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Respira piano, penso.
Respira molto piano, continuo a pensare, mentre due piccole gocce di sudore si fermano all’altezza della tempia sinistra. Il cuore può esplodere quando è messo nelle condizioni di farlo.
Immagino che la ragazza al di là del bancone stia immaginando le stesse cose mentre la mia pistola le punta la fronte. Ha meno di trent’anni, e, a giudicare da come non riesce a tenere fermo il labbro superiore, questa deve essere la sua prima rapina.
Le persone mi guardano terrorizzate, uno si è buttato a terra, altri non riescono a tenere ferme le gambe. Un vecchio forse si è pisciato addosso.
Non deve finire come l’ultima volta.

Dieci anni fa è finita in un mare di merda e di sangue.
Eravamo in tre. Io e Granchio dentro la banca, Smilzo fuori a fare da palo e a recuperarci con la macchina accesa. Smilzo lo avevamo conosciuto appena una settimana prima, al bar di Tony. Non sapevamo il suo vero nome, si era presentato così e a noi era bastato quel nomignolo, non c’era bisogno di altro.
Avevamo fatto grandi bevute, quella sera. Ci aveva chiesto di fare un colpo insieme, che ne aveva già fatti tanti e non l’avevano mai beccato. Per tutta quella settimana ci incontrammo a casa di Granchio e progettammo nei minimi particolari la rapina nella banca dove tenevo gli ultimi quattro spicci che mi erano rimasti.
Quando suonò l’allarme Smilzo si cagò sotto dalla paura e scappò senza neanche sgommare più di tanto.
Arraffammo dalla cassiera una manciata di banconote di grosso taglio, ci riempimmo nemmeno un decimo del borsone che avevamo portato. Sbattemmo qualche sedia per terra e facemmo un po’ di casino, mentre dal passamontagna all’uscita mandai un bacio con la mano verso il direttore. Lui mi guardò con un ghigno appena abbozzato, con l’espressione di chi ha in testa un solo pensiero. Lo capii giorni dopo, sul letto senza doghe della mia cella, che il suo pensiero quella mattina era stato: “sei un povero coglione”.
Granchio non ebbe il tempo di pensare a nulla. Gli spararono alla gamba ancor prima di capire che fuori era tutto un azzurro polizia. Cadde a terra e il sangue iniziò a uscire a fiumi. Il proiettile aveva attraversato il femore all’altezza dell’arteria. Capimmo subito entrambi.
Io alzai le mani al cielo, lanciando la borsa lontano e mettendo bene in vista il mio corpo, sperando che una pallottola non beccasse anche me. Granchio iniziò a singhiozzare. Due poliziotti mi raggiunsero con le pistole puntate. Mi buttarono a terra e, coi calci alle costole, mi portarono le braccia dietro la schiena. Mi ammanettarono.

Conoscevo Granchio da vent’anni, ero l’unico a sapere il vero motivo per cui per tutti, giù alle case, era semplicemente Granchio. I più giovani non ne conoscevano neanche il vero nome. Non ce n’era bisogno, bastava il suono e il richiamo della mente al piccolo animale e a tutta la sua forza nelle chele. Granchio era esattamente così, piccolo e tozzo, con due braccia enormi, e due mani forti e violente.
Una domenica di derby stritolò il collo della moglie.
La sua squadra perse in malo modo, lui tornò a casa ubriaco e con vari grammi di coca in corpo, lei iniziò a urlargli contro di smetterla con quella vita e minacciandolo che se ne sarebbe andata. Strappò l’unica foto di Granchio con suo padre. Una foto in cui sono al mare e lui è a cavalcioni sulle sue spalle, e si guardano uno dall’alto e l’altro dal basso.
Avrà avuto cinque anni. Una delle ultime volte in cui era stato felice.
Gliela aveva tirata contro. La cornice era andata in frantumi e alcuni pezzi del vetro avevano tagliato la foto. Lo aveva fatto apposta, sapeva quanto Granchio ci tenesse a quella foto. Lui la raccolse da terra, capì che il danno era irreparabile. Le andò incontro e, senza aver detto una sola parola da quando era entrato in casa, piantò le mani al collo di sua moglie. Iniziò a stringere e lei non ebbe neanche il tempo di iniziare ad urlare. La uccise in silenzio.
La sera stessa, poi, era venuto sotto casa mia.
«L’ho ammazzata, Paolo», mi disse, senza che la cosa lo coinvolgesse più di tanto.
«Come mai?», gli avevo chiesto, come se il motivo avesse qualche importanza.
«Cosa devo fare adesso?».
Finalmente la paura lo aveva portato, insieme a qualche residuo di coca ancora danzante nel suo corpo, a preoccuparsi delle conseguenze di quella stronzata.
«Prendi la borsa più grande che hai, io vado dal benzinaio con un bidone», gli avevo detto, chiudendo per sempre la questione. A tutti disse che la moglie era tornata al paese della madre.
Da quel giorno avevo iniziato a chiamarlo Granchio. Gli piaceva da matti.

In vent’anni non l’avevo mai visto piangere. Mai, neanche una volta. Neanche quando trovammo il corpo di suo padre perforato di proiettili, steso all’ingresso di casa. Questione di carichi di coca finiti chissà dove. Regolamento di conti, ancora una volta. Conti sempre troppo alti da pagare, da una vita.

Ora era lì davanti a me, con una gamba inzuppata di sangue e la vista che iniziava ad annebbiarsi. Piangeva, Granchio. Piangeva e mi guardava, mentre si teneva la gamba e io ero steso con la testa schiacciata sull’asfalto.
«Mi sono cagato addosso, Paolo», urlò. I due agenti sopra di me si misero a ridere. Uno mi mollò e gli andò incontro: «Siete due merde», disse. «Adesso muori come un cane», aggiunse. Poi prese il telefono e chiamò l’ambulanza. Disse di fare presto, che c’era un uomo a terra.
Granchio mi guardò ancora una volta, poi si accasciò.
Non dissi niente.
Il mio migliore amico era appena morto sotto i miei occhi, nel peggiore dei modi, e io non avevo niente da dire.

Mi feci otto anni di carcere. Grazie al mio avvocato e alla buona condotta, mi scontarono quasi metà della pena. In carcere, ebbi modo di ripensare alla mia vita. Era chiaro che era stata un fallimento su diversi fronti. Non sapevo, ad esempio, cosa volesse dire la parola serenità. Non l’avevo mai incontrata.
Avevo incontrato l’amore, quello sì. Ma anche lì fu tutto un casino. E non finì bene. Lei se ne andò, e si portò con sé la sola cosa che mi aveva fatto sperare in una vita normale. Aveva tre anni, Federico, l’ultima volta che lo vidi, sulla porta di casa. Ubriaco da far schifo, cercavo di prenderlo dalle braccia di sua madre. Almeno per un abbraccio.

In otto anni di carcere non mi venne a trovare nessuno. Neanche Tony, a cui ho mantenuto la famiglia a forza di vodka tonic, giù al bar. Eppure quello che più mi è mancato negli anni dentro non è stato il contatto con le persone. I miei compagni di cella erano diventati buoni amici, e quasi con tutti condividevo lo stesso destino di povero cristo. Le piccole cose del quotidiano, quelle sì, mi mancavano. La colazione al porto. La barchetta con cui andavo a pescare la domenica. Il poker. La barba fatta tutti i giorni.
All’inizio avevo provato a chiedere alle guardie schiuma e rasoio. Ma non c’era stato verso. Il rasoio era troppo pericolo sia per me che per gli altri.
Quindi barbiere. Due volte al mese, ma senza schiuma, solo con la macchinetta.
Fu proprio la barba incolta, che da sempre odio sul mio viso, a darmi la misura dell’assenza di libertà a cui ero costretto.
L’idea di entrare nuovamente in carcere mi spaventava principalmente per questo.

Uscii un martedì pomeriggio di novembre. Fuori iniziava a soffiare il vento gelido dell’inverno. Respirai forte per qualche minuto.
Non sapendo dove andare, con le mie quattro robe addosso, andai da Tony.
Quando mi vide, fece un sorriso che mi sembrò vero.
«Finalmente sei uscito», mi disse mentre asciugava un bicchiere.
«Fammi il vodka tonic più forte che riesci», gli dissi.
Lui riempì il bicchiere di ghiaccio e vodka. Aggiunse solo alla fine una goccia di acqua tonica e una fettina di limone.
Me lo scolai prima che il ghiaccio raffreddasse il bicchiere.
«Devi farmi un favore», dissi quando finii. «Devi dirmi dove posso trovare Smilzo».
«Lascia perdere, Paolo», mi disse posando lo straccio sul bancone.
«Quella è storia passata, non ci pensare. Ora te ne vai a casa, ti fai una doccia e domani te ne vai tutto il giorno a pescare. Ti rimetti a posto le idee e torni in pista».
«No, Tony. Lo devo a Granchio».
«Fai come vuoi. Comunque non ho idea di dove sia questo tizio. È venuto ancora qualche volta da allora, ma sono almeno sei mesi che non si fa vedere da queste parti».
«Il vodka tonic te lo pago appena riesco», dissi sulla porta.
«E tagliati la barba, che non ti si riconosce nemmeno», urlò.
E fu la prima cosa che feci tornato a casa, la barba. Mi spogliai tutto, accorciai i peli prima con le forbici. Immersi la faccia sotto l’acqua calda, un lusso che avevo dimenticato. Poi presi la schiuma e iniziai a passarla su tutto il viso. Mi lasciai accarezzare dalle mie mani per diversi minuti. Solo quando il fresco iniziò ad arrivare alla pelle, presi il rasoio e iniziai a tagliare via quei lunghi otto anni.

Sono davanti alla impiegata della banca. Non riesce a guardarmi negli occhi, mentre la mia pistola le punta ancora la testa e le urlo di riempire la sacca che le ho passato.
Di Smilzo si sono perse le tracce. Forse sapeva che sarei uscito e si è trovato una buonuscita migliore di quella che gli avrei riservato io.
Quest’ultimo colpo e cambio aria anche io. Da piccolo ero stato a Marsiglia un paio di giorni con un mio prozio. Mi era piaciuta la gente e magari potrei tornarci.
Scatta l’allarme della banca. La ragazza adesso sembra più sicura di sé. Io invece continuo ad avere il cuore a mille e ora anche le mani iniziano a sudare.
Vedo le stesse facce di dieci anni fa.
Forse ho fatto una cazzata.
Sento le sirene arrivare.
Altri anni di carcere, chissà quanti stavolta. Altra vita buttata all’aria.
Mi guardo intorno, sono ancora tutti a terra ma forse hanno capito che si salveranno.
Butto la borsa a terra. Senza accorgermene, sto girando la pistola verso di me.

Pubblicato in concorso