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Estate

Cammino ciondolante sul fare della notte, attendo la scomparsa dell’ultimo brandello di luce che, come è d’uso in questa stagione, se la prende con comodo.
Evapora il sudore dal vestito della rue Zola e il tempo si sospende nel suo circolo mostruoso che ributta in faccia il fumo di una sigaretta. Ancora Parigi, ancora estate, ancora girovagare.
Non è rimasto niente dello scorso maggio, non una goccia di sangue sul selciato, non la carta dei giornali, tutto è scomparso con le barricate e io solo alla fine dei giochi seppi che era successo qualcosa, ma non mi interessava neanche sapere cosa, so solo che improvvisamente tutti i “cani da guardia” abbaiano ai propri padroni.
Entro nel bar e ordino un pernot, bevo e ne chiedo un altro, li butto giù con la maestria di un violinista gitano.
Il fumo entra nei polmoni, gli occhi si fanno sottili. Penso a Margherita e mi aspetto di vederla entrare da quella porta da un momento all’altro.
—Oh, ma chi abbiamo qui?! Il nostro caro poeta Paul Zelano —
Vacilla lo sguardo per trovare un panciuto borghese.
—Che vuole monsieur? —
—Oh niente, solo presentarle la dolce Yvonne Talloi, sa, anche lei s’intende d’arte.—
L’occhio rotola sull’orlo del bicchiere e ci cade dentro. Butto alcool in gola e mi vedo annegare mentre il garçon me ne riempie un altro.
—Non m’intendo di nulla, io.—
Con le punte degli occhi trafiggo il petto del disturbatore. Sporco e banale imitatore di Heidegger; è lui, la puttana dell’università, il ruffiano degli artisti, il compagno da salotto, Jean-Paul Partre.
—Ah cara Yvonne, lo sa come sono questi poeti: sempre un po’ maledetti.—
Scorgo una giovane donna, gentilmente vestita di chiaro, sublime nello sguardo fermo, da donna vissuta. Non ha succhiato neanche la metà dei miei anni, i miei anni di sangue e merda nei campi della Bassa e nel confino lucano, ma ciò nonostante pare sicura e invincibile, molto più di me, o forse è solo giovane. Ingollo il bicchiere, lei aspira il fumo da una sigaretta con aria pensosa e profonda.
—Così lei è Paul Zelanò, il poeta.—
—Sono solo un mediocre lettore di italiano presso la Sorbonne, nulla a che vedere con il magnifico qui presente Jean-Paul Partre, uomo di mondo, filosofo complesso e persona profonda. Alle sue lezioni c’è più folla che a quelle di Foucault. Lui le farà conoscere tutta Parigi.—
—Ah, troppo buono.— finge di non cogliere sarcasmo e disprezzo, o forse sa che è solo invidia, la mia, e non vuole darmi soddisfazione.
—Mi piacciono i suoi versi.— la ragazza esprime il più banale giudizio sulla poesia che si possa avere. — E mi piacerebbe poterla fotografare e chiederle cosa pensa dei miei lavori.—
—Fotografa? Non ce ne sono abbastanza di copiatori della realtà?—
—Oh, ma io non copio la realtà, io la limito, io la creo.— e la sua voce è vibrante come il serpente schiantato da Dio nella casa dell’uomo dopo la creazione.
—Io ho avuto modo di vederle e sono rimasto estasiato.— dice l’accomodante ruffiano.
—Sono felice per lei.—
—Vorrei organizzare la prima personale di questa ragazza, così giovane e così talentuosa.— il ribrezzo per quell’uomo mi scava lo stomaco come un’ulcera.
—Vorrei finire di sbronzarmi e poi cercarmi una puttana abbordabile.— l’anticonformista filosofo borghese fa uno sguardo stupito, poi gli sovviene che è antimoralista e sorride accomodante.
—Beh, chi siamo noi per interrompere una così nobile occupazione?!—. Poi, rivolto alla ragazza:— Andiamo Yvonne, l’accompagno.—
Yvonne, statua di ghiaccio immobile, sguardo che affonda la carne.
Si avvicina licenziosa e sinuosa come lingua di fuoco, spegne la sigaretta tra le altre nel posacenere accanto a me e la sua bocca è vicina al mio orecchio, cerco di mantenermi calmo mentre il suo odore mi confonde le viscere. Sussurra, facendo uscire il fumo, e le sue parole vellutate mi sfiorano delicate: —È stato davvero un piacere, spero di rivederla.— Rossetto rosso, labbra vibranti, bianchi denti, occhi verdi, biondo cenere i capelli; il collo è sottile ed elegante, le dita affusolate e smaltate di amaranto… Il mio corpo è un vibrante cazzo eretto nella sua pulsazione finale.
La ragazza è entrata in me con tale violenza da sentirmi stuprato. Improvvisamente ogni altro pensiero è caduto giù per il bancone del bar in un solo impeto biochimico e Margherita sembra non esserci mai stata nella mia vita.
Escono. C’è ancora luce, lui le apre lo sportello per farla entrare nella decappottabile. Lei indossa il cappello e gira lo sguardo verso di me. I nostri occhi si toccano scambiandosi una promessa. Ora non so più se è giorno o se è notte.

