando che fosse mio zio e invece mi trovai davanti lei, così gracile e pallida, ma così adulta nell’espressione. La mia sorpresa dovette essere buffa perché sorrise. Ci fu un attimo di silenzio e mio padre si affacciò per controllare; era venuta per il campo in vendita, aveva letto l’annuncio in paese. Mio padre la invitò a entrare, per sedersi con noi a tavola e parlare con calma, ma lei volle restare fuori. Trattavano sul prezzo stando in piedi sulla porta d’ingresso. La vedevo appena, mio padre la copriva quasi completamente. Quando tirò fuori un rotolo di banconote la trattativa si concluse.
Non aspettò nemmeno di firmare il contratto. Sistemò la roulotte in fondo al campo di granturco, in modo che due alberi la proteggessero almeno in parte. Mia madre si arrabbiò molto con papà. Si lamentava del fatto che avremmo avuto una sconosciuta accanto casa. Lui cercava di spiegarle che era stata una vera fortuna, perché nessuno avrebbe mai comprato quel campo isolato se non il proprietario dei terreni vicini, e quello avrebbe atteso per comprarsi tutto quanto, compresa la casa, mentre quella ragazza strana e la sua roulotte avevano fruttato una buona somma. Ma credo che fosse proprio quello il problema: era una ragazza strana, e sola.
Non ho mai visto nessuno con lei. E da allora io non l’ho persa di vista quasi mai.
Non credo che a lei interessi; voglio dire, sa che io la guardo, ma non le interessa. Devo stare attento invece ai miei.
Quella prima domenica presi il binocolo di mio zio e mi piazzai alla finestra di camera. Non vedevo quasi niente, perché era buio e la roulotte era coperta dai meli, ma alle quattro di notte riconobbi la sua ombra muoversi nel campo. In quel momento non riuscii a capire cosa stesse facendo, ma ripeté quel rituale nelle notti seguenti. Ho imparato a distinguere la sagoma scura del suo corpo e quella degli attrezzi. Usciva nel pieno della notte e si metteva a scavare. Lavorava la terra. Si è fatta un bell’orto con una piccola serra. Di giorno a volte fermava mio padre per chiedere consiglio sull’innesto delle piante, sull’esposizione al sole e sugli attrezzi. Teneva sempre il cappuccio in testa, soprattutto quando c’era il sole. Altre volte saliva in macchina e spariva fino a sera. Anche adesso, le poche volte che esce di giorno è sempre nascosta sotto il cappuccio.
All’alba si chiude in roulotte e resta lì dentro tutto il giorno. Allora io mi avvicino, salgo sul melo e la guardo dall’oblò. Sta sempre a studiare. A volte legge dei libri, altre volte un quaderno.
Una sera si è seduta al tavolo e si è messa a copiare le parole di quel quaderno su un altro quaderno. Poi lo ha chiuso, ha raccolto le ginocchia al petto ed è rimasta ferma per qualche minuto.
Forse due, forse dieci. Si è alzata, ha indossato i pantaloni e gli scarponcini. Il sole era tramontato già da tempo e sapevo che sarebbe uscita. Mi sono infilato sotto la roulotte trattenendo il respiro. La notte era ferma. Non c’erano aliti di vento o scricchiolii animali. Lei ha indossato un guanto, uno solo, e si è incamminata. La luna alta era quasi piena. Vedevo i suoi passi allontanarsi e i contorni ortogonali della terra dissodata. Dieci metri per cinque. La base del suo tempio notturno.
Si è accucciata all’angolo e ha afferrato un ciuffo d’erba che insidiava la coltivazione. Lo ha strappato ed è passata al successivo. Poi si è avvicinata alle insalate. Si è fermata ad accarezzare le foglie della lattuga, grassa e aperta. Era pronta, era la sua prima raccolta; presto lo sarebbero stati anche i ravanelli, le carote e i pomodori, quasi rossi. Ha proseguito su tutti i lati dell’orto estirpando le erbacce, poi ha afferrato il cesto di lattuga più grande e lo ha staccato. Lo ha portato in casa, ha acceso la radio su un programma musicale e si è messa a lavare l’insalata foglia per foglia. È stata la prima volta che l’ho vista preparare qualcosa da mangiare. Con un coltello ha tagliato una decina di foglie in strisce sottili, le ha messe in un piatto e le ha condite con olio, sale e aceto di mele. Si è seduta a tavola con un bicchiere di acqua e le posate. Ha guardato il quaderno appoggiato sul tavolo. Ha infilato la forchetta in un ciuffo di insalata, ha chiuso gli occhi e l’ha messo in bocca. Masticava lentamente e digrignava i denti. Con una mano davanti alle labbra tese ha trattenuto il boccone e ha inghiottito. Tossiva e scuoteva la testa. Poi ha respirato, ha guardato di nuovo il quaderno e ha preso un altro ciuffo di insalata. Lo ha spinto in bocca come se fosse acido, e così ha fatto con il terzo e il quarto. Aveva il naso arrossato e gli occhi lucidi. Inghiottiva e le lacrime le solcavano il viso. Svuotato il piatto è corsa in bagno. L’ho sentita tossire e trattenere i conati, e quando è uscita ha preso il quaderno e si è infilata di nuovo a letto. A quel punto sono andato anche io a dormire qualche ora.
Nei giorni seguenti quella scena si è ripetuta. Sempre peggio. Prende la verdura dall’orto, la lava e la cucina in tanti piatti diversi. Cuoce al vapore, alla brace; prepara stufati e pasticci di ogni tipo. Poi si mette a tavola, sempre da sola. Nelle sere più calde si accomoda nella veranda apparecchiando di tutto punto, con candele e stoviglie. Comincia a mangiare composta, ma mi accorgo che trattiene il dolore. Il cibo la fa contorcere. Mangia e poi continua a star male per ore, e si consuma. Quando era arrivata era già pallida, ma adesso stenta anche ad alzarsi.
