Articoli filtrati per data: Agosto 2016

Ecco TAGGIASCO.

Il povero Taggiasco è un micio casalingo che dopo un anno e mezzo di vita in famiglia era stato abbandonato in una colonia dove ahilui si è preso tante botte dai gatti di strada.
Per fortuna è stato recuperato dai volontari dell’associazione Una casa per tutti e ora è in stallo che attende di essere adottato.
E’ Fiv positivo, ma essendo un gatto docile può convivere senza particolari problemi con altri gatti, aspettandosi comunque una lunga vita.
Verrà affidato con controlli pre e post-affido e firma del modulo di adozione.
Per informazioni potete contattare Elena al numero 340.2780698

 

Loro sono tre fratellini di nome ICS, IPSILON e ZETA.

Sono stati recuperati ormai un mese fa da una colonia di periferia in provincia di Torino.
Hanno dovuto combattere una dura lotta per sopravvivere alla gastroenterite virale, ma ora sono tutti vivi e vispi in attesa di essere adottati.
Ora hanno circa due mesi e mezzo e sono stati spulciati, sverminati e vaccinati.
Sono adottabili a Torino e provincia previo colloquio preaffido, firma del modulo di adozione e disponibilità a rimanere in contatto nel tempo.
Per informazioni potete chiamare Simona (dopo le 18) al numero: 320.3610165

Lei è VITTORIA.

Vittoria ora è in stallo a Torino, ma è arrivata dalla Sicilia con non poche peripezie, dopo essere stata abbandonata per strada.
E’ una cucciola di due mesi e mezzo dalla dolcezza disarmante.
E’ stata vaccinata e sverminata ed è ben socializzata con i cani e anche con i gatti.

Per lei si richiedono colloqui pre e post-affido, firma del modulo di adozione e sterilizzazione (una volta raggiunta l’età adeguata).
Per informazioni potete contattare Elena al numero: 340.2780698

 

Lui è FILIPPO.

Filippo è nato per le strade di Ginosa, dove fu recuperato e cresciuto in canile finché non venne adottato dopo pochi mesi da una famiglia che sembrava molto perbene.
Dopo un paio di anni però, sempre allo stesso canile, arrivò la segnalazione di un cane che vagabondava ormai da settimane in condizioni pietose… era Filippo.
Filippo ora ha tre anni, è tornato ad essere bellissimo, sano ed equilibrato.
Si trova in Puglia, ma per una buona adozione può arrivare ovunque.

Per informazioni o meglio, per adottarlo, potete telefonare al numero: 339.6390998

Lei è JACKIE.

Ha circa tre anni ed ha il carattere tipico dei terrier: vispa, allegra e giocherellona.
Dagli ultimi esami poi, la leishmaniosi sembra essersi quasi negativizzata.
Ora si trova al canile di Ginosa, ma per una buona adozione può arrivare in tutta Italia.

Per informazioni potete chiamare il numero: 339.6390998

Lui è nonno LEON.


Ha dieci anni, passati tutti in un orribile canile dimenticato della Basilicata.
Dopo tanto tempo però, l’associazione Una luce fuori dal lager è riuscita a dargli l’opportunità di essere adottato, portandolo in una pensione migliore in provincia di Como. Per lui si cerca una famiglia paziente, che abbia la capacità di rispettare i suoi tempi.

E’ una taglia grande, dalla dolcezza disarmante.
Verrà affidato in Lombardia e zone limitrofe.
Per informazioni potete scrivere una e-mail all’indirizzo: canilisaronno@gmail.com oppure contattare il numero 338.1658329 oppure 333.9521373

Lei è LARA.

Lara è una splendida cagna di due anni.
E’ equilibrata e ben socializzata con cani e umani adulti e bambini.
Si trova ne Il rifugio di fido a Pollenzo, provincia di Cuneo. Per informazioni potete contattare Gianna al numero 335.6594325

Ecco FRED.

Fred è un cucciolo di soli sei mesi, trovato nella spazzatura con i suoi fratelli, è l’unico della cucciolata a non essere ancora stato adottato.
Ha un bellissimo carattere ed è ben socializzato con gli altri cani.

Si trova in Puglia, ma per una buona adozione può arrivare in tutta Italia.
Per informazioni potete contattare Angela al numero 349.1179778

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Lei è MERLA.

Merla è una segugiotta zampa corta sicula.
Ha un anno, è di taglia medio-piccola, sterilizzata e vaccinata.
E' socievole, affettuosissima, allegra e brava con gli altri cani...un po' meno con gatti, conigli e galline.
Adora fare lunghe passeggiate durante le quali non sacca mai il naso da terra.

Attualmente si trova presso la casa famiglia per cani abbandonati “Lunacorre”, in provincia di Milano.
Per adottarla o conoscerla meglio, potete chiamare il numero 348.9325374 o visitare la loro pagina.

 

Loro sono MARÌ, MARIÙ e MARION, soprannominate “le tre Marie”.

La loro storia inizia tristemente, con un camionista che chiama il canile di Ginosa dopo aver avvistato le tre cucciole vicino al corpicino del fratello morto.
La volontaria accorsa sul posto le troverà solo dopo diverse ore in un vigneto non distante dal luogo dove erano state viste, strette l'una all'altra con aria spaesata.
Assomigliano a dei lupetti e si stima ariveranno a pesare sui venticinque chili.
Hanno tre mesi e sono state visitate e vaccinate.

Come tutti i cuccioli in genere, sono giocose e solari, lo si può vedere anche in questo video.
Ora si trovano in canile a Ginosa, dove si spera non rimarranno ancora a lungo.
Per una buona adozione possono arrivare in tutta Italia. Per loro vi è l'obbligo di sterilizzazione.
Per ulteriori informazioni o se siete interessati all'adozione, potete chiamare la volontaria Giusy al numero 334.8943804 oppure scrivere un'e-mail all'indirizzo: giusy.adozioni@libero.it

 

Loro sono KING e NERINA.

Da anni vivono in stallo temporaneo dopo esser stati recuperati dalla strad, ma per loro non è mai arrivata neppure una richiesta.
Hanno ormai sui quattro anni, sono sterilizzati e hanno imparato ad andare bene al guinzaglio.

King non sempre va d'accordo con gli altri cani maschi, mentre ha deciso che i gatti proprio non gli anno a genio. Nerina invece è ben socializzata con entrambi.
Per loro si valuta un'adozione solo in case con giardino purché ben seguiti e amati.

Ora si trovano a Costiera Sorrentina ma tramite staffetta possono arrivare in tutta Italia.
Per altre informazioni o per adottarli, potete chiamare Barbara Till al numero 338.1523411

 

Ecco MARADONA.

Maradona è un bello scugnizzo di Salerno, probabilmente incrociato con un cane corso.
Ora ha sui tre/quattro mesi e pesa venti chili.
E' un cucciolone affettuoso e socievole.
Ha già fatto il primo vaccino ed entro fine mese farà il richiamo.
Per una buona adozione può arrivare in tutta Italia tramite staffetta.
Per avere maggiori informazioni o se volete adottarlo, potete chiamare Giovanna al numero 328.8088283

 

SUGAR deve il suo nome all'infinita dolcezza con cui si approccia a tutte le persone che gli si avvicinano: adora le carezze, si struscia ed è un continuo di fusa.


Ha alle spalle un anno passato passato per strada in cui probabilmente ha contratto la FIV(aids felina).
Ora vive in una gabbia che patisce molto, in attesa di una famiglia che lo adotti.
Va d'accordo con gli altri gatti ed è FELV negativo, per cui non fatevi spaventare dallo spauracchio della FIV: può convivere con gatti sani senza il rischio che gliela attacchi.
E' adottabile a Torino e provincia, previo controllo preaffido, firma del modulo di adozione e disponibilità a rimanere in contatto nel tempo.
Per avere informazioni o proporsi per l'adozione, potete contattare l'Associazione Micio Villaggio all'indirizzo e-mail: miciovillaggio@gmail.com oppure telefonare o lasciare un messaggio al numero: 346.6147115

 

CARLETTO è un meraviglioso Pit bull tripode di quattro mesi.

Va d'accordo con cani, gatti e bambini.
Si trova in provincia di Torino ed è adottabile in Piemonte e nelle regioni limitrofe previo colloquio pre e post-affido ed obbligo di sterilizzazione.
Per adottarlo potete inviare un'e-mail all'indirizzo: maky@hotmail.it

 

Loro sono NOLE, PORTORICO, ROSITA e MELINDA e sono stati abbandonati ancora lattanti, dentro a uno scatolone sotto il sole.

Ora hanno circa tre mesi e mezzo e si trovano in Sicilia, ma presto arriveranno a Torino in cerca di una famiglia che li ami.
Sono una futura taglia piccola o comunque media molto contenuta e sono adottabili in Piemonte, Lombardia e regioni limitrofe previo incontro conoscitivo nella sede dell'associazione Canisciolti in provincia di Torino.
Per ulteriori informazioni o adozione, potete contattare Antonella (340.8368295) o Ester (347.8059303).

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domenica 7 agosto

- a Cividale (provincia di Udine), dalle 9 alle 18, si terrà Vegan Setup una giornata d'immersione totale teorico-pratica sull'alimentazione vegana.

Il seminario sarà tenuto da Stefano Momentè, giornalista, scrittore, editore che da anni si prodiga per la diffusione della cultura vegan in Italia.

Per informazioni potete scrivere un'e-mail all'indirizzo: chiara.catapano@yahoo.it

telefonare al numero 340.9358053

oppure visitare il sito.

- a Bagni di Masino (SO), in Valtellina, dalle ore 12 alle 16, i volontari del Gruppo Veg A.P.S. organizzano la Classica Polentata, giunta ormai alla sua settima edizione.
Il pranzo prevede: polenta, lenticchie, fagioli stufati, verdure, muscolo di grano (autoprodotto alla piota) e il dolce.
Nel pomeriggio ci sarà una presentazione dell'associazione “Oltre la specie”, a cura di uno dei fondatori.

La partecipazione è riservata agli associati; tutti possono associarsi al costo di 5 euro per famiglia (la quota associativa potrà essere versata direttamente il giorno della polentata), scaricando e inviando il modulo compilato che trovate a questo link.

- a Mesero, in provincia di Milano, presso la Fattoria Capre e Cavoli, che si occupa di sottrarre gli animali da maltrattamenti e recuperarli da allevamenti, dalle ore 12, si terrà un pranzo di beneficenza con i prodotti di Vegusto, al costo di 15 euro, il cui ricavato sarà destinato alla cura degli animali del rifugio.
E' necessario confermare la partecipazione inviando un'e-mail all'indirizzo: fattoriacapreecavoli@gmail.com

- a Feltre, in provincia di Belluno, dalle ore 14,30 alle 20, ci sarà una manifestazione pacifica organizzata dall'Associazione Onlus “Siamo tutti animali – Movimento Antispecista Bellunese” che già da diversi anni dichiara il proprio dissenso all'uso dei cavalli del Palio di Feltre.
Il ritrovo è alle ore 14,30 presso il parcheggio del supermercato accanto alla caserma dei vigili del fuoco.
Sono ben accetti cartelloni e bandiere.

