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concorso (56)

Alla fine dell’ultima rampa di scale Riccardo si trovò davanti Nando, il collaboratore scolastico che, preceduto dalla pancia esuberante, mortificata in un’incongrua polo slim fit, avanzava col suo solito passo strascicato lungo il corridoio del secondo piano. L’uomo si tirava dietro, con la consueta imperturbabile calma, tutto l’armamentario che gli serviva per la sommaria pulizia delle aule. Quando lo vide, lo apostrofò sorpreso: «Professore, non pensavo che fosse ancora qui, ha telefonato la preside, la cercava!». Di sicuro la dirigente voleva vederlo per i saluti, non era ancora riuscito a incontrarla, né era sicuro di volerlo fare prima di andarsene. «Grazie, ho da sbrigare ancora un paio di cose, poi passo da lei.», rispose lui, tanto per dire, poi si avviò veloce verso la quinta C, superando Nando, sul cui viso affiorò un’espressione rassegnata: doveva essere proprio quella la stanza in cui aveva intenzione di recarsi, per espletare alla svelta le incombenze di fine giornata.
L’aula era vuota, constatò Riccardo con sollievo. Aveva evitato di proposito di incontrare gli alunni, usciti un’ora prima per l’assenza del collega di fisica. Gli addii ufficiali lo mettevano a disagio, da sempre. E poi gli ultimi minuti dell’ultimo giorno in quella scuola voleva passarli da solo, in una sorta di intimo raccoglimento. La data ufficiale per la fine delle lezioni era in effetti l’indomani, il suo giorno libero, quindi per lui quelle appena trascorse erano state davvero le ultime ore in classe. Alle fine degli scrutini, fissati per l’inizio della settimana successiva, avrebbe salutato in modo definitivo quell’istituto e quella città. Con un innegabile senso di liberazione, doveva ammetterlo: si era adattato con fatica alla mentalità un po’ gretta e provinciale della gente e dei colleghi, ma entro qualche giorno si sarebbe lasciato tutto alle spalle, rifletté compiaciuto. In fondo il rapporto a cui teneva di più, quello con gli studenti, dopo piccoli scontri iniziali di adattamento alle reciproche idiosincrasie, aveva funzionato abbastanza bene, ed era l’unica cosa che contasse davvero. Stava facendo il giro delle sue classi per togliere dai cassetti delle cattedre i libri e i fogli che vi aveva accumulato nel tempo: quello in sala professori lo aveva già svuotato e aveva consegnato in presidenza, e all’oblio eterno, i fascicoli di verifiche corrette che conteneva.
Quella scuola era un’istituzione nella piccola città: lui ci era arrivato sei anni prima, dopo il passaggio in ruolo, attratto dal numero di cattedre disponibili in provincia. Allora era sua intenzione chiedere il trasferimento non appena i tempi fossero stati maturi, ma poi l’idea di abbandonare l’unica classe che avrebbe potuto portare fino agli esami lo aveva convinto a rimandare e, quando la possibilità di tornarsene dalle sue parti, al nord, aveva coinciso con la fine del corso di studi della quinta C, aveva avviato le pratiche. Quell’anno, inoltre, i commissari di Lettere, la sua materia, erano esterni, quindi lui aveva chiesto di far parte di una commissione nella sua provincia d’origine, e l’aveva ottenuto. Per cui non gli restava che caricare i bagagli, già quasi tutti pronti, nella sua Opel Astra familiare, restituire le chiavi del mini-appartamento ammobiliato al proprietario, e riprendere la strada di casa. E magari anche cercare di recuperare il rapporto con Giulia, la sua compagna: si era logorato parecchio in quei sei anni di incontri a metà strada, nei fine settimana, durante l’anno scolastico, e per periodi più lunghi, nella loro città, durante le vacanze. Le approssimative teorie secondo le quali i rapporti a distanza dovrebbero creare aspettativa e desiderio nella coppia erano state ribaltate senza scampo dalla verifica effettiva. Si erano presto resi conto di quanto fosse tutt’altro che romantico affrontare un viaggio alla fine di settimane spesso faticose. L’idea di incontrarsi in alberghi modesti, gli unici che potessero permettersi, per stare insieme una manciata di ore, e poi ripartire ognuno per la propria destinazione, con la prospettiva di affrontare la stessa trafila a distanza di qualche giorno, era diventata alla lunga insostenibile: il pendolarismo amoroso logora, ormai nessuno dei due se la sarebbe sentita di mettere in dubbio quell’assioma.
Seduto dietro la cattedra, nell’accingersi ad aprire il primo dei cassetti in alto, abbracciò con lo sguardo l’aula che, senza la vitale irrequietezza dei ragazzi, a fatica imbrigliata da regole e estenuanti tentativi di concentrazione durante le lezioni, si mostrava nel malinconico grigiore tipico dei luoghi da tempo abbandonati al proprio declino. Alle finestre c’erano ancora i grandi fogli di carta da pacchi bianca, usati per schermare i vetri dal sole che, a una certa ora della mattina, a partire dalla primavera, infieriva implacabile nell’ambiente di pochi metri quadrati, in cui erano stipati quasi trenta alunni. La Provincia, responsabile della manutenzione, aveva altre priorità, che escludevano le tende. E loro avevano dovuto arrangiarsi. Quella, inoltre, era una delle aule in cui l’anno precedente non erano riusciti a imbiancare le pareti poiché, completato il piano terra e il primo piano, si erano fermati per mancanza di fondi, rimandando i lavori a una data successiva. Cioè sine die. L’aspetto positivo di tanta trascuratezza erano le scritte accumulatesi sui muri nel corso degli anni, negli ultimi cinque a opera della sua classe, che era rimasta in quell’aula dal primo all’ultimo giorno. Durante la sorveglianza, nell’intervallo della ricreazione, gli era capitato di soffermarsi a decifrare quei graffiti improvvisati e spontanei, spie di impulsi primordiali che, a detta di una sua collega, non mentono mai. Tra dichiarazioni estemporanee e accorate, apprezzamenti più o meno audaci delle varie parti anatomiche femminili, e in qualche caso anche maschili, spuntavano qua e là citazioni che tradivano umori e amori. Ricordava di aver letto qualcosa che gli ricordava il Macbeth, e di averlo detto, incredulo, alla classe, suscitando la loro ilarità. Si alzò, giro intorno alla cattedra e andò a controllare se ci fosse ancora: c’era. E a quel punto sapeva, essendone stato informato dall’autrice del plagio, che: «Quando è notte e il lupo grida all’ombra della luna, la danza delle streghe non porta mai fortuna.», non aveva nulla a che fare col bardo, ma era opera di tale Gabry Ponte, che lì dentro conoscevano tutti tranne lui. Però in seguito qualcuno doveva aver aggiunto, sotto: «È brutto il bello e bello il brutto, libriamoci per le nebbie e l’aer corrotto.» e, tra parentesi, (canto delle streghe, Macbeth, Shakespeare), con accanto il disegno di una faccina sorridente. La seconda citazione, certo frutto di una piccola ricerca del tutto volontaria, era destinata a lui, e avrebbe dovuto vederla prima, era ovvio. Ormai non c’era più tempo per scherzarci su con la classe, rifletté con una punta di rammarico. Sulla stessa parete, un po’ più a destra, c’era l’onnipresente e immarcescibile scritta in stampatello maiuscolo: DUX MEA LUX, di sicuro opera dell’irriducibile e altrettanto inconsapevole Renato Corda. Aveva comunque provocato una serie di reazioni: qualcuno aveva scritto ‘ossimoro’, con una freccia che partendo dal nome della figura retorica, andava a finire alla riga che sottolineava l’elogio. Quel commento non poteva che essere di Silvia Parisi, precisa e pignola, magari un po’ pedante, ma anche l’unica nella classe che potesse permettersi un’analisi del genere. Gli scappò un sorriso al pensiero dell’alunna geniale quanto scombinata: a guardarla nessuno avrebbe sospettato che fosse una studentessa modello. Si mimetizzava, e anche piuttosto bene, dietro stili e acconciature improbabili, proponendosi come alternativa alla tendenza comune. La sua versione degli ultimi mesi aveva una metà dei lunghi capelli ricci del loro colore naturale e l’altra metà di un turchese intenso. L’abbigliamento era in genere scelto sulla base di quella nuance, a volte per contrasto, altre per fare pendant, con risultati sempre e comunque d’effetto. Riccardo aveva sentito i compagni chiamarla strega turchina, conseguenza della sua universalmente riconosciuta ostinazione a non condividere il frutto del proprio studio con nessuno: non ne aveva mai fatto segreto, e la sua solitaria lotta per la meritocrazia non contribuiva certo a facilitarle i rapporti con i compagni. Sull’altro lato qualcuno aveva invece tracciato l’esclamazione ‘bimbominkia!’, con la solita freccia in direzione dell’invocazione nostalgica. E, proprio sopra la scritta originale, qualcun altro aveva parafrasato: DUX MEA CRUX, sintetizzando le reazioni di tutti gli altri.
Spostando lo sguardo notò, quasi dove la parete faceva angolo con la sporgenza che delimitava la porta, una scritta, piuttosto grande, affiancata da un cuore dentro cui erano stati disegnati occhi e una bocca sorridente: ‘Classe, vi amo!’ E vicino a questa confessione entusiastica e un po’ spudorata, c’era scritto ‘Tarquini sei un mito!’ Sergio Tarquini, il suo collega di Storia dell’Arte, godeva dell’ammirazione incondizionata dei ragazzi per la gestione disinvolta e scanzonata delle lezioni. Fu a quel punto che vide, proprio sotto il panegirico del collega, il proprio cognome seguito dall’aggettivo ‘infame’. E, come se non bastasse, qualcuno aveva aggiunto, con grafia diversa, ma tratto deciso: ‘E anche stronzo’. A suggellare la telegrafica ma incisiva sequela di epiteti, una data che risaliva a due anni prima. L’unico collegamento che riuscì a fare tra gli alunni della classe e gli autori di quelle espressioni di biasimo irriducibile fu con un ragazzo che era stato bocciato proprio quell’anno, soprattutto a causa delle insufficienze nelle sue materie. Uno dei due esegeti, ancorché ignoto, doveva comunque essere ancora tra i suoi alunni, meditò, e chissà se, nel frattempo, aveva cambiato opinione sul suo conto, si chiese con divertito stupore. Sorridendo a quel pensiero, e pur iniziando a sentirsi preda di un voyeurismo blando, ma irrefrenabile, si mise a cercare altre scritte che lo riguardassero. La ricerca minuziosa non portò però a nulla, dovette convenirne dopo qualche minuto suo malgrado, e con un malcelato senso di delusione.
Ripercorse con lo sguardo tutta la parete, memoria di cinque anni, o forse più, della vita scolastica dei ragazzi consumata in quell’aula. ‘Con i voti della Gravina ci giochiamo la schedina’, ‘ I was here, pensatemi sempre =)’. ‘Never a failure always a lesson!’, i loro messaggi affidati a quei muri scrostati lasciavano il segno dei loro giorni dentro quella stanza, diventando testimonianza di un mondo parallelo a quello in cui scorreva il resto del loro tempo. Gualtiero Rossi, sempre imboscato all’ultimo banco; Ilaria Vicini, talmente timida, che bastava guardarla per più di due secondi che faceva gli occhi lucidi, Bogdan Seciu, con la fissa del calcio. Rivide in un attimo le facce di ognuno di loro: facce a volte attente, a volte perse dietro chissà quali sogni, che nella frazione di un attimo potevano camuffarsi da incubi. Adolescenti intrappolati in un circuito da montagne russe, incalzati in un’alternanza vorticosa da paure e speranze. Gli tornò in mente la mattina che Nando era entrato in aula per comunicare alla classe che il loro compagno Daniele Selvi era stato coinvolto in un incidente la sera prima, ed era finito all’ospedale in coma. Rivide quelle espressioni sospese tra incredulità e sgomento. E rivide le stesse facce la mattina che Daniele, sorretto dalle stampelle, aveva fatto il suo primo ingresso in aula dopo due mesi di assenza insieme a Nando, che gli portava lo zaino con goffa solerzia. Ineffabili. Quel muro era la loro cronaca, felice e spensierata, come possono essere solo le storie che riflettono momenti di partecipazione nell’esistenza delle persone, un pezzo di tempo condiviso. Formula risolutiva di brandelli di vita espressa negli abbozzi di graffiti. Lui sarebbe partito, e i ragazzi avrebbero proseguito ognuno verso un suo personale percorso, lasciandosi dietro speranze, riflessioni, sfoghi, incisi su quella parete, forse il loro ultimo baluardo di libertà e leggerezza. Sarebbe rimasta l’effigie un po’ intemperante e essenziale di un periodo cruciale nella loro esperienza, finché qualcuno non avesse cancellato tutto con qualche iconoclasta pennellata di vernice bianca. Ma non sarebbe successo tanto presto, di quello almeno era sicuro.
Riccardo tirò fuori dalla tasca dei jeans lo smartphone e si mise a fotografare sezioni del muro: ne avrebbe portato con sé l’immagine in frammenti, visto che non poteva staccare l’intonaco solcato dall’istinto incoercibile dei suoi alunni. Per farci cosa non lo sapeva ancora, ma una parte di quella memoria voleva portarsela dietro. Quando ebbe finito, prese i suoi libri dal cassetto e uscì dall’aula, chiudendo la porta. Rifece le scale in discesa e, quando arrivò al piano terra, gli parve di sentire un brusio eccessivo provenire dalla sala professori. Proseguì lungo il corridoio, fino a raggiungere una posizione da cui poter sbirciare, senza essere visto. Stava accadendo quello che aveva temuto: avevano organizzato un piccolo ricevimento di addio a sorpresa, con i tramezzini e le bibite, disposti con precisione geometrica sul grande tavolo al centro della sala e inframmezzati a piatti e bicchieri di plastica. Muovendosi con grande circospezione per non farsi notare da nessuno, si avviò verso la porta laterale e sgattaiolò fuori, avviandosi a passo spedito verso il parcheggio. Senza fermarsi, si voltò a guardare l’austera costruzione in stile neoclassico, bizzarro compromesso tra lo stile degli architetti del ventennio e l’intitolazione a un partigiano. Ancora qualche giorno e poi sarebbe stato addio per sempre, per ricominciare altrove. A leggere altri muri.