Autunno

Yvonne, Madonna vestita di candido, puttana abbarbicata, lì, sulla sedia. Il caschetto incornicia il viso di perla, la bocca sottile piegata in una leggera smorfia; nere e voluttuose le labbra succhiano il bocchino di una sigaretta. Sottile veste di lino e seta, intravedo il piccolo seno, l’ombelico come una coppa e, tra le gambe accavallate, il nero del suo intimo. Vorrei gettarmi su di lei e poi supplice ai suoi bei piedi nudi implorarle di farmi assaporare il suo odore sulla punta della lingua; e poi baciarle le ginocchia e le cosce e strapparle tutto, arrivare al sesso per bere il suo nettare dandole piacere in tutti i modi in cui un uomo può dare piacere a una donna.
—Allora Paul, che ci fai qui?—
—Ero venuto a trovarti…—
—Eri venuto a trovarmi o a provarci di nuovo?—
—Forse tutt’e due…—
—Paul, ascolta, te l’ho già spiegato, non può continuare. Ti faresti solo del male.—
—Tu mi ami ancora.—
—Non lo so se ti amo, non so neanche cosa sia l’amore francamente, so solo che… che sei geloso, morboso, possessivo. So che mi vorresti tutta per te, sempre, ma io non voglio esser tutta per te, né per nessuno, voglio essere libera di costruire la mia vita sessuale ed emotiva con la stessa libertà con cui costruisco le mie foto.—
—Ma io ho bisogno di te Yvonne. Ho bisogno di te e tu lo sai—
—No, non è vero. Nessuno ha davvero bisogno di qualcuno e tu non fai eccezione. Tu, come tutti, hai bisogno di una scusa per vivere, per dare senso alla tua vita. Io sono la tua scusa per scrivere e scrivere dà senso alla tua vita. Quando non ci sono mi vuoi vicina, quando ci sono puoi dedicarti alla poesia, la tua vita non può dipendere da me, né da nessuna donna.—
—Ti prego—
—No.— sigaretta finita, si alza —Conosci l’uscita.—
—Io… io posso accettarlo… posso provarci perché… perché lo capisco
—Lo so che lo capisci.— percorro la sua schiena con le dita degli occhi e l’immagino nuda. Si volta leggermente e mi avventato sul suo collo a baciarlo. No, lo sto immaginando, sono fermo, davanti la sedia dell’ingresso con il cappotto ancora addosso, la porta alle mie spalle e il cappello in mano come un questuante. Imploro con gli occhi l’epica di un amplesso, ma lei taglia il mio delirio col coltello: — C’è una persona nell’altra stanza—gelo— sto per andare a letto con lei, di nuovo, come ho fatto tutta la mattina. Lo accetti?—
—Io… io… devo andare.— imbocco l’uscita.
Non mi scandalizza che ci sia un altro, o un’altra, nella sua stanza, non m’importa chi si scopa o chi ama, tutto ciò che mi disturba è che non sia io.
Scivolo per strada, il sole è una palla rovente in un gelido autunno. Il vento gioca con le foglie, le uccide, le porta ai piedi di anonimi passanti in uno stupefacente spettacolo di morte senza resurrezione. Vorrei andar a giocar la mia vita a dadi col mio amico Topo, ma ho la testa piena di lei… Ah Yvonne, Yvonne, ricordi che pochi giorni dal primo incontro convincesti Partre a invitarmi alla sua villa per una festa estiva?, e ricordi che facemmo l’amore nelle sue stanze mentre brontoloni universitari e sedicenti artisti vagavano per il giardino? E le mie poesie ti piacevano, mi convincesti a presentare il nuovo libro e alla conferenza io ti aspettavo tremante e disarmato.
I nostri giorni insieme sono passati intensi e maestosi come le onde del mare che mi risospingono ancora alla riva delle tue cosce, le tue cosce che mi raccontano la vita, la carne, l’amore come se dal mio mezzo secolo non avessi appreso nulla. Prima di te mi preparavo all’oltretomba, ma con scarsi risultati, adesso voglio la vita.