Questa sera ha mangiato delle melanzane marinate e ora non fa che tossire. Non riesce a smettere e cade accanto al tavolo stringendosi la pancia. Resta immobile sul pavimento e lentamente la tosse si placa. Si siede di nuovo e finisce tutto. Beve. Poi si appoggia al tavolo e fa per alzarsi, ma le braccia non la sostengono e rotola ancora in terra. Non si muove, non tossisce nemmeno più. Scendo dall’albero, mi avvicino e la chiamo sottovoce. Non risponde. Allungo una mano ma appena la sfioro scatta in piedi e mi afferra la maglia. Ha gli occhi gialli e la bocca secca. Non sembra riconoscermi. Scuote la testa e corre in roulotte. Faccio un passo verso la porta, ma lei ha già chiuso la serratura. Mi guardo intorno, sembra tutto normale.
Prima che cominciasse a mangiare le verdure non stava così, sembra avvelenarsi giorno dopo giorno. Annuso il piatto, ma non trovo niente di strano. Sto per andarmene, quando lo vedo. Ha lasciato il quaderno sul tavolo. Mi guardo di nuovo intorno, non resisto.
Lo porto in camera e mi metto a leggere.
Ho venduto l’appartamento. Ho comprato una roulotte e un pezzo di terra. È una terra fertile e pianeggiante, me l’ha venduta un agricoltore che vive con la famiglia qua vicino. Il figlio mi spia ogni notte, da quando uscivo per dissodare il terreno.
Ho cominciato a lavorare la prima notte, quando ti ho portato qui.
Ho comprato dall’agricoltore una vanga, una zappa e un rastrello. Ho ordinato dei libri sulla cura della terra e la coltivazione. Ne ho comprati anche altri di cucina.
Ho tracciato un rettangolo nel campo e lì ho scavato cinque fila, smuovendo trenta centimetri di terra. L’ho seminata, l’ho concimata e l’ho innaffiata ogni mattina.
Sono passati due mesi. Ci ho messo due mesi a decifrare le tue parole. Adesso ne ricopio alcune qui. Riscriverle è come ricalcare i tuoi pensieri, rivivere il tempo con i tuoi occhi.
Mentre leggo guardo la roulotte in fondo al campo, dalla finestra. Quando si sveglierà cercherà il quaderno e capirà subito, ma non mi fermo. Sfoglio le pagine rapidamente, qui ha trascritto le parole di qualcuno:
“Ho adottato un canarino mannaro. Viene a trovarmi ogni giorno al calar del sole; si toglie il guscio, scioglie i veli e si avventa su di me. Io l’attendo come la terra fa con l’acqua. Ma come la terra, dell’acqua mi spoglio allo splendere del suo sole.
Trascorrerò con te ogni attimo che mi resta da vivere fin quando non mi prenderai.
Quando non staremo insieme io ti farò compagnia con le parole che lascerò in questo quaderno.
Non so che ore sono. Ti ho vista allontanarti dalla finestra e ho chiuso gli occhi.
Perché non mi hai svegliato? Da quanto tempo sei tornata?
Ho mangiato. Ho finito il pane e ho bevuto l’acqua. Ti sei seduta sul letto, mi hai accarezzato i capelli e io ho abbandonato la testa sul cuscino. Hai fatto scorrere la mano attorno all’orecchio e lungo il mio collo teso. I tuoi polpastrelli seguivano i contorni della macchia. Vedevo attraverso la tua pressione i grani viola e le tenui diffusioni che si allungano fino alla clavicola.
-Sei riuscito a scrivere? Mi hai chiesto.
-Poco.
Il quaderno era in terra accanto al letto. Lo hai raccolto e hai sfogliato due pagine.
La grafia ti è ancora incomprensibile. Mi sono sollevato sui gomiti e ti ho baciata al bordo della
bocca.
-Non hai sete? È tutto il giorno che ti aspetto.
La tua testa è scattata indietro come fai quando ne vorresti di più. Mi hai guardato e mi hai risposto che saremmo dovuti uscire, invece, perché mi avrebbe fatto bene.
Mi sono sfilato la maglietta. Altre rose pallide erano fiorite sulla pelle bianca. Una sulla spalla destra, una più ampia sul torace e una spunta dal pube per raggiungere quasi l’ombelico. Ti ho invitata.
-Perché torni qui? Non certo per passeggiare.
Ti sei piegata su di me. Il tuo piccolo naso mi sfiorava. Sentivo il tocco sugli ematomi dove ti fermavi per annusare, e attorno all’areola, dove si addensano i capillari. Poi hai seguito una vena attraverso le scapole e fino al bacino, sopra l’elastico dei pantaloni. Hai baciato il punto in cui la vena sprofonda nella carne, hai appoggiato la lingua grassa e hai percorso quel ruscello a ritroso. Ho disteso le braccia lungo il corpo. Erano fiorite ai polsi e al centro. Sei scivolata su di me. Hai premuto il bacino sulla mia erezione calda. Sentivo il sangue affluire tra le tue gambe strette. Non c’è altro che possiamo fare. Non c’è niente tra la tua bocca e la mia pelle.
Con le ultime forze ti ho afferrata per un polso. Sei scattata avanti. Ho sentito i tuoi denti affondare nella spalla ferita. Una volta non riuscivo a capire. Sentivo soltanto il calore diffondersi. Ma adesso ti sento. Percepisco la resistenza breve della mia pelle l’attimo prima di strapparsi. La stretta ermetica della tua mandibola, il succhio avido delle tue fauci. Bevi. Ho il braccio paralizzato, ma con l’altro ti stringo a me. Spalanco gli occhi e non vedo più niente. Un crampo tende tutti i miei muscoli. La vita defluisce. Il ferro irrora. Colo. Hai aperto gli occhi e ti sei spinta via con un balzo. Il solito balzo da cane ferito. Gridavi. Hai sbattuto la testa contro l’armadio e ti sei gettata in terra colpendo il pavimento coi pugni. Scalciavi. Ti contorcevi. Ho aspettato che l’ossigeno tornasse nel mio sangue e il respiro si quietasse, poi sono rotolato fuori dal letto e mi sono trascinato fino al tuo feto tremante.
-Ancora. Ho detto.
Hai aperto le pupille dilatate su di me. Ti stringevi le mani sulla bocca insanguinata. Dietro di me una striscia rossa segnava il mio tragitto sul materasso e sul pavimento.
-Portami con te. Smetti di smettere.
Ti sei raccolta in un angolo, sbattevi le braccia sulla parete, ringhiavi. Poi ti sei sollevata sulle gambe e ti sei voltata verso il muro.