     Non riusciva a prendere sonno: le parole di Mauro, il suo amico dalla sincerità spesso brutale, le rimbalzavano nella testa col ritmo ripetitivo e assillante di un tamburo sciamanico. «Mica penserai di riprenderti il tempo perduto?», le aveva detto. «Ma gli sbagli, quelli sì, si possono correggere.». Erano undici anni, nove mesi e cinque giorni che sua figlia non sapeva più nulla di lei. Il giorno dopo avrebbe compiuto sedici anni. Dopo estenuanti quanto vani tentativi di addormentarsi, Adriana si alzò e si mise al computer, ma non per lavorare al suo ultimo libro per ragazzi, non ce l’avrebbe fatta, era troppo turbata. Si accinse invece a mettere in pratica quello che, dentro di sé, aveva immaginato di fare un milione di volte, ma che non aveva mai osato fare. Iniziò a scrivere a Marta. Per raccontarle cosa era stata la sua vita dal momento in cui, circa dodici anni prima, era scappata dalla casa in cui abitava con lei e con suo padre. Quell’ultima notte, in effetti, lei non si era mossa dalla loro abitazione: era rimasta nascosta in cantina, da cui sentiva i passi dell’uomo, con cui era ancora sposata, che si spostavano frenetici da un punto all’altro del piano sovrastante, dove era la zona giorno. Arrivata in giardino, aveva imboccato la porta dello scantinato, che s’apriva sul retro della casa, approfittando del fatto che lui, che le era corso dietro quando lei si era precipitata giù per le scale, fosse risalito, forse perché bloccato dal pianto di Marta, svegliata dal trambusto.

     Le scrisse di come si fosse rannicchiata nell’angolo più buio, dove non arrivava neanche un filo della luce di cui la luna, piena quella sera, inondava la loro città. E di come se ne fosse stata là, immobile, come un animale braccato, tutta la notte, col terrore di fare rumore e che lui la sentisse.

     Il panico era aumentato alle prime luci dell’alba: temeva che si mettesse a cercarla. Invece, poco prima dell’ora in cui usciva di solito per andare al lavoro, aveva sentito che chiudeva a chiave la porta d’ingresso e aveva capito che c’era anche lei, Marta, con lui. In seguito era venuta a sapere che l’aveva portata da sua madre, forse perché era la cosa più semplice, oppure perché non voleva affidarla alla babysitter. La stessa che era rimasta con la bambina la sera prima, quando Adriana e suo marito erano andati a cena con i soci dello studio legale: sarebbe sembrato strano richiamarla dopo così poco tempo. E poi non era mai successo che si rivolgessero a lei di mattina, c’era sempre Adriana a prendersi cura di Marta, lui avrebbe dovuto inventarsi delle spiegazioni.

     Quando aveva sentito l’auto partire, aveva aspettato ancora una ventina di minuti, per essere certa che non tornasse indietro, poi era uscita dal suo nascondiglio. Non aveva le chiavi, la sera prima si era avventata fuori e quel pensiero non l’aveva neanche sfiorata. Si era avvicinata comunque alla porta: lui non si era limitato a chiuderla, ma aveva messo una catena con un grosso lucchetto tra un pomello e l’altro dei due battenti, con la chiara intenzione di impedirle in tutti i modi di entrare, anche nel caso avesse avuto una chiave. O magari voleva soltanto ribadire chi fosse il padrone lì. Quella mattina, dolorante e sconvolta com’era, non le era sembrato neanche strano: considerando la situazione, anzi, le era parso del tutto normale. E anche entrare come una ladra in quello che fino a poche ore prima era stato il centro di tutta la sua esistenza, era parte di quella normalità fuori da ogni logica. Sul lato posteriore della casa c’era l’accesso alla cucina: per fortuna lui non aveva pensato a chiudere la grata di ferro. Adriana aveva rotto con un sasso il vetro che ricopriva la parte superiore della porta e, inserita una mano tra le schegge, aveva tolto la sicura alla serratura e aperto. Una volta dentro, aveva disinfettato le ferite superficiali che si era procurata e fasciato stretto il polso sinistro, che le faceva male da svenire. Quindi aveva infilato a casaccio della roba in una valigia e telefonato a Dora, la prima persona che le fosse venuta in mente in quel momento. In quella città, a parte la famiglia e gli amici del marito, lei non conosceva nessuno: la gente che frequentava ruotava intorno al lavoro di Bruno, che era uno dei soci dello studio legale fondato da suo padre, uno dei più prestigiosi avvocati in città. I genitori e il fratello di Adriana vivevano in un’altra regione, lei non voleva coinvolgerli finché non avesse avuto le idee chiare sulla piega che avrebbero preso le cose. Anche se abitava lì da quando si erano sposati, non era riuscita a crearsi dei legami che fossero solo suoi, non ne aveva avuto il tempo né l’occasione. Ad eccezione di Dora, che aveva incontrato a un corso di scrittura creativa di cui la sua amica era docente: le poche ore dedicate a quel corso l’avevano strappata all’isolamento in cui s’era ritrovata quasi senza rendersene conto, e avevano fatto nascere una buona amicizia tra loro. Al termine delle lezioni a volte si fermavano a bere qualcosa e a parlare di libri: erano i suoi unici momenti di evasione dalla routine familiare.

     Quando Dora era arrivata le era bastata un’occhiata per rendersi conto della gravità della situazione; le aveva chiesto solo se avesse un posto dove andare. Lei le aveva risposto che non ne aveva la più pallida idea. Mezz’ora dopo era a casa sua: non le aveva fatto domande né mentre finivano di preparare i bagagli per caricarli in macchina, né durante il tragitto. Era rimasta da lei sei mesi, tanto le ci era voluto per iniziare a guadagnare qualcosa e avere la possibilità di pagarsi un piccolo affitto, in un appartamento nello stesso quartiere dove si trovava quello della sua amica, prima di trasferirsi nel piccolo paese dove ancora abitava, poco lontano dalla città. Pubblicava già con una certa regolarità racconti in qualche rivista e, con l’aiuto di Dora, che lavorava in un’agenzia letteraria, era riuscita a ottenere un contratto per quello che fu il primo di una lunga serie di libri per bambini. Nelle interminabili giornate che passava in casa, mentre Dora era al lavoro, si metteva al computer e scriveva, prendendo spunto soprattutto dai personaggi di una delle storie che era già stata inserita in un’antologia compilata alla fine del corso di scrittura. La trama e le gesta dei personaggi, un gruppo di animali di peluche, tutti schierati sul davanzale della finestra nella cameretta di una bambina, ognuno in attesa di qualcosa che, accadendo, faceva partire le avventure, si dipanavano quasi per conto loro. Ed era come se lei le raccontasse a Marta che, dal giorno in cui era andata via dalla loro casa, non aveva più potuto avvicinare. Tutte le storie, come quelle che le narrava quando erano sole in casa, da quel momento in poi avevano iniziato a scaturire senza interruzione, come se dovessero fare da collegamento tra lei e sua figlia, un ideale ponte di parole che unisse il suo pensiero a quello della bambina.

     Dopo tanto tempo, scrivere direttamente a lei, senza il filtro delle storie di cui si era riempita la vita fino a quel momento, le dava una sensazione di inquietudine e di liberazione, insieme. Le scrisse che l’aveva sempre seguita da lontano: sapeva in quale scuola di danza fosse andata e quante volte alla settimana; avrebbe riconosciuto tutte le babysitter che si erano prese cura di lei, le raccontò che qualche volta le aveva anche parlato senza che lei la riconoscesse e, subito dopo, aveva ricevuto una lettera di diffida dall’avvocato di suo padre, anche lui socio dello studio del nonno. Le aveva scritto che si era curata le ferite di quella notte, sia quelle più superficiali che quelle dell’anima, senza confidarsi con nessuno e senza denunciare nessuno: il braccio che le faceva male era fratturato, e lei non era voluta andare in ospedale, poiché temeva di dover riferire come se lo fosse procurato, e avrebbe dovuto spiegare anche i lividi diffusi su tutto il corpo.

     Le scrisse che a un certo punto l’uomo che aveva sposato si era trasformato in un’altra persona; gli impegni nello studio legale si erano fatti troppo pressanti per lui, non aveva retto allo stress, e lei era diventata la sua valvola di sfogo. In un crescendo esponenziale era passato dallo strattone, allo schiaffo, al pugno, ai colpi alla cieca. Quella sera lei lo aveva contraddetto a proposito del breve viaggio che stavano organizzando per la vacanza di Pasqua; non ricordava neanche più cosa avesse detto di preciso, e in lui si era scatenata una furia incontenibile, non aveva mai raggiunto quei livelli prima di allora. Il polso si era rotto quando era caduta tra il letto e il trumeau, che era lì vicino. Quando lui l’aveva vista per terra si era fermato di colpo, come se si fosse disinnescato qualcosa, era rimasto disorientato per qualche secondo, poi si era girato, forse per andare in bagno. Era stato in quel momento che lei aveva trovato la forza di alzarsi e di precipitarsi giù per le scale.

     Le aveva spiegato che, ignorando i consigli di Dora e di una donna avvocato a cui nel frattempo si era rivolta, non aveva mai voluto rivelare cosa fosse accaduto realmente: ne sarebbe derivato uno scandalo clamoroso, che avrebbe coinvolto troppe persone, a cominciare da lei, sua figlia. Per non parlare del personale dello studio: la famiglia del suo ormai ex marito era molto in vista, sia in ambito sociale che in quello professionale, e le ripercussioni sarebbero state inevitabili e pesanti. Però aveva dovuto subire le conseguenze di quel suo atteggiamento conciliante, perché loro, al contrario, non si erano fatti nessuno scrupolo nel massacrarla. Non era trapelato nulla dei veri motivi della sua fuga improvvisa. Agli occhi di tutti era stata lei ad andarsene, abbandonando un marito esemplare e una bambina piccola. Aveva scritto a Marta che l’avvocato a cui suo padre si era rivolto, molto più prestigioso e con molti più agganci della sua, aveva creato e prodotto un ampio dossier per farla apparire inattendibile e irresponsabile, sia come moglie che come madre. Non era stato difficile per Bruno ottenere l’affidamento: anzi, in seguito a un suo tentativo di riconciliazione, da lei rifiutato con fermezza, era diventato ancora più determinato e spietato in quel suo intento, ottenendo che lei non si accostasse a Marta per nessun motivo.

     Le parole dirette a sua figlia si erano riversate sulla carta come un fiume in piena: era bastato sollevare di poco lo sbarramento che le arginava e avevano inondato con impeto quel lembo di vita che ancora restava loro da condividere. Se solo avessero potuto stemperare l’aridità dei loro rapporti, e non trasformarsi invece in una palude stagnante: le sue emozioni avrebbero finito per esserne risucchiate senza scampo. Scrisse, senza mai fermarsi, fino a quando, dalla piccola finestra del soggiorno, al riflesso della luce giallastra del lampione si sostituirono le prime luci del giorno. Alle sette di mattina, stanca, ma con una strana irrequietezza addosso, che si combinava in modo strano con un piacevole senso di leggerezza, che non provava più da tempo immemorabile, si fece un caffè e una doccia. Si vestì e, dopo aver messo le dieci pagine, che aveva intanto stampato, in una busta chiusa, si avviò verso il centro del paese, per andare a prendere il pullman che l’avrebbe condotta in città. Voleva portare la lettera alla scuola di sua figlia, e chiedere a un collaboratore di consegnarla: a casa qualcuno l’avrebbe di sicuro intercettata, impedendo che arrivasse alla destinataria. Passando davanti al bar in piazza intravide Mauro, già seduto al solito tavolo, che leggeva il giornale. Entrò, avrebbe fatto colazione con lui, come sempre. Non aveva fretta. Non poté evitare che lui notasse la busta e, al suo sguardo interrogativo, gli sorrise. Mentre Lietta, la barista, serviva loro due cappuccini e le sue ottime brioche ancora tiepide, gli disse:

     «Qui c’è la mia vita, raccontata a mia figlia. Avrei dovuto farlo tanto tempo fa, ma era così piccola, non avrebbe capito. Forse non è troppo tardi. Chissà, magari ce la facciamo ancora a riconoscerci. E a correggere gli sbagli.». Tacque per qualche secondo. La sua mente era altrove. Riviveva altri giorni. «In fondo, quando eravamo insieme e mi era ancora concesso di essere sua madre, eravamo inseparabili, noi due, non può aver rimosso proprio tutto. Non è possibile. Non ci credo.», sembrava che volesse convincere se stessa, lacerare la trama fitta del dubbio che, resistente e inalterabile, avvolgeva come una ragnatela inestricabile i ricordi.

     Lui le prese una mano, la strinse tra le sue.

   «Brava. I silenzi distruggono. È ora di interrompere il tuo, una volta per tutte. Coraggio.», e la stretta si fece più forte.    

Alla vita e le opere di Simone de Renzo

Una cena di famiglia è sempre un’esperienza impegnativa: arrivi a casa, saluti, baci, abbracci, come va l’università, figlio mio bello, che corsi segui? Sei l’orgoglio della famiglia, tutti dipendono da te, per vantarsi con i vicini, per dare senso alle loro vite. Tu sei il Figlio, il primogenito maschio, sei il frutto di costrutti e obblighi sociali, ti sposerai, ingraviderai la tua donna: vivrai il senso della monogamia coronata dal “sacro vincolo del matrimonio”. Tu sei il frutto di sacrifici e rinunce e tutto dipende da te.

Stamattina ero nella mia stanza, allo studentato, guardavo Flinn, che non si chiama così, ma io lo chiamo così. Gli ho detto d’improvviso, come se lo realizzassi in quel momento: “Oggi scendo, torno dai miei.”

“E sticazzi non ce li metti?” rispose mentre accendeva una canna.

Flinn, il buon vecchio Flinn, è il mio compagno di stanza, un tipo grosso, grasso, che parla con un forte accento da uomo del sud della capitale. Lui, dai suoi, ci torna ogni fine settimana. Senza la mammina, lui, non farebbe un cazzo; è del tutto inadatto alla vita, ma il buon vecchio Flinn questo non lo sa.

