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I ricordi sono al tempo stesso una fortuna e una rovina, senza saremmo scatole vuote e solo la mutazione darebbe senso alla vita. Un accadimento resterebbe importante se, pur non avendone memoria, influisse in qualche modo sul nostro cammino. Se non potessimo ricordare il profumo, o il colore di un fiore, non avrebbe senso fermarsi ad ammirarlo, perché un istante dopo sarebbe come se quel fiore per noi non fosse mai esistito, ma se il profumo o il colore di quel fiore, al di là del ricordo mancante, condizionassero le nostre scelte e, per esempio, ci facessero interessare a un uomo perché ha quello stesso profumo o perché ha una camicia di quel colore, allora ci sarebbe ancora un senso nelle cose.
D’altra parte i ricordi possono essere una rovina. Quando resti ancorato alla tua vita passata, quando il ricordo di ciò che non sei più, dei tempi felici, della mancanza di pensieri, ti impedisce di guardare con mente sgombra al futuro, allora sono un peso che opprime, sono una soffocante coltre di fumo.

Da quando l’incidente di Trieste ha obbligato Stefano a vivere in carrozzella e con la misurazione continua della glicemia abbiamo smesso di esistere, offuscati dal ricordo di ciò che eravamo, incapaci di edificare un nuovo futuro. Ha perso la voglia di combattere e io non sono in grado di aiutarlo. I giorni si ammucchiano uno sull’altro. Mescolati alla noia e alla rassegnazione producono una schiuma appiccicosa dentro la quale restiamo sempre più impantanati. Quello spirito agonistico che lo spingeva nella gare di enduro, che gli faceva aggredire la vita, si è spezzato insieme al pancreas e alla colonna vertebrale, e da allora boccheggia, attaccato al respiratore dell’adrenalina.
Tra casa nostra e il mare c’è uno snodo ferroviario dove per la maggior parte del tempo manovrano treni merci e sferragliano vecchi interregionali, ma una volta al giorno, prima che sorga il sole, ci si incrociano anche due intercity.
Un anno fa, quando siamo passati di qui al culmine di una notte insonne, Stefano ha avuto un guizzo. Le luci dei convogli che puntavano l’uno contro l’altro sembravano gli occhi di due pistoleri, e lì è nata la folle idea: tornare la mattina seguente per attraversare i binari prima che i due intercity si incrociassero, mentre correvano l’uno verso l’altro. Non so cosa mi fosse passato per la testa, ero annullata dalla sua rassegnazione, e, trascorsa un’insolita notte serena, l’avevo accompagnato a quello snodo. Una rete metallica scurita dal sole, e venti metri di terra incolta, separavano la strada dal piazzale di cemento solcato da due coppie di rotaie. Erano le cinque di mattina, la strada era buia. Coperti dal furgone lasciato lungo il ciglio avevamo creato un varco nella rete utilizzando le pinze multiuso di cui Stefano un tempo andava fiero. Era stato facile, la rete era lasca e sfibrata. Non c’erano sentieri, ma il terreno era abbastanza regolare e senza grande fatica, nonostante le ruote ogni tanto impuntassero o scartassero di lato, avevamo raggiunto i binari e lì era partita la nostra attesa. Non ci era voluto molto, i treni erano regolari. Cinque minuti, i nostri occhi sembravano sanguinare insieme, poi, Stefano rivolto indietro e io piegata verso di lui, avevamo attraversato le rotaie mentre i due intercity si affacciavano ai lati opposti dell’orizzonte. Era stata una follia, anche se i convogli erano lontani sarebbe potuto succedere qualunque cosa, ma aveva sortito il proprio effetto: la vita era scorsa nelle vene e gli occhi avevano smesso di sanguinare. Per qualche mese l’adrenalina ci aveva reso di nuovo umani. Ma, come ogni cosa artificiale, quella scarica si era affievolita e qualche tempo dopo eravamo dovuti tornare ad affrontare di nuovo la sorte. Varco. Attesa. Paura. Noradrenalina. Anche la seconda volta aveva funzionato, ma l’effetto durava sempre meno, si consumava più rapido di un cerino al vento, e da allora, drogati in cerca della dose, siamo tornati a quello snodo, a questo snodo, a cadenze sempre più ravvicinate come più vicini sono i treni, ogni volta, nel momento in cui attraversiamo.