-Devi riposare. Hai detto. Devi riposare e mangiare.
Hai preso la giacca e sei uscita. Sono rimasto solo sul pavimento. Non mi ero accorto di piangere fin quando non sono stato solo. Ho allungato il braccio e ho afferrato l’erezione intatta”.
La roulotte è ancora buia. Non so se sto leggendo una storia o un diario. Qui ha trascritto
ancora:
“Mi sono svegliato e non ci sei ancora. Che ore sono? Riconosco il tempo dalla luce sull’albero che vedo dalla finestra. Ma oggi non c’è il sole e sembra che il giorno non sia mai arrivato. Come te. Voglio restare sveglio. Forse sei venuta e sei tornata via. Non sento più gli odori. O forse tu non hai un odore. Ma sospetto che tu sia stata qui e te ne sei andata senza svegliarmi. Forse confondo l’oggi con l’ieri. Da quanto sono qui? Sei giorni, o forse nove. Per quanto potremo andare avanti? Quando saprai decifrare la mia scrittura non servirà più. L’ultima volta ho sentito i sensi che svanivano. Ero con te quasi completamente. Perché aspettare ancora? Capiterà una volta soltanto, mi hai detto. E ho pensato a quante volte devi averlo fatto. Hai portato con te qualcuno che ti ha delusa?
Ti ho chiesto cosa succederà e tu non hai risposto. Quando mi hai bevuto dall’inguine ti ho sentita perdere il controllo. Ho avuto una vertigine e poi mi sono abbandonato. Ero sicuro che lo avresti fatto, che saresti arrivata fino in fondo. Era un piacere così perfetto. Sentivo che lo volevi quanto me. Sentivo i tuoi muscoli tesi e mi hai stretto con le mani, come fai quando godi. Cosa ti ha trattenuta? Ne abbiamo parlato tante volte. Non so più quante. Non so quando è stata l’ultima volta. Ho paura che quando accadrà non me ne renderò nemmeno conto. Hai detto che potrei essere con te per sempre, ma potrei anche morire. Mi chiedo se ci sia una differenza. Non c’è altra possibilità per noi, e io voglio sentirti portarmi via.
Ho bisogno di un caffè. Riesco a stare seduto davanti alla cucina. Ho riempito una moka e l’ho messa sul fornello. Passo il panno umido di amuchina sulla ferita più recente. Aspetterò il caffè e poi mi farò un bagno caldo”.
La finestra della roulotte si è illuminata. Forse dovrei fermarmi, invece vado avanti per capire cos’è successo al ragazzo.
Quando sono rientrata ti ho trovato in terra davanti alla cucina. Il gas continuava a uscire dal fornello spento. La tua faccia era una massa informe e scura, bruciata e macellata dall’esplosione. I pezzi della moka erano sparsi per tutta la stanza e uno ti aveva trinciato di netto il collo. Sotto al tuo corpo c’era un lago di sangue appiccicoso.
Io non sapevo cosa sarebbe potuto succedere. Non ho mai portato qualcuno con me, come tu pensavi. Non sapevo nemmeno come avrei potuto farlo. Non c’è un manuale per queste cose. Non ci sono maestri o genitori. Forse ti avrei solo ucciso. Lo sapevi e lo volevi. Ma io non posso morire.
Non hai pensato che io non posso morire.
Ti ho seppellito accanto alla roulotte e ho arato il terreno sopra di te. Ho visto i colori degli ortaggi evolvere alla prima luce del mattino. Ho costruito anche una piccola serra per proteggere i pomodori e allungare la stagione. Come se servissero più stagioni.
Mangerò i prodotti della terra che tu hai fertilizzato. Biologici. Biodinamici. Privi di sapore e di odore.
Inghiottirò quel veleno fin quando non avrò più le forze di muovermi. Potrei magari morire così, giorno dopo giorno, un boccone per volta. Posso sperare di morire così.
Un grido feroce spezza il buio. Cos’è questa follia? Il delirio di una ragazza malata?
La sento avvicinarsi e anche i miei si svegliano, nella camera accanto. Sta venendo da me. Si regge appena in piedi, ma quando mi afferra quasi mi solleva.
L’AMORE È MANNAGGIACRISTO
Come ogni giorno ti ritrovi a fare le stesse e identiche cose: alzarti presto, menare due bestemmie, portare il cane a pisciare, buttare l’immondizia. Poi capita un lunedì, che no, non ci vai in ufficio, ma solo perché la spia dell’olio ti supplica di portare l’auto dal meccanico. Allora chiami Matteo, il meccanico di fiducia, si dai portamela che facciamo subito. Esci di casa e anche se sei grigio dentro scopri che fuori è primavera.
Matteo è un tipo che definiresti, come si dice, alternativo. Ha il pizzetto biondo, tatuaggi a vista, piercing dappertutto, capelli rasati a zero sopra la classica tuta da lavoro. Voleva fare il pittore, poi un giorno suo padre, innamoratissimo della famiglia, dice che va a comprare le sigarette e gli lascia una madre con una rotella fuori posto, l’officina piena di debiti e un fratello tossico.
«Tra quando?».
«Ripassa tra un paio d’ore».
Eppure aveva detto che faceva subito.
Gli consegni l’auto con le chiavi all’interno. L’aria è ancora troppo fresca e desideri tanto un buon caffè. Le strade da percorrere sono due. O fai a ritroso quella da cui sei venuto, oppure prosegui dritto. Non l’hai mai fatta quella via. Non hai voglia di rifare la stessa e quindi decidi per la seconda. Te ne vai con le mani in tasca pensando ai fatti tuoi: bollette, altre settanta euro che dovrai sborsare da lì a un paio d’ore, tua moglie che ieri t’ha fatto un cazziatone senza un apparente motivo. Anche quello è amore, dicono. Sarà. Speri che lungo quel percorso possa esserci un bar.
Poca gente in giro, troppo presto, o forse già tutti a guadagnarsi la pagnotta. Belli questi alberi, queste piante, questa pista ciclabile. Esiste una pista ciclabile in paese?
Percorri la pista, stranamente integra e pulita, così pulita che non c’è nemmeno una cicca di sigaretta.