Se siete interessati a partecipare o volete ulteriori informazioni, potete contattare il numero 328.6023695

- a Genova, dalle ore 15,30 alle 20, in piazza De Ferrari, ci sarà un presidio volto a sensibilizzare e informare tramite volantini, cartelloni e video, l'atroce sofferenza che si nasconde dietro al consumo della carne e di tutti i derivati animali.
La campagna è promossa dal gruppo di attivisti di “NO alla carne, SÌ alla vita” a cui vi potrete aggiungere direttamente in piazza per essere i portavoce degli animali che voce non hanno.

- a Rimini, dalle ore 15,30 alle 22,30, presso l'Acquario di Rimini (Lungomare Tintori 2), si svolgerà una manifestazione di protesta contro l'ex delfinario, in cui diverse otarie e leoni marini sono tutt'ora obbligati a vivere in vasche non consone al loro benessere e ad esibirsi in spettacoli impietosi.

La manifestazione sarà pacifica, tutti avranno materiale a disposizione e sono benvenuti anche cartelli autoprodotti purché non presentino loghi di altre associazioni.

L'idea è di partecipare come singoli individui per ribadire con voce unanime che la loro casa è il mare.

L'evento è organizzato da “Basta delfinari”. 

- domenica 14 agosto a Mesero, in provincia di Milano, in Via Cascina Americana, dalle ore 18, gli animali della Fattoria Capre e Cavoli, vi aspettano per una cena a base di frutta e sangria.
Il costo è di 10 euro e il ricavato verrà utilizzato per sfamare gli ospiti della fattoria.
Per info e prenotazioni potete chiamare il numero 339.3079018 oppure scrivere un'e-mail all'indirizzo: fattoriacapreecavoli@gmail.com

da venerdì 26 agosto a domenica 28 agosto

- a Bologna, nel Parco dei giardini (Via dei Giardini), si svolgerà per il quarto anno consecutivo, il BoEtico Vegan Festival.

Saranno tre giorni di festa, interamente dedicati al mondo etico e senza sofferenza, che spazieranno tra conferenze, cibo vegan, stand di prodotti etici e cruelty free, yoga e musica.

Non c'è nessun biglietto d'ingresso e gratuiti saranno anche tutti gli eventi.

Sul loro sito potrete leggere l'intero programma.

- a Borgomanero, in provincia di Novara, l' Associazione Vegani Italiani (AVI), organizza il Vegan Life Festival.
Sarà un grande evento pieno di ospiti, musica, conferenze e giochi per bambini, volto a sensibilizzare e mostrare alle persone un modo diverso di vivere nel totale rispetto degli esseri viventi.
Chi volesse partecipare, collaborare o avere ulteriori informazioni, può contattare i numeri di telefono: 345.2616174 - 370.3329177 – 349.6972452 oppure visitare il sito dell'associazione.

- a Vimercate, in provincia di Milano, nell'area feste di Via degli Atleti 1, torna l'undicesima edizione della Festa Antispecista (ex “VEGANch'io”).

Saranno tre giorni dedicati a conferenze, buon cibo biologico, ed incontri per diffondere una nuova cultura del rispetto dei diritti di tutti gli esseri viventi.

La Festa Antispecista è organizzata dall'associazione “Oltre la speciein collaborazione con Vascello Vegano.
Per informazioni potete scrivere un'email all'indirizzo: info@festa-antispecista.org o info@oltrelaspecie.org oppure ancora telefonare al numero 335.8376756

Per l'intero programma dell'evento, potete visitare il sito.

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Loro sono ACHILLE, AGAMENNONE, AIACE, ETTORE, MENELAO e PARIDE e sono stati soprannominati “I cuccioli della campagna”.

Per caso delle volontarie scoprirono la cucciolata in un posto sperduto, in aperta campagna, appunto.
Non essendoci anima viva nei paraggi decisero di aiutarli portando loro cibo e acqua ogni santo giorno.

Fecero anche il primo vaccino perché lì sembrava un posto sicuro, finché un giorno l'unica femminuccia della cucciolata si allontanò e non fece più ritorno.
Dopo la tragedia, i cuccioli, per il loro bene, vennero condotti nel canile di Ginosa(TA), dove tutt'ora aspettano che qualcuno li adotti. Tutti, tranne Achille, a cui le volontarie hanno deciso di donare una chance in più, facendolo arrivare a Perugia tramite staffetta.

I pargoli ora hanno 5 mesi e sono una futura taglia grande(30 chili).

Verranno affidati previo colloquio con una volontaria.
Sono chippati, sverminati e vaccinati.

Se siete interessati, potete telefonare al numero 3348943804, oppure mandare un' e-mail all'indirizzo: giusy.adozioni@libero.it avendo cura di mettere una vostra presentazione, il contesto in cui vorreste inserire il cucciolo e se avete esperienza con i cani.

Per Achille invece (che si trova a Perugia) potete contattare il numero 339.6390998.

Se volete conoscerli meglio, le volontarie hanno girato loro dei video.

Ecco qui i link:

ACHILLE
AGAMENNONE
AIACE
ETTORE 
MENELAO
PARIDE

 

Lei è PERLA.

    
Perla è una cagnolina di otto mesi e sette chili.
E' un angioletto: abituata alla vita in casa, sporca fuori, non tira al guinzaglio e va d'accordo con cani e gatti. Dispensatrice di coccole e baci, cerca qualcuno che contraccambi.
E' in stallo a Torino, ma per una buona adozione può arrivare anche in Liguria e Lombardia.
Per informazioni potete contattare Barbara al numero 348.3664788 oppure scrivere un'e-mail all'indirizzo: ani.ba.bau@gmail.com

 

Loro sono MATISSE e BIZET, due gattoni di tre anni.


Abituati alle coccole e a vivere in casa, a causa dei gravi problemi economici della loro famiglia, ahiloro, presto dovranno trovarne un'altra.
Sono sterilizzati, vaccinati e fiv/felv negativi.
Pur essendo fratelli, fra loro non sono legatissimi, per cui si valutano anche adozioni singole.
Verranno dati in adozione in Torino e provincia, previo colloquio preaffido, firma del modulo di adozione e disponibilità a restare in contatto nel tempo.
Per info e adozione potete scrivere un'e-mail ad “Associazione Micio Villaggio” all'indirizzo: miciovillaggio@gmail.com

 

Ecco NELLY.

  
Nelly è arrivata poco tempo fa dal canile di Polla, Salerno, in cui era destinata a diventare uno dei tanti cani “invisibili”.Ora si trova a casa di una volontaria, al nord Italia.
E' un cane dolcissimo, ben socializzato con le persone e suoi simili; ha un annetto, pesa otto chili e verrà affidata sterilizzata e vaccinata in zona Como, Lecco, Milano, Monza e Brianza.
Per informazioni e adozione, potete contattare Ornella al numero: 339.2214394

 

Lui è COSMO.


Cosmo viveva per strada a Bari ed è stato segnalato circa una settimana fa dopo essere stato investito.
Per fortuna non sembra aver riportato gravi traumi, ma ha un problema all'occhio di cui non si conosce la causa.
Cosmo pesa circa diciotto chili, è castrato ed ha circa due anni.
E' un cane molto buono, ma se entro fine agosto non avrà ancora trovato uno stallo o un'adozione, verrà rimesso per strada.
Per una buona adozione può arrivare in tutta Italia.
Per informazioni e adozione potete contattare Rosalba al numero 338.3630146 o scrivere una e-mail all'indirizzo: domenico.rigo@vodafone.it

 

CHANEL.

 
Chanel ha circa quattro mesi ed è una monella di piccola taglia.
Simpatica e coccolona è stata trovata che vagava per strada insieme alla sorella.
Attualmente si trova in stallo in provincia di Salerno, ma per una buona adozione può rrivare in tutta Italia tramite staffetta. Verrà affidata vaccinata e sverminata.
Per informazioni o adozione potete contattare Giovanna al numero: 328.8088283

 

Lei è nonna BRENDA.


Brenda è un mix bassotto a pelo duro dal carattere d'oro che va d'accordo con tutti.
Ha ormai dieci anni e purtroppo si trova in canile in provincia di Trapani. Presto però, arriverà a Torino nella speranza che trovi più facilmente famiglia.
Purtroppo è positiva alla leishmania, ma con titoli bassissimi, tanto da non presentare sintomi.
Per adottarla o avere maggiori informazioni su di lei, potete scrivere un'e-mail all'indirizzo: maky@hotmail.it
Da settembre, adottabile presso La casetta Scenu'

E' nata l'undici giugno di quest'anno, può venire a casa vostra già vaccinata ed è di taglia piccola. Dovete solo aspettare qualche settimana e poi potete adottarla.

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Ogni oggetto riluceva in quella baia. Deve esser scesa la Shekinah1, pensai. Deve esser buon segno, pensai. Mi accamperò qui, pensai.

Avevo bussato, non avevano risposto. Forzai l’ingresso, la porta si lasciò aprire docile. Chiamai, non ebbi risposto. Ci saremo solo io e Dio in questa piccola casetta di legno, ritenni.

Chiusi la porta sulla tormenta di neve, sulla foresta siberiana, sulla mia sventura. Scaldarmi, dovevo scaldarmi. La neve mi copriva, i movimenti erano lenti. Ai lati degli occhi, dal naso, sulla barba… solo ghiaccio. Tremai.

C’erano coperte e un letto in quella casa, c’era un bagno e una cucina. Solo la polvere tradiva uno stato di lungo abbandono; solo i vetri spaccati dal freddo e la neve per terra suggerivano l’assenza umana.

Accendere il fuoco, dovevo accendere il fuoco; dovevo prendere la neve e farne acqua bollita; dovevo spogliarmi, togliermi le scarpe e sperare di non staccarmi l’intero piede. Avevo perso sensibilità al corpo, da giorni non sentivo la fame né il freddo. Solo al focolare di quella casa riscoprii di esser un figlio di Adamo, per di più allo stremo.

Fuggire dal treno che porta al gulag per morire comunque di stenti nella foresta. Fuggire dall’Egitto per morire di stenti nel deserto. In entrambi i casi si muore liberi e, se posso permettermi, preferisco così.

C’era della legna vicino al camino, buon segno, dovevo aver trovato la manna. Mi avvicinai zoppicante, il piede destro era congelato. Tolsi i guanti, ma avevo scarsa sensibilità alle mani. Mi ci volle forse un’ora per accendere il fuoco, per sciogliermi le ossa. Tentai di spogliarmi, avevo enormi difficoltà, la pelle era attaccata ai vestiti, mi ci volle parecchio per non spellarmi.