Io, dipendesse da me, non ci tornerei mai a casa, ma non perché sappia badare a me stesso, anzi, io penso di esser ancor meno autosufficiente di Flinn. La differenza, tra noi, è che, io, ne sono pienamente consapevole. No, io non ci tornerei mai, lì a casa, dove ogni cosa mi ricorda la massima aspirazione di un ragazzo bianco benestante. Ogni cosa mi ricorda la mia sostanziale inadeguatezza al “ruolo”.

“Fammi fumare” dissi, di colpo, a Flinn, e lui, come al solito, mi lasciò la sua canna. È un galantuomo Flinn, mi offre sempre la sua droga. Questo è il mio modo di vivere, parassitario e a scrocco.

Il Padre è una figura archetipica o freudiana - se preferite -, è l’uomo alto con mascella virile che ti guarda e, forse, ti vorrebbe abbracciare, ma prima di farlo ti allunga una mano per un saluto da uomini veri. In quel momento ti senti virile come una principessina preadolescente, sei mingherlino, bianchiccio come i molto malati; porti capelli lunghi e unti da disadattato. Sei il fallimento frutto di anni di machismo, specie quando allunghi quella mano molle per una stretta da femminuccia.

E devi stringere forte, lo sai, e ti concentri a farlo bene. E alla fine ti convinci di riuscirci, ma il tuo orgoglio è frenato dallo sguardo del Padre che ti ricorda che non sei nulla.

Ogni tanto ci scappa un sorriso bonario, a quell’uomo, e ti ricordi che dietro al principe del foro, prima dei capelli grigi e delle spalle dritte, c’era un ragazzo con sogni e speranze; o quantomeno era uno con impulsi sessuali, sì, insomma, era uno che voleva chiavarsi tua madre.

Alla stazione dei bus, alcune ore fa, aspettavo la mia corsa. C’era Sam, che non si chiama così, ma io la chiamo così, a farmi compagnia. È una quindicenne a cui do ripetizioni; è di buona famiglia, di quelle con soldi e libri, non letti, sugli scaffali; di quelle famiglie con silenzi rancorosi e apprensioni maniacali.

“Ti posso fare un pompino?”, mi aveva chiesto.

“No.”

“Perché?”

“Come te lo devo dire che non mi piace la figa?”

“Ancora con ‘sta storia?! Perché non vuoi mettere il tuo cazzo nella mia bocca, santoiddio?”

“Mi piace il cazzo. Degli altri. Nella mia, di bocca.”

“So che non è vero, non sei frocio.”

“Non mi piace scopare.”

“Non ti piaccio io!”

“Forse, ma più in generale mi darebbe fastidio.”

La mia meschinità non è giunta al punto di profittare così di una ragazzina che si sente capita solo dal suo “mentore” o, più probabilmente, non mi va che questa ragazzina, una volta cresciuta, scopra che sono solo un uomo da sottosuolo.

“Come vuoi, ma tu sei strano.”

La Madre è una figura mitologica, metà bestia e metà cupcake. La donna più dolce, apprensiva e buona del mondo, un momento; un uragano di rabbia e frustrazione quello dopo. Per questo l’abbracci forte, la Madre, chiedendoti quando è stata l’ultima volta che l’ha fatto tuo padre, quando è stata l’ultima volta che l’ha desiderata davvero.

Avevo un’amica di scopate, una volta (no, non stupitevi, è normale che io faccia queste associazioni quando penso alla Madre). Ricordo quando troncai la cosa. Ero lì che non pensavo a nulla, spingevo il mio corpo esile contro quello di lei, grassa come poche, poi, d’improvviso, realizzai che avevo sfogato abbastanza e doveva finire. Eiaculai e dissi: “Ok, questa relazione può anche finire.”

“Come vuoi. Io non sono coinvolta, ma tu sei sicuro di chiuderla? Non è che hai solo paura di coinvolgerti troppo?”
Ricordo che guardai quella megattera spiaggiata sul letto con mal celato disprezzo. Non saprei dire se per me o per lei.

Poche sere prima aveva detto che mi amava ed io avevo risposto di restare fedeli al piano: “io ti scopo, tu mi scopi, il resto non ci interessa”. Ricordo che, mentre mi spogliavo del preservativo per rivestirmi, mi chiesi se esisteva una classifica della dignità. Per esempio, chi pratica sesso vantandosi che non è coinvolto e poi piange la fine dei suoi sogni Disney quando scopre che l’altra persona non lo è davvero, dove si colloca? Chissà se sono più su, o più giù, di quelli che su Facebook fanno l’elogio della solitudine e della bella vita, ma poi, al primo sorriso distratto che captano, partono con il: “Vi prego trombami, sposami, dammi figli!”. Ma soprattutto, qual è il mio posto, in questa classifica?

A tavola la Madre ha già preparato tutto, una donna emancipata deve sempre saper badare alla casa, non basta quante ore lavora, sono sempre meno di quelle del marito.

Prendi posto a sedere e ti rolli una sigaretta, tuo padre, rigorosamente a capotavola per leggi non scritte, se ne accende una già fatta.

“Come stanno andando i corsi?”

“Vorrei lasciare tutto e fare l’artista.”, lo pensi, ma ovviamente non lo dici. Ci vuole carattere per ammettere di essere un cliché, e tu non ne hai.

Rispondi, invece: “Regolare, pa’, tutto regolare…” e parte una conversazione sugli argomenti di studio. E ui è contento, e lui sorride; e lui è soddisfatto. Siete tutti contenti, tutti tranne Sorella Minore.

Arriva a tavola e ti guarda con disprezzo. Si veste da punk, si fa i capelli strani, si crede speciale. Crede che nessuno capisca che è in cerca di attenzioni spicciole; crede che nessuno sappia che la vita fa schifo, la società fa schifo, noi, facciamo schifo.

Sorella è una figura dolce, malinconica, romantica, sognatrice; crede che ci sia abbastanza disgusto in lei per scatarrarsi fuori da questo mondo. La guardi negli occhi e le dici, senza parlare: “io so di essere patetico, e tu?”.

Un tempo ero popolare, ero stato eletto rappresentante d’istituto, al liceo. Avevo il sostegno di Miriam, che non si chiama così, ma io la chiamo così, la mia ex. Lei mi rendeva sicuro, forte, mi spronava a fare attività interessanti. Buffo che non l’amassi affatto. Un giorno venne da me, visibilmente agitata e con occhi lucidi.

“Senti Simon” che poi non mi chiamo così, ma lei mi chiama così, “dobbiamo lasciarci.”

“Ok, posso sapere come mai?”

“Non ti amo più”

“E allora? Io non ti ho mai amata e non è che ti ho fatto problemi.” Non lo dissi, non ebbi modo di dire nulla, scoppiò a piangere.

Pensai che sarei arrivato tardi da Tony, che non si chiama così, ma io lo chiamo così, per il torneo di Tekken, ma poi provai pena per lei, l’abbracciai e finimmo a fare una delle migliori scopate, insieme, di sempre.

Mamma arriva con la prima portata e ti fa spegnere le sigarette. “Non si fuma a tavola”, lo sai, ma non farlo avrebbe tolto a lei il privilegio di dirtelo; e perché privare una donna del suo ruolo domestico proprio quando il figlio grande torna dall’università?

Così tu e il padre spegnete le sigarette e siete pronti alla cena.

Eccoci qui, dunque, una famiglia felice, uguale a tutte le altre famiglie felici che desinano parlando di amenità, come la politica.

La mia dolce sorellina, Lisa, che non si chiama così, ma io la chiamo così, si accende contro papà su Trump e la mamma cerca di fare la democratica, io finisco la frutta e mi rollo un’altra sigaretta. La scena, tutto sommato, è rilassante; tornare a casa non è così terribile.

Mi accendo la sigaretta, ma mamma ripete che non si fuma a tavola. La spengo e la metto dietro l’orecchio destro.

Papà mi chiede che voglio da bere, gli rispondo che un amaro va benissimo.

Lisa mi guarda come per dire: “ma lo senti quanto si sta rincoglionendo?”. Fa riferimento alla discussione che non stavo ascoltando. Le rispondo, sempre in silenzio, con sorriso e sguardo: “lo sai che ti provoca”.

Ha un bel viso, Lisa, sta bene anche con quei capelli strani che non le rendono affatto giustizia. Li porta, tuttavia, con autentico spirito punk. Quando mamma, notando, forse, il mio sguardo sulla mia sorellina, mi dice di dire la mia su quei capelli, non posso fare a meno di tradire la speranza di complicità e difendere Lisa.

Prima di cedere al cicchetto di amaro, che, per inciso, mi fa schifo, come tutti i superalcolici, vado in bagno a pisciare, poi vado in camera mia. È un luogo di foto, gadget, poster, un luogo dell’infanzia. Torno in bagno e mi sciacquo il viso. Mi guardo allo specchio. Ma sì, facciamolo. In fondo non c’è scopo, non c’è senso, non c’è nulla da vincere o da perdere.

Vado nell’ufficio di papà, apro il cassetto della scrivania e prendo la pistola, perché, oggi giorno, tutti hanno una pistola. La prendo. Nei film la impugnano sempre con grande facilità e leggerezza, non ti fanno capire quanto sia pesante.

Non avevo mai preso l’arma di papà. Ho sempre saputo dove fosse, ma, ovviamente, sapevo, per istinto, per educazione, per dovere morale, che non dovevo neanche avvicinarmi a quei cassetti. La impugno e una strana forza mi pervade il braccio destro, tutto in me si contrae, si indurisce, il cuore stesso è una pietra.

Guardo il mio riflesso alla finestra, ci punto l’arma contro e godo della mia immagine. Mi metto la canna in bocca e premo il grilletto. Una sensazione unica, un misto di adrenalina e paura mi pervade al momento del blocco della sicura. Sembra tutto vero. Cerco i proiettili, li trovo, la carico. Tolgo la sicura. Punto il riflesso, punto in aria, punto alla testa. Il mio riflesso sorride, non so perché. Assaporo il peso dell’arma nelle mie mani, la sensazione di poter decidere della propria vita e di quella altrui.

La voce di mamma mi chiama. Annuncio che sto arrivando. Metto l’arma nei pantaloni, dietro la schiena. Il corpo, al contatto col freddo del ferro, ha un brivido di piacere.

Torno a tavola e dico che stavo cercando una cosa. Aspettavano me per il dolce. Cosa aspettiamo?, sono qui. Mamma mi taglia una fetta di torta e me la mette nel piatto, fa lo stesso con gli altri. Oggi è il mio giorno speciale, un bel giorno in famiglia.

A metà della mia fetta sono sazio. Prendo la sigaretta dietro l’orecchio e la metto a tavola. Guardo Lisa, difronte a me, che mangia scomposta; mamma, alla mia destra, che mi sorride; papà, alla mia sinistra, che è concentrato sul suo dolce.

Sento la pistola dietro di me, mi eccita questa cosa che nessuno sappia che ci sia. La loro vita è regolare, felice, non c’è imprevisto così assurdo come un figlio armato a tavola. In effetti, perché dovrei essere qui a tavola con una pistola? Non ha senso. È uno strano film e spero che voi mi stiate vedendo e che vi stiate chiedendo che cavolo voglia fare con questa maledetta arma. Me lo chiedo anch’io.

Sapete cosa disse Hitchock? Se un fucile entra in scena, prima o poi, deve sparare. Ecco, questa cosa ha senso.

Porto la mano destra alla pistola, la estraggo puntandola alla testa di Madre. Sparo prima che qualcuno possa accorgersi di quello che sto facendo.

Il rumore sordo, il braccio che trema per il rinculo, lo schizzo di sangue che mi imbratta la mano e il viso. Sembra, quasi, che stia succedendo davvero!

La testa di Madre sposta il baricentro a destra, poi sbatte sul tavolo prima di cadere, insieme al corpo, sul pavimento.

Le orecchie ronzano. Tutto procede rallentato come in sogno. Le espressioni di Lisa e papà si modificano in smorfie di confusione e puro terrore. Non so come, non so perché, ma mi sto alzando in piedi per puntare l’arma verso il Padre. Due colpi al petto. Altri schizzi, stavolta sulla tovaglia bianca.

Padre fa un buffo salto sulla sedia verso l’indietro come se volesse cadere, ma la sedia non gli da’ soddisfazione e finisce, con una smorfia imbronciata, di faccia sulla sua fetta di torta. Una cena con torte in faccia, un classico, della commedia americana.

Lascio la pistola sulla tavola e mi siedo. Lisa è immobile, mi guarda.

“Buona la torta, eh?!”, ma non risponde. Mi accendo la sigaretta e guardo Madre.

“Guardala”, dico a Lisa, “ti somiglia. Sembra anche lei… una ragazza coi capelli strani.”

Solo a questo punto, Sorella Minore, sviene.