Cammini veloce, sempre con quel bisogno di caffè che non ti abbandona mai, adesso unito a quello di una sigaretta. Senza accorgertene ti ritrovi all’interno di un tunnel, una specie di galleria. Che ci passa sopra? Binari, autostrada, filobus? Ti sembra di essere altrove, entrato in una dimensione parallela. Senti freddo lì dentro. Ti aggiusti il colletto del giubbotto.
L’eco dei tuoi passi rimbomba nelle orecchie e rallenti perché hai paura di fare troppo rumore. A metà del percorso ti viene un po’ d’angoscia: sei da solo in un buco del mondo, se qualcuno volesse farti del male, o rapinarti non potresti far nulla. Per fortuna non hai l’aria di uno che valga la pena derubare; delle cento euro che hai in tasca il settanta percento è già impegnata. È tra questi lugubri e idioti pensieri che ti accorgi che lì dentro non sei solo. Nel silenzio dei tuoi passi fermi, la vita pullula. Non è esistenza fisica, reale. Cioè, non lo è, ma lo è. Pullula di pensieri, idee, emozioni. Si fanno strada con prepotenza, tra graffiti e murales. La luce arranca tra l’entrata e l’uscita della galleria, ma le pareti colorate si riescono a vedere benissimo. Disegni grandiosi, simboli politici, scritte volgari, oscenità, idiozie. Realizzi finalmente di non trovarti in un luogo inventato, quella galleria esiste davvero e forse eri il solo che non la conosceva: centinaia di mani, occhi e menti sono transitate lì dentro; e hanno sofferto, gioito, cazzeggiato, inneggiato al Milan fino a creare un intero unico dipinto. Una scritta che entra dentro un disegno, un paesaggio che si fonde con delle frasi. E allora torni indietro per vedere se quell’immensa opera d’arte comincia dall’inizio della galleria, hai voglia di leggere tutto, di capire cosa ha portato quei ragazzi – chi dice che siano per forza solo ragazzi – a scrivere, a disegnare quello che i tuoi occhi affamati stanno divorando. Juve merda, Marina ha la fica larga, Girasole duemilacinque – duemilacinque? – la Brigata degli invalidi. E continui a camminare, abbagliato da quelle firme, da quegli insulti, da quei messaggi. Ma a un certo punto ti fermi, tiri fuori le mani dalle tasche, lanci un fischio e ammiri degli autentici capolavori. Il volto di Joker, una ragazza assorta nella lettura di un libro, due mani che si incontrano, il viso di John Lennon, il bacio di due uomini. Sei così sconvolto dalla loro esplosiva realtà che l’indice dello Zio Sam sembra che ti stia toccando il petto. Non riesci a staccare gli occhi da quelle immagini, non hai più voglia neanche del caffè. Per un attimo ti viene in mente che, all’interno di una mostra d’arte moderna, per ammirare molto meno avresti dovuto pagare.
Riprendi a muoverti senza guardare dove metti i piedi perché non ti interessa di pestare una merda e perché sei sicuro che merde lì dentro non ce ne sono. Continui a sgranare gli occhi e a leggere i graffiti: l’indifferenza uccide ogni giorno, Never back down, l’amore è mannaggiacristo.
Ti fermi di nuovo. Non riesci a crederci. Cazzo, di tutti quei capolavori, il più orribile, scritto da mano tremula, con un pennarello nero su altri disegni, è quello più grandioso di tutti.
L’amore è mannaggiacristo.
Ti viene in mente che alle medie, al liceo, all’università, in casa, con gli amici, con le ragazze, con tua moglie, la domanda che più ti ha tormentato, che ti ha colto in fallo, a cui ogni volta hai dato risposte vaghe era sempre la stessa.
Che cos’è per te l’amore?
Pensavi che alla soglia dei quaranta non saresti mai riuscito non solo a rispondere a quella domanda, ma anche a cogliere un significato che si avvicinasse pur vagamente a quello reale, o almeno a quello che tu ritieni essere quel valore, e adesso lì, davanti ai tuoi occhi, in un giorno qualsiasi, uno sconosciuto dalla grafia incerta ti ha regalato la risposta alla domanda eterna.
Ti sembra di aver scoperto il Santo Graal. Quella frase, scritta male, ha colto nel segno anni di delusioni, gioie, tormenti, farfalle, rabbia, sorrisi e lacrime. E serotonina.
L’amore è mannaggiacristo. Spettacolare.
Rimani lì a lungo ricordando tempi passati e recenti che si fondono tra loro, proprio come stanno facendo quei colori davanti ai tuoi occhi, quei segni, quelle immagini. Si scompongono e ricompongono come materia in balia delle emozioni.
Quando ti riprendi dal viaggio nel tempo decidi di proseguire. Continui a vedere altri disegni ma non ti affascinano più come prima. Per te, che hai scoperto la verità, nulla ha più senso. Pensi solo a quella frase. E ti riassale il desiderio di caffè. Mentre punti diretto verso l’uscita colpisci qualcosa con il piede e vedi volar via un oggetto leggero. Si ferma a qualche metro davanti a te. Lo raggiungi, ti chini e lo raccogli. È un pennarello nero. Togli il tappo, annusi un vago odore di solvente e con aria furtiva fai uno sforzo: vuoi scrivere una frase a effetto, una di quelle citazioni che ti lasciano in silenzio a pensare. Alla fine non ti esce niente, un po’ perché non sei il tipo da aforismi, un po’ perché dopo quella frase tutto ti sembra banale.
Allora fai uno scarabocchio con le tue iniziali e passa la paura.
L’inchiostro e il tratto sembrano gli stessi della frase illuminante. Forse lo ha perso il tizio che l’ha scritta da poco. Chiudi il tappo e lo infili in tasca, senza motivo, o forse solo perché ti dispiace ributtarlo a terra. Riprendi il cammino con la testa che ti fa male e il cuore che batte.
All’uscita dal tunnel la luce del sole ti colpisce in pieno. Ti viene in mente quella canzone di Capareza, ti piaceva così tanto. Continui il tuo percorso e scopri che da questa parte del paese ci sono belle villette, un campo da calcio e un fiume.
Cristo, c’è un fiume!