Tolsi le scarpe, il piede destro era viola, la pelle aperta, il sangue congelato. Brutto da vedere, bruttissimo da sopportare.

Feci impacchi di acqua calda per scaldarmi, per ridar vita alle ossa.

Presi dalla tasca interna del cappotto la lettera di Adelya, la mia Adelya, la mia speranza, la mia forza, il motivo per cui ero fuggito. Per questa lettera ero corso nella foresta mentre i mitra dei compagni aguzzini tiravano alla cieca nella mia direzione. Non avevo catene, potevo farcela. Ero lontano da casa, ma potevo farcela.

Presi la lettera che avevo salvato dal trasferimento al campo. Una lettera breve: “Ti amo Vania Shlomovich Grossman, ti amerò per sempre. Amo tutto di te, amo anche la tua dedizione a stampare il giornale. Amo la tua ostinazione ad amarmi e ad amare la vita. Torna da me Vania, torna da me. Amore.”

Poche parole, la conosco Adelya, la mia Adelya, poche parole, bastano per dire tutto.

Tornerò da lei, l’abbraccerò, sono tornato, le dirò, ora possiamo anche lasciare la Russia, le dirò. Andremo in Palestina, fa caldo lì, staremo bene, potremo crescere i nostri figli, potremo scrivere quello che ci pare sui giornali. Ma dopo, prima facciamo l’amore. Adelya, la mia Adelya. Le dirò così.

Ero stanco, ero stremato, ero privo di forze. Sollevai il mio corpo da davanti al fuoco e mi trascinai a letto sorreggendomi a fatica.

Un letto matrimoniale, un armadio e una sedia. Era diventato tutto così triste e spento. La sedia era solitudine, era abbandono, era dove mio padre dormiva al capezzale di sua madre morente.

Papà, giovane, seduto sulla sedia di fianco al letto di nonna. Dormicchia, poi lei lo chiama. Non so cosa gli dica. Io ho dieci anni e sbircio la scena dalla porta socchiusa. Un lume sul comodino illumina la stanza. Mio padre fa cenno di entrare. Sorride da sotto i folti baffi. Ha la kippah e le trecce, mi fa cenno di avvicinarmi, nonna mi stringe la mano… ricordo che papà sorrise, poi il ricordo si dileguò.

Chiusi la porta. Mi spogliai. La camera da letto aveva una finestra intatta e ben chiusa. Mi misi sotto le coperte e presi sonno chiedendomi, come fosse la Palestina; come fanno le persone ad attaccarsi alla terra e come si fa ad esser nazionalisti. Pensai che avevo trovato rifugio in una casa che non era mia, mi sentivo accolto lo stesso. Pensai che solo dove c’era Adelya, la mia Adelya, mi sarei potuto sentire a casa.

Recitai le preghiere e mi addormentai.

Al mattino seguente mi tirai giù dal letto e mi vestii. Mi diressi a tentoni verso il bagno e poi mi dedicai ad esplorare la piccola casa: una sala, un bagno, una cucina, una camera da letto. Piccola, funzionale, una baia per cacciatori nella foresta.

Trovai un fucile a doppia canna e un coltello da caccia, trovai del tabacco per pipa, i fiammiferi e una pipa. Trovai un fucile pre-rivoluzione. Trovai munizioni per le armi. Trovai di che vestirmi, un abito da uomo in stile Tolstoj, pellicce, scarponi, guanti.

Usai un fucile per stampella e andai a caccia. Se non avessi trovato nulla da mangiare sarei morto entro pochi giorni.

Il sole illuminava la neve e questa faceva risplendere ogni cosa. Ero debole, affamato, avevo i crampi allo stomaco, avevo un piede quasi in cancrena, ma potevo vedere lo splendere della parola di Ashem2 sul mondo. Anche oggi sono vivo, pensai; anche oggi posso pensare a te, Adelya, la mia Adelya, pensai.

Mi inoltrai nella foresta senza perder di vista la casa e Dio mandò un cervo davanti al mio fucile. Mirai. Sentivo il mio respiro, sentivo il suo; sentivo il mio cuore, sentivo il suo. Non mi piaceva uccidere, ma feci partire un colpo e il cervo cadde. Un silenzio irreale si diffuse per l’aere. Lo sparo mi aveva stordito e tappato le orecchie. Non mangerò kosher3, pensai, ma la contingenza mi scuserà, pensai.

Mi portai alla carcassa dell’animale e lo sgozzai per farne defluire il sangue. Aprii uno squarcio nel ventre e buttai fuori le interiora e gli organi che non avrei mangiato. Con estrema fatica, lo portai vicino casa. Presi fegato, polmoni, cuore. Non avevo forze per scuoiarlo. Sotterrai il resto nella neve. Avrei bollito la carne. Potevo solo accendere il fuoco, mettere una pentola di neve a bollire e buttarci dentro la carne

Pregai. Mangiai. Feci gli impacchi caldi al piede e mi accesi la pipa.

Ho sei anni, mio padre è sulla poltrona davanti al fuoco, fuma la pipa. Zio Josef è in piedi, gli sta parlando. Shlomo, dice, perché non vuoi mandarlo alla scuola chassidica4?, chiede. No, Josef, siamo ebrei, siamo osservanti e siamo cresciuti nel chassidismo, ma non voglio che mio figlio segua la stessa scuola, dice mio padre. E che vuoi?, chiede zio. Che segua una scuola più aperta e più “pratica”, risponde mio padre. Poi papà si alza, tira una boccata di pipa e dice: i tempi stanno cambiando, Josef, bisogna saper essere moderni, bisogna che sappia scender a compromessi, ho paura per lui, dice mio padre. Vania, non origliare, dice mia madre. Ma parlano di me, replico, su, fai il bravo, vieni, aiutami in cucina. Mi giro, mia madre è giovane e bellissima, coi capelli neri, con un sorriso luminoso, con la bocca sottile, con un grembiule da cucina… mia madre, il suo odore.

Mi svegliai sulla sedia vicino al fuoco con la voglia di piangere, la pipa mi era caduta per terra. Mi ero addormentato durante una rimembranza. Fuori era calato il buio, il fuoco era quasi spento. Andai a letto, pregai e mi addormentai.

Durante la notte salì la febbre. Deliravo ed ero in uno stato di dormiveglia. Quando vidi mio padre sulla sedia pensai che fosse la fine. Era vecchio, stanco, piccolo e debole; capelli grigi e lunghi, la barba di qualche giorno. Papà, che ci fai qui?, chiesi. Sono venuto a salutarti. È tempo di andarmene?, chiesi. Non ancora. Sono venuti a casa, hanno fatto un casino, il cuore di padre non ha retto. Dove andrai?, chiesi. Nella casa dei miei avi. Com’è la morte?, chiesi. Una cosa come tante. Come so quando è il momento?, chiesi. Quando la Shekinah scenderà e tu vedrai bene perché ogni cosa sarà illuminata. Sembra una bella cosa, dissi. Vivere, figliolo, è una bella cosa. Spero di rivederti quando Ashem mi avrà svegliato, dissi. Anch’io, figlio mio. Buon viaggio, padre, gli augurai. Buona notte, figliolo.

Dormivo, vegliavo, mi giravo e rigiravo nel letto. Fuori ululavano i lupi. Dovevano aver trovato la carcassa. Addio mosco, pensai. Domani dovrò riandare a caccia, pensai.

Rimasi a letto a lungo anche dopo che il sole illuminò la stanza. Provai a riposare, ma non c’era nulla da fare. Avevo sudato molto durante la notte, ma avevo ancora i brividi di freddo.

Mi chiesi quando sarebbe entrato Shabbath5, pensai che forse era già iniziato la sera prima e quindi potevo restare a letto.

Vania! Vania! Svegliati!, chiama mia madre. Ah, che vuoi?, faccio. È mattina di Shabbath, dice. Il Ya Ribbon Olam mi prescrive di starmene a letto, dico. Mia madre risponde che il Ya Ribbon Olam6 vuole che condivida questo giorno con parenti e amici, vuole che studi la Torah. Non vuole che rimanga a letto a poltrire. Dai che dobbiamo pregare tutti insieme, i tuoi zii e i tuoi cugini sono qui, dice mia madre. Vengo, ma tra un po’, dico. Va bene Vania, ma sbrigati, dice. Mi riaddormento pensando al solito Shabbath in famiglia. Ho ventanni, voglio dormire, venerdì sera sono stato da Adelya, la mia Adelya. Mi riaddormento, ma per poco, mia madre torna alla riscossa bussando forte alla porta.

Mi svegliai di colpo, no, non era mia madre a bussare, era un colpo di fucile. Poi un altro. Poi un guaito. Il cuore prese a pulsare. Mi buttai giù dal letto e mi lanciai sui fucili. Mi affacciai alla finestra con attenzione. Non vidi nulla.

Sentii movimento nell’altra stanza, doveva essere entrato qualcuno. Mi avvicinai alla porta per origliare.

Sì, ci deve essere qualcuno! In guardia ragazzi, potrebbe essere uno schifoso comunista giudeo, sentii.

Controrivoluzionari, pensai, non credevo ce ne fossero ancora. Questi sono più stupidi dei soviet, più cattivi, pensai. Qualche vecchio nobile antisemita deve aver convinto qualche ragazzino a combattere contro i bolscevichi. Schifosi relitti del passato, pensai.

Tu!, guarda quella stanza, facciamo pulizia, da qui sarà facile nascondersi.

Grassatori, pensai, solo dei miseri grassatori con velleità reazionarie.

La porta venne aperta con un calcio. Mi spostai restando attaccato al muro. Entrò un ragazzo col fucile puntato. Non c’è nessuno, disse. È giovane, ma dovrò violare la legge di Moseh comunque, pensai. Si girò, mi vide, stava per puntarmi il fucile. Troppo tardi. Aprii il fuoco. Venne schiantato a terra con lo sterno bucato.

Esci, fottuto giudeo!, urlarono. Come fate a sapere che sono giudeo?, chiesi, caricando il proiettile. Tutti i comunisti sono degli schifosi giudei!, disse. Mi affacciai puntando l’arma e aprii il fuoco. Mi faceva male la testa, mi faceva male il piede, mi facevano male le braccia per il rinculo, ma un altro ragazzo era morto per mano mia.

Ero grato ad Ashem per avermi dato un fucile pre-rivoluzionario che non si inceppasse, ma non perdetti tempo in meditazioni, tornai all’attacco. Il terzo camerata si era abbassato per proteggersi, io avevo già impugnato il fucile da caccia. Il camerata guardava il compare morto ed io pregavo, recitavo il salmo di David… Lo freddai con un colpo alla testa. Tutto accadde in pochi secondi.