Che ci faccio qui?
Domanda esistenziale complessa, ma, intendo, che ci faccio qui, ad Amsterdam?
Incominciamo da quello che so. Mi chiamo Daniele Tenagli, ho passato i trenta e lavoro in una fabbrica di scatole, in Italia. Sono stato famoso un tempo. Vi ricordate quando c’erano i grandi movimenti di piazza da occupy stocazzo a “giù le mani dalla scuola pubblica”?, beh è passato un po’, non troppo per dimenticarsene, ma abbastanza per dimenticarsi di me; ero stato definito da qualche giornale straniero, non ricordo neanche quale, il “poeta di una generazione”. Quindi so che ho scritto poesie, so che hanno avuto successo, so che sono state tradotte in varie lingue e decantate in piazza. Deduco che di poesia non si mangi, ma per fortuna la gente ha bisogno di scatole per metterci dentro cose di cui non hanno bisogno per riempire un vuoto che due righe in versi rischiano solo di ampliare.
Questo background non mi dice che ci faccio qui, in questa città, che è esattamente come la ricordavo: un fottutissimo labirinto di strade dai nomi impronunziabili con sbirri in ogni dove e una noia che ti si mangia. Qua ci si viene da ragazzetti, per farsi le canne, e da vecchi, per spendere 15 minuti e 50€ con una maggiorata neo-maggiorenne.
Squilla il telefono.
—Pronto?!—, dico.
—Oi, allora? Sei arrivato?— voce di donna; affabile, vecchia amica; non è cambiata, è Ilaria.
—Sì, sì, ci sono, sto cercando il mio ostello.—
—Ottimo, fammi sapere quando ti sistemi, ci sentiamo più tardi.—
—Ok.—
—Ciao!—
—Ciao Ilà!—, mettiamo giù.
Ilaria, vive e lavora qui, è una vecchia amica, si è laureata in economia, ha fatto in Olanda prima l’erasmus e poi il dottorato; so che pensate, ma lei non fuma. Ci conoscemmo a scuola, sedicenni, può essere?, ma sì, tempi antichi, tempi di cotte adolescenziali in cui ti sbucci il cuore per una che “non voglio rovinare questa amicizia”.
Percorro tanteparoleinsiemestraat, svolto a sinistra, trovo un canale, attraverso il ponte, poi prendo paroleacasostraat e mi ritrovo in una strada uguale a quella di prima. Case storte, il canale, ponti, gente anonima che cammina. Insisto a seguire google maps finché non mi rendo conto che affidarmi ad esso è come lasciarsi guidare da un George Staub cieco.
Mi ritrovo a nomiacasostraat, in tutto uguale alle altre, ma noto che i coffe-shop hanno nomi diversi. Fiducioso continuo a camminare, accetto la monotonia come se fosse naturale e affronto il dedalo come nulla fosse. Male che vada becco il Minotauro che con una “clavata" pone fine a sta vita del cazzo.
Guidato dall’ispirazione mi ritrovo a Piazza Dam, “ok, da qui è facile” mi dico ottimista come un Icaro lanciato in aria.
Ridendo e scherzando sono all’orto botanico e sulla Plantage Middenlaan. L’ostello è da queste parti.
Arrivato a destinazione, mi libero dei convenevoli con l’ospite e vado a disfare lo zaino e a lavarmi.
Guardo l’orario, c’è tempo, per cosa non lo so, ma c’è tempo. Mi butto sul letto.
“Che ci faccio qui?”, mi chiedo.
La tromba del giudizio suona attraverso il nulla “sono pronto, Satana; finiamola qua e trascinami all’inferno, niente è peggio del castigo inferto da Dio: vivere!”, ma non è la tromba del giudizio, è il cellulare. Mi sveglio e mezzo rincoglionito apro la chiamata.
—Danié, allora? A che stai?—
—Sto.—
—Sì vabbé senti, io stacco tra un’oretta, ci vediamo a Piazza Dam? Sai arrivarci?—
—Sì, tutte le strade portano lì.—
—Allora tra un’oretta lì.—, dice perentoria.
—Va bene a dopo.—
—A dopo.—
Ormai sono sveglio, vale la pena farsi un giro. Mi affaccio alla finestra per assaporare il clima e decidere come vestirmi. L’imbrunire colora il parco di freddo, di grigio; è come un’alba invernale.
Si accendono i primi lampioni e un’immensa tristezza mi pervade. TICK-TACK, è il passo del Minotauro, arriva, ma io non sono pronto. TOCK-TOCK, bussa, ma io non sono vestito.
Con che abiti si schiatta? Che figura ci faccio se muoio in mutande?
Resto in silenzio, il mostro ringhia e se ne va, “ok, l’ho scampata”.
La notte scivola piano dietro le case tipicamente storte, i colori delle stesse vanno spegnendosi mentre i lampioni luccicano sui canali come vibranti coltelli. Farei una foto, ma avrei solo un evanescente ologramma della realtà, buona solo per dire “#Amsterdam” su qualche social.
Squilla il telefono.
—Pronto, Danié? Dove stai?—, è Ilaria, cazzo, sono in ritardo.
—Sono dietro l’angolo, sto arrivando.— dico e chiudo. Sono in nonsodovecazzostostraat. Prendo una via a caso. Mi dice culo, sono a Piazza Dam.
—Ehi!— fa Ilaria vedendomi. Smonto la faccia preoccupata e chiedo al cuore di battere calmo, ormai sono arrivato, ma lui non smette.
—Ciao.— dico con imbarazzo.
Bacio sulla guancia, abbraccio e il solito repertorio di “come stai?” e “tutto bene”.
—Beh allora? Che ci fai qui?—, mi chiede
“Già, che ci faccio qui?”, mi chiedo.
—Pensavo non ti fosse piaciuta granché A’dam.— dice, venendo incontro al mio silenzio.
—No, guarda, avevo dei giorni liberi, nessun impegno e la voglia di fare una vacanza.— dico, padrone di me, quasi.
—Sono contenta… Ma lo sai che qualche giorno fa ti stavo pensando?—
—Come mai?—
—C’era un reading di protesta qui a Piazza Dam, sai, di quelli che organizzano ogni settimana, perché, sì, insomma, qui quasi ogni settimana fanno qualcosa in piazza… vabbé, dicevo, l’altro giorno stavano facendo un reading in inglese e ho riconosciuto una tua poesia, come si chiamava… quella che dice che ogni poesia è una rivolta di massa…
—Ogni poesia è una rivolta dell’animo / l’animo della massa in rivolta è una poesia d’amore.— recito, ma non ricordo come va avanti, né come inizi, francamente.
—Sì, esatto.—
—Beh mi fa piacere che se anche non sia tradotto in dutch con l’inglese mi fanno passare un po’ ovunque.—
—Dai, ti porto in un locale qua vicino con musica dal vivo, così mi aggiorni un po’.—
—Ok.—
Per strada mi aggiorna lei. Vive qui, si trova bene, ha fatto tante cose, non ha una relazione da un bel po’, ma non le pesa perché il lavoro, che non so quale sia, la prende. Cammina veloce le sto dietro, mi guardo intorno e penso che sto per sprecare una serata in chiacchiere.
Finalmente arriviamo al locale. Suonano del rock. Ordiniamo due Amstal.
—Allora?!, dimmi di te.—
“Che cazzo vuoi che ti dica?”, penso
—Insomma, scrivi ancora?—, incalza lei.
—No, ho smesso.—
—Come mai?—
—Non ci tiravo granché.—
—E adesso? Lavori sempre in una fabbrica di scarpe?—
—Di scatole.—
—Sì, giusto. E come ti trovi?—
La musica parte forte e ci urliamo domande e risposte vicino le orecchie. Mi sento a disagio. La guardo negli occhi neri, le guardo i capelli in disordine, il viso struccato, e la riconosco: è proprio lei, la mia Ilaria. Il cuore è un tamburo. Poi, improvvisamente, il TICK-TACK. Il Minotauro annusa nostalgia ed entra nel locale, mi sta cercando.
—Andiamo fuori?—, propongo.
—Ok.—
L’aria è fredda, c’è lo sbalzo termico, chiudo bene il cappotto e la seguo.
Arriviamo in un parco e ci sediamo su una panchina. Siamo solo noi, la panchina e il palo della luce. Tutto intorno è nero, così alzo lo sguardo e vedo le stelle, ma l’universo mi angoscia, così guardo Ilaria, che guarda le stelle, e la cosa mi angoscia di più.
—Mi sei mancato— dice, e, d’improvviso, quelle parole mi arrivano come acqua gelida nel sonno, poi continua: —Non ci vediamo davvero da tanto, né ci sentiamo, ma è come se non ci fossimo mai separati.—
—Anche tu mi manchi.— le dico, ma sento che non sto esprimendo nulla di quello che vorrei dire.
Appoggia la testa sulla mia spalla e un brivido mi percorre. Guarda in alto, guardo lei, impietrito, infastidito dal disagio; una stretta allo stomaco mi fa mancare l’aria.
Mi guardo intorno aspettandomi che il Minotauro sbuchi da un momento all’altro. “Scappa”, le urlerei, “ci penso io”. Il mostro mi assalirebbe e SDONG, colpo secco; si stacca la colonna dal cranio e ogni mio disagio si spegne. SDONG, magari.
Mi sveglio nel mio letto, sudato. Non so cosa e se ho sognato. Io e Ilaria ci siamo dati appuntamento oggi al museo di Van Gogh, inizia il weekend. Io, Ilaria, Van Gogh… questa settimana può finire solo con una fucilata in pancia in un campo di grano.
Ci vediamo alla scritta “I’Amsterdam”, tutto procede tranquillo, non sa che tremo.
Passiamo di stanza in stanza, ci fermiamo ad ogni singolo quadro per ammirarlo, non servono parole, solo ammirazione. Percepisco la rabbia, la depressione, la paura, la speranza. Ha disegnato il suo mostro intrappolandolo per sempre. Quelle scarpe da lavoro che raccontano la fatica di vivere, la solitudine delle sedie, l’immensità dei paesaggi notturni, l’orrore del campo di grano. “Quanto ti capisco, fottuto pazzo”, penso.
Guardo Ilaria e mi viene un brivido. Siamo vicini, sembriamo una coppia sposata. Sentimenti che mi sembravano morti per sempre tornano più forti di qualsiasi mostro.
Guardo il quadro dei mangiatori di patate, sento l’odore della povertà, il ruvido delle mani levigate, la stanchezza del corpo. Osservo i volti uno ad uno e sono lì con loro, poi d’improvviso dico: — Da quando tempo ci conosciamo?—
—Sedici anni e 4 mesi.— dice prontamente lei, con la stessa maestria con cui ricorda tutte le date di compleanno di ogni individuo del mondo.
—E per quanto tempo non ci siamo visti o sentiti?— chiedo e la guardo.
— Tre anni e ventitré giorni.— mi dice come se fosse una risposta scontata. Non voglio sapere come fa ad essere così precisa, so che è una sua caratteristica, mi piace per questo.
La guardo, mi sta guardando. Così vicini, così lontani.
—Perché?— mi chiede.
—È tanto tempo.— rispondo sorridente. “La tua assenza mi ha trasformato in un mostro di Beksinski”, penso e mi chiedo se riesce a sentirmi.
Guarda il quadro e dice: —Sono contenta che siamo insieme, solo noi umanisti siamo in grado di capirlo.—
Mi limito a dire un semplice: —Già.— che suona come un “non so che stai dicendo, ma non m’interessa saperlo, quindi ti do ragione”, dannazione.
Sopravviviamo a Vincent e lei mi lascia per un impegno.
Cammino un po’ perso per la strada, non so dove andare né che fare.
Mi ricordo di un coffe-shop davvero bello, l’Hill Street Blues. Mi metto sulle sue tracce.
I pensieri mi ronzano in testa come pugni nello stomaco.
Tutto sommato questo labirinto non era poi così complesso, è il dedalo dentro di me che non trova ordine. Il filo di Arianna dei miei pensieri è Ilaria, ma sento che non è un filo ordinato, ma una matassa ingarbugliata che non mi guida da nessuna parte.
Arrivo in qualche modo al locale, non so quanto tempo ci abbia messo, certo non poco. Ordino un thé e prendo da fumare. Non ci capisco granché e chiedo l’erba più rilassante. Vado nella sala giù ed è come la ricordavo: graffiti, murales, scritte, ricordi e segni del passaggio di altre persone su tutte le superfici. Trovo i divani vicini al finestrone che dà sul canale e mi butto lì. Sorseggio il thé, fumo, guardo il sole giocare con le onde del canale e penso che tutto sia meraviglioso. Il tramonto, che portento!
Mi viene da ridere senza motivo. Sono assolutamente rilassato, l’acqua del canale scorre, la terra gira e l’universo esiste, mancano solo tutte le parole che avrei voluto dire a Ilaria e tutte le azioni che avrei potuto compiere per porre fine al limbo che ci divide.
TICK-TACK, eccolo, il mostro. Le voci si spengono, tutti scompaiono, siamo solo io e lui in un silenzio irreale. Sta all’inizio della scala, lo so. Guardo davanti a me, il canale. Sa che io so che è qui, sa che lo ignoro. TOCK-TOCK, colpisce il muro per dirmi che sta per scendere. “Lo so, scendi pure”, penso. TICK-TACK, ecco i suoi passi. Lenti, inesorabili. Lo zoccolo pesta il pavimento. Cammina, si fa sempre più vicino, il suono è sempre più forte. Il cuore mi sta per esplodere. Ormai è dietro di me, con la sua clava, pronto a finirmi.
—Pardon, do you wan’t anything else, sir?— mi chiede la cameriera. Sobbalzo un po’. Le dico di no. Non mi serve niente. Mi alzo e vado verso un altro locale. Ho i nervi a pezzi.
Brucio un bei soldi in alcolici, ma ottengo l’effetto desiderato. Il cervello è andato in pausa. Tutto è lontano, distaccato.
Esco dal locale e percorro ubriacocomeunostronzostraat. Penso a Ilaria, un chiodo fisso.
Trovo un pisciatoio e mi libero. I miei passi vanno da soli non so verso dove.
Il giorno passa con un dopo sbronza che mi ricorda che non ho più vent’anni. Non so come sia arrivato a casa, né come non sia caduto in un canale. Sono ancora qui, evidentemente il Dio degli ubriachi e degli innamorati esiste.
Cagotto, doccia gelata e colazione nordica. Ora posso anche accendere il cellulare e leggere il messaggio di Ilaria per stasera. Appuntamento a cena, a casa sua. “Dovrò comprare il vino”, penso.
La giornata trascorre tra entusiasmi e timori e mi sento Peter Walsh che va a trovare Clarissa Dalloway. In testa una sola domanda “che cazzo di vino bevono qui?”.
Alla fine sono davanti l’appartamento di Ilaria, come d’accordo. Fremo come un ciccione all’apertura del buffet. TOCK-TOCK, busso, stavolta sono io, a bussare.
Mi apre la porta una vecchia amica, un lontano ricordo di molte vite fa.
—Ehi!—, mi fa sorridendo.
—Ho portato del whisky.— già, niente vino.
—Ah… non avresti dovuto…—
In effetti non avrei dovuto. Ricordavo che non fosse un asso della cucina e infatti aveva già ordinato da mangiare e dovevamo dividere la spesa.
Parliamo, mangiamo, ricordiamo vecchie storie, vecchi segreti. Intere vite che avevo dimenticato tornano a pulsare nelle sue parole.
Non so dire quando ci siamo spostati sul divano, saremmo dovuti uscire, ma mentre lei parlava io versavo whisky. Non volevo farla ubriacare, volevo ubriacarmi io, ma è finita che eravamo entrambi brilli.
Non capisco più cosa stia dicendo. Qualcosa sulle poesie.
Sono sul divano con un bicchiere mezzo pieno di alcool. Lei ha un libro in mano, si stende sul divano, poggia la testa sulle mie gambe.
—La mia poesia preferita è questa: fiori in grembo.— sta parlando di una mia poesia, molto vecchia, una delle prime andate in stampa.
—Perché?— chiedo quasi ingenuamente.
—Perché parla di me.— dice come fosse ovvio.
Inopinatamente tutto mi diventa chiaro. La poesia, Ilaria, Amsterdam, il Minotauro, la “penna al chiodo”.
—Tutte le mie poesie parlano di te. Al di là di tutto ho sempre e solo voluto parlare di te, la mia rivoluzione, la mia camionetta in fiamme, la mia forza.—
Si mette seduta, mi guarda, mi trema la mano.
Mi cade il bicchiere e la guardo. L’afferro per le braccia.
—Sei tutte le mie rivolte, sei l’energia di una folla lanciata contro la celere, sei il cuore di un milione di persone che batte all’unisono.—
Mi guarda un po’ sbigottita e mi chiede: —Perché non me lo hai mai detto?—
—Perché avevo paura, così ho scritto, ti ho nascosto in una caterva di fogli...— abbasso lo sguardo— La poesia è il rifugio dei vigliacchi.— dico a me stesso.
Mi abbraccia, la bacio sulla guancia. Non si volta, non ricambia. Non c'è nulla da fare, nessun lieto fine. È sempre Ilaria e questa è sempre la stessa storia. Ci siamo detti “ti voglio bene” mille volte, ma abbiamo sempre inteso cose diverse.
Mi sento esausto dopo la confessione. Restiamo in silenzio, alla fine mi aiuta a stendermi sul divano. Tutto gira, ma non so se dentro o fuori di me.
Al mattino lei è nel suo letto, dorme. Le lascio un “Grazie” su un bigliettino e le do un bacio sulla fronte.