Qualcuno fa jogging, qualcun altro va in bici, una coppia passeggia mano nella mano. Chissà se hanno visto anche loro quello che hai visto tu. Sembra che non finisca mai questa pista ciclabile e già pensi al ritorno, alla tua scoperta e alla voglia di dirlo a qualcuno, magari a tua moglie; dirle che nonostante tutto… Ma forse, chissà perché, sai che non la prenderà bene.
Un vecchio è appoggiato al cornicione, sotto c’è il fiume. Sembra pensieroso e assorto. Ha il busto sporto in avanti, i gomiti che fanno da leva, le mani incrociate come se pregasse. Deve essere stato un bell’uomo: spalle larghe, capelli folti, taglio dell’occhio espressivo e profondo. Gli passi vicino, troppo, al punto da notare le mani grosse, senza unghie e segnate da tracce nere.
Lo superi e ti convinci di aver fantasticato, anche se ne sei fottutamente sicuro. Fai ancora qualche passo, ma è più forte di te. Non riesci più a proseguire, a comandare le tue gambe. Ti fermi, proprio nel bel mezzo della pista e porti una mano sul capo, grattandotelo. Ti volti appena, incerto. Sta guardando altrove, in un punto che sa vedere solo lui. Pensi che ti stai rincoglionendo, che stai diventando paranoico, che in fondo è soltanto una cazzo di frase buttata lì. Riprendi a camminare. Niente, non è così. Lo sai e cominci a scalpitare. Hai davanti l’autore di quella verità assoluta e tu lo stai trascurando senza fargli nemmeno una domanda, senza sapere neanche il perché.
È come se trovassi Leonardo da Vinci e non gli chiedessi del sorriso ambiguo della Gioconda.
Sbuffi, vuoi sapere, ma non sei il tipo che rompe i coglioni alla gente; soprattutto a uno più grande di te. Soprattutto a un genio. Ti fai forza, ti impunti, e pensi che farai uno strappo alla regola. In fondo è un giorno speciale, in barba a quelli tutti uguali, senza sapore né di carne, né di pesce, e alla fine torni indietro.
«Scusi!».
Lui non si gira. Non ti caga di striscio. Pensi che stai facendo una figura di merda, ma anche che nessuno se ne è accorto e hai tutto il tempo per ritornare sui tuoi passi, ma non lo fai. Ormai ci sei entrato dentro e l’acqua ti sta toccando i polpacci. Un passo in più e sei arrivato quasi alla cintola. Fanculo se l’acqua è fredda.
«Scusi!».
Alzi la voce di un paio di tonalità facendo uscire un suono non tuo, troppo acuto. Ti viene da rabbrividire e pensi che neanche questa volta, nonostante tutto, ti abbia sentito.
Il vecchio rimane così, nella stessa posizione. Sembra una statua. Poi gira il capo lentamente verso sinistra come se avesse sentito un fruscio, troppo lentamente. Ti punta gli occhi addosso con quel colore limpido e cristallino che solo il mare d’estate sa eguagliare. Ti senti come uno che sta sulle rotaie abbagliato dai fari della locomotiva.
«Dice a me?».
Ci siete solo voi due.
«Credo che questo le appartenga».
Lui sposta lo sguardo, dai miei occhi all’oggetto che ho in mano; poi ritorna a guardare quel suo punto disperso altrove.
«Non è mio».
Rimani in silenzio, perplesso, con quello stupido pennarello in mano e con le tue idee idiote. Quando te ne stai andando senti un movimento alle tue spalle, e una voce più morbida e accogliente di quella di prima.
«Le va un caffè?».
Venti minuti dopo ti ritrovi al tavolino di un bar, quel bar che cercavi tanto e che era nascosto in una stradicciola appena visibile, con la tua bevanda fumante e un perfetto sconosciuto. E te ne freghi di tutto il resto: delle tasse da pagare, dell’appuntamento col dentista, della spesa da fare. Te ne freghi anche dei settanta euro che dovrai scucire al meccanico. Sorseggi caffè e fumi tabacco di seconda scelta. E ascolti quel vecchio che ti sta svelando il sorriso di Monnalisa.
“Mi piace il Natale, cioè mi piace in linea teorica - le luci, e pure la frenesia - è la pratica che mi disturba; solo all’idea mi manca il respiro. Non è una questione religiosa. E’ tutto il resto: Natale uguale famiglia. Appunto”.
Lei era in piena paranoia. Era una di quelle persone che avevano sempre pregustato il Natale da fine agosto, ma negli ultimi due anni la fregola era stata rimpiazzata dall’ansia. Parlava a se stessa come si parla a un’amica, una che non può fare a meno di ascoltarti e cerca di placare le tue angosce. Quando parlava con le sue amiche in carne e ossa erano tutte ovvietà: “Quest’anno andiamo da mia suocera, così non devo preparare nulla/Tu i regali li hai già fatti tutti? Io ormai compro solo su internet/Noi andiamo tre giorni a Parigi, è il nostro regalo”. E via dicendo. Sorrisi esagerati a bocche spalancate, bacini e bacetti.
Anche quest’anno era andata così. La solita cena annuale “almeno per farsi gli auguri” e per lo scambio obbligato di regali inutili. Sia chiaro, a lei piacevano i regali inutili. “Cose che devono stupirti, nel bene e nel male, o perlomeno non essere prosaiche,” come lei era solita dire. Che so: un bracciale è utile? No, ti piace o non ti piace. E ti dice senza dubbio qualcosa su chi te lo ha regalato. Quelli delle amiche, però, erano sempre forzatamente insensati, diciamo presi a caso. Fatti per portare oggetti. Le mutande rosse, ad esempio. Quante ne aveva ormai? E poi a cosa le servivano? C’è crudeltà nel regalare mutande sexy a una fresca di divorzio. Stronze. Mettetevele voi, tanto i vostri mariti non se ne accorgono e probabilmente vi staranno facendo le corna mentre voi pensate al loro regalo.
Lei era divorziata ormai da due anni e si considerava ancora fresca di divorzio. Sarà che ancora non aveva digerito la cosa.
Il suo ex marito, invece, era felicemente accoppiato (vedi alla voce causa del divorzio); infatti pare avesse acconsentito con entusiasmo alla richiesta della propria madre di passare il Natale tutti insieme: figlio, consuoceri, ex-moglie e nuova compagna.