Non uccidere, il Signore è il mio pastore, non uccidere. Mi pulsava la testa, ma sulla porta d’ingresso spuntò un altro ragazzo. Fece fuoco, prese la coscia destra, persi l’equilibrio, ma feci partire un colpo. Colpito all’inguine si piegò tra i cadaveri dei lupi. Dovevano averli freddati prima.

Ricorda Vania, prima di essere Russi siamo comunisti, ma prima di essere comunisti siamo Ebrei, dice Moseh Buber. Il mio miglior amico. Ho ventidue anni, siamo andati all’assemblea dei lavoratori. Avevamo letto il libretto distribuito dai socialisti, era uno scritto di Marx ed Engels, sapevamo che Marx era uno di noi, ebreo. Ci piacevano quelle idee. Odiavamo lo zar e i nuovi progrom. Secondo i boeri eravamo noi Ebrei ad incitare la rivolta al solo scopo di avere uno stato nostro. Idioti antisemiti! Eravamo solo stanchi della guerra, come tutti.

Ricorda Vania, noi restiamo sempre e comunque Ebrei, anche se non portiamo più le peoth e la kippah, mi diceva Moseh. Che intendi?, chiedo. Che ci sarà sempre qualcuno che ci odierà, mi risponde. Sta per continuare, ma un cane nero grande e grosso si mette ad abbaiare verso di noi e ci interrompe. Cagnaccio!, dice Moseh. Sembra Rasputin, dico, è vero, fa lui. Taci Rasputin!, sei solo un infame!, urla Moseh mettendo a tacere il cane.

Guardavo un lupo morto, pensavo a Rasputin, il cane, pensavo a quella camminata con Moseh Buber e all’assemblea dei lavoratori. Appoggiato al fucile presi a camminare verso la porta come in trance.

Bum. Colpo di pistola secco. Foro sul fianco destro. Mi girai e vidi un uomo con folta barba grigia vestito da ussaro, il capo dei briganti. Lo guardai, mi guardò puntando la pistola. Lasciai il fucile portando una mano alla ferita. Caddi schiena a terra.

Ahi mamma, dico. Sono appena caduto, ho sette anni. Forza rialzati, dice mia madre. No, mamma, non voglio andare alla scuola ebraica, le dico. Non dire sciocchezze, dice, ora alzati e andiamo. Ma perché?, chiedo. Perché siamo Ebrei e andiamo alla scuola ebraica, risponde. E perché siamo Ebrei?, chiedo. Perché Ashem ci ha affidato la sua Legge per la gloria di tutti gli uomini, dice. E non poteva darla qualcun altro?, insisto. Lo ha fatto, ma solo noi abbiamo accettato, quando conoscerai bene la Torah potrai sottrarti al compito di Ashem, ma se non la conosci che razza di scelta vuoi fare?, dice mia madre.

L’ussaro si avvicinò, spada sguainata, lo sentivo, stava per finirmi, tutto stava diventando buio, mi piego su un fianco.

Ho tredici anni, sono in Sinagoga, sto leggendo la Torah, è il mio bar mitzvah7. Alzo gli occhi dal rotolo, ho finito, applausi e “Mazel Tov”8. Mio padre mi guarda, mi sorride, è commosso, sono felice, gli sorrido.

L’ussaro mi diede un calcio, restai immobile. Strinsi il coltello da caccia, mi girò col piede. Con un gesto rapido gli tagliai la coscia. Ringhiò e cercò di trafiggermi. Mi mancò cadendomi addosso. Lo accoltellai, non uccidere, lo accoltellai ripetutamente, il Signore è il mio pastore, girai la lama nella pancia, non uccidere, non manco di nulla. Non si muoveva più, mi girai verso la porta, dandogli le spalle.

Bum. Colpo di pistola secco. Sentii il sangue gelare. Ero di nuovo schiena a terra. Guardai in alto, lui si trascinava su di me. Aveva la Sitra Achra9 negli occhi, aveva mille Satanim10 dentro. Mi era addosso, mi puntava la pistola alla tempia. Sputava sangue, aveva di nuovo il mio pugnale in corpo.

Ho ventiquattro anni, è il mio matrimonio. Ho ventiquattro anni e ballo con Adelya Yakovna Tulowski-Grossman, la mia Adelya. Sono tra le sue braccia e lei è tra le mie ed ogni cosa è illuminata.

Bum. Colpo di pistola secco.

1 Lett. “Dimorare”, nell’ebraismo rappresenta la presenza fisica di Dio.

2 Lett. “il Nome”, è uno dei nomi di Dio nell’ebraismo.

3 Lett. “adeguatezza”, indica nell’ebraismo il regime alimentare e di macellazione che stabilisce i cibi puri.

4 Chassidismo, movimento di rinnovamento dell’ebraismo ortodosso incentrato su soclarizzazione, spiritualità e mistica interiore.

5 Lett. “smettere”, è giorni di riposo ebraico, va dal tramonto del venerdì a quello del sabato.

6 Lett. “Signore dell’Universo”, uno dei nomi di Dio, usato anche per la preghiera di Shabat.

7 Lett. “Figlio del comandamento”, indica il momento in cui un ragazzo diventa spiritualmente responsabili dei suoi atti. Il rito rappresenta l’ingresso del giovane nella comunità.

8 Lett. “Buona fortuna”, un tipico augurio ebraico.

9 Lett. “L’altra parte”, indica il lato oscuro e demoniaco dell’universo.

10 Lett. “avversari”, indica degli spiriti maligni.

Pubblicato in concorso

C’è stato un periodo della mia vita, un lungo periodo della mia ancora breve vita, durante il quale il mio sguardo sul mondo, diciamo, non ha goduto di una buona messa a fuoco. Riconosco che crescere in una famiglia nella quale la frase più cordiale era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito; e lo scambio di battute più lungo era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito - Perché il macinato era in offerta - Era ora, in quella merda di supermercato non c’è mai uno sconto buono; possa rendere difficile a chiunque trovare equilibrio e mettere a fuoco un obiettivo, ma anche io facevo la mia parte e a quei dialoghi costruttivi replicavo che se pure loro avessero fatto qualche saldo e si fossero scavati un buon cinquanta per cento dai maroni, forse anche la mia vita avrebbe fatto meno schifo. Fine delle discussioni, fertile scambio di idee dopo che in famiglia non ci si era visti per tuta la giornata. Consumato il resto della cena in silenzio, mia madre rassettava la cucina, mio padre sprofondava sul divano e io e mia sorella scomparivamo ognuno all’ombra della propria stanza, lei incontro all’ennesima serata a parlare al telefono con un’amica, che tanto non c’era nessun ragazzo che le filava, e io incontro al solipsismo e alla ricerca di qualche canale tv proibito sulle reti d’oltre mare. Durante quel lungo periodo oscuro ho assolto ai miei doveri di figlio con la devozione di un frate trappista astemio, e la forte convinzione decubertiana per cui l’importante non era vincere, ma partecipare. La scuola era un obbligo e come tale l’affrontavo, ben attento a evitare le luci della ribalta. Serviva almeno un sei in ogni materia per non essere rimandato, e io sei prendevo, salvo un sette in ginnastica, dove non riuscivo ad arginare il mio piacere per il calcetto. Mai una nota, mai una convocazione dei genitori, tutto nell’ordine del minimo sindacale per non attirare attenzione e concludere il percorso il prima possibile, evitando penalità ed errori. Che all’assenza di infamia corrispondesse anche assenza di lode poco interessava, sia a me che ai miei famigliari. Qualche organismo del corpo docente, cellula impazzita nella mediocrità degli insegnanti, aveva provato a manifestare il proprio disappunto.

- Hai delle potenzialità. Diceva Tommassoni alle medie, il professore di tecnica. - Perché le vuoi sprecare?

- Parietti, tu non sei del tutto una capra. Diceva Zaccherani, il professore di diritto privato a ragioneria. - Eppure stai nel gregge, nascosto e allineato. Non vuoi prendere un po’ di luce, combinare qualcosa di buono nella vita?

Io lo volevo combinare qualcosa di buono nella vita, ma non ero convinto che per farlo servisse un maggiore impegno a scuola. Mio padre aveva un’attività in proprio, faceva il barbiere, e mia madre era impiegata al supermercato vicino a casa. Entrambi mi sembravano tutto fuorché dei geni, e per quanto ne sapessi avevano finito la scuola media, ma non erano andati oltre al terzo anno di superiori. Allora a cosa serviva andare bene a scuola? Se bastava non essere del tutto scemo per trovare lavoro io già ero a posto, per il resto, il buono che volevo combinare nella mia vita non riguardava ottenere chissà quale occupazione. Non sapevo neanche io cosa riguardava, ma col tempo l’avrei capito, e intanto macinavo giorni, mesi e stagioni, lasciando che il buio rendesse sempre più opaca la mia visuale.

A scuola non avevo amici, ma non ero neanche impopolare. Nei primi anni di ragioneria, l’aria del dannato, che io rinnegavo, ma che a quell’età si autoalimenta se solo parli poco, sorridi poco e non fai comunella con nessuno, mi rendeva anche attraente agli occhi delle ragazze - e nella mia classe ce ne erano venti, su venticinque che eravamo in tutto - peccato che loro non fossero attraenti per me. Su venti anime femminili, venti cessi, una cosa da non credere, dovevano aver fatto una selezione: ‘Siete gli scarti di Madre Natura? Su con la vita, venite da noi. Sotto la seconda di tette: il sei è assicurato. Denti storti: sei e mezzo. Capelli unti e stopposi: sette meno. Culo basso: otto. Brufoli e alitosi: diploma ad honorem e abbraccio accademico!’ Se l’avessi saputo prima avrei fatto l’Alberghiero.

Degli altri quattro sventurati conoscevo il cognome per assuefazione all’appello, e a quello avevo associato un nome per mero spirito enigmistico: ‘Colora gli spazi bianchi con il puntino e scopri cosa apparirà’, ma anche associando nome e cognome gli sparuti colleghi maschi rimanevano quattro emarginati. Carletti Matteo, un metro e settanta di ossa e occhiali, propensione allo sport zero meno. Ersili Ersilio, un metro e ottanta, buon difensore centrale, ma troppo incline alla rissa. Galimberti Fabio, un metro e settantacinque, normale fino alle caviglie, da lì in giù due ferri da stiro. Sariotti Tommaso, un metro e ottantadue di boria, figlio di un grosso commercialista: un predestinato. Dalla prima superiore per fare ginnastica si cambiava le scarpe e si metteva calzoncini e polo con le iniziali ricamate. Ho scoperto solo in quarta che non erano le sue di inziali, ma quelle di un certo Tacchini Sergio, e Sariotti mi sembrava ancora più sfigato.