Tornato in Italia ripresi a scrivere. Realizzai una raccolta di poesie che decisi di chiamare “Adius, Amsterdam”. Inviai a Ilaria una copia autografa con la scritta “solo poesie che non parlano di te”.

E adesso che sei andata via, chi si sbaglia a mettere il sale nell’acqua della pasta? È la prima volta che devo cucinare per me. È la prima volta che devo cucinare in assoluto. Se fossi stata qui, mentre appoggiavi il piatto sulla tavola, mi avresti chiesto se era buona, e io ti avrei risposto che non era male, ma che era scarsa di sale, oppure che c’era troppo sale. Mai una volta che ti ho fatto un complimento vero, per come ti sbagliavi a cucinare la pasta. Ci sono ancora i piatti, i bicchieri, le tazzine di caffè del nostro ultimo pran-zo accatastati nel lavello. I segnali di una nuova vita da sin-gle si avvertono subito: i panni da lavare, il letto da rifare, il frigo vuoto. Davanti alla porta c’è un tuo calzino rosso. Ti sarà caduto mentre portavi via l’indispensabile. Le scatole dei panni sono rovesciate sul letto. I cassetti della cucina sono aperti. Ti sei fregata il mini pimer. L’avevo pagato io, il mini pimer. Più che un addio, sembra che siano venuti i ladri. Adesso mi sembra incredibile ripensare a quando que-sto appartamento era ancora vuoto e odorava di intonaco fresco. Quando siamo andati a visitarlo, mentre l’agente immobiliare spalancava le finestre per mostrarci la meravi-gliosa vista sull’iper Coop, spiegandoci che era proprio co-modo, poter tenere sott’occhio l’iper Coop, tu lo stavi già arredando con rapidi sguardi. Io questo l’avevo già previsto, e avanzai solo due umili richieste per le chitarre e i dischi di Bob Dylan.
«Amore, in quell’angolo potremmo mettere le mie chitarre». Ti dissi.
«Dove?».
«Proprio qui». Feci un salto sulle piastrelle dove avevo im-maginato di piazzarle.
«Sì. Mi sembra una buona idea».
Ci abbiamo installato un finto frigo americano anni cin-quanta, che quando lo apri in realtà è un armadietto. Per tenerci dentro niente. Flute da champagne, una bottiglia di champagne, una marca da grandi occasioni che non ab-biamo mai aperto, perché le grandi occasioni non sono mai arrivate. Nemmeno quando ti avevano assunta al centro estetico, perché ci hai lavorato solo una settimana, prima di tornare qui a sbattere la porta dicendo che la titolare era una stronza e che tu non ci avresti messo più piede. La Gibson Les Paul e la Telecaster sono finite in garage, den-tro alle custodie.
I dischi di Bob Dylan, almeno quelli, li avremmo potuti si-stemare su delle mensole montate in obliquo. Ci sarebbero stati da Dio, sopra alla televisione. Al posto delle mensole montate in obliquo c’è una stampa che ritrae uno scorcio della città di New York. Che poi sei sempre stata tu a so-stenere che si trattasse di New York. La statua della libertà non c’è, l’Empire State Building neppure, Central Park nemmeno. Non c’è nessun segno che ti faccia capire che è New York. Potrebbe anche essere Chicago, o San Franci-sco. A te bastava vedere lo scorcio di una metropoli che per forza doveva essere New York. Ma lasciamo stare. E ogni volta che, con una certa timidezza, provavo a mettere su Bob Dylan, iniziavi a sbuffare come una caffettiera.
«Togli sto Bruce … come si chiama, Springsteen per favo-re?».
«Amore questo è Bob Dylan. Bob Dylan. Non riconosci Mr. Tambourine Man?».
Tempo una canzone e mezzo e stavamo guardando Tutti pazzi per amore 4. Durante la mia prima serata da single mi accorgo, nell’ordine: cucinavi meglio tu, ed è tutto un dire. A sparecchiare, lavare e asciugare i piatti da soli ci si mette il doppio del tempo che in due, e questo può risultare anche banale, ma fa male lo stesso. Guardare quello che mi pare in televisione, non è così bello come me lo immaginavo. Potrei ascoltare Bob Dylan, ma non lo faccio, e non so perché. Allora prendo il tablet. L’ultima visualizzazione su You Tube è un discorso di quello psicologo che seguivi sempre tu. Quello che parlava della crisi di coppia, di come gestire il calo del desiderio, di come prendersi i propri spazi. È quello l’ultimo filmato che hai visto prima di decidere. Prima di lasciarmi un biglietto sulla tavola scritto con il pennarello viola, in cui mi comunicavi il tuo addio ufficiale. Spingo play e guardo lo psicologo. Ha le mani incrociate, i gomiti appoggiati alla scrivania. Il suo sguardo è grave, e aspetta qualche secondo prima di iniziare a parlare. Poi par-la. E spiega che quando l’amore è finito è finito, che se una vuole ancora bene a uno, ma va a letto con un altro, vuole più bene all’altro. E quando si arriva a questo punto, l’unica cosa da fare è lasciare quello a cui si vuole meno bene. Ma come si fa, come si fa a compiere il grande passo? A dare lo strappo, a staccarsi definitivamente dalla persona che si vuole abbandonare? È semplice. Bisogna prendere una borsa, metterci dentro tutti gli oggetti dell’ex, piazzarla al centro della stanza e guardarla. Poi bisogna chiudere gli oc-chi, fare un respiro profondo e liberarsi. Espirare. È su quell’immagine, dello psicologo con gli occhi semi chiusi e la bocca spalancata mentre sta buttando fuori l’aria, che il tablet si blocca. La connessione ha smesso di funzionare. Ripiego la custodia sopra lo schermo. Tu non l’hai fatta, questa cosa di mettere tutti i miei oggetti dentro a una bor-sa. Perché la casa è mia. Pagata con un debito a lungo ter-mine. Sai che faccio? Sono io, a mettere i tuoi oggetti den-tro alla borsa. Mica posso infilarceli tutti, adesso. Per can-cellare ogni tua traccia da questa casa dovrei chiamare una ditta di traslochi. Scelgo quelli che sono il segno più eviden-te della tua presenza e li infilo dentro alla shop bag del ne-gozio del centro in cui andavi a rifornirti di camicette da dodici euro e novanta. Quelle orribili camicette che mettevi una volta, massimo due se andava bene, e poi venivano stoccate dentro l’armadio. A rubare il posto ai miei vestiti. Tre quarti dell’armadio sono occupati dai tuoi vestiti. Se stavi qui ancora sei mesi mi sarei ridotto ad usare il como-dino di fianco al letto. Prendo il calendario degli alimenti dietetici, aperto al mese di ottobre, con la fotografia del melograno e la spiegazione di tutte le proprietà del melo-grano. Poi finivi per mangiarti sempre le patatine con la maionese e le caramelle gommose, e mi chiedevi se ti vede-vo grassa. Se non ti vedevo grassa, ti stavo dicendo una bugia. Se ti vedevo appena sovrappeso, giusto di un mezzo chilo, cominciavi a strillare come un allarme antincendio prendendomi per stronzo. Afferro la lavagnetta su cui scri-vevi tutte le cose che alla fine ti scordavi sempre di fare.
«Non sono mica andata a prendere lo smalto per le un-ghie, me lo hai comprato tu?». Mi dicevi.
«No, tesoro, io non so nemmeno dove si possa comprare, lo smalto per le unghie».
« Ma è scritto sulla lavagna».
«Sai che io non la leggo mai, la lavagna».
«Allora cosa la abbiamo presa a fare?».
«Appunto». Non sai che soddisfazione, adesso, metterla dentro alla shop bag. Ma soprattutto prendo il portachiavi a forma di gabbia per gli uccelli. Quello che devi prima apri-re la porta della gabbia, poi prendere le chiavi, ma con deli-catezza, perché è piccolo, e se non usi una certa delicatezza non ce la fai, a prendere le chiavi, perché le mani ti si inca-strano dentro la gabbia. Metti che uno ha fretta, ha un’emergenza, non è che può prendere le chiavi con un ge-sto rapido, come se fossero appese a un banalissimo porta-chiavi con i ganci, no. Metti che uno lo chiamano per un fatto grave, l’incidente di un familiare, che ne so, o ti sta andando a fuoco la casa e devi evacuare, non puoi pensare a infilare la mano con delicatezza dentro il portachiavi a forma di gabbia per gli uccelli. Quando domani verrai qui a prendere le tue cose, come mi informi sul tuo biglietto, io non ci sarò. Andrò al bar dietro l’angolo a mangiare un cornetto al cioccolato, a bere un caffè e a sfogliare la Gaz-zetta, senza leggerla. Poi andrò a buttare la shop bag nel cassonetto, dove avrò messo anche il tuo tablet, regalo di tua madre. Quando tu perlustrerai palmo a palmo l’appartamento per cercarlo e non lo troverai, e mi maledi-rai, io sarò dal tabaccaio a comprare un pacchetto di Ben-son rosse, perché da domani ricomincerò a fumare. Aprirò il pacchetto con calma, estrarrò la sigaretta rigirandola tra le mani, e cercherò di godermi l’attimo in cui il tabacco sfrigo-la a contatto con la fiamma. La prima boccata. Aspetterò tutta la mattina nel parco, fino a quando tu avrai preso tut-to e sarai andata via. Poi, a casa, accenderò lo stereo e ascolterò Bob Dylan. Sarà la prima volta che riuscirò ad ascoltare tutto il disco, senza che tu inizi a parlarci sopra. Quando Mr. Tambourine man uscirà dalle casse, nessuno lo scambierà più per un pezzo di Bruce Springsteen. Credo che sarà proprio in quel momento, che inizierò a sentirmi solo per davvero.

ADIUS, ANGELA!

Alessandro
Quando faceva quella cosa prima di addormentarsi io proprio non lo sopportavo.
Pensavo che un giorno sarei arrivata a legargli le mani e a tappargli la bocca con del nastro adesivo. Poi gli avrei messo la sua cazzo di pinza da nuotatore nel naso e Adios Alessandro, ci rivedremo nel giardino dell’Eden!
Con tutto l’alcool che ogni giorno offriva in sacrificio al suo fegato non si sarebbe nemmeno accorto di passare a miglior vita. E vi assicuro che non è affatto un modo di dire nel suo caso, dato che il massimo dell’attività giornaliera per lui era ridotta, da mesi, al passaggio dalla poltrona al letto con una breve sosta in bagno, quando era ancora abbastanza in sé da assicurarsi una pisciata in piedi.
Sembrava un asmatico: non appena raggiungeva la posizione supina, prima ancora che potessi accorgermi della sua assenza dal salotto, partiva un rantolo profondo che gli usciva dai polmoni e, passando per l’esofago, si faceva largo in mezzo ai denti saturando la camera da letto di whisky e succhi gastrici.
Lui non era un alcolista.
Ripeteva a tutti: «Lavoro tutto il giorno, non fumo, non vado a puttane. Mi sembra che un bicchiere di vino sia più che meritato!»
Un boccale forse, per non dire una damigiana.
Non so da quanto tempo non dormivo più nel mio letto, so solo che con la scusa che il vecchio divano non andava più bene per ricevere ospiti ne avevo comprato uno nuovo: bastava tirare una levetta ed ecco che in men che non si dica diventava un letto a una piazza e mezzo.
Così, dopo che Alessandro entrava in coma, io andavo in camera a disfare la mia parte per fargli credere che avevo dormito con lui e allestivo il mio rifugio in salotto, lontano da Darth Fener.
Non serviva nemmeno che mi adoperassi per svegliarmi prima di lui, le condizioni in cui si riduceva la sera non gli permettevano di sentire suonare la sveglia. Ero io, ogni mattina, a rovesciargli un bicchiere di acqua gelata in faccia per farlo riprendere.
Non faceva nemmeno lo sforzo di liberare le braccia: sbatteva gli occhi un paio di volte e, svogliato, si dirigeva in bagno a braccia conserte. Data la scarsa mira ho sempre avuto il sospetto che pisciasse anche nella stessa posizione.
Dieci anni e molti perché.