Inverno

Io, Paolo Zelano, malinconico poeta senza fama, senza gloria, orfano, superstite di una grande guerra, migrante, italiano, parigino, amante… Immobile davanti la porta del tuo appartamento spio i tuoi passi. Vedo gente entrare e uscire dal tuo palazzo e mi chiedo se verranno da te confessandoti le loro fragilità. E tu? Sarai fragile anche con loro come lo eri con me?
L’alba e il tramonto mi scivolano addosso, cerco di pedinarti arrancando ubriaco per strade ghiacciate. Mi hai dato un amore che non pensavo di poter provare, che non credevo di esserne ancora in grado. Yvonne, ora sei lì, chiusa nella tua casa a guardare le fotografie, a sistemarle per la mostra. Sei in una camera oscura o in un parco pubblico a litigare con la luce. Ti spio nella sera dei miei giorni e non so da quanto non mi presento in facoltà. So che mi sveglio tardi, so che non dormo, so che mi masturbo pensandoti; so che giro rabbioso per le strade in cerca di qualcuno da sbranare come fanno certi cani abbandonati.
Perdio Yvonne!, cosa fanno le tue labbra quando non mi baciano? Cosa stringono le tue braccia quando non ci sono?
Possessivo, fragile, geloso… hai ragione, sono un vecchio… sono tutto ciò che pensavo di odiare, un uomo che si attacca alla materialità della vita con le unghie e con i denti, non disposto a condividere nulla con nessuno.
Ti guardo uscire di casa vestita calda per serate mondane e quando mi scorgi mi celo nell’ombra e ansimo al pensiero di stringerti il collo tra le mani per vederti spirare mentre l’ultima fotografia la scattano i tuoi occhi guardando imploranti i miei. Mi perdonerai e mi stringerai e mi amerai ancora e per sempre… Ti desidero, ti strapperò i vestiti, ti salterò addosso e ti violenterò per strada, in un vicolo o in pubblica piazza, e tu godrai come una santa puttana in estasi davanti al suo Cristo, sì.
Calma!, respira, sono lucido… sono un semplice vagabondo di strada durante un gelido inverno; sono uno stereotipo, un penoso vecchio poeta che aspetta una donna che non arriverà mai e che fuma sigarette mentre il vento lo percuote, la pioggia lo bagna, la salute lo abbandona. Non è romantico, è patetico!
Ti smaltirò come si smaltisce la sbronza. Ti dimenticherò e amerò ancora o forse non amerò mai accettando di buon grado l’impotenza della vita.
Tossisco e dolorante mi porto verso casa, come ogni notte.
Parigi è grande, ma finisco sempre al tuo portone, Yvonne, desideroso, sognante, illuso. Quando realizzo cosa sono davvero ritorno a casa, sconfitto. Con secchiate di gelida lucidità mi convinco che alla fin fine tutto scompare nel nulla e che tutti gli amori scompaiono prima o poi dalla mente, come gli affetti e i ricordi più intensi. Tutto si fa opaco e allora mi chiedo, quando metto la chiave nella toppa, ho mai amato davvero prima di te oppure semplicemente continuo a trovare oggetti per riversare il mio amore?… magari ogni “ti amo” è una bugia o, e forse hai ragione, è una scusa.