“E’ per il bambino, almeno vi vede insieme a Natale!”. Aveva detto sua suocera, o ex-suocera, come doveva puntualizzare ogni volta (in effetti non era più sua suocera, se lei non era più sposata). Lei, invece, sapeva che lo faceva solo per metterli tutti di fronte al fatto compiuto: una nuova e bella coppia pronta a ricevere la benedizione corale, compresa la sua, ché doveva fare la persona matura e incassare il colpo con educazione.
Lei aveva un nome, Tea, che era piaciuto molto al suo ex-marito. “E’ il nome di una rosa,” diceva quando la presentava a qualcuno con visibile orgoglio. Ne sottolineava la doppia bellezza: nel suono e nel significato. La sua nuova fidanzata - nuova per modo di dire, erano già passati due anni e qualcosa in più, senza contare i mesi di tresca - si chiamava Patrizia. Che nome rozzo. E a dispetto del suo significato! Sarà che si pronuncia come se ne avesse tre di zeta, ma non ha a che vedere con la soavità di Tea.
Lei l’aveva vista, Patrizia, dentro la macchina del suo ex-marito, sotto casa. Era stata la prima volta.
“Chi era quella?”.
“Quella chi?”.
“Quella che era dentro la tua macchina”.
“Ah. Ah già. Una collega. Non aveva la macchina oggi. Che rottura”.
Non aveva certo pensato al peggio, capita che si diano i passaggi alle colleghe. E poi non era un granché, diciamolo pure. Col caschetto spiaccicato in testa era un tutt’uno nero con cappotto e stivali. Una blatta.
Succedeva che erano in macchina. Lei non sarebbe dovuta tornare in quel momento, ma aveva parcheggiato e li aveva visti. Capita. Lui era salito a prendere qualcosa, era stato veloce. Quando era rientrato in macchina non c’era stata nessuna effusione, neanche un minimo contatto.
“E perché sei salito?”.
(Preoccupazione crescente)
“Mi scappava e le ho chiesto di aspettare cinque minuti”.
(Preoccupazione svanita)
A pensarci, che stronzo. Bravo attore, però. Nessun segno di tensione. Carino come sempre. Come poteva pensare male, Tea? Quando uno tradisce è distante, o ignora, oppure compensa con gesti d’affetto eccessivi. Lui no, carino come sempre. “Ma quanto è buono, lui,” dicevano le sue amiche. Sì, sì, in effetti lo era. Eccome. Intanto era arrivata la blatta.
Frequentavano lo stesso bar alla mattina. Erano finiti seduti allo stesso tavolino, poi avevano cercato di sedersi sempre a quel posto, fino ad aspettarsi. Chiacchiere. L’ufficio, il figlio, lo stress. Caffè, cornetto. “Meglio di no, sto diventando una balena,” “ma no, tu? Sei in gran forma!”. “Sarà ma è meglio che mi tenga, guarda!”. Indicandosi, con il preciso intento di fare vedere bene la sua maglia aderente, o piuttosto cosa c’era sotto. “Avercene come te!”. Insomma, flirtavano.
Basta poco, anche se sei tanto buono come lui, per trovarti dentro a una storia. Proprio poco, pensava Tea. Qualcuno che mostra un po’ d’interesse, che sorride socchiudendo gli occhi alle tue scemenze, che ride alle tue battute. Aggiungi, nel caso della blatta: tacchi vertiginosi, gonne fascianti e aria da donna curata, e il gioco è fatto. E’ matematico.
Poi sì, certo, come da copione è arrivata la parte struggente: la fanciulla smarrita, la donna dal cuore spezzato ma che ti sta dicendo che, in fin dei conti, la puoi considerare libera. “Mio marito non c’è mai, è fortunata tua moglie ad averti”. “No, guarda, è sfinente fare tutto da sola,” fino ad arrivare a: “Io ce l’ho messa tutta, ma alla fine molli la presa”. E con quali occhi glielo avrà detto. Preso all’amo. Che zoccola. Suo marito c’era eccome. Solo che lei non lo vedeva più. Non gliene fai una colpa, succede, ma rappresentarlo come un menefreghista, questo no. Questo fa di te una zoccola.
Tea era compiaciuta di ciò che pensava. Il suo ragionamento non faceva una piega, d’altronde.
Sta di fatto che l’ex marito il giorno della macchina era salito in casa loro a prendere i preservativi, ben nascosti tra le carte, nel cassetto della propria scrivania. Quel tardo pomeriggio però non aveva potuto usarli perché il marito di Patrizia aveva chiamato e lei era scattata sull’attenti, come un soldatino. Si era fatta accompagnare vicino casa per fare la brava moglie e andare chissà dove con suo marito, e lui, il fedifrago, tornava da Tea. Tranquillo, perché tanto sapeva che se non era stato oggi, sarebbe stato domani. Tranquillo, era entrato in casa e come al solito un bacio sulla guancia e un bacio sulle labbra.
Lui e Tea avevano un figlio, Lorenzo, cinque anni.
Lorenzo non capiva bene questa cosa del distacco tra i suoi genitori. Non capiva cosa fosse successo. Non collegava Patrizia, la fidanzata di papà, a tutto il resto. Patrizia era una nuova figura a sé stante che però viveva con papà al posto della mamma. In alcune cose le ricordava la mamma: era affettuosa come lei; in altre no: Patrizia sapeva fare le lasagne buonissime e si metteva lo smalto scuro.
Lorenzo abitava con Tea, ma due fine settimana al mese stava col padre. Ovviamente, una volta tornato da sua madre era un continuo parlare di papà, Patrizia (soprattutto Patrizia) e lasagne. Si può immaginare lo sforzo che faceva Tea ad ascoltarlo. Era felice che suo figlio stesse bene, ma allo stesso tempo ne soffriva. Quante volte si era trovata a chiedersi perché tutti i bambini odino le matrigne e il suo no? Forse quella era migliore di lei? Lo aveva comprato con due lasagne?
Mentre pensava a tutto questo, Tea stava guidando, Lorenzo dormiva beato dietro di lei, e si stavano dirigendo a casa della nonna, o della ex-suocera, dipende da come la vivi.