Darth
Ci eravamo conosciuti in oratorio quando ero ancora all’università. Alessandro ha sei anni in più di me e all’epoca lavorava già da cinque. Si è laureato tardi per potersi mantenere agli studi, con un padre infermo era difficile fare affidamento sulla sola pensione di invalidità.
Non ho mai avuto troppa fiducia in certi ambienti, nonostante li frequentassi con regolarità ma lui sembrava veramente un’eccezione alla media di persone che si vedevano circolare in chiesa la domenica.
Avevo lasciato il mio fidanzato di allora, il quale non ne aveva fatto una tragedia visto che la mia scelta gli aveva regalato la possibilità inaspettata di uscire allo scoperto insieme alla mia migliore amica.
Migliore soprattutto di quanto non lo fossi io per lui e anche migliore nell’ars amandi, che poi, oltre che amandi, parliamo di mentendi.
Nessuno prima di allora era riuscito a farmela sotto il naso con tanta maestria. Non mi ero accorta di nulla, nemmeno che quei chili di troppo che diceva di aver messo su negli ultimi mesi nascondevano in realtà un cicciobello in carne e ossa: cinque chili di bebè per cinquantacinque centimetri di lunghezza. Notizia che appresi da conoscenti comuni.
Con l’arrivo di Alessandro mi lasciai alle spalle tradimenti e vecchi rapporti per aprire la porta a nuove esperienze.
Nuovi conoscenze e nuovi tradimenti.
In particolare i suoi. Le sue relazioni erano in media cinque o sei. Contemporanee.
Per fortuna, tra tutte, ero la privilegiata: mi ero assicurata la convivenza, l’anello di fidanzamento e la forza oscura di Guerre Stellari.
Questa storia del respiro pesante andava avanti dalla prima notte in cui dormimmo insieme nel lontano duemilacinque, si era solo aggravata con l’abuso di alcool. Abitudine che gli aveva regalato il soprannome di Darth Fetor.
Alla soglia dei quarant’anni ho iniziato a fare due conti. C’è chi va in crisi per l’età e si vuole sistemare, chi pensa di stare invecchiando a valuta interventi estetici. Io volevo solo sesso, a quarant’anni non si può certo smettere di farlo. Del resto Alessandro aveva il sonno pesante e io, con leggerezza, ogni notte da quando aveva iniziato a bere, prendevo la porta di casa.

Incontro
Nel disco-pub dietro l’angolo avevo incontrato il mio principe azzurro: come la tradizione vuole non aveva nemmeno la patente e non potendo utilizzare il cavallo, prendeva l’autobus. Abitava dall’altro capo della città, da solo, faceva lo scrittore (o almeno così raccontava) e amava la birra fresca.
Ero appoggiata al bancone intenta a rispondere a un messaggio:
«Sei qui da sola?» mi chiese.
«Sì ma non voglio compagnia» rimpiansi queste cinque parole un secondo dopo averle pronunciate.
«Come vuoi, ti lascio stare» fece per voltarsi e andare via.
«Aspetta,» aggiunsi «sono stata scortese. È che non vorrei dare l’impressione sbagliata…»
«E quale sarebbe?»
«Di quella che è qui ad aspettare un uomo che con un paio di complimenti se la porti a casa» che era quello che volevo.
«Ok.» fece una pausa «Hai un bel culo, scopiamo?»
«Sono a piedi e abito qui dietro. Da me no, c’è il mio fidanzato.»
«Andiamo in cambusa, conosco il proprietario.»
Chiavi in mano, preservativi in tasca e rotolo di carta igienica.
La nostra prima volta fu molto più romantica di quanto a prima botta possa sembrare. Restammo sdraiati sul pavimento della cambusa a chiacchierare fino a chiusura e ci salutammo con un lungo e appassionato bacio alla fermata del bus.
Frittata alla fermata del bus, i pomodori verdi fritti forse Alessandro li avrebbe pure graditi ma di treni su cui salire, per me, nemmeno l’ombra. L’avevo fatta grossa, era la prima volta che lo tradivo ed era successo con un perfetto sconosciuto. Perfetto però sotto molti aspetti.
Ci eravamo scambiati i numeri e la nostra relazione andò avanti per qualche mese. Mi desiderava, mi capiva, mi riempiva di complimenti, promesse e regali e non mancava mai un appuntamento. Non trovavo i suoi romanzi in nessuna libreria della città ma poco importava, ero pronta a partire con lui su un intercity qualsiasi.
Una voce metallica un giorno mi avvertì che il numero da lei chiamato è inesistente. Aveva preso il treno, lui. Vaffanculo principe azzurro, vaffanculo!

Ultimatum
Fino a che non fui sostituita dalla bottiglia, credetti davvero che Alessandro per me fosse l’uomo ideale e che la nostra storia potesse durare per sempre.
Per sempre, che locuzione impropria. Come se non sapessimo che niente è per sempre, forse nemmeno la morte.
Eppure i primi anni della nostra relazione mi diedero tutto quello che da sempre desideravo. Alessandro era bello, profondo, intelligente, sensibile, innamorato e presente. Aveva amici quasi simpatici e il padre mi adorava.
Un giorno mi chiese di sposarlo con una semplicità disarmante: eravamo rientrati da una cena, mi aveva guardato e mi aveva detto «Io sono pronto».
«Per cosa, amore mio?»
«Per passare il resto della mia vita con te.»
In quel momento avevo sentito partire la sigla di Beautiful e visto cadere in una coppa di champagne un solitario in oro bianco. Mi fece trovare sul comodino una fedina in argento per bambini poiché le mie dita non concedevano acquisti superiori alla misura numero sette, accompagnata da una rosa e da un bigliettino sul quale aveva spruzzato un po’ del suo profumo. Mi ero sentita Cenerentola e in fretta avevo radunato squadre di topini che mi avrebbero aiutato col vestito e i preparativi.
Al rientro dalla luna di miele Alessandro di dolce non aveva che lo zucchero contenuto nell’alcool e, oltre all’hostess, con noi erano tornate anche una decina di bottiglie di whisky. Tutte nel suo stomaco.
Cosa avesse causato questo tracollo non l’ho mai saputo. Mi accontentai della sua risposta al mio «O lei o me.»
«Te. Purché resti anche il whisky.»
Fu così che decisi di provarci, per l’unica e ultima volta.

Sindrome
Ero sdraiata, prona, con il cranio fracassato, sul pavimento della cucina.
Anche in quelli che sapevo essere i miei ultimi istanti di vita Alessandro riusciva a mancarmi.
Era stata colpa mia se gli avevano preso i cinque minuti e, dopo aver distrutto tutta casa con una spranga di ferro, aveva deciso di farmi fuori.
Io non dovevo nemmeno essere lì.
La mia sindrome da crocerossina non era stata in grado di guarire lui più di quanto, in quel momento, non lo fosse di curare me.
Qualche settimana prima Alessandro aveva scoperto del mio tradimento: aveva chiesto di usare il mio cellulare perché il suo era scarico e nella cronologia della chat aveva visto i suoi messaggi. Si era infuriato, gli avevo rinfacciato di essere stato un ottimo insegnante. Allora lui si era calmato mostrando un finto perdono poi, aveva duplicato la sua dose giornaliera di whisky.
Presi la decisione irrevocabile di fare le valigie e di andarmene di casa. Non sarebbe stato facile, se me la fossi lasciata sfuggire, che un’altra via di fuga mi venisse offerta in maniera così semplice.
Mi sembrò l’occasione della vita fino a che il vuoto non divenne peggio della presenza di Alessandro.
Un giorno suonai al campanello della nostra vecchia casa.
Mi aprì. Mi fece entrare. Parlammo per quasi due ore e piansi a lungo sulla sua spalla. Mi tenne abbracciata fino a che non mi calmai. Iniziò a baciarmi lentamente, prima la testa, il viso, poi il collo, le spalle. Facemmo l’amore e ci addormentammo accoccolati.
Quando riaprii gli occhi lui non c’era. Mi affacciai in salotto e lo vidi seduto sulla poltrona. Ubriaco.
Io non so che cosa non gli piacque nel mio sguardo. So solo che prese la spranga da dietro la credenza e pochi secondi dopo mi ritrovai distesa per terra. Distrusse tutto quello che aveva intorno, l’unica cosa che risparmiò fu la bottiglia in cui teneva il whisky. Finito il lavoro, scansò una sedia dal tavolo e si sedette esausto.
Mentre respiravo muta dentro a tutto quel dolore, udivo solo queste tre parole: Adius, Angela! Adius!