Fuori dalla scuola andava meglio. Erano anni nei quali si giocava in strada. Non abitavo in un quartiere di bande, ma si creavano alleanze tra i ragazzi della stessa via e io ero uno dei leader di Via Medusa, gemellata con Via Andromeda e un tratto di Via Vega. Per noi, cresciuti con Goldrake Ufo Robot, confinare con Via Vega era una figata assurda, ma oggi nessuno lo può capire. In ogni caso, anche in strada non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Facevamo di tutto: truccavamo i motorini, ci lanciavamo con lo skateboard o le caratelle, andavamo a pescare al vicino lago della Cava, rientravamo a casa solo quando faceva buio e le madri strillavano affacciate ai balconi, o attraverso gli infissi aperti delle cucine. Eravamo liberi, ero libero, eppure mi mancava qualcosa, non riuscivo a trovare la mia luce.

Verso la fine della quinta, Mirco detto Lillo, un ragazzo di Via Andromeda sempre aggiornato su impianti stereo e videogiochi, se ne era uscito fuori con la fissa per la fotografia. Erano arrivate le prime macchine digitali e all’improvviso si potevano scattare foto su foto senza preoccuparsi di comprare rullini, centellinare gli scatti, sviluppare e poi stampare, che di trentasei foto che aveva un rullino la metà erano sempre mosse o col soggetto tagliato. Io non ero un patito del settore, ma, per quanto la mia fosse una famiglia disgraziata, andavamo tutti gli anni in vacanza e anche mio padre, come la maggior parte dei padri, in vacanza teneva al collo una compatta con rullino a colori. Le fotografie che si ammucchiavano nella scatola di legno, dove venivano assiepati i raccoglitori a libretto di plastica trasparente con il logo del fotografo sul fronte, erano sempre le stesse: orizzonti, campeggi, la neve d’inverno sulle colline limitrofe e il mare d’estate, qualche scatto ai monumenti, le pose stanche, le pance sfasciate. Ma il digitale era una vera e propria rivoluzione.

- Puoi scattare quante foto vuoi, le rivedi subito e quelle brutte le puoi cancellare. Anzi, non ti devi neanche preoccupare di cancellarle, perché su una scheda come questa, da centoventotto mega, ci stanno più di cento foto, e se le salvi sul computer la scheda la resetti e torna come nuova. Non è una figata?

Era una figata, non me ne fregava niente, ma dovevo riconoscere che era una figata.

- Ma la fotografia vera resta quella con la reflex. Aveva ripreso Lillo una volta raccolto il mio entusiasmo. – Gli apparecchi digitali sono divertenti, ma non potranno mai sostituire l’ottica di una buona macchina fotografica: il gioco dell’esposizione, la messa a fuoco, la luce.

Lillo sosteneva che la fotografia era un’arte. Gli avrei anche potuto credere, quello che non capivo era perché lo stava confidando a me. Diceva che una fotografia fatta bene sapeva cogliere sia l’anima del soggetto che del fotografo. Io restavo smarrito tra le ombre della mia ignoranza, ma il tema iniziava a catturare la mia attenzione.

- Per fare davvero una bella foto non si tratta solo di inquadrare un bel soggetto, ma di cogliere l’attimo, immortalare quello che c’è dietro l’immagine. Se parliamo di paesaggi bisogna giocare con la luce, beccare una nuvola in un momento particolare, l’inclinazione del sole, ma il bello, per me, è se parliamo di soggetti animati: la fatica di un muratore, il salto di un cane, il momento esatto in cui il piede impatta sul pallone. Per fare queste foto non c’è macchina digitale che tenga, non ancora, e forse mai ci sarà.

Tutte queste cose dietro una fotografia? Non ci avevo mai pensato, di certo non l’avevo colto dagli scatti sempre uguali delle nostre vacanze, ma qualcosa si era aperto dentro il mio animo inquieto. Su indicazione di Mirco detto Lillo ero andato a parlare con Luciano Gioia, quello di Foto Gioia. Teneva corsi di fotografia gratuiti per il primo mese e per quel mese ti prestava pure l’attrezzatura. Se fosse tornato a non fregarmene niente, niente avevo speso.

Quando Luciano Gioia mi parlava di fotografia sembrava facesse catechesi. Tra le altre cose, io non ero esattamente un estimatore degli enti religiosi - per dirla con un giro di parole - non lo ero mai stato.

- Parietti, non sei del tutto una capra.

- Questo me l’hanno già detto.

- Sì, però stai zitto. Quello che voglio dire è che sembri un cinghiale e forse ti piace dare questa immagine di te, ma hai qualcosa di umano dentro che è più solido di quel che pensi.

- Scusa Luciano, ma cosa c’entra con la fotografia?

- C’entra, perché tu fino a oggi è come se avessi vissuto sottoesposto. Se dai poca esposizione alla pellicola questa non prende i colori, resta sciapa. E tu sei sciapo, ma non capra.

- Se andassimo avanti e questo concetto sottile lo dessimo per assodato?

- Hai sempre guardato le cose con poca attenzione, e non ti sei accorto che dove c’è ombra, c’è anche luce.

- Perdonami Luciano, ma fino a qui ci arrivavo.

- Voglio sperare. Ma dove c’è ombra e buio, tu vedi solo quello, buio.

- In mancanza di occhi felini…

- Vuoi stare zitto accidenti? Anche nel buio, invece, ci può essere un cambio di luce. Più buio e meno buio, sono una variazione. Se spegni la luce e chiudi le imposte di una stanza in un primo momento vedi solo buio, ma dopo un poco abitui i tuoi occhi e inizi a scorgere il profilo delle cose.

Insomma, sembrava che Luciano Gioia di foto Gioia, tra un consiglio sull’uso dell’otturatore e un altro sulla duttilità della fotografia digitale, si fosse messo a impartirmi lezioni di vita. Diceva che ogni individuo è illuminato, in ognuno c’è un talento, e diceva che questo talento non va sprecato. Questo - ho scoperto in seguito - lo diceva già Matteo in un passo del suo vangelo, mentre Luciano, dalla sua, continuava aggiungendo che con una buona macchina fotografica e tanta pazienza si possono fare fotografie anche in quasi assenza di luce.

- Non ci sono scatti impossibili, solo scatti difficili. La differenza la fa la macchina, ma soprattutto l’operatore. Dove la maggior parte della gente vede immondizia un fotografo può vedere un’opera d’arte, e se riesce a coglierla, a immortalarla, la rende fruibile all’umanità, e questo è un dono.

Sarà stato vero, se c’erano esseri umani che campavano di fotografia voleva dire che tanti altri apprezzavano quel dono e lo pagavano bene, ma io, concluso il mese di prova, avevo ringraziato Luciano Gioia di Foto Gioia e riconsegnato tutta l’attrezzatura. La sua passione, e Mirco di Via Andromeda detto Lillo, avevano iniziato a farmi vedere sotto una nuova luce l’arte della fotografia, ma questa non era diventata né il mio lavoro, né il mio grande amore. Nel frattempo, però, avevo terminato ragioneria, seppure con il minimo dei voti, e per tirare su due soldi in attesa di una vera occupazione ero andato un paio di mesi in negozio da mio padre. Tempo qualche anno e ho rilevato l’attività, e ancora adesso, il mio bel diploma in tasca, con soddisfazione faccio il barbiere. Non me l’ha imposto nessuno, l’ho fatto per scelta. Ero, e sono, contento, e posso dire che finalmente mi sento a fuoco, anche se non credo di essere un soggetto illuminato.

Mirco di Via Andromeda, detto Lillo, ha aperto un negozio di generi alimentari. Gli altri ragazzi della strada non li ho più visti. I quattro emarginati della scuola ancora meno. Ogni tanto faccio ancora un salto da Foto Gioia, dove Luciano dispensa la sua saggezza lenticolare. Continua a dire che il bravo fotografo non deve mai perdere la fiducia nella propria ispirazione anche quando sembra che non ci sia nulla da fotografare, quando per una giornata intera non gli è riuscito un solo scatto degno di nota, quando vede solo buio e ombre e contorni sfumati. - In quel buio. Dice, - il bravo fotografo sa trovare la propria luce e cogliere il momento, l’opera d’arte, l’animo pulsante del genere umano.

Continuo a non capire cosa vuole dire, ma sono sicuro che può aver ragione.

Pubblicato in concorso

Non potrò mai dimenticare quella notte di maggio del 1945.

Eravamo seduti sulla collina, su una distesa di fieno sottile. Ci guardavamo, riconoscendoci, ritrovandoci.

Intorno al fuoco il paese intero aspettava che il gruppo di musicisti improvvisato iniziasse a infondere nella notte estiva le tipiche melodie di una conviviale festa agreste.

I bambini saltavano nei mucchi di fieno, ridendo di gioia. Da troppo tempo quel suono era rimasto muto.

Eravamo tutti lì. Aspettavamo la musica.

Con le ferite ancora incrostate, i volti scavati, le mani tremanti aspettavamo la musica.

Le lacrime silenziose scendevano e ci bruciavano la pelle sotto una volta celeste rinata, ricucita come i nostri cuori smarriti e ritrovati.

A ogni stella fissa corrispondeva una lucciola intermittente nell’oscurità, una minuscola e rapida scintilla accesa e subito spenta. Poi accesa, ancora per un attimo.

Eravamo tutti lì, i vivi e le anime dei morti, uniti come non mai.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

Ogni cosa, in quella notte di stelle testimoni, era illuminata.

Avevo diciannove anni.

Fino a pochi giorni prima avevo rischiato tutto per i miei ideali di libertà e democrazia e indossato i pantaloni come manifestazione di aperta ribellione.

Ero andata volutamente contro ai miei genitori, scappando di casa per seguire sulle montagne l’uomo di cui ero innamorata. Pietro. Era un partigiano.

Ci nascondemmo per mesi in una chiesa sconsacrata adagiata in una radura nel fitto di un bosco di castagni e faggi. Quel luogo era diventato il nostro avamposto di resistenza.

Eravamo un gruppo di quindici ragazzi e ragazze: il più giovane di noi, Lucio, aveva diciassette anni e due occhi grandi pieni di insonne attesa di una pace che tardava ad arrivare; il più anziano, invece, era proprio lui, Pietro: spirito libero, occhi voraci di vita e libertà che di anni ne aveva ventisette. Gli ardeva nell’animo la scintilla di una passione innata che mai si era affievolita.

‒ Ci sono cose peggiori della morte, ragazzi. Presto saremo liberi, lo sento.

Ci disse una sera con le lacrime agli occhi per cercare di riaccendere i nostri cuori anestetizzati dagli spaventi, dalle atrocità viste e sentite nell’ ultimo scontro a fuoco.

Poche ore prima mi era morto tra le braccia Ludovico, il nostro gigante buono, ferito da una scheggia di ferro grossa quanto la mia mano. Nonostante i miei sforzi nel rassicurarlo, lui aveva capito che non ce l’avrebbe fatta ed era in preda a spasmi che lo scuotevano tutto.