Tea aveva comprato anche un bel regalo per lei, una teiera vagamente indiana, anche se le era sembrato assurdo occuparsi della madre di colui che l’aveva lasciata così, dopo anni di vita insieme. Era rimasta impassibilmente fatalista, l’ex-suocera, un laconico: “se deve succedere, succede, bisogna andare avanti”. Che sotto sotto fosse contenta dell’accaduto?
Ci sarebbero stati anche i propri genitori, complici per amore del nipote, nonostante li avesse già visti la sera precedente, quella della Vigilia. C’erano stati anche sua sorella e i nipotini, in quell’occasione. I bambini si erano divertiti, un po’ meno Lorenzo, che era il bambino più grande, si annoiava e si aspettava da lei soluzioni immediate. Patrizia di certo le avrebbe avute. Sua sorella, dotata di tre figli piccoli e marito pacioso al limite dell’inconsistenza, le chiedeva di continuo come stava, con il tono di chi parla con una depressa. E Tea dentro di sé aveva sempre la stessa risposta: “Pensi che io sia depressa? I depressi non escono mai di casa, io sì,” mentre all’esterno liquidava rispondendo che stava bene.
Diciamo che, in realtà, era costretta a uscire per via di suo figlio, e del lavoro, e di quell’unica volta, sotto Natale, in cui si ricordava di essere parte di un gruppo di amiche, perlopiù inesistenti.
Le pesava ricordarsi la sua vita di prima. Adesso chi era? E cosa cercava? E dove mai sarebbe dovuta andare? Prima aveva il suo posto, il suo ruolo; adesso veniva percepita come una donna sola, anzi no, come una donna abbandonata e cornuta. Doveva magari iscriversi a un corso di ballo? E per cosa, per farsi alitare addosso da qualche vecchio imbolsito in cerca di emozioni, o subire il sogghigno di giovani uomini? No. E comunque non ci aveva mai pensato prima, quindi perché proprio ora? Lavorava in una redazione e quello le piaceva, le bastava, non aveva bisogno di riempire i suoi giorni di attività per sentire la vita.
”Sempre sul pezzo, lei!”. Le diceva il suo ex-marito prendendola per le spalle. Mah, teneva una rubrica di piante e fiori, mica era una cronista d’assalto. Lui, avvocato, lavorava in uno studio di grido, in giacca cravatta e scarpe lucide. Era uno di quelli di cui si dice: “E’ un bell’uomo”. Bello, forse inconsapevolmente, e quindi mai cascamorto, solo affabilmente cortese, di quelli che sanno stare al mondo in maniera ineccepibile. E a Tea piaceva questo suo modo di essere. A Tea piaceva lui.
I pensieri non le davano tregua: ne usciva uno, ne entrava un altro, ora di soppiatto ora con prepotenza: lui così bello, la blatta, le lasagne, la teiera. Comunque, grazie al cielo, la Vigilia era alle spalle. I sorrisi messi su per dire a tutti “Sto bene! Sto bene!”. Il rossetto rosso, la tristissima tombolata con suo padre mezzo addormentato e suo cognato che non proferiva parola. Non emetteva proprio suoni, a dire il vero, solo sorrisi ebeti. Dio mio.
E adesso stava guidando verso qualcosa di simile. Ma peggiore. Tutti, ma proprio tutti, schierati: i suoi, quelli di lui, l’altra. Una salvezza poteva essere partire per una meta esotica, ma suo figlio era troppo piccolo, e poi forse era meglio partecipare alla recita una volta per tutte.
Quello che l’angosciava maggiormente era la combinazione strampalata di tutte quelle persone. Come avrebbero rotto il ghiaccio? Con sua madre che soleva rimproverarla davanti a tutti, seppure scherzando? Come avrebbe reagito all’impatto?
Si guardò allo specchietto della macchina: troppa cipria, la riga della matita storta su una palpebra, le guance pallide. Accostò per darsi una sistemata. Tirò fuori dalla borsa il pennello quando suonò il cellulare: “Ciao, ma dove sei? Qui ci sono già tutti, almeno oggi per favore, cerchiamo di essere puntuali”. Era sua madre. Ovviamente, il pennello le cadde.
“Porca puttana/Ma cos’hai, calma, ho solo chiesto dove sei/Non ce l’ho con te, mamma, mi è caduta una cosa”.
Ogni volta era così faticoso non litigare, e questa volta certamente di più, ma era anche necessario mantenere la calma visto lo scenario che le si prospettava. E poi, nonostante tutto e tutti, era Natale. Le venne da piangere ma strinse i pugni e rimise in moto l’auto, con le labbra serrate e una rumorosa inspirazione.
Ci volle ancora un quarto d’ora prima che raggiungesse “la magione”, così Tea chiamava la casa degli ex-suoceri. Abitavano in campagna, in una vecchio casolare che lei aveva da subito amato. Ora le faceva male entrarci da estranea, o da cosa non sapeva bene neanche lei. Chi era lei adesso? Solo la madre del loro nipote. Aveva sperato d’invecchiare lì dentro, la cornice ideale per una vecchia scribacchina di piante, e magari, chissà, dove mettersi a scrivere davvero il suo primo romanzo. Si chiedeva se a Patrizia quel posto piacesse, ma era certa che si sarebbe fatta piacere di tutto. Doveva essere una donna accomodante.
Il cancello era aperto, lei entrò e parcheggiò. Il bambino si era svegliato da poco, era imbronciato e non voleva scendere.
“Dai che ci sono i nonni, c’è papà”.
“Lasciami qui, ho detto”.
Tea, a malincuore, si giocò l’ultima carta, non ne poteva più di piedi sbattuti e lacrime copiose: “C’è Patrizia”. Lorenzo si destò come da un brutto incantesimo e sorrise. “Va bene”. Il tempo di scendere dall’auto ed era corso raggiante verso casa.
“Quella zoccola gioca a fare la fatina buona,” rimuginava. “Avrà già fatto innamorare tutti di sé. Si deve prendere tutto” e con i tacchi sulla ghiaia seguì le orme del suo bambino.
“Permesso…”.
La prima apparizione fu un grigio nitore: gonna, maglia, spilla e orecchini fumé. Capelli argento. La conosceva da anni e raramente l’aveva vista con altri colori, o meglio: con colori veri addosso.