La sera sopraggiunse a fatica. Irretita negli zero gradi supposti dal termometro appeso fuori dalla finestra del monolocale. Una scatola di quarantacinque metri quadri per due di altezza, sospesa al quinto piano di uno stabile qualunque in una città qualunque. Un contenitore in cui ogni rumore, quella sera, sembrava esser stato inghiottito dall’aria inerte, creando un silenzio denso e viscoso che ammantava le vibrazioni emesse dai miei polpastrelli intenti ad effettuare la consueta perlustrazione corporea.
L’aria si sciolse nel momento in cui le dita orientandosi tra asperità e avvallamenti entrarono in contatto con una lieve quanto nuova protuberanza.
Non era l’unica presente sul corpo, ma di tutte le altre ne avevo piena coscienza topologica e dimensionale.
Chissà da quanto tempo era stata lì, a scrutare l’ingenuità di un corpo ignaro della sua esistenza, sfuggendo al censimento tattile con cui sistematicamente esploravo quel multiforme universo di cui si compone la chimica nel punto di congiunzione tra l’io e l’altro; tra me e tutto ciò che non mi appartiene; tra l’essere e l’esistere: La pelle.
Ciò che rendeva la scoperta grottescamente affascinante era la sua collocazione. A dir poco insolita e irriverente.
Era la parete sinistra della sacca scrotale ad ospitare quella che sembrava una cisti, accumulo di grasso non meglio definibile. In ogni caso non un banale foruncolo da eccesso di sudorazione, né un volgare bulbo pilifero intento a deviare la sua parabola esistenziale; fosse solo per la spregiudicatezza di scegliere un luogo incontaminato da trentacinque anni.
Non molto grande, ma duro e sporgente al punto di modificare la morfologia della pelle circostante, l’ospite, era ben visibile da diverse angolazioni. Potevo scorgerlo in tutta la sua tracotanza dall’alto del metro che separa gli occhi dai testicoli.
L’istinto primo davanti a tali scoperte è sempre quello di applicare una lieve pressione per indurre l’ospite ad elargire ciò che in se custodisce. Tale pratica tuttavia presenta il rischio che la cisti si gonfi, aumentando con arroganza le sue dimensioni, nel caso in cui la mancata maturazione del sebo non approssimi quest’ultimo abbastanza vicino alla superficie cutanea, da renderlo in grado di raggiungere il mondo empirico a cui io appartenevo.
Considerata la delicata posizione, non potevo correre un rischio simile. Lo studiai a lungo e con il rispetto che solo uno stoico, ma non facile, distacco poteva consentire. Ne scrutai la forma e la grandezza richiedendo l’intera complicità che solo l’estrema duttilità della pelle scrotale poteva garantire. Il fine o meglio la speranza era quella di trovare una qualche sommità che lasciasse intravedere anche la più remota possibilità che ci potesse essere qualcosa in grado di fuoriuscire, un giorno, forse. Al momento, il nulla. Da qualsiasi angolazione lo studiassi risultava sempre uguale a se stesso.
Fiero nella sua interezza morfologica, non dava la minima impressione di poter elargire alcunché. Il luogo in cui si era insediato, inoltre, rendeva difficile un qualsiasi confronto dialettico. Azioni azzardate da impeti adolescenziali potevano far evolvere la situazione su binari quantomeno bizzarri. Non potevo correre il rischio di trovarmi un enorme bubbone ad intimorire la dignità ontologica dei miei testicoli.
Pensai, dunque, che non fosse conveniente accanirvisi, come spesso era avvenuto in altre circostanze, prima di conoscere quale natura esso celasse. Il momento in cui avrei avviato una trattativa con l’ospite in merito alla sua permanenza, sarebbe accaduto dopo, anche solo un infimo istante, ma pur sempre dopo, aver maturato la certezza oggettiva di poter uscirne vincitore. Non potendo avere la pretesa di riuscire in una azione ancor prima di iniziarla, decisi di comportarmi da persona matura.
Non per timore, mi raccontai, ma per un senso di rispetto nei confronti del mondo, nel non volerlo sminuire con la presunzione di essere sempre in grado di poterlo sopraffare.
Seguirono giorni di rispettosa convivenza in cui le nostre vite proseguirono parallelamente. Nessuno apparteneva a nessun altro se non a sé stesso, superando quella sorta di promiscuità esistenziale che stava attentando alla mia identità.
Avrei proseguito il mio cammino senza grossi sconvolgimenti. Nessuno lo avrebbe mai notato. Chi si fosse inoltrata in posti di siffatta intimità avrebbe avuto ben altro a cui pensare che notare l’ospite in fondo allo scroto.
Così l’incedere dell’ordinario assunse una consapevolezza superiore, di una manciata di millimetri, ma pur sempre superiore.
Durante il giorno me ne dimenticavo completamente, al punto che la sera nel ripetere la solita ricognizione lo riscoprivo puntualmente con reiterata sorpresa. Era forse un tranello, un artificio cerebrale, messo in atto affinché perpetuassi nel tollerare la sua presenza senza subirne il fastidio della resa. Un modo per tenere a freno l’impeto xenofobo costringendolo in solide gabbie logiche, fitte trame intellettive in grado di nascondere il baco.
L’impeto xenofobo tuttavia stava oltrepassando la soglia della latenza diventando sempre più difficile da arginare. Gli diedi la dimensione dell’esercizio dialettico al fine innalzare la sua dignità interlocutoria e sedare gli impulsi giovanili. L’ospite quale simbolo di una rinnovata maturità comportamentale, di un nuovo approccio, positivista, all’esistenza; in cui provare a sperimentare un sé diverso: pacato e imperturbabile, lasciandosi dietro ansie e inquietudini. Sicuro e fiero e mai più timoroso e vile. Divenne l’icona di una nuova frontiera esistenziale, un nuovo metabolismo emotivo.
Notai nei giorni che seguirono, come tale approccio venne ricambiato mantenendo intatte le dimensioni, il colore e soprattutto dispensandomi da qualsiasi tipo di dolore, e in stato di riposo e di deambulazione.
Guidavo l’auto, camminavo, pagavo le bollette, mi concedevo amplessi, giocavo a tennis, nuotavo, mangiavo, ridevo, sorridevo, mi inorridivo; non c’era. Qualsiasi cosa facessi, azione compissi; non c’era, era al di fuori del mondo sensibile.
La sera, aihmè, guadagnata la posizione orizzontale cedevo il controllo e lui prendeva il sopravvento. la sua esistenza veniva sistematicamente confermata dalla mia curiosità. Maggiore era la sua discrezione e invisibile la sua presenza nel corso del dì; altrettanto dirompente la sua irriverenza nel sancire se stesso, la notte.
Una battaglia combattuta su due fronti, anzi, due piani: il verticale e l’orizzontale.
Mi chiedevo fin quando la mia mesta rassegnazione potesse sopraffare l’incauto istinto di far deflagrare qualsiasi cosa venisse da me riconosciuta come estranea.
Un bisogno, il mio, diventato ormai ben più importante del banale desiderio di risolvere un mero disagio estetico.
Aveva assunto toni deliranti, in cui le esplosioni cutanee rappresentavano l’iconografia di una battaglia combattuta per scrollarsi di dosso il non necessario, gli orpelli che appesantiscono il corpo e abbrutiscono la mente. La volontà di scardinare le asfissianti strutture del senso comune che soffocano l’istinto del desiderio più puro. A comporre un universo di “umanoidi” efficienti e semplici, ma banali e posticci, educati e composti ma falsi ed artefatti.
Mi accorsi di come tali riflessioni si stessero svolgendo nelle parti più intime dell’essere: la mente e le mutande. E proprio li l’estatica illusione di poterlo ignorare venne prosciugata dall’ingordo desiderio di scacciarlo via. Sporgente e provocatorio lui, diffidente e ritratto io.
Decisi di dar respiro a quella parte di me che sperava nella maturazione seborroica in grado di sancire la mia vittoria. Non avrei tuttavia forzato, anzi compresso, la situazione più del dovuto. Questa volta era diverso si apriva un nuovo scenario. Volevo far tesoro dell’esercizio estetico cui l’ospite mi aveva sottoposto. Non potevo affrontarlo boriosamente come un comune foruncolo perso nell’ordinarietà della sua esistenza.
Ne scrutai nuovamente la forma, la dimensione e il colore, nessuna evoluzione rispetto alla perlustrazione precedente. La benché minima. Inesorabilmente fedele a se stesso.
Avviai le trattative assumendo un approccio che fosse la più alta forma di equilibrio tra istinto e raziocinio. L’istinto serviva ad abbandonare i timori di possibili effetti collaterali causati dalle manovre di compressione, le quali dovevano essere decise e di breve durata.
Il raziocinio operava nell’ambito del metodo. La tecnologia impiegata era quella di applicare pressioni di maggiore intensità nella zona periferica, posta alla base, proseguendo gradualmente e con minore decisione verso la sommità. Il fine perseguito era quello spingere verso la luce qualsiasi cosa si sperava ci fosse nel punto più buio della sua essenza. Procedevo seguitando ad alternare in un moto perpetuo i due elementi primigeni dell’essere, istinto e raziocino. Edificavo cattedrali gotiche in grado di congiungere il centro della terra all’ignoto spazio profondo.
La difficoltà maggiore nella messa in atto della strategia, era mantenere sempre le due forze, ben contrapposte, in equilibrio. Un Equilibrio dinamico, in grado di oscillare in favore dell’una o dell’altra a seconda degli accadimenti.
A volte però ciò che noi decodifichiamo come “sorte”, incapaci di accettare gli scherni di una vita senza senso, gioca a nostro favore. Un leggero scivolamento della gamba d’appoggio ruppe, infatti, la plasticità della mia postura causando una pressione maggiore di quella richiesta dalla strategia.
L’ospite cambiò abito lasciando intravedere un potenziale punto di rottura. la sua fierezza pareva barcollare e il connubio perfetto tra le due forze collassò.
l’istinto assorbì completamente anche l’altra metà del mio essere.
Ricurvo su me stesso, con il mento conficcato nel petto, sorretto da fasci di nervi cervicali duri come radici millenarie, ingaggiai una confronto animale profondo. la mia intera essenza risiedeva in quelle frazioni di polpastrelli, intenti a scuotere le sue viscere. Tutto me stesso si esauriva in quella manciata di millimetri e il mio universo biologico posto oltre, risultava una appendice senza senso, se al di fuori di quel dialogo primordiale.
Ero pura meccanica, eppure così profondo.
Inabissatomi nella spirale ontogenetica mi schiantai al suolo nell’istane in cui una percezione, una vibrazione sorda scaturita dal centro della terra mi investì risuonando negli arti flessi, nel tronco, in ogni singola fibra.
Mi parve di percepire una alterazione irreversibile. Aveva i toni della prostrazione, della riconosciuta superiorità; della resa. I suoni diventarono indistinti, la vista annebbiata dal dubbio: Astuta e dissimulatrice può essere la felicità… La vibrazione celava al suo interno l’identità segreta, un tempo impavidamente presunta, o era il mero prodotto di una suggestione ammaliatrice e fallace?
In quel momento un impulso, una qualche retro-scossa cerebrale, partita per sbaglio da quell’ammasso primitivo in cui mi ero aggrovigliato, trovò la complicità morale di una sinapsi romantica la quale veicolò sommessamente un messaggio al mio cervello, più rassomigliante ad un rantolo che espirò subito dopo esser giunto a destinazione. Emersi dall’apnea in preda agli spasmi. Respirai profondamente, lentamente.
Sentivo i muscoli decontrarsi, inseguendo un antalgico riposo, alla medesima velocità con cui il mondo sfuocato guadagnava nitidezza di fronte ai miei occhi. Il ritmo del respiro ne guidava la sincronia. Ascoltai i due ingranaggi scandire ancora qualche secondo quando il tempo si fermò nuovamente.
Quanto intenso può essere il sapore della felicità? Se la persistenza è nemica del gusto, posso dire che essa durò un istante istantaneo, una unità di tempo non misurabile e non divisibile in unità di tempo più piccole.
La sommità si era dischiusa e il desiderio si adagiò sull’altare della voluttà. danzavo sospeso al suono di una melodia nuova che accompagnava una liturgia vecchia. Solita e nota.
Non ancora sazia la mia primitiva avidità sentii l’estasi iniziale trasfigurare nelle tinte cupe della delusione e del disgusto.
La leggerezza con cui vigliaccamente l’ospite perseverava nel rivelare la sua falsa natura, magistralmente celata, mi mortificava.
Proprio lui, il simbolo della mia rivoluzione intellettuale, della ritrovata maturità comportamentale si tradiva con tanta superficialità. Immune alla vergogna.
Proprio lui, Il centro gravitazionale attorno al quale l’adulto austero e il bambino impenitente si erano inseguiti per giorni, scrutandosi, riflessi l’uno negli occhi dell’altro.
Non vi era dramma alcuno nel suo perire. Nessuna tensione lirica nel rilasciare la sua infima intimità.
Non rimase nulla dell’irriverenza iniziale, del suo fascino grottesco. Quanto a me, nessuna frontiera esistenziale da raggiungere, nessun approccio positivista all’esistenza da intraprendere, nessuna cattedrale gotica da erigere.
Solo un odore nauseabondo, da scrollarsi di dosso.
Il lezzo del disincanto.

Glauco faceva l’impiegato di magazzino. Ci può essere un lavoro più tedioso e riluttante dell’impiegato di magazzino?
Sveglia alle sei e trenta, colazione, bacio alla fidanzata che se la dorme soave. Puntata al bagno, acqua in faccia, vestiti indosso, colazione, salto sul terrazzo a respirare l’aria mattutina. Anche d’inverno, quando la brezza tagliente di dicembre o gennaio penetrava nelle ossa. Aveva bisogno di guardare il panorama, Glauco.
La loro casa si affacciava su un grande campo di grano. La strada che lo costeggiava era stretta, poco trafficata, una porzione d’asfalto che cercava di emergere nella vastità di quel giallo misto a verde sul quale, in estate, regnava un tramonto mozzafiato all’ora di cena.
Lavorava da otto anni alla Grar, piattaforma di stoccaggio per le merci in procinto di essere trasportate su gomma verso tutti i porti d’Italia, e da lì verso i mercati americani e asiatici. Distava circa una quindicina di chilometri da casa e la strada per arrivarci non era delle migliori. Dissestata in parte, con grandi voragini di asfalto sgretolato che in autunno, con le prime piogge, divenivano piscine.
Condivideva l’ufficio con altri tre colleghi, in quello confinante c’erano invece Diana, Sara e Lorenza. Tre arpie.
-Cioè tu hai dato conferma per lo stoccaggio dei tubi da 5 quando avevo chiesto espressamente di aspettare lo spostamento di quelli da 2?-
Incalzavano, sconquassavano, sentenziavano.
-Veramente ieri Sara mi ha detto il contrario.-
-Una volta su questi documenti oltre alla firma mettevamo anche una data… sono quindici anni che facciamo così!-
Glauco stavolta apponeva la data, perché mettersi a discutere era inutile.
Le giornate trascorrevano così. Tanto lavoro, trambusto ancor di più.
Le voci dei trasportatori che in pettorina fosforescente scendevano dai camion e facevano il loro ingresso nel magazzino schiamazzando e dando direttive per il carico, rimbombavano all’interno del grande capannone.
Poi verso le dieci arrivava l’agognata pausa caffè. Sovente Glauco non si prendeva quei quindici minuti perché aveva necessità di caffeina, ma per togliere testa e fisico da quella sorta di pressa dentro cui, anno dopo anno, era finito.

Quella pausa corrispondeva all’alzarsi della sua fidanzata.

-Il solito inferno… ti sei appena alzata?- interrogava Glauco in una interlocutoria telefonata che sembrava fatta più per contratto che per voglia.

Il titolare non c’era quasi mai. Arrivava, buttava lì anche lui un paio di leggi non scritte - tanto per gradire -, e girava i tacchi. Ma, per alimentare lo stress, le te arpie andavano benissimo.
Sembrava non andasse mai bene nulla all’interno di quel magazzino, qualsiasi cosa si facesse. Il pizzetto iniziava a macchiarsi di qualche pelo bianco, il sonno era disturbato, al sorgere del sole lo pervadeva un’ansia sempre più marcata, gli occhi erano veramente lo specchio dell’anima.
Glauco era l’eletto anche per le mansioni esterne. Ritirare documenti, consegnare liste.
Di frequente anche per cose che non c’entravano nulla col suo lavoro.
Un giorno aveva dovuto accompagnare il titolare dal medico. Forse aveva disimparato a guidare?
Glauco prese possesso della macchina aziendale e gli fece da autista. Attese due ore prima che lui entrasse. E nessuno dei colleghi mandava avanti ciò che lui aveva dovuto improvvisamente abbandonare.
Una mattina, durante l’ennesima pausa caffè, lo raggiunse Simona. Lavorava al piano di sopra, nell’ufficio del personale.
-Io inizio a essere stanco. C’è un sistema di lavoro che fa acqua da tutte le parti. Ormai ho perso il sonno-.
Alcuni documenti dovevano essere controllati da un ufficio esterno. Gli impiegati ne avevano poca voglia, tempo o predisposizione. Così Glauco aspettava invano il ritorno di quelle carte. Poi arrivavano tutte insieme: una pila di carta da stampare. E il mese successivo si ricominciava da capo. Documenti, controllo, errori, restituzione. E attesa del rientro delle copie corrette. Sempre così.
-Te l’ho sempre detto che qui non è tutto ora ciò che luccica. Anche all’inizio, quando eri entusiasta di essere arrivato qui-
In effetti all’inizio, otto anni prima, Glauco aveva legato con tutti. I colleghi non gli sembravano così malvagi, nel lavoro si era buttato con entusiasmo, era sbocciata una incoraggiante empatia. Aveva molto da imparare.
-Li vedo i tuoi occhi spenti. Lo vedo che sei cambiato- affermava sicura Simona.
Era cambiato sì. Sarà stata l’età, saranno stati gli stimoli, sarà stata la routine.
Glauco pensava che quello fosse il lavoro della sua vita, ma probabilmente si sbagliava. Si era legato alla Grar come ci si può legare a una famiglia, ma evidentemente aveva preso un abbaglio. Aveva un’altra età, un’altra visione delle cose.
Era più ingenuo, più distaccato. Oggi sembrava chiuso in un vicolo cieco.
-Mi sembra di essere all’interno di quattro mura, come quelle di una cella. La via di fuga è in alto, vedo una luce. Ma non riesco ad arrivarci-.
La quotidianità di Glauco aveva assunto le sembianze di una lavatrice incagliata. Usciva schiuma da sotto che sbuffava, sbroccava, sbrodolava. Continuamente. La schiuma dei giorni che trascorrevano su una linea retta, su di una rotta tracciata e senza soluzione di continuità.

Una mattina, che doveva essere uguale a tutte quelle degli ultimi otto anni, arrivò una telefonata.
-Scusate-. Glauco si assentò in tutta fretta, speranzoso che quelle copie del suo curriculum che aveva provveduto ad aggiornare, limare e rifinire, finite sulle scrivanie di molte altre aziende, portassero a un risultato.
Aveva deciso di concretizzare ciò che gli frullava nella testa da anni. Fiorenza lo aveva lasciato fare. Era determinato a cambiare lavoro, nonostante un contratto a tempo indeterminato, a patto di trovare pari condizioni, per porre finalmente fine a quell’agonia.
-Glauco?-
-Sì sono io-
-Sono Monica, della Airmax- Non gli era nuovo questo nome. Due settimane prima aveva letto un’offerta sul web: “Cercasi impiegato per il monitoraggio della merce in entrata e in uscita…” e altre amenità. Lo aveva letto sommariamente, e quello scopo assunzione lo aveva indotto a fare un tentativo. Sembrava il solito buco nell’acqua. Non fu così.
Alle 18.30 di un giorno di aprile, Glauco si presentò negli uffici della Airmax.
-Crediamo che lei abbia i requisiti adatti. Ha lavorato in modo capillare e totale in un ruolo analogo, ma, mi dica, come mai questa necessità di fuggire da un contratto così vantaggioso?-
Glauco riversò su di loro gli ultimi mesi colmi di vuoto, la mancanza di appagamento, il desiderio di cimentarsi in un ambiente diverso, con facce diverse, persino con colori diversi. A un certo punto si chiese se era giusto aver preso un colloquio di lavoro come uno sfogo adolescenziale con un amico.
-E adesso che penseranno? Che sono uno che cambia lavoro ogni otto anni? Che mi annoio di ciò che faccio dopo poco che lo faccio? Che…?-
Non ce ne fu il tempo. Il pomeriggio seguente, un’altra telefonata, dallo stesso numero.
Fabrizio, uno dei colleghi con cui divideva l’ufficio alla Grar, alzò gli occhi di scatto, sottraendoli alle carte che stava controllando. Forse aveva intuito qualcosa. Forse gli era arrivata qualche voce.
-Abbiamo deciso di prenderla. Abbiamo notato la sua determinazione, la sua personalità. Ci faccia sapere per il preavviso. Contiamo di farla iniziare tra il 28 e il 30 del mese-.
Glauco era fuori, nel grande cortile del magazzino, quando riagganciò il telefono. Era una giornata assolata, primaverile, calda. Mezzogiorno era vicino. Tutto intorno a lui appariva come una metafora. Il sole che torna a splendere, la luce, il tepore. Era come se una grande ruspa avesse rimosso il terreno spianando la strada davanti a lui. Tutti gli sforzi erano stati ripagati. La lavatrice era riparata. La schiuma si era come dissolta.