L’emorragia non si arrestava e noi non potevamo allontanarci dal nostro rifugio per cercare aiuto. Loro erano ancora là fuori, pronti a sparare.

Ero terrorizzata.

Con la mano destra premuta sul suo petto ricordo di aver chiuso gli occhi. Giurai a me stessa che se fossi sopravvissuta a tanta violenza avrei dedicato la mia vita a salvare la gente.

Arrivò la fine per Ludovico: nei suoi occhi morti un guizzo scintillò, come se non volesse arrendersi, ma provare a tenere testa a Colei che lo stava portando via nell’estremo e fatale attimo.

La piccola orchestra era pronta a iniziare.

Dopo mesi e mesi di bisbigli sottovoce tra boati di esplosioni e scariche di proiettili, aspettavamo la musica. Ne avevamo bisogno per ritemprarci, per realizzare che non si trattava di un sogno.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

C’era una solenne attesa che nessuno osava interrompere.

Ogni cosa, in quella notte di lucciole tremanti, era illuminata.

Ero una staffetta all’epoca: facevo la spola tra il nostro avamposto e il paese con nuove informazioni e munizioni.

Uccisi anch’io. Due volte.

La prima per salvare Anna, non solo un’amica e una compagna nella lotta, ma soprattutto la sorella più grande che non avevo mai avuto.

Un pomeriggio, nell’ora del tramonto, un soldato tedesco l’aveva sorpresa nel bosco, di ritorno dal paese con alcune provviste di cibo e di proiettili.

L’aveva avvicinata senza che lei se ne accorgesse. Le era sopraggiunto alle spalle e sotto la minaccia di una pistola l’aveva trascinata a terra e stuprata senza pietà.

Insospettita dal suo tardare, mi incamminai sul sentiero per andarle incontro. Arrivai troppo tardi perché potessi impedire la violenza, ma non abbastanza da permettere a quel bastardo di spararle in fronte e, poi, scappare via impunito.

Fui più veloce di lui.

Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi e tirarsi su i pantaloni logori.

Un solo colpo sparato dritto in mezzo alle scapole lo fece accasciare in una pozza di sangue scura, sempre più ampia. A lungo ne restò la traccia sul terreno.

La mano iniziò a tremarmi. Lasciai cadere la pistola in un impeto di ribrezzo. Guardai Anna.

Era immobile, sdraiata nella stessa posizione in cui era stata violata, con lo sguardo fisso tra le chiome dei castagni. Non piangeva, non urlava e questo mi spaventò ancora di più.

Le mani fredde posate su un grembo profanato, ridotto a uno squallido porcile.

Mi accovacciai accanto a lei, prendendole il viso tra le mani e carezzandole i lunghi capelli corvini. Li ripulii con cura dalle foglie e dalla terra di cui si erano sporcati, come se bastasse a cancellare tutto.

Anna riemerse dal silenzio per pronunciare con voce assente tre parole:

‒ Era meglio morire.

La mia cara Anna, la mia guerriera senza paura, pronunciò solo queste tre parole. Furono sufficienti per lacerarmi dentro come schegge aguzze.

Non c’era più alcuna luce nei suoi grandi occhi azzurri.

Le avevo salvato la vita, eppure era più morta lei del nemico che avevo appena ammazzato.

Il ragazzo con il violino disegnò nell’aria movimenti precisi e sinuosi, stringendo l’archetto con delicata fermezza.

Le note si espansero tutto intorno, fluide, feconde. Si innalzarono sopra di noi, come a voler toccare gli astri con melodiosa disinvoltura e si posarono tra l’erba fluttuando leggermente, sulla paglia sottile, ai nostri piedi, frementi.

Ascoltavo, perdendomi tra le silenziose lacrime che mi si scioglievano sulle guance e sul collo. Solchi salati sulla pelle.

Gocce di luce nuova.

C’erano ancora tracce di neve sul sentiero quando per la seconda volta le mie mani rubarono la vita a un altro essere umano.

Era un soldato tedesco, poco più che un ragazzino. Ancora oggi mi appare in sogno e il suo sguardo mi tormenta. Due occhi chiari e provati incastonati in un volto smunto, deperito dalla fame e dallo scempio di una guerra disumana.

Aveva tentato di rubare da uno dei nostri metati un sacco di castagne destinate alla macinatura. Era la nostra unica fonte di sostentamento in quelle settimane di fame atroce.

Ricordo che ero un tutt’uno con la fame: ero ridotta a un brandello di donna, un corpo aguzzo, scarno e sciupato, che vagava per il bosco in cerca di qualsiasi cosa potesse risultare anche solo lontanamente commestibile.

Dovevamo razionare tutto e bere continuamente l’acqua gelata del ruscello per riempirci lo stomaco con qualcosa.

Non appena vidi il nemico allontanarsi con il nostro sacco di castagne sulle spalle, la mia fame cieca e sorda fu più forte della sua.

Lo seguii per qualche decina di metri per averlo meglio sotto tiro.

Sentendo i miei passi, lui si voltò.

Sogno ancora quegli occhi chiari che mi fissano dal regno dei morti.

Gli intimai di lasciare il sacco se voleva avere salva la vita.

Non capiva. Mise mano alla sua pistola, ma lo anticipai.

Era soltanto un ragazzo che aveva fame e voleva sopravvivere, ma io vidi solo il nemico scappare con il nostro sacco di castagne. Quel cibo ci serviva.

Lo uccisi senza esitazioni.

Non sapevo ancora che avrei sentito per sempre le mani sporche di sangue.

Avevo fame, fame da morire.

Fame da uccidere.

Al violino si aggiunsero i flauti e i clarinetti. La piccola orchestra scaldava la sera odorosa di menta selvatica e felci umide.

Il buio sulla collina era rischiarato soltanto dalle lampade a olio appese fuori dalle finestre delle umili abitazioni del paese poco distante.

Luci e musica, dopo tanto, troppo tempo.

Stavo pensando a cosa ne sarebbe stato del futuro, cosa avrei fatto della mia vita quando la domanda improvvisa di Pietro mi fece scuotere.

‒ Sposiamoci, Marta. Voglio un figlio da te. Voglio una famiglia. Tutto.

Mi guardava come se non esistesse altro al mondo.

Avevamo passato mesi di paura e di coraggio insieme. Avevamo visto la morte in faccia più volte. Avevamo seppellito amici e parenti. Eravamo molto più vecchi della nostra età e quella grinzosità dell’animo trapelava anche dagli occhi.

Eppure avevamo ancora sogni semplici e normali, quelli di due persone innamorate: sposarsi, avere dei figli, una casa.

Era tutto così a portata di mano.

Una felicità da costruire insieme giorno per giorno.

Una vita libera, onesta e dignitosa da ricostruire dalle fondamenta.

Era tutto lì, a portata di mano, come la musica invisibile che danzava nell’aria frizzante. Come le lucciole scintillanti tra l’erba.

Era tutto semplice.

‒ Non posso.

Fu la mia risposta.

Lo amavo, l’ho sempre amato, ma rinunciai a lui. Piansi a lungo per quella scelta sofferta, ma, se potessi tornare indietro, la rifarei.

Mi negai qualsiasi possibilità di essere felice con lui perché sentivo che la mia vita doveva essere rivolta altrove. Non mi concessi nemmeno del tempo per pensarci su.

La mia scelta era cresciuta spontaneamente nel mio intimo e non avrei mai potuto ignorarla.

Avevo bisogno di redimermi attraverso il sacrificio.

Ebbi la vocazione proprio quella notte: ogni cosa era illuminata anche dentro di me.

Avevo appena compiuto vent’anni quando partii per l’Africa occidentale come missionaria insieme alle mie consorelle.

Dedicare ogni giorno della mia vita ad aiutare i più bisognosi è stata la scelta più giusta e nobile che potessi prendere.

Non è bastato a cancellare il sangue dalle mie mani, né a dimenticare, ma ogni volta che prendo tra le braccia uno dei miei piccoli orfani e lo sollevo in alto per farlo sorridere, sento che ogni cosa, fuori e dentro di me, è illuminata da quel sorriso.

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Aprì gli occhi.

Buio.

Li richiuse.

Aveva male alla testa, caldo soffocante, distesa su qualcosa di rigido.

Aprì ancora gli occhi, niente. Li richiuse.

Provò a muovere le gambe lateralmente, lo spazio era poco, angusto, provò a flettere le ginocchia, che toccarono subito sulla superficie di legno.

Fece lo stesso, con le mani.

Spazio stretto, ridotte possibilità di movimento, aveva dolore alla testa, il caldo insopportabile.

Con le mani annaspò sulla superficie che la circondava.

Tigliosa, fibrosa, non levigata.

Era legno, era una cazzo di cassa di legno.

Uno spasmo, un sussulto e subito urtò le sponde che rimandarono un suono pieno.

Maggiore il movimento, maggiore il caldo e maggiore il senso di soffocamento.

Provò a calmarsi e respirare, ma l’aria già iniziava a essere viziata.

Iniziò a cercarsi addosso, non aveva la borsa con sé, provò a sentirsi i jeans, aveva qualcosa in tasca.

Portachiavi con piccola pila al led per centrare la serratura anche di notte.

Per l’angusto spazio era sufficiente.

Adesso aprire gli occhi aveva un senso, un terribile senso che avvalorava quello che le sensazioni tattili avevano già trasmesso al cervello.

Era una fottuta cassa di legno.

Un gran mal di testa era l’unica possibile risposta a qualsiasi domanda potesse vertere sul com’era finita in quel feretro, cosa aveva fatto per meritarselo e dove si trovava in quel momento.

Perse la pazienza e diede un pugno contro la parete di legno che aveva a poco più di un palmo dagli occhi, senza nemmeno poter caricare troppo il colpo, viste le ridotte distanze.

Un colpo pieno al quale rispose un rumore altrettanto carico, con la luce del led riuscì a vedere solamente un po’ di terra scorrere tra le assi e cadere sopra di lei.

Almeno aveva preso coscienza del fatto di essere stata seppellita viva.

Magra consolazione sapere qual era la verità, soprattutto sapere che la verità era quella.

Iniziò con foga e rabbia a colpire le sponde che la circondavano, prima lateralmente poi dinanzi a lei, con le mani, con i piedi e perfino con la testa che continuava a dolergli.

Niente.

Perse anche la presa sulla lampadina e ripiombò nel più completo buio.

Singhiozzò, sommessa, sentiva le calde lacrime scendergli lungo gli zigomi fino a finirgli dentro le orecchie.

Iniziò a respirare più forte, se doveva finire soffocata in quel modo, allora tanto valeva la pena affrettare i tempi, a che serviva tirarla tanto per le lunghe.

Però non voleva morire.

Urlò forte, più forte ancora, un urlo sgraziato e prolungato tanto da fargli male alle orecchie e sentirsi bruciare la gola.

Lo avrebbero dovuto sentire in capo al mondo.