“Buon Natale, cara, entra pure” (ex-suocera).
“Buon Natale. Questo è per te. Per voi”.
“Ma non dovevi”.
“Ci mancherebbe”.
Primo scoglio superato.
Restava l’ingresso nella sala da pranzo: trionfale o profilo basso? Non fece in tempo a darsi una risposta.
“Buongiorno!/Auguri!/Alla buon’ora (madre)/Mamma, c’è Patrizia!”.
Tutti si erano salutati in coro. C’era da baciarsi, però. Merda, questi auguri odiosi.
“Poso il cappotto e arrivo”.
“No, no, facciamoci gli auguri per benino” (ex-suocero).
Bene, era partita ufficialmente la girandola dei baci. Erano rimasti per ultimi l’ex-marito, che l’aveva baciata come si fa con un conoscente, e Patrizia. La blatta era in ghingheri: gonna nera parecchio aderente, tacchi alti, camicia bianca, un microbolero nero, e il solito caschetto schiacciato sulla testa. “La cameriera di un ristorante messicano,” pensò Tea. La fatina delle lasagne però aveva la faccia stanca, e nonostante il trucco pesante, e forse una lampada, non aveva l’aria compiacente che Tea le aveva attribuito; neppure quella di una che ha vinto e può godersi un riposante trionfo senza più bisogno di sgomitare.
La tavola era apparecchiata in maniera impeccabile, c’erano anche i segnaposto a forma di angioletti argentati.
“Cinque minuti ed è pronto!”.
In cucina, l’ex-suocera stava occupandosi dei tortellini, mentre l’ex-consuocera di questa chiedeva stupidi ragguagli su ripieni e cotture.
“Vado a fumare una sigaretta, torno subito”.
Tea si mise il cuore in pace: se Patrizia fumava, non poteva essere incinta. Sì, l’aveva nascosto anche a se stessa, ma era la cosa che temeva di più un figlio dei due. Aveva pensato che quel pranzo fosse l’occasione per rivelarlo alla comunità intera, crudelmente e platealmente, altrimenti che senso aveva fare un pranzo tutti insieme? E invece no, l’intenzione era veramente quella di fare stare Lorenzo con la famiglia al completo il giorno di Natale.
“Tea, tu fumi?”.
“No, oddio, può capitare ma direi di no”. Mentre pronunciava queste parole Tea pensò di non essere ancora in grado di parlare con Patrizia. Poteva dire no e basta e invece no, quel “può capitare” detto con un mezzo sorriso. L’aveva fatta sentire stupida.
“Mi accompagni un attimo? Ti va?”.
“Ecco, mi tratta come fossi amica sua. Ma chi ti vuole. Adesso mi dice che è incinta”. Tea non avrebbe voluto starle vicino, ma doveva liberarsi dei pensieri che giravano a vuoto: se ci fosse stato un bambino in arrivo lo avrebbe saputo subito. Via il dente, via il dolore. Prima o poi sarebbe successo.
“Ma sì,” rispose con finta disinvoltura.
Uscirono in giardino. Patrizia accese la sigaretta guardando lontano, con gli occhi stretti. D’improvviso disse: “La conosci Elena Sabelli?”. “Se la conosco! E’ una mia amica,” rispose con fierezza. “E’ una mia amica: non tu, chiaro? Elena è una mia amica”. Questo prosieguo lo tenne per sé.
“Suppongo stiamo parlando della stessa persona: biondina, intellettuale…”. “Perché mi chiede di Elena? Ah, adesso si prende pure le mie amiche! Non ci credo!”. I pensieri correvano veloci. Ma Elena no! Lei era quella, tra le sue amiche posticce, che più somigliasse ad un’amica. Lei c’era quando si è separata. Lei ha tentato di parlare con il suo ex-marito. Lei…
”Ha una storia con Sandro”.
“Con Sandro? Come?”.
“Lo chiamava sempre. Voleva sapere come stava, lo chiamava a casa”.
“Da quanto?”.
“Tre, quattro mesi. Me lo ha detto suo marito”.
“Ma è vero?”.
“Tea, per favore, perché non dovrebbe esserlo? E poi ho le prove”.
“Ma lui come l’ha scoperto?”.
“Lo sospettava e poi hanno fatto un week-end in Spagna due settimane fa, e lui ha monitorato tutto. Li ha visti in aeroporto. Ha scattato le foto. Io sapevo che Sandro doveva essere ad una convention di avvocati, a Roma, mentre lei aveva detto che era impegnata con l’università: ricerche, robe così”.
Se pensi che il mondo ti sia crollato addosso, oh, sappi che la realtà ha in serbo soprese. Come dopo uno schiaffo ben assestato, o un tuffo da un trampolino altissimo, così si sentiva Tea. Non sapeva se stesse provando odio, senso di liberazione, o compassione. O forse tutto quello, insieme. “Ora capisci cosa significhi”. Forse voleva solo farsi una grande risata. Quell’uomo bello e buono, che per un po’ era stato suo, si dimostrava solo un debole alla ricerca di conferme continue.
“Lo so. Non posso chiederti scusa. E’ successo. Ma per me non è mai stata una storia così per dire. Io lo amavo. Adesso non lo so. Mi accorgo di non sapere chi sia Sandro”.
“Sandro non era così”.
“Sandro ti ha tradito anche prima del matrimonio. E’ stata l’unica volta, prima di me, ma è successo. Almeno così mi ha detto lui”.
“Ah sì, e con chi?”.
“Boh, una che aveva conosciuto in facoltà”.
“Gaia”.
“Allora lo sai”.
“Una volta è venuta a cena da noi. Il suo fidanzato era via”.
Silenzio.
“E’ quasi pronto! Entrate?”. L’ex-suocera si sporse fuori, guardò le due donne di suo figlio, forse avevano fatto amicizia. Ebbe anche il tempo di dire: “Ah, Tea, bella la teiera araba!”.
Patrizia guardò Tea. “Mi dispiace per Lorenzo, ma io adesso entro e faccio vedere le foto a Sandro e gli chiedo chi è davanti a tutti, e poi dico che lo so chi è, che conosco suo marito e Buon Natale Sandro”.
Entrarono in casa. I tortellini fumavano nei piatti.