Primavera

Giunge sottile la notte da sotto le porte e l’inverno alle spalle ha piegato il mio corpo. Una donna che amavo ha fatto la sua prima personale di fotografia. È stata un successo, ho letto di lei sui giornali, non l’ho vista perché malato… ma oggi sto meglio, mi sento di camminare, anche se non so dove. Forse mi basta sbirciare la primavera che profuma una Parigi notturna, così romantica, così viva, come la luna che si specchia nella Senna.
Passeggio lungo il fiume e cerco Topo, un clochard, un mio amico, gli darò i miei ultimi scritti e se ne farà un giaciglio. Una volta mi disse che aveva deciso di fare il barbone quando, da piccolo, salì sulla Tour Eiffel per prendere una stella, quando vide che quelle restavano comunque troppo lontane capì una verità e si disse: — e a me chi me lo fa fare di salire in cima quando si vedono uguali da giù? —
La lezione di Topo non l’ho mai imparata, dalle delusioni, io, non imparo mai.
Sapete?! ho mentito, io so dove sto andando, sto andando in rovina, sto andando a cercare la luce nel fiume, sto andando a impedire l’orrore con cui un nuovo amore ti sveglia al mattino per cancellare tutti quelli passati.
Percorro la Senna cercando sotto quale ponte si è messo il mio amico così da dargli in poesia quel che resta dei miei giorni andati come schiuma di mare, quando, dopo l’onda, non resta più niente. Che scherzo crudele, che triste esistenza quella di un uomo e di una donna fragili e inconsistenti. La schiuma che decora le onde decora anche i giorni, ma alla fine, di essa, in entrambi i casi, non resta che qualche confuso ricordo… ecco che me ne sovviene uno non troppo opacizzato, chissà perché proprio questo.
Camminavo con Yvonne lungo il fiume.
—La fotografia non deve trasmettere la realtà, almeno la mia fotografia. La mia fotografia esprime il mio occhio sulla realtà, io quella gran cosa che è la realtà la taglio, perché per me non esiste, esiste solo quello che posso strappargli con il mio obiettivo, perché quel mondo che c’è in foto è un mondo completo pieno di me… anche se non vi compaio mai… mi segui?—
—Sì.—
—Grazie… ci sei anche tu nel mio mondo.—
—E anche bello in posa…—
—No, quelle sono foto… ricordo, diciamo… no, tu sei nel mio mondo perché ti ho fotografato mentre dormivi, quando non mi vedevi, così ho catturato il tuo corpo e l’ho riempito col mio… cioè… il mio “spirito”… no, così suona di merda.—
—Tranquilla ho capito. Tu “addomestichi” il mondo.—
—Sì… come direbbe quel tale algerino io voglio firmare il mio passaggio, ma per farlo devo ritagliarmi un pezzo di vita, insensata ed effimera, e fare in modo che duri e che dica “Yvonne Talloi è esistita”. E non m’importa se non sapranno chi ha fatto quelle foto o che fine faranno, l’importante è che ci siano perché dove sono loro ci sono anch’io, che la gente lo sappia o meno, che capisca le mie foto o meno. Non me ne frega niente se mi dicono sono belle, sono brutte… sono mie, sono io, anche in quelle così brutte che ho strappato… Capisci?—
—Capisco.—

Pubblicato in concorso