16/12/2033 – ore 20:00

Scrigno non mi serve più al bancone appoggiando distratto il solito calice di bianco fermo mentre prende un'altra ordinazione. Adesso mi riserva un tavolo, il mio preferito, quello nell'angolo vicino al palco. Sa che mi piace la musica, e che soprattutto mi piacciono i musicisti giovani, avidi di esperienze e di racconti. Fare sesso con una milf è una delle cose da collezionare nei loro tour e da raccontare ad amici e fan. Fare sesso con un musicista invece è un modo per tenermi in allenamento ed essere sempre al passo con gusti e perversioni.

Questa sera ho voglia di festeggiare: diciassette anni fa mi trovavo a Firenze, davanti a Santa Maria del Fiore, avvolta dalla nebbia. Ero là per un incontro, un uomo che non avevo mai visto prima ma che mi avrebbe fatto una promessa, la più importante.

Entro e vado diretta verso la targhetta con su scritto Riservato Solani. Noto il palco vuoto, nessun tecnico del suono al mixer. Mi tolgo il cappotto e lo appoggio sulla sedia accanto alla mia, slaccio il foulard quel tanto che basta per lasciare scoperto l'inizio del seno, tiro fuori le sigarette, bisogna sempre prepararsi un alibi per le conversazioni troppo pesanti.

«Il solito whiskey?»

«Sì, grazie. Scusa Scrigno, questa sera non suona nessuno?»

«Margherita è mercoledì, è la sera della settimana in cui di solito rimorchi semplici clienti».

Ogni sera della settimana ha le sue abitudini, da molto tempo, e il mercoledì è la prima in cui mi affaccio sul mondo esterno dopo il fine settimana. È la sera in cui mi piace tentare la sorte e provare per pochi istanti quella piacevole ansia data dall'incertezza. Voltare le spalle all'intero locale aspettando di vedere la sedia muoversi e una voce maschile chiedermi se può accomodarsi.

Sfilo una sigaretta dal pacchetto e mi dirigo verso l'uscita. Scrigno mi fa segno di andare nel retro, gli dico di no, ho bisogno di una boccata d'aria fresca. Quando rientro il whiskey non è ancora arrivato. Mi siedo con le spalle sempre rivolte alle persone.

Una mano compare alla mia sinistra e avvicina un bicchiere alle mie labbra. Non dice una parola, non dico una parola. Lo sfioro e lui lo inclina fino a farmi scivolare un po' di quel liquido bianco in bocca. Lo mando giù.

Dalla mia reazione deve aver capito che non mi è dispiaciuto, così ripete il gesto.

Mi scioglie i capelli e lascia che cadano sulle mie spalle, poi sposta il cappotto e si siede.

«È vodka, liscia».

«È buona».

«Ne vuoi ancora?»

«Vorrei il mio whiskey se a te e a Scrigno non dispiace».

Fa un gesto verso il bar e in un attimo quello che ho ordinato si materializza davanti a me.

Avrà poco più di vent'anni, potrebbe essere mio figlio se dimostrassi davvero l'età che ho. Potrebbe esserlo ugualmente ma la cosa non mi interessa e pare non interessare nemmeno a lui.

Non chiede niente di me e non racconta nulla di sé ma conversa e lo fa divinamente. La noia che abita con tanta facilità le mie giornate scompare all'improvviso e mi trovo a ridere di gusto, per la prima volta dopo Andrea.

Alla nostra prima consumazione se ne aggiunge una seconda e poi una terza, alla quarta dico no, voglio restare lucida, voglio ricordarmi di lui. Si dirige verso la cassa e salda il conto, Scrigno da lontano mi fa l'occhiolino, segno che non gli devo nulla.

Il ragazzo torna da me, prende il cappotto dalla sedia e mi aiuta a indossarlo.

«Abiti qui vicino?»

«Sì».

«È perfetto».

 

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Salone internazionale del libro - 10/14 maggio 2018.

Padiglione 4, stand V15, Jona Editore.

 

 

 

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JE: Hai già iniziato a pensare al prossimo romanzo?

EP: Ho iniziato a pensarlo, sì. Niente ancora di definito, qualche idea su carta. Mi interessa sempre più vedere e narrare il mondo dei Social. Capire il mondo che sembra quasi risiedere lì, tra byte e ore passate con altre persone senza, spesso, averle mai viste in faccia.

 

JE: Non più YouTube, però?

EP: Un altro, credo si possa dire il nome: Instagram. E non con gli occhi di un uomo ma con quelli di una donna. Vedere