E siamo qui, l'ultimo velo della notte che avvolge la collina, il forte sentore che la sfida potrebbe giungere a una fine. Come al solito, abbiamo lasciato il furgone fuori dalla rete, chiavi sul cruscotto e portiere solo accostate: quel mezzo è l’unica cosa che Stefano riesca ancora ad amare. “Se non riusciamo ad attraversare”, ha detto una delle prime volte, “vorrei che qualcuno lo potesse prendere senza rompere nulla”. Stefano, invece, è la cosa più importante della mia vita.
La smania ci ha fatto arrivare presto. Siamo a filo della rotaia da più di mezz’ora. I treni merci, dall’altra parte del piazzale, continuano a lavorare senza curarsi di noi. Credo che non ci possano vedere perché siamo offuscati da un grosso faro che punta nella loro direzione. A un tratto, Stefano dice qualcosa sul fatto che quei treni merci sembrano dei piccoli vermi colorati. Lo prendo per un accenno di dialogo, invece lui ne approfitta per trasformare la mia risposta in una provocazione sull’inutilità della nostra vita e sul senso di quello che stiamo per fare. Attraversare i binari mentre due intercity corrono l’uno verso l’altro è solo una follia, che cosa gli dovrei dire? È normale che due persone trovino la forza di andare avanti solo sfidando la morte, in cerca di una scarica di adrenalina? È quanto meno surreale. Ci vorrebbe uno psicoterapeuta, per tutti e due, ma Stefano si rifiuta di affrontare le cose. Ce l’ha sempre fatta da solo, dice, e crede di poterlo fare ancora. Non è così, quello che stiamo facendo ne è la palese dimostrazione. Da parte mia, ho paura a contraddirlo. L’incidente ha condizionato anche la mia vita, non è facile vivergli affianco, ma è solo lui che non potrà mai tornare indietro. Io non lo abbandonerò, ma se volessi potrei farlo. Per lui, invece, non c’è nessuna via d’uscita. Allora accetto le sue scelte, cerco di farle mie, e sono qui, ancora una volta, a mettere in gioco la mia vita.
Oggi è particolarmente freddo. Lo dico anche a Stefano e, mentre lo faccio, esce uno sbuffo di vapore che si dissolve prima di arrivare alla sua testa. Ha sempre avuto dei bei capelli, mossi e folti. Da qualche tempo son diventati sale e pepe e gli danno un tocco di vissuto che, se non fosse per lo sguardo inerme, lo renderebbero più affascinante di prima. Lo riprendo, perché si sarebbe dovuto coprire meglio, e mi accorgo subito della sciocchezza che ho detto. Lui pare che non aspettasse altro e ironizza sul nostro futuro e sul fatto che, se non riusciamo ad attraversare i binari, non saranno il raffreddore o la tosse il problema. È crudele, ma ha ragione, e io sono la solita svampita: continuo a ragionare come se tutto fosse normale. Il fatto è che io penso che potrebbe ancora esserlo, che non sono la carrozzella o l’insulina a distruggere la vita, ma è la sua apatia. Solo che non riesco a dirglielo, ho paura di perdere quel sottile equilibrio sul quale ogni giorno sopravviviamo. E se costringerlo ad affrontare i nostri problemi lo facesse cadere in una vera depressione? Non me lo posso permettere, così cerco di fare mio il suo punto di vista, per comprendere che non ha più tempo o spazio per l’amore, per non rischiare di rimanere sola, per convincermi che sto facendo la cosa giusta, l’unica che mi è concessa di fare: mettere di nuovo la mia vita nelle sue mani, e nella forza delle mie.