Glauco rincasò. L’animo scosso, il cuore in subbuglio; poteva mai provocare tanta gioia lasciare un lavoro per un altro? Infilò la chiave nella buchetta, aprì lo sportellino, estrasse il groviglio di buste. Pubblicità, pubblicità, pubblicità. Bollette. Bollette. Bollette. Prese l’ascensore, chissà perché aveva sempre la paura di restarvi bloccato dentro. Aprì la porta di casa. Fiorenza era lì, seduta sul divano, gambe nude, canotta rossa, testa china sulla mano sinistra in preda ai folli e irregolari movimenti di una lima per le unghie. Alzò di scatto lo sguardo.
-Ciao-
Glauco era ancora lì. Si arrestò sulla soglia tenendo in una mano il groviglio di buste, nell’altra la maniglia della porta, Fiorenza abbassò la testa ma la rialzò di scatto.
-Che hai?- Un meraviglioso sorriso era disegnato sul volto del suo fidanzato.
-Non so ancora se sarà il 28 o il 30… ma… vado alla Airmax-.
Era uscito da quelle quattro mura, che aveva raggiunto quella luce apparentemente inafferrabile là in alto. Fiorenza lo guardò stralunata.
Lì sulla soglia, ora si cingevano in un abbraccio.

La carne abbrustoliva lentamente. Lo sfrigolio della cipolla in padella si mescolava al possente rumore dell’aspiratore. La cena era quasi pronta. Fiorenza muoveva tra stoviglie, forchette, canovacci.
-Tra l’altro Ferrari lo conosco… era con me alle medie, non che avessimo un gran rapporto, ma la sua presenza mi ha messo a mio agio-. Ferrari era uno dei consiglieri del gruppo dirigente.
Avevano scherzato ricordando quei tempi, ma non era con lui che doveva misurarsi. Bensì con un altro Glauco, responsabile del personale della Airmax. Non vi furono toni intimidatori, la chiacchierata corse via. Lo capisci quando le cose stanno per andare per il verso giusto.
-Quando lo dici a loro?- interrogò Fiorenza.
-Domani. Appena arrivo chiamerò da parte Simona-.
Fiorenza andò a letto presto quella sera. Glauco uscì sul balcone, si accese una sigaretta, guardò lontano.
L’indomani Glauco si alzò presto. Non dormiva già più ben prima della sveglia. Lo assalivano i tormenti, come prima di un matrimonio. Sarà la cosa giusta da fare? Si sciacqua la faccia, armeggia con la caffettiera. Incrocia Fiorenza - nel frattempo si è alzata anche lei - stiracchiato sorriso da rimbambiti delle sette di mattina.

-Hai dieci minuti?- freddezza, distacco, finta serenità.
-Ho ricevuto un’offerta. Che ho intenzione di accettare. Ma per correttezza volevo prima informare voi e chiedere di essere ritenuto libero-
Simona aveva lo sguardo perso. Rimase colpita. Glauco non sopportava quel silenzio.
Avrebbe preferito una risposta pronta del tipo ah va bene, ok, be’, è un passo importante nella tua carriera, ci dispiace ma lo accettiamo. Alzò le sopracciglia Simona. Si fece cupa. Ma dovette accettare.
Quella puntina di pentimento, insicurezza, timore di aver fatto una cazzata, spingeva nel petto di Glauco. Era lì, pulsante, fastidiosa. Avrebbe, invece, voluto solo gioire. Ma erano giorni di passaggio. Erano normale quelle reazioni e ci sarebbe voluto tempo per quietare il vento forte del cambiamento.
Lavorò con il cuore più leggero. Non guardava più tutto con gli occhi di prima: se ne stava per andare. Tutti fecero come si fa ogni giorno. Controlli, bollette, carichi, scarichi, fatturazione.
Il giorno seguente qualcosa si mosse. Glauco venne convocato in ufficio. C’era Simona, c’era Sergio, il direttore dell’ufficio centrale di cui faceva parte. Un uomo con bretelle rosse su camicia bianca (ancora qualcuno che indossa le bretelle?!), stempiato, con un pancione da donna incinta.
-Allora, abbiamo saputo la notizia. Ora devo riorganizzare l’ufficio- disse con aria rammaricata.
-Eh già-
(Quindi? Che ci devo fare io? Non ho diritto a cambiare lavoro?) E altre amenità sull’occasione della vita, su un cambio di ambiente, sul se questa è la tua scelta fai pure, ci dispiace, ma fai pure.
Un calcio in culo insomma, vai pure se non vuoi stare tra noi.

Ottobre. L’estate è un lontano ricordo. Glauco guarda sconsolato fuori dalla finestra adiacente la sua scrivania. In agosto è dovuto rientrare dalle ferie in anticipo, c’era un sacco di lavoro da fare alla Airmax. Gli hanno dato anche un cellulare aziendale che squilla di continuo: quando Fiorenza gli è avvinghiata addosso sul divano a guardare la tv, quando sono alle Terme immersi negli accappatoi, persino quando scopano. I colleghi sono insopportabili. Essere lì o nell’aula di una scuola media piena di teppistelli è la stessa cosa. E anche qui, nessuno gli sistema gli arretrati. Glauco consulta lo smartphone quasi sempre in pausa pranzo: “Cercasi impiegato…”.

Aldo Zolla era il migliore amico di mio padre. Figlio del migliore amico di mio nonno si era trasferito a Torino per lavoro. Suo figlio, Bigio, aveva la mia età e, per tradizione, sarebbe dovuto diventare il mio migliore amico.
Bigio aveva le guance paffute e i denti sporgenti come uno scoiattolo, e il mio migliore amico non lo era affatto. Non lo vedevo per tutto l’anno, tranne quando la sua famiglia veniva a trovarci durante le feste di Natale e Pasqua, e alcuni giorni d’estate. Per l’occasione, in ricordo del tempo passato insieme, era solito chiedere a mia madre un mio giocattolo, che lei gli elargiva con larghi sorrisi.
L’ascia degli indiani d’America ad esempio, un po’ di costruzioni, a volte anche pezzi di puzzle. Avrebbe anche potuto prenderseli tutti, tanto, quando finivo di comporre quello che mi lasciava, l’immagine era quella di un bambino sdentato.
Io Bigio lo chiamavo “il Piantagrane” perché era solito fare dispetti.
Quando era nostro ospite usava le mie cose, specie la bicicletta: una Graziella rossa con cui scorrazzava per tutto il quartiere, importunando bambine e teppistelli di nota fama.
Io mi facevo i fatti miei e, malgrado ciò, delle sue scorribande rimaneva il mio nome, col quale si identificava giudiziosamente.
Più di una volta, quindi, fui omaggiato di ceffoni postumi da selvaggi avventori di quartiere, per fatti a me del tutto ignoti.
La Graziella rossa, infine, mi fu rubata mentre Bigio stava comprando caramelle gommose al negozio di Tina. Fu Diego Arpagone, il temibile abitante del rione, che per i sette anni successivi vidi impennare su quella bici sempre più piccola e veterana. Lui sempre più grosso e torvo.

Nonostante Bigio il Piantagrane, Diego Arpagone, i puzzle sdentati, i ceffoni e l’immagine della Graziella rossa, crebbi bene.
Ora posso dire di essermela cavata, ho un buon lavoro considerando i tempi, una discreta reputazione e sono ancora innamorato della figlia della lattaia. In realtà la signora lattaia non è propriamente una lattaia, ma un’energica donna che manda avanti un’azienda a gestione familiare.
Produce formaggi a pasta filata: i nodini, la spianata, le mozzarelle. Anche burrate, ricotta, provoloni. Milva, la figlia, è felice da sempre.
E io no. Lei di me non ne vuole proprio sapere, da sempre. La scorsa estate in occasione della festa del Santo Patrono l’ho chiamata in disparte.
«Milva» - le ho detto - «tu sei la mia vocazione».
«Ok Dino. Questa cosa me l’hai detta anche lo scorso anno, dietro la bancarella delle noccioline… io no. Non ho la tua vocazione, lo sai».
«Quale vocazione?».
Lei alzando gli occhi al cielo: «La tua, Dino».
«Ma se è la mia, è chiaro che non può essere la tua».
«Si, insomma, hai capito cosa intendo».
«No, io mi riferisco alla passione per l’arte» ho precisato.
«Arte? Ascolta, mi aspetta mia cugina…vado. Ciao!» ha detto allontanandosi.
«Quale cugina? Aspetta! Milva, torna indietro!».
«Cosa vuoi ancora? Mi stai stufando».
«Milva, io voglio dipingerti!» le ho detto prontamente.
«Eh?».
«Cioè… no. Non te. Voglio dipingere la tua immagine» mi sono affrettato a rispondere. «Da qualche mese mi dedico alla pittura e tu sei la mia ispirazione!».
Lei, scuotendo la testa, è andata via.
Ho dipinto venti volte la mia amata. La cosa mi è riuscita talmente bene che Bigio, che non ha mai perso la abominata tradizione di venire a casa mia, è rimasto incantato dalla mia opera.
Quando è andato a comperare le mozzarelle ha visto Milva alla cassa.
Bigio non si era mai recato a comperare latticini in tutti questi anni. Quest’anno sì. Così a Torino ha portato con sé due souvenir: le burrate e la figlia della lattaia. Io non dipingo più e ho la nausea dei formaggi.
Il latte, quello lo bevo. Lo riscaldo nel catino e quando arriva a bollore mi ricorda Milva, per via della schiuma. Quella che lei vedeva tutti i giorni passati a lavorare nel caseificio.
La schiuma dei giorni. E’ così che chiamo la mia rabbia, che viene a galla se penso alle volte passate a regalare a Bigio i miei giocattoli. Per fortuna non ha voluto il dipinto, altrimenti mia madre glielo avrebbe anche regalato, in ricordo del tempo passato insieme. Il tempo invece, adesso lo passa con Milva. A me i dipinti, a lui l’originale.

Comunque, la mia vita non è dipesa totalmente da quei due. Si, è vero, ci sono voluti alcuni mesi per riprendermi dalla delusione, ma poi è arrivato l’inverno.
Mi sono iscritto a un corso di balli latino americani e mi sono fatto crescere i capelli, per tirarli all’indietro e sentirmi più figo. Infatti al corso ho conquistato il cuore di Rachele: una donnona alta un metro e ottanta, dalla risata genuina.
Stretto nella sua presa vigorosa e morbida, mi perdevo dentro i suoi passi decisi.
Mi accarezzava la chioma affermando che i capelli folti l’accendevano, poi ha conosciuto Amilcare, un nuovo iscritto al corso.
Amilcare vendeva gatti persiani per lavoro ed era completamente calvo, mi chiedo ancora come sia successo e perché.
E’ rimasta la schiuma per capelli però. La schiuma dei giorni: è così che la chiamo, anche quella, se penso ai giorni passati ad acconciarmi la zazzera all’indietro, sognando Rachele.

Nel frattempo è arrivata l’estate. Faceva caldo e mi sono tagliato i capelli.
Benedita è la ragazza portoghese che ho conosciuto in occasione del mio viaggio in Croazia. Si, perché dopo l’ultima delusione amorosa, me ne sono andato in vacanza per una decina di giorni.
Volevo contemplare la natura e starmene in pace. Così ho preso la mia Clio, direzione Pola e addio per un po’.
Per intenderci, la Clio ha un ottimo motore e in ogni caso, dalla Graziella alla Clio è un bel passo avanti. Inoltre in Croazia ci sono arrivato dopo aver fatto tappa a Trieste, dove ho incontrato Benedita, che lavorava lì dando ripetizioni di portoghese.
Per farla breve: ero andato ad acquistare un po’ di cibarie per continuare il mio viaggio e l’ho incontrata, per caso, in un supermercato.
L’approccio non è andato nel migliore dei modi. Benedita stava prendendo una bottiglia di birra dallo scaffale mentre un’altra me l’ha fatta cadere sul piede. Io mi trovavo di fianco con lo scopo di intortarla.
Dolore a parte, lei proprio era convincente quando diceva di voler passare la vacanza con me. Infatti dopo una sosta di due giorni a casa sua, abbiamo fatto tappa a Rovigno.
Più che contemplare la natura dei luoghi, ho ammirato quella portoghese e sorseggiato birra. Poi siamo andati dall’affittacamere. Stavamo cambiando sistemazione perché l’alloggio che avevamo trovato era disponibile solo per qualche giorno. Benedita, però, il posto dove continuare la vacanza l’ha trovato senza di me, grazie all’affittacamere, che le ha proposto un’occasione unica: casa sua a costo zero. Io non potevo andare a casa dell’affittacamere, proprio non mi voleva.
Così siamo rimasti io e le bottiglie di Benedita.
Me ne sono tornato in Italia per meditare nel mio paese e starmene in pace, bevendo birra. La verso senza inclinare il bicchiere perché mi piace che faccia la schiuma.
La schiuma dei giorni: è così che chiamo quelli passati a sorseggiare e contemplare Benedita. Affondo le labbra nel bicchiere e ho già il suo aroma in bocca.
E comunque, sono ancora innamorato della figlia della lattaia.

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