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Alla vita e le opere di Simone de Renzo

Una cena di famiglia è sempre un’esperienza impegnativa: arrivi a casa, saluti, baci, abbracci, come va l’università, figlio mio bello, che corsi segui? Sei l’orgoglio della famiglia, tutti dipendono da te, per vantarsi con i vicini, per dare senso alle loro vite. Tu sei il Figlio, il primogenito maschio, sei il frutto di costrutti e obblighi sociali, ti sposerai, ingraviderai la tua donna: vivrai il senso della monogamia coronata dal “sacro vincolo del matrimonio”. Tu sei il frutto di sacrifici e rinunce e tutto dipende da te.

Stamattina ero nella mia stanza, allo studentato, guardavo Flinn, che non si chiama così, ma io lo chiamo così. Gli ho detto d’improvviso, come se lo realizzassi in quel momento: “Oggi scendo, torno dai miei.”

“E sticazzi non ce li metti?” rispose mentre accendeva una canna.

Flinn, il buon vecchio Flinn, è il mio compagno di stanza, un tipo grosso, grasso, che parla con un forte accento da uomo del sud della capitale. Lui, dai suoi, ci torna ogni fine settimana. Senza la mammina, lui, non farebbe un cazzo; è del tutto inadatto alla vita, ma il buon vecchio Flinn questo non lo sa.

Io, dipendesse da me, non ci tornerei mai a casa, ma non perché sappia badare a me stesso, anzi, io penso di esser ancor meno autosufficiente di Flinn. La differenza, tra noi, è che, io, ne sono pienamente consapevole. No, io non ci tornerei mai, lì a casa, dove ogni cosa mi ricorda la massima aspirazione di un ragazzo bianco benestante. Ogni cosa mi ricorda la mia sostanziale inadeguatezza al “ruolo”.

“Fammi fumare” dissi, di colpo, a Flinn, e lui, come al solito, mi lasciò la sua canna. È un galantuomo Flinn, mi offre sempre la sua droga. Questo è il mio modo di vivere, parassitario e a scrocco.

Il Padre è una figura archetipica o freudiana - se preferite -, è l’uomo alto con mascella virile che ti guarda e, forse, ti vorrebbe abbracciare, ma prima di farlo ti allunga una mano per un saluto da uomini veri. In quel momento ti senti virile come una principessina preadolescente, sei mingherlino, bianchiccio come i molto malati; porti capelli lunghi e unti da disadattato. Sei il fallimento frutto di anni di machismo, specie quando allunghi quella mano molle per una stretta da femminuccia.

E devi stringere forte, lo sai, e ti concentri a farlo bene. E alla fine ti convinci di riuscirci, ma il tuo orgoglio è frenato dallo sguardo del Padre che ti ricorda che non sei nulla.

Ogni tanto ci scappa un sorriso bonario, a quell’uomo, e ti ricordi che dietro al principe del foro, prima dei capelli grigi e delle spalle dritte, c’era un ragazzo con sogni e speranze; o quantomeno era uno con impulsi sessuali, sì, insomma, era uno che voleva chiavarsi tua madre.

Alla stazione dei bus, alcune ore fa, aspettavo la mia corsa. C’era Sam, che non si chiama così, ma io la chiamo così, a farmi compagnia. È una quindicenne a cui do ripetizioni; è di buona famiglia, di quelle con soldi e libri, non letti, sugli scaffali; di quelle famiglie con silenzi rancorosi e apprensioni maniacali.

“Ti posso fare un pompino?”, mi aveva chiesto.

“No.”

“Perché?”

“Come te lo devo dire che non mi piace la figa?”

“Ancora con ‘sta storia?! Perché non vuoi mettere il tuo cazzo nella mia bocca, santoiddio?”

“Mi piace il cazzo. Degli altri. Nella mia, di bocca.”

“So che non è vero, non sei frocio.”

“Non mi piace scopare.”

“Non ti piaccio io!”

“Forse, ma più in generale mi darebbe fastidio.”

La mia meschinità non è giunta al punto di profittare così di una ragazzina che si sente capita solo dal suo “mentore” o, più probabilmente, non mi va che questa ragazzina, una volta cresciuta, scopra che sono solo un uomo da sottosuolo.

“Come vuoi, ma tu sei strano.”

La Madre è una figura mitologica, metà bestia e metà cupcake. La donna più dolce, apprensiva e buona del mondo, un momento; un uragano di rabbia e frustrazione quello dopo. Per questo l’abbracci forte, la Madre, chiedendoti quando è stata l’ultima volta che l’ha fatto tuo padre, quando è stata l’ultima volta che l’ha desiderata davvero.

Avevo un’amica di scopate, una volta (no, non stupitevi, è normale che io faccia queste associazioni quando penso alla Madre). Ricordo quando troncai la cosa. Ero lì che non pensavo a nulla, spingevo il mio corpo esile contro quello di lei, grassa come poche, poi, d’improvviso, realizzai che avevo sfogato abbastanza e doveva finire. Eiaculai e dissi: “Ok, questa relazione può anche finire.”

“Come vuoi. Io non sono coinvolta, ma tu sei sicuro di chiuderla? Non è che hai solo paura di coinvolgerti troppo?”
Ricordo che guardai quella megattera spiaggiata sul letto con mal celato disprezzo. Non saprei dire se per me o per lei.

Poche sere prima aveva detto che mi amava ed io avevo risposto di restare fedeli al piano: “io ti scopo, tu mi scopi, il resto non ci interessa”. Ricordo che, mentre mi spogliavo del preservativo per rivestirmi, mi chiesi se esisteva una classifica della dignità. Per esempio, chi pratica sesso vantandosi che non è coinvolto e poi piange la fine dei suoi sogni Disney quando scopre che l’altra persona non lo è davvero, dove si colloca? Chissà se sono più su, o più giù, di quelli che su Facebook fanno l’elogio della solitudine e della bella vita, ma poi, al primo sorriso distratto che captano, partono con il: “Vi prego trombami, sposami, dammi figli!”. Ma soprattutto, qual è il mio posto, in questa classifica?

A tavola la Madre ha già preparato tutto, una donna emancipata deve sempre saper badare alla casa, non basta quante ore lavora, sono sempre meno di quelle del marito.

Prendi posto a sedere e ti rolli una sigaretta, tuo padre, rigorosamente a capotavola per leggi non scritte, se ne accende una già fatta.

“Come stanno andando i corsi?”

“Vorrei lasciare tutto e fare l’artista.”, lo pensi, ma ovviamente non lo dici. Ci vuole carattere per ammettere di essere un cliché, e tu non ne hai.

Rispondi, invece: “Regolare, pa’, tutto regolare…” e parte una conversazione sugli argomenti di studio. E ui è contento, e lui sorride; e lui è soddisfatto. Siete tutti contenti, tutti tranne Sorella Minore.

Arriva a tavola e ti guarda con disprezzo. Si veste da punk, si fa i capelli strani, si crede speciale. Crede che nessuno capisca che è in cerca di attenzioni spicciole; crede che nessuno sappia che la vita fa schifo, la società fa schifo, noi, facciamo schifo.

Sorella è una figura dolce, malinconica, romantica, sognatrice; crede che ci sia abbastanza disgusto in lei per scatarrarsi fuori da questo mondo. La guardi negli occhi e le dici, senza parlare: “io so di essere patetico, e tu?”.

Un tempo ero popolare, ero stato eletto rappresentante d’istituto, al liceo. Avevo il sostegno di Miriam, che non si chiama così, ma io la chiamo così, la mia ex. Lei mi rendeva sicuro, forte, mi spronava a fare attività interessanti. Buffo che non l’amassi affatto. Un giorno venne da me, visibilmente agitata e con occhi lucidi.

“Senti Simon” che poi non mi chiamo così, ma lei mi chiama così, “dobbiamo lasciarci.”

“Ok, posso sapere come mai?”

“Non ti amo più”

“E allora? Io non ti ho mai amata e non è che ti ho fatto problemi.” Non lo dissi, non ebbi modo di dire nulla, scoppiò a piangere.

Pensai che sarei arrivato tardi da Tony, che non si chiama così, ma io lo chiamo così, per il torneo di Tekken, ma poi provai pena per lei, l’abbracciai e finimmo a fare una delle migliori scopate, insieme, di sempre.

Mamma arriva con la prima portata e ti fa spegnere le sigarette. “Non si fuma a tavola”, lo sai, ma non farlo avrebbe tolto a lei il privilegio di dirtelo; e perché privare una donna del suo ruolo domestico proprio quando il figlio grande torna dall’università?

Così tu e il padre spegnete le sigarette e siete pronti alla cena.

Eccoci qui, dunque, una famiglia felice, uguale a tutte le altre famiglie felici che desinano parlando di amenità, come la politica.

La mia dolce sorellina, Lisa, che non si chiama così, ma io la chiamo così, si accende contro papà su Trump e la mamma cerca di fare la democratica, io finisco la frutta e mi rollo un’altra sigaretta. La scena, tutto sommato, è rilassante; tornare a casa non è così terribile.

Mi accendo la sigaretta, ma mamma ripete che non si fuma a tavola. La spengo e la metto dietro l’orecchio destro.

Papà mi chiede che voglio da bere, gli rispondo che un amaro va benissimo.

Lisa mi guarda come per dire: “ma lo senti quanto si sta rincoglionendo?”. Fa riferimento alla discussione che non stavo ascoltando. Le rispondo, sempre in silenzio, con sorriso e sguardo: “lo sai che ti provoca”.

Ha un bel viso, Lisa, sta bene anche con quei capelli strani che non le rendono affatto giustizia. Li porta, tuttavia, con autentico spirito punk. Quando mamma, notando, forse, il mio sguardo sulla mia sorellina, mi dice di dire la mia su quei capelli, non posso fare a meno di tradire la speranza di complicità e difendere Lisa.

Prima di cedere al cicchetto di amaro, che, per inciso, mi fa schifo, come tutti i superalcolici, vado in bagno a pisciare, poi vado in camera mia. È un luogo di foto, gadget, poster, un luogo dell’infanzia. Torno in bagno e mi sciacquo il viso. Mi guardo allo specchio. Ma sì, facciamolo. In fondo non c’è scopo, non c’è senso, non c’è nulla da vincere o da perdere.

Vado nell’ufficio di papà, apro il cassetto della scrivania e prendo la pistola, perché, oggi giorno, tutti hanno una pistola. La prendo. Nei film la impugnano sempre con grande facilità e leggerezza, non ti fanno capire quanto sia pesante.

Non avevo mai preso l’arma di papà. Ho sempre saputo dove fosse, ma, ovviamente, sapevo, per istinto, per educazione, per dovere morale, che non dovevo neanche avvicinarmi a quei cassetti. La impugno e una strana forza mi pervade il braccio destro, tutto in me si contrae, si indurisce, il cuore stesso è una pietra.

Guardo il mio riflesso alla finestra, ci punto l’arma contro e godo della mia immagine. Mi metto la canna in bocca e premo il grilletto. Una sensazione unica, un misto di adrenalina e paura mi pervade al momento del blocco della sicura. Sembra tutto vero. Cerco i proiettili, li trovo, la carico. Tolgo la sicura. Punto il riflesso, punto in aria, punto alla testa. Il mio riflesso sorride, non so perché. Assaporo il peso dell’arma nelle mie mani, la sensazione di poter decidere della propria vita e di quella altrui.

La voce di mamma mi chiama. Annuncio che sto arrivando. Metto l’arma nei pantaloni, dietro la schiena. Il corpo, al contatto col freddo del ferro, ha un brivido di piacere.

Torno a tavola e dico che stavo cercando una cosa. Aspettavano me per il dolce. Cosa aspettiamo?, sono qui. Mamma mi taglia una fetta di torta e me la mette nel piatto, fa lo stesso con gli altri. Oggi è il mio giorno speciale, un bel giorno in famiglia.

A metà della mia fetta sono sazio. Prendo la sigaretta dietro l’orecchio e la metto a tavola. Guardo Lisa, difronte a me, che mangia scomposta; mamma, alla mia destra, che mi sorride; papà, alla mia sinistra, che è concentrato sul suo dolce.

Sento la pistola dietro di me, mi eccita questa cosa che nessuno sappia che ci sia. La loro vita è regolare, felice, non c’è imprevisto così assurdo come un figlio armato a tavola. In effetti, perché dovrei essere qui a tavola con una pistola? Non ha senso. È uno strano film e spero che voi mi stiate vedendo e che vi stiate chiedendo che cavolo voglia fare con questa maledetta arma. Me lo chiedo anch’io.

Sapete cosa disse Hitchock? Se un fucile entra in scena, prima o poi, deve sparare. Ecco, questa cosa ha senso.

Porto la mano destra alla pistola, la estraggo puntandola alla testa di Madre. Sparo prima che qualcuno possa accorgersi di quello che sto facendo.

Il rumore sordo, il braccio che trema per il rinculo, lo schizzo di sangue che mi imbratta la mano e il viso. Sembra, quasi, che stia succedendo davvero!

La testa di Madre sposta il baricentro a destra, poi sbatte sul tavolo prima di cadere, insieme al corpo, sul pavimento.

Le orecchie ronzano. Tutto procede rallentato come in sogno. Le espressioni di Lisa e papà si modificano in smorfie di confusione e puro terrore. Non so come, non so perché, ma mi sto alzando in piedi per puntare l’arma verso il Padre. Due colpi al petto. Altri schizzi, stavolta sulla tovaglia bianca.

Padre fa un buffo salto sulla sedia verso l’indietro come se volesse cadere, ma la sedia non gli da’ soddisfazione e finisce, con una smorfia imbronciata, di faccia sulla sua fetta di torta. Una cena con torte in faccia, un classico, della commedia americana.

Lascio la pistola sulla tavola e mi siedo. Lisa è immobile, mi guarda.

“Buona la torta, eh?!”, ma non risponde. Mi accendo la sigaretta e guardo Madre.

“Guardala”, dico a Lisa, “ti somiglia. Sembra anche lei… una ragazza coi capelli strani.”

Solo a questo punto, Sorella Minore, sviene.

Pubblicato in concorso