Riprese fiato e poi lo trattenne.

In silenzio, in attesa, cercando di carpire anche il più piccolo rumore, il più piccolo movimento, un qualcosa cui aggrappare la sua voglia di non finire in quel modo.

Niente.

Riaccese la luce.

Nel rivedersi lunga in quella bara le salì il sangue al cervello, il piccolo portachiavi le fuggì di mano, ancora buio, perdendo la calma diede una testata sul pannello che aveva di fronte.

Sentì, o almeno le sembrò, per un attimo quel legno scricchiolare.

Sentì, allo stesso tempo, scenderle dalla fronte una scia calda, lenta e vischiosa.

Un sapore ferroso le aveva pervaso la bocca quando il rivolo di sangue le raggiunse le labbra.

A fatica si passò una mano sulla faccia, ma le orecchie avevano percepito quello scricchiolare e il cervello era concentrato solamente su quello.

Aveva trovato qualcosa alla quale appendere la sua speranza di sopravvivenza.

Brancolavano spasmodiche le mani alla ricerca del portachiavi, lo trovarono, accese la lampadina e la puntò dinanzi i suoi occhi.

Il legno sembrava pressoché intatto ma lei comunque quel rumore lo aveva percepito.

Tenendo la luce accesa con una mano, iniziò a riprendere a pugni la parete con l’altra, fino a farsi male, fino a risentire nuovamente quel rumore.

Non poteva essere un caso, non poteva essere una farneticazione del suo cervello, magari era un’asse difettosa, crepata, male ancorata al resto della struttura, non sarebbe stato il suo biglietto per uscire da quella situazione ma avrebbe potuto, anzi no, avrebbe dovuto continuare a tentare.

Era seppellita viva è vero ma riuscendo a togliere quell’asse la terra si sarebbe smossa, avrebbe lottato come una leonessa per riuscire a emergere dalla terra.

Poteva essere stata seppellita troppo in profondità, d’altra parte non riusciva a percepire alcun rumore all’esterno, eppure perché non provare? Quale alternativa valida poteva esserci?

Nessuno in quella bara poteva risponderle se non lei e lei non aveva altra speranza cui aggrapparsi.

Perse la presa sull’interruttore della pila, la riaccese, guardò il suo corpo allungato in quello spazio angusto.

Ogni cosa era illuminata in quella cassa da morto e ogni cosa era solo e soltanto lei.

Vedeva il suo petto riempirsi d’aria e svuotarsi, sollevando e abbassando quella maglietta sporca e sudata, le prudeva una gamba ma non arrivava a grattarsi, così iniziò a strofinarsi lungo il legno.

Iniziò con una chiave a incidere il legno davanti al suo viso, in maniera sempre più vigorosa, frenetica, disperata.

Una piccola scheggia si staccò.

Un segnale, una rivelazione, la riprova che una via di fuga era possibile.

Bastava quello per rianimarla, per rimetterla in rotta, per farla sospirare che forse la partita non era ancora terminata, che aveva ancora un’ultima mano da giocare e lei era disposta a tentare il tutto per tutto.

Ancora, ancora, sputando i trucioli che le arrivano in bocca.

Era rimasta un po’ contratta, non si era accorta che quella maledetta cassa era oltretutto più piccola della sua statura e non poteva stendere completamente le gambe.

Anche ora che era uscita da lì, le gambe le erano rimaste un po’ piegate.

Non aveva più quella sensazione di claustrofobia, intorno a lei non c’erano quelle anguste assi di legno che la tenevano prigioniera.

Su quelle tavole stavano tutti quanti i segni del suo dolore, della sua disperazione. I segni delle chiavi che cercavano di abbattere quell’ostacolo che la opprimeva e dopo le chiavi aveva lottato letteralmente con le unghie.

Erano spezzate, il sangue era raggrumato e sembrava uno strato di smalto messo grossolanamente.

Avevano trovato anche le chiavi, la pila attaccata aveva esaurito completamente la sua carica.

Ora era lì, nuda, non indossava più quella maglietta sporca e sudata che copriva quel petto che affannoso si gonfiava e si ritraeva alla ricerca di aria pulita, salubre, per far affluire ossigeno al cervello, per rimanere lucida, per rimanere vigile.

Distesa, immobile, con le braccia lungo i fianchi su quel tavolino gelido.

Palpebre alzate.

Una luce accecante puntata dritta in faccia.

Le bianche pareti, le sponde dei lettini in metallo, i ferri del dottore che esegue l’autopsia.

Ora ogni cosa è illuminata in quella stanza, ogni cosa oltre a lei.

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La casa era piena di oggetti ricevuti in dono dai genitori quando si era sposata.

Con la scusa di non spendere e che bisognava risparmiare, l’avevano riempita di cose delle zie, delle nonne, della mamma.

Lei in realtà voleva dimenticare il passato, troppo pesante per esserne fiera e contenta.

Litigi, insulti, rifiuti. Voleva dimenticare, anzi, non avrebbe mai voluto appartenere a quella famiglia e non voleva più nessuno di loro tra i piedi. Voleva ricominciare, sposarsi per chiudere un capitolo e aprirne un altro.

- Possiamo permetterci tutto quello che vogliamo, Cathy, mio padre pagherà ogni spesa.

- Tutto, tutto quello che serve?

- Quello che serve e anche quello che non serve.

- Stai scherzando, vero?

- Dico sul serio. Non hai ancora ben capito che gente siamo noi, eh?

Dopo una vita passata a contare e conservare anche gli spiccioli nei salvadanai, trovava il fatto di non doverlo più fare un progresso non da poco. Poi David le voleva molto bene.

Sì, quindi poteva permettersi di dimenticare un passato molto, molto faticoso.

E quei cimeli ricevuti in regalo davano quel tocco vintage che andava di moda, spezzavano lo stile troppo moderno che piaceva tanto a lui: per donare una piccola dose di personalità alla casa andavano bene.

Il tempo passava senza pensieri, aveva tutto quel che ogni giovane donna avrebbe desiderato. Le monete erano tenute sparse sui mobili, né contate, né conservate.

Una sera David disse: -Sai, Cathy, stasera andiamo a parlare con tuo padre, vieni?

- Certo, David, per quale motivo?

- Lo saprai quando saremo là.

Si preparò, fiduciosa ma perplessa. ‘Che strano, cosa dovrà mai chiedere David a mio padre?’, si disse.

Non avrebbe mai voluto rivederlo né avere bisogno di lui: era sempre stato burbero, scostante. Fuggiva dalla famiglia eppure restava un despota incontrastato. Era sicura di averlo reso felice sposandosi. Felice di essersi liberato della figlia. E anche lei lo era, di essersi liberata del padre.

Arrivati alla vecchia casa paterna, rividero il suocero dopo diverso tempo. Era invecchiato. Si accomodarono intorno al tavolo in cucina e David gli disse: - Ecco, le volevo chiedere se poteva darmi del denaro per un’auto nuova. Sa… in fondo noi abbiamo sostenuto le spese della casa e so che lei ha dei risparmi in banca per cui, be’… se non le dispiace, noi a causa del costo della ristrutturazione ci siamo indebitati, mentre voi… Be’, per contraccambiare un’auto a me ci verrebbe, no?

Cathy non credeva alle sue orecchie. Rimase ammutolita a lungo, non sapendo come reagire; avvertiva una lunga serie di brividi di sconcerto che non le permettevano di avere alcuna reazione. Le ci volle molto tempo per elaborare.

Tutta la sua famiglia, suo padre, lei stessa avevano lavorato sodo una vita intera per quei risparmi.

David aveva passato quegli stessi anni a scialacquare a piene mani perché diceva di avere denaro in abbondanza. Diceva che lo aveva suo padre.

Diceva. Non era così, allora. Non era chi aveva fatto credere di essere.

Cathy rimase in silenzio. La fiducia era diventata una cosa non scontata.

Si accarezzò il ventre. Ninna nanna, ninna o, questa bimba a chi a do? La darò alla sua mamma, che la tiene a far la nanna. Ricordò.

Giunta a casa, si diresse verso il cassettone: lo guardò con occhi nuovi. Era della nonna. Le sembrò di rivederlo nel punto esatto della stanza in cui lo teneva.

Ne aprì un cassetto ed estrasse la copertina che la zia le fece ai ferri quando nacque e che sua madre aveva conservato. Cominciò a passarvi dei nastri rosa intorno al bordo, facendo dei fiocchi agli angoli. E benedisse il luogo, le persone, la cultura, le esperienze dalle quali veniva.

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Genoveffa Settembrini aveva uno strano modo di risolvere i problemi.

Se l’acqua le arrivava alle caviglie, lei non chiudeva il rubinetto fino a quando non sentiva di annegare. Non agiva così solo per pigrizia, il fatto era che i problemi proprio non le interessavano da oltre cinquant’anni, praticamente da quando era nata.

Nel condominio di Via dei Gelsi 12 era la sola a non partecipare alle consuete riunioni del tè a casa di zia Valeria.

Quegli incontri avevano la solennità di un evento a palazzo e la zia, vedova e senza figli, confezionava per l’occasione degli inviti decorati.

La zia Nella, Mina la parrucchiera, Dorotea e la figlia Ludovica erano le ospiti fisse, poi c’ero io.

Io vivevo con le zie da quando avevo tre anni. Mangiavo a casa della zia Valeria e dormivo a casa della zia Nella. Per me non faceva molta differenza, loro abitavano sullo stesso pianerottolo e le porte d’ingresso erano sempre aperte.

Prima degli attesi avvenimenti di ciance e biscottini, andavano tutte al piano terra a farsi belle nel salone di Mina, che applicava il trenta per cento di sconto al gruppo delle fedelissime amiche.

I racconti del tè, così li definivo, iniziavano dalla parrucchiera e proseguivano a casa della zia.

Mentre loro ciarlavano, io giocavo sul terrazzo e sentivo gli ultimi aggiornamenti del mese. La più discussa era proprio Genoveffa, per questo motivo destava tanto la mia curiosità.

Talvolta, quando la sentivo uscire dalla porta, mi precipitavo al portone di ingresso per incontrarla, mentre arrivava con la sua busta piena di libri. Dove andasse con tutti volumi, le chiacchierone non lo sapevano. Qualcuno sosteneva che li donasse alla biblioteca comunale o all’orfanatrofio.

Benché le zie la considerassero burbera e poco loquace, con me si comportava in maniera cortese. Mi rivolgeva spesso la parola e, in un paio di occasioni, mi aveva regalato alcuni di quei testi: I misteri della giungla nera di Emilio Salgari e Il barone rampante di Italo Calvino.

Più di una volta era stata avvicinata dalle zie e invitata nel salone di Mina, ma senza alcun apprezzabile risultato. Con molta probabilità era convinta che il loro interesse nei suoi confronti fosse dovuto all’avidità di pettegolezzi e curiosità, di cui non erano mai sazie. Del resto come darle torto?

Un pomeriggio piovoso, inaspettatamente, Genoveffa apparve stravolta e allarmata sull’uscio del salone.

Atterrò in ciabatte, avvolta in un grembiule color lavanda e un asciugamano giallo paglia ancorato con una molletta, per fasciarle la testa.

Il silenzio piombò nella sala e Mina, sconcertata e allietata dalla visione, si affrettò ad accoglierla, avanzando verso di lei con uno slancio emozionale proporzionato a quella balzante novità.

«Mia cara, cosa ti è successo?» disse con le unghie laccate di rosso, un pennello da tinta in una mano e la sigaretta nell’altra.

Genoveffa, dietro le spesse lenti degli occhiali, puntellate da goccioline d’acqua, si accasciò sull’unica sedia libera e aprì sgomenta l’asciugamano.

«Pensavo ad un tinta nera con riflessi blu, ma il risultato è stato questo!» rispose.

Era blu ogni singolo capello, compresa la pelle intorno all’attaccatura della fronte e il cuoio capelluto che si intravedeva nella riga centrale!

A quella vista, decisi che avrei allontanato da me il più possibile l’idea di tingermi i capelli, un giorno.

«Cara, hai provato a fare la tinta da sola in casa? Lo vedi che c’è sempre bisogno di una parrucchiera? Anche per una semplice pettinata! Oh… ma aggiusteremo tutto, vedrai!».

Detto questo, posò il pennello sul carrello e si diresse verso la macchinetta del caffè.

«Leda, tesoro. Conduci Genoveffa al lavatoio» disse alla sua aiutante, inserendo la cialda nella macchina

«Intanto ci vuole un bel caffè! Genoveffa, hai bisogno di qualcosa che ti tiri su. Avrai preso un bello spavento. Quanto zucchero?» le chiese.

La verità era che Genoveffa si stava facendo bella per il signor Alvisi. Lo sapevo solo io, perché li avevo sentiti concordare il loro primo appuntamento, mentre li osservavo dal terrazzo. Da quel balcone ogni cosa mi pareva illuminata e batteva il sole per tutto il pomeriggio.

Quello di Genoveffa Settembrini e del signor Alvisi era un amore platonico e impacciato, che andava avanti da molti anni.

Alvisi viveva con la mamma al primo piano e, come Genoveffa, non si era mai sposato.

Era un uomo di mezza età, posato e scaramantico, e lavorava in banca.

Non percorreva mai il cortile in diagonale e accendeva la sigaretta sempre un attimo prima di aprire il cancelletto dell’uscita.

Al mattino si incamminava con la sua valigetta nera contenente poche cose: un piccolo ombrello, una penna stilografica, un pacco di sigarette e una banana.

Lo sapevo perché avevo aperto il suo curioso bagaglio, mentre lui, ignaro, consultava la cassetta della posta.

Fu in quell’occasione che ebbi l’idea.

Le zie raccontavano che Alvisi e Genoveffa erano talmente imbranati che mai sarebbero riusciti a dichiararsi il loro puro amore pluridecennale.

Risolsi io la questione con l’aiuto di Santina la fioraia: «D’accordo Annetta, mi hai convinta. Speriamo solo di non combinare qualche pasticcio!» mi disse. In fondo il mio intento era quello di fare qualcosa di buono per quei due.

Lei confezionò delle rose bianche per Genoveffa, con un biglietto che recava la scritta:

Quattro candide rose. Una simbolo della tua purezza, una simbolo della tua innocenza ed una simbolo della tua mitezza. La quarta rappresenta il mio segreto, da rivelare con delicatezza.

Con affetto, Tullio Alvisi”.

Santina, che viveva di fiori e poesia, appose questo messaggio in bella grafia all’interno di una busta chiusa e spillata. Io mi sentivo illuminata dalla viva fede nell’amore.

Il caso volle che, al momento della consegna, il signor Alvisi non fosse a lavoro a causa di un malessere.

Pare infatti che spesso venisse colto da emicrania imputabile ai luoghi chiusi e popolati, ragion per cui si vedeva costretto a rimanere presso la sua dimora e fare lunghe passeggiate nel cortile, per respirare un po’ d’aria.

Il marito di Santina venne col suo furgone a recapitare le rose, ma non trovò Genoveffa, perché era uscita a fare la spesa.

Incontrò, però, Alvisi in cortile. Visto che aveva altri giri da fare, gli affidò la consegna, chiedendo la gentilezza di farli pervenire alla signora Genoveffa.

All’inizio Alvisi, alquanto stizzito oltre che geloso, protestò non poco. Alla fine pensò che non poteva negare quel dolce favore alla cara Genoveffa. Lei, in fondo, avrebbe apprezzato quel gesto signorile e di pura cortesia, superiore al becero istinto di competizione.

E così, ignaro e cortese, si decise a consegnarle i fiori.

Appena Genoveffa rientrò, lui la vide dalla sua finestra. Indossava un abito a quadri e una paglietta antica. Anche lei lo vide, alzò lo sguardo e subito lo abbassò timidamente.

Alvisi si deodorò la bocca e si pettinò, dopodiché salì al terzo piano con le rose. Suonò.

Genoveffa gli aprì e per poco non svenne. Tullio ci tenne a precisare che si trattava di una sorpresa e che lui portava le rose di persona, al posto del fioraio. Poi, sudato e rosso per l’imbarazzo, abbozzò un timido sorriso con un mezzo inchino e andò via per le scale.

Il giorno dopo attesi di vedere qualche movimento. Quando Alvisi andò a lavoro, attraversando il cortile in lungo, mai in obliquo, lei scostò lievemente la tenda e lui accese la sigaretta poco prima di aprire il cancelletto, uno sguardo rivolto alla cara finestra e poi fuori dal cortile.

Per tutta la giornata Genoveffa non uscì neanche per andare a fare la spesa. Dopo due giorni la vidi in cortile. La paglietta non l’aveva, anche se era una bella giornata e la luce del sole le illuminava il volto. Incrociò Alvisi, per caso.

Sorrisero timidamente, si salutarono con un cenno della testa e proseguirono ognuno verso la propria direzione.

Improvvisamente Genoveffa si fermò: «Tullio...».

Lui si girò verso di lei con la lentezza di un bradipo, la spessa montatura sosteneva il suo sguardo chiuso.

«Mio…ecco... grazie per…per quello che hai fatto» disse esitante Genoveffa. Poi, bordeaux più di una rapa, attese qualche secondo per avere una risposta e dopo che lui ebbe fatto un delicato inchino, si incamminò senza sapere neanche dove.

Tullio si diresse verso il cancelletto ed era talmente imbambolato che attraversò il cortile leggermente in obliquo. L’inconsueto percorso gli procurò un tale panico che dovette rientrare a casa dal lavoro per malattia.

Orgoglioso per l’amabile gratitudine di Genoveffa, sperò vivamente che l’amante incognito si facesse nuovamente vivo con qualche dono inatteso, a tal punto da non trovarla in casa per il ritiro. In quel caso lo avrebbe ricevuto e portato lui.

Così, prese una pillola di magnesio, si deodorò la bocca e quel pomeriggio andò a suonare alla porta dell’amata.

Genoveffa aprì: «Oh…oh…» furono gli unici suoni che emise quando lo vide.

«Soave signora» esordì Alvisi. Lei chiuse gli occhi e già immaginò il finale da favola.

Lui proseguì: «Se dovesse trovarsi in difficoltà a ricevere fiori e doni, me lo dica, io non serbo rancore e non amo competizioni».

Poi con il classico delicato inchino: «Servo fedele, qui per servirla come l’altro giorno!».

Quanta eleganza e quanta nobiltà in quelle parole!

Con tutto il coraggio che aveva e al culmine dell’entusiasmo, Genoveffa rispose: «Ma caro…caro Tullio!». Poi, prendendogli le mani « No, certo che no! Mi fa piacere ciò che fai! Accetto! Oh si, accetto!».

Tullio Alvisi quasi non credeva a ciò che sentiva e al successo del suo nobile sacrificio.

Pensò che un cuore puro come quello di Genoveffa, sapeva riconoscere la nobiltà del suo spirito, che prima di allora mai nessuno aveva capito. E così, stavolta osò baciarle le mani che tanto impunemente avvinghiavano le sue.

A quel punto non sapevo più cosa architettare. Se procedere con quella pantomima e inventarmi altri regali o lasciare che i due amanti, già bene avviati, proseguissero per la loro strada.

Prima o poi, però, sarebbe saltata fuori la malfatta circostanza.

Per giorni non accadde nulla e infine sentii Genoveffa nel cortile invitare Tullio ad assaggiare un pezzo di torta a casa sua, in occasione di non sapevo bene cosa.

Così lei si tinse i capelli per l’avvenimento, che divennero blu.

Quando Mina salvò la testa di Genoveffa eravamo tutte lì. Smaniose di sapere perché. Eccetto la sottoscritta, si intende. Io un po’ me la ridevo, un po’ mi compiacevo.

L’indomani era sabato e Alvisi si presentò nel pomeriggio a casa di Genoveffa, con un mazzo di margherite e un papillon a righe. Lei raccolse i fiori e lo baciò tirandolo in casa per il papillon.

Non seppi bene cosa accadde quel pomeriggio, comunque Genoveffa non volle più vedere Tullio.

«Un uomo riesce sempre a far soffrire una donna! Anche quell’imbranato del signor Alvisi!» commentò risentita e indignata la zia Nella.

Genoveffa, sebbene da sempre molto restia alle confidenze, era venuta dalle zie in lacrime ad infamare Tullio.

Fiduciosa di una complicità tutta femminile, si era affidata alle amorevoli cure verbali delle due.

Io volevo sapere cosa fosse successo, ma la zia Valeria fu categorica: «Lascia stare Annetta, ci sarà tempo per conoscere di che pasta sono fatti gli uomini!» così dicendo la stanza risucchiò le tre donne ed io potei solo origliare.

Insomma: pare che durante le dolcezze del risveglio, Genoveffa avesse chiesto a Tullio di leggerle ad alta voce il tenero messaggio d’amore, che accompagnava le quattro rose bianche.

Lui aveva negato di averlo scritto e lei si era sentita ingannata, sedotta e abbandonata.

Lo aveva cacciato fuori di casa ancora in mutande.

Fu da allora, che la ritrosa inquilina del terzo piano, entrò nel gruppo delle fedelissime amiche.

L’amore tra Tullio e Genoveffa tornò all’impaccio platonico di sempre, ancora più impacciato.

Quanto a me, che nel mio piccolo avevo cercato di illuminare le vite di quei due maldestri, ottenni comunque l’effetto di allietare la vita della goffa Genoveffa, con le chiacchiere e i racconti del tè.

Nessuno tuttavia, fece mai luce sulla strampalata vicenda.

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