Da quando siamo arrivati è come se avessi la testa altrove. Ho risposto a Stefano col suo stesso modo di fare: monosillabi e interruzioni. Ho uno strano presentimento, ma non è questo il punto, se andasse male sarebbe semplicemente la fine del nostro patire. No, quello che mi rende distante da questa scena non è la paura di non attraversare in tempo, ma qualcosa che dipende dalla giornata, dal cielo che ci mette più del solito a schiarire, dai residui tossici che si sono ammucchiati negli ultimi mesi. E quando Stefano mi chiama, e grida, e la mia testa e il mio corpo tornano a essere una cosa sola, la sua voce mi arriva accompagnata dalle note frenetiche degli intercity, già vicini. All’improvviso sento le punture del freddo per il quale lo avevo stupidamente ripreso. Poi mi accorgo che non è quello a farmi tremare, ma le vibrazioni del suolo e, ancora di più, le scariche che il mio cervello produce senza che io me ne renda conto, quel meccanismo che fiuta il pericolo e mette in allerta ogni parte del mio corpo e sembra dire: è ora degli straordinari, signori! I due intercity sono davvero vicini. Quel poco di raziocinio che non è ancora stato surclassato dalla noradrenalina mi fa pensare, per un istante, che è troppo tardi e troppo rischioso. Solo una breve e inutile riflessione, solo quella, prima che arrivi di nuovo il grido di Stefano. Urla, e guarda davanti a sé. Esistono solo i binari la carrozzella e i treni. Dice che è ora di andare. Impreca. CAZZO VIRGINA ANDIAMO! E allora, anche se so che questa volta abbiamo esagerato, smetto di pensare, getto anche io lo sguardo oltre i binari e mi lancio insieme a lui, mi lancio a sfidare la sorte in cerca della vita. Cemento, ferro e acciaio trasmettono vibrazioni che si disperdono tra le ruote della carrozzella e le mie braccia irrigidite. Le luci dei due treni abbagliano, sono talmente vicine da farmi sentire avvolta da lampi. Immagino che, per la prima volta, ci vedano anche i macchinisti perché sento il fischio delle loro sirene, mai udite prima. Avvisi inutili: non possono fermare i treni e neppure farci attraversare in maniera più veloce. Solo la nostra volontà, la mia volontà, la mia energia, il mio attaccamento a questa dannata vita, può tirarci in salvo prima che si incrocino i due treni. E io spingo e scalpito, mentre tempo e spazio sembrano diluiti. Dieci metri da bruciare in pochi secondi, eppure ritorno a pensare e mentre scavalco la terza rotaia mi viene il dubbio che non servirà a nulla: il vuoto creato dal secondo intercity ci risucchierà indietro, siamo spacciati. E se non sarà il vortice a farci morire, saremo noi stessi, sarà l’assuefazione alla noradrenalina, sarà la voglia di Stefano di stare male, la sua paura di fidarsi di nuovo della vita, la mia, di non riuscire a stargli affianco. E allora, anche se siamo a un passo dalla salvezza, smetto di spingere. Mi lascio andare. Che la sorte compia il nostro destino.
Ma la sorte, lo avrei dovuto immaginare, è più avanti del mio pensiero. Nella frazione di secondo in cui mi illudo di sconfiggere la vita, l’inerzia mi porta oltre la terza e la quarta rotaia. C’è il risucchio dell’intercity, ma è poco più forte di una folata di vento. Il cuore mi scoppia dentro il cervello. I polmoni si comprimono e cercano di dilatarsi senza tregua. Lo sferragliare dei convogli, a pochi metri da me, sovrasta ogni rumore come un mare in burrasca. Appena riesco a riprendere fiato mi volto per guardarli correre via, due luci che si perdono in direzioni opposte in questa lacrima di notte mista al mattino. Solo quando mi giro di nuovo, il sudore che si ghiaccia intorno alle tempie e lungo la schiena, mi accorgo che davanti a me c’è Stefano sulla carrozzella.
Non dice nulla. Non lo faccio neanche io. Non vado neppure in cerca del suo sguardo. Quando i treni sono svaniti e il cuore rientra nell’angusto spazio in mezzo al mio petto, torno a stringere i manici di plastica. Inermi. Isolanti. Manovro la carrozzella, cambio direzione e insieme a lui ritorno indietro. Non so cosa passi per la sua testa, ma nella mia sento che è ora di cambiare. Da qui in avanti voglio ritrovare almeno un briciolo di gusto per la vita.

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Estate

Cammino ciondolante sul fare della notte, attendo la scomparsa dell’ultimo brandello di luce che, come è d’uso in questa stagione, se la prende con comodo.
Evapora il sudore dal vestito della rue Zola e il tempo si sospende nel suo circolo mostruoso che ributta in faccia il fumo di una sigaretta. Ancora Parigi, ancora estate, ancora girovagare.
Non è rimasto niente dello scorso maggio, non una goccia di sangue sul selciato, non la carta dei giornali, tutto è scomparso con le barricate e io solo alla fine dei giochi seppi che era successo qualcosa, ma non mi interessava neanche sapere cosa, so solo che improvvisamente tutti i “cani da guardia” abbaiano ai propri padroni.
Entro nel bar e ordino un pernot, bevo e ne chiedo un altro, li butto giù con la maestria di un violinista gitano.
Il fumo entra nei polmoni, gli occhi si fanno sottili. Penso a Margherita e mi aspetto di vederla entrare da quella porta da un momento all’altro.
—Oh, ma chi abbiamo qui?! Il nostro caro poeta Paul Zelano —
Vacilla lo sguardo per trovare un panciuto borghese.
—Che vuole monsieur? —
—Oh niente, solo presentarle la dolce Yvonne Talloi, sa, anche lei s’intende d’arte.—
L’occhio rotola sull’orlo del bicchiere e ci cade dentro. Butto alcool in gola e mi vedo annegare mentre il garçon me ne riempie un altro.
—Non m’intendo di nulla, io.—
Con le punte degli occhi trafiggo il petto del disturbatore. Sporco e banale imitatore di Heidegger; è lui, la puttana dell’università, il ruffiano degli artisti, il compagno da salotto, Jean-Paul Partre.
—Ah cara Yvonne, lo sa come sono questi poeti: sempre un po’ maledetti.—
Scorgo una giovane donna, gentilmente vestita di chiaro, sublime nello sguardo fermo, da donna vissuta. Non ha succhiato neanche la metà dei miei anni, i miei anni di sangue e merda nei campi della Bassa e nel confino lucano, ma ciò nonostante pare sicura e invincibile, molto più di me, o forse è solo giovane. Ingollo il bicchiere, lei aspira il fumo da una sigaretta con aria pensosa e profonda.
—Così lei è Paul Zelanò, il poeta.—
—Sono solo un mediocre lettore di italiano presso la Sorbonne, nulla a che vedere con il magnifico qui presente Jean-Paul Partre, uomo di mondo, filosofo complesso e persona profonda. Alle sue lezioni c’è più folla che a quelle di Foucault. Lui le farà conoscere tutta Parigi.—
—Ah, troppo buono.— finge di non cogliere sarcasmo e disprezzo, o forse sa che è solo invidia, la mia, e non vuole darmi soddisfazione.
—Mi piacciono i suoi versi.— la ragazza esprime il più banale giudizio sulla poesia che si possa avere. — E mi piacerebbe poterla fotografare e chiederle cosa pensa dei miei lavori.—
—Fotografa? Non ce ne sono abbastanza di copiatori della realtà?—
—Oh, ma io non copio la realtà, io la limito, io la creo.— e la sua voce è vibrante come il serpente schiantato da Dio nella casa dell’uomo dopo la creazione.
—Io ho avuto modo di vederle e sono rimasto estasiato.— dice l’accomodante ruffiano.
—Sono felice per lei.—
—Vorrei organizzare la prima personale di questa ragazza, così giovane e così talentuosa.— il ribrezzo per quell’uomo mi scava lo stomaco come un’ulcera.
—Vorrei finire di sbronzarmi e poi cercarmi una puttana abbordabile.— l’anticonformista filosofo borghese fa uno sguardo stupito, poi gli sovviene che è antimoralista e sorride accomodante.
—Beh, chi siamo noi per interrompere una così nobile occupazione?!—. Poi, rivolto alla ragazza:— Andiamo Yvonne, l’accompagno.—
Yvonne, statua di ghiaccio immobile, sguardo che affonda la carne.
Si avvicina licenziosa e sinuosa come lingua di fuoco, spegne la sigaretta tra le altre nel posacenere accanto a me e la sua bocca è vicina al mio orecchio, cerco di mantenermi calmo mentre il suo odore mi confonde le viscere. Sussurra, facendo uscire il fumo, e le sue parole vellutate mi sfiorano delicate: —È stato davvero un piacere, spero di rivederla.— Rossetto rosso, labbra vibranti, bianchi denti, occhi verdi, biondo cenere i capelli; il collo è sottile ed elegante, le dita affusolate e smaltate di amaranto… Il mio corpo è un vibrante cazzo eretto nella sua pulsazione finale.
La ragazza è entrata in me con tale violenza da sentirmi stuprato. Improvvisamente ogni altro pensiero è caduto giù per il bancone del bar in un solo impeto biochimico e Margherita sembra non esserci mai stata nella mia vita.
Escono. C’è ancora luce, lui le apre lo sportello per farla entrare nella decappottabile. Lei indossa il cappello e gira lo sguardo verso di me. I nostri occhi si toccano scambiandosi una promessa. Ora non so più se è giorno o se è notte.

Autunno

Yvonne, Madonna vestita di candido, puttana abbarbicata, lì, sulla sedia. Il caschetto incornicia il viso di perla, la bocca sottile piegata in una leggera smorfia; nere e voluttuose le labbra succhiano il bocchino di una sigaretta. Sottile veste di lino e seta, intravedo il piccolo seno, l’ombelico come una coppa e, tra le gambe accavallate, il nero del suo intimo. Vorrei gettarmi su di lei e poi supplice ai suoi bei piedi nudi implorarle di farmi assaporare il suo odore sulla punta della lingua; e poi baciarle le ginocchia e le cosce e strapparle tutto, arrivare al sesso per bere il suo nettare dandole piacere in tutti i modi in cui un uomo può dare piacere a una donna.
—Allora Paul, che ci fai qui?—
—Ero venuto a trovarti…—
—Eri venuto a trovarmi o a provarci di nuovo?—
—Forse tutt’e due…—
—Paul, ascolta, te l’ho già spiegato, non può continuare. Ti faresti solo del male.—
—Tu mi ami ancora.—
—Non lo so se ti amo, non so neanche cosa sia l’amore francamente, so solo che… che sei geloso, morboso, possessivo. So che mi vorresti tutta per te, sempre, ma io non voglio esser tutta per te, né per nessuno, voglio essere libera di costruire la mia vita sessuale ed emotiva con la stessa libertà con cui costruisco le mie foto.—
—Ma io ho bisogno di te Yvonne. Ho bisogno di te e tu lo sai—
—No, non è vero. Nessuno ha davvero bisogno di qualcuno e tu non fai eccezione. Tu, come tutti, hai bisogno di una scusa per vivere, per dare senso alla tua vita. Io sono la tua scusa per scrivere e scrivere dà senso alla tua vita. Quando non ci sono mi vuoi vicina, quando ci sono puoi dedicarti alla poesia, la tua vita non può dipendere da me, né da nessuna donna.—
—Ti prego—
—No.— sigaretta finita, si alza —Conosci l’uscita.—
—Io… io posso accettarlo… posso provarci perché… perché lo capisco
—Lo so che lo capisci.— percorro la sua schiena con le dita degli occhi e l’immagino nuda. Si volta leggermente e mi avventato sul suo collo a baciarlo. No, lo sto immaginando, sono fermo, davanti la sedia dell’ingresso con il cappotto ancora addosso, la porta alle mie spalle e il cappello in mano come un questuante. Imploro con gli occhi l’epica di un amplesso, ma lei taglia il mio delirio col coltello: — C’è una persona nell’altra stanza—gelo— sto per andare a letto con lei, di nuovo, come ho fatto tutta la mattina. Lo accetti?—
—Io… io… devo andare.— imbocco l’uscita.
Non mi scandalizza che ci sia un altro, o un’altra, nella sua stanza, non m’importa chi si scopa o chi ama, tutto ciò che mi disturba è che non sia io.
Scivolo per strada, il sole è una palla rovente in un gelido autunno. Il vento gioca con le foglie, le uccide, le porta ai piedi di anonimi passanti in uno stupefacente spettacolo di morte senza resurrezione. Vorrei andar a giocar la mia vita a dadi col mio amico Topo, ma ho la testa piena di lei… Ah Yvonne, Yvonne, ricordi che pochi giorni dal primo incontro convincesti Partre a invitarmi alla sua villa per una festa estiva?, e ricordi che facemmo l’amore nelle sue stanze mentre brontoloni universitari e sedicenti artisti vagavano per il giardino? E le mie poesie ti piacevano, mi convincesti a presentare il nuovo libro e alla conferenza io ti aspettavo tremante e disarmato.
I nostri giorni insieme sono passati intensi e maestosi come le onde del mare che mi risospingono ancora alla riva delle tue cosce, le tue cosce che mi raccontano la vita, la carne, l’amore come se dal mio mezzo secolo non avessi appreso nulla. Prima di te mi preparavo all’oltretomba, ma con scarsi risultati, adesso voglio la vita.

Inverno

Io, Paolo Zelano, malinconico poeta senza fama, senza gloria, orfano, superstite di una grande guerra, migrante, italiano, parigino, amante… Immobile davanti la porta del tuo appartamento spio i tuoi passi. Vedo gente entrare e uscire dal tuo palazzo e mi chiedo se verranno da te confessandoti le loro fragilità. E tu? Sarai fragile anche con loro come lo eri con me?
L’alba e il tramonto mi scivolano addosso, cerco di pedinarti arrancando ubriaco per strade ghiacciate. Mi hai dato un amore che non pensavo di poter provare, che non credevo di esserne ancora in grado. Yvonne, ora sei lì, chiusa nella tua casa a guardare le fotografie, a sistemarle per la mostra. Sei in una camera oscura o in un parco pubblico a litigare con la luce. Ti spio nella sera dei miei giorni e non so da quanto non mi presento in facoltà. So che mi sveglio tardi, so che non dormo, so che mi masturbo pensandoti; so che giro rabbioso per le strade in cerca di qualcuno da sbranare come fanno certi cani abbandonati.
Perdio Yvonne!, cosa fanno le tue labbra quando non mi baciano? Cosa stringono le tue braccia quando non ci sono?
Possessivo, fragile, geloso… hai ragione, sono un vecchio… sono tutto ciò che pensavo di odiare, un uomo che si attacca alla materialità della vita con le unghie e con i denti, non disposto a condividere nulla con nessuno.
Ti guardo uscire di casa vestita calda per serate mondane e quando mi scorgi mi celo nell’ombra e ansimo al pensiero di stringerti il collo tra le mani per vederti spirare mentre l’ultima fotografia la scattano i tuoi occhi guardando imploranti i miei. Mi perdonerai e mi stringerai e mi amerai ancora e per sempre… Ti desidero, ti strapperò i vestiti, ti salterò addosso e ti violenterò per strada, in un vicolo o in pubblica piazza, e tu godrai come una santa puttana in estasi davanti al suo Cristo, sì.
Calma!, respira, sono lucido… sono un semplice vagabondo di strada durante un gelido inverno; sono uno stereotipo, un penoso vecchio poeta che aspetta una donna che non arriverà mai e che fuma sigarette mentre il vento lo percuote, la pioggia lo bagna, la salute lo abbandona. Non è romantico, è patetico!
Ti smaltirò come si smaltisce la sbronza. Ti dimenticherò e amerò ancora o forse non amerò mai accettando di buon grado l’impotenza della vita.
Tossisco e dolorante mi porto verso casa, come ogni notte.
Parigi è grande, ma finisco sempre al tuo portone, Yvonne, desideroso, sognante, illuso. Quando realizzo cosa sono davvero ritorno a casa, sconfitto. Con secchiate di gelida lucidità mi convinco che alla fin fine tutto scompare nel nulla e che tutti gli amori scompaiono prima o poi dalla mente, come gli affetti e i ricordi più intensi. Tutto si fa opaco e allora mi chiedo, quando metto la chiave nella toppa, ho mai amato davvero prima di te oppure semplicemente continuo a trovare oggetti per riversare il mio amore?… magari ogni “ti amo” è una bugia o, e forse hai ragione, è una scusa.

Primavera

Giunge sottile la notte da sotto le porte e l’inverno alle spalle ha piegato il mio corpo. Una donna che amavo ha fatto la sua prima personale di fotografia. È stata un successo, ho letto di lei sui giornali, non l’ho vista perché malato… ma oggi sto meglio, mi sento di camminare, anche se non so dove. Forse mi basta sbirciare la primavera che profuma una Parigi notturna, così romantica, così viva, come la luna che si specchia nella Senna.
Passeggio lungo il fiume e cerco Topo, un clochard, un mio amico, gli darò i miei ultimi scritti e se ne farà un giaciglio. Una volta mi disse che aveva deciso di fare il barbone quando, da piccolo, salì sulla Tour Eiffel per prendere una stella, quando vide che quelle restavano comunque troppo lontane capì una verità e si disse: — e a me chi me lo fa fare di salire in cima quando si vedono uguali da giù? —
La lezione di Topo non l’ho mai imparata, dalle delusioni, io, non imparo mai.
Sapete?! ho mentito, io so dove sto andando, sto andando in rovina, sto andando a cercare la luce nel fiume, sto andando a impedire l’orrore con cui un nuovo amore ti sveglia al mattino per cancellare tutti quelli passati.
Percorro la Senna cercando sotto quale ponte si è messo il mio amico così da dargli in poesia quel che resta dei miei giorni andati come schiuma di mare, quando, dopo l’onda, non resta più niente. Che scherzo crudele, che triste esistenza quella di un uomo e di una donna fragili e inconsistenti. La schiuma che decora le onde decora anche i giorni, ma alla fine, di essa, in entrambi i casi, non resta che qualche confuso ricordo… ecco che me ne sovviene uno non troppo opacizzato, chissà perché proprio questo.
Camminavo con Yvonne lungo il fiume.
—La fotografia non deve trasmettere la realtà, almeno la mia fotografia. La mia fotografia esprime il mio occhio sulla realtà, io quella gran cosa che è la realtà la taglio, perché per me non esiste, esiste solo quello che posso strappargli con il mio obiettivo, perché quel mondo che c’è in foto è un mondo completo pieno di me… anche se non vi compaio mai… mi segui?—
—Sì.—
—Grazie… ci sei anche tu nel mio mondo.—
—E anche bello in posa…—
—No, quelle sono foto… ricordo, diciamo… no, tu sei nel mio mondo perché ti ho fotografato mentre dormivi, quando non mi vedevi, così ho catturato il tuo corpo e l’ho riempito col mio… cioè… il mio “spirito”… no, così suona di merda.—
—Tranquilla ho capito. Tu “addomestichi” il mondo.—
—Sì… come direbbe quel tale algerino io voglio firmare il mio passaggio, ma per farlo devo ritagliarmi un pezzo di vita, insensata ed effimera, e fare in modo che duri e che dica “Yvonne Talloi è esistita”. E non m’importa se non sapranno chi ha fatto quelle foto o che fine faranno, l’importante è che ci siano perché dove sono loro ci sono anch’io, che la gente lo sappia o meno, che capisca le mie foto o meno. Non me ne frega niente se mi dicono sono belle, sono brutte… sono mie, sono io, anche in quelle così brutte che ho strappato… Capisci?—
—Capisco.—

Pubblicato in concorso
Sesto contest

titolo: La schiuma dei giorni
scadenza:  31 agosto 2016
 
Il titolo, al solito, è uno spunto. l'interpretazione è libera.
 
I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "la schiuma dei giorni".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trentuno agosto 2016.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.
 
Cosa si vince?
 
I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it
 
A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.
Pubblicato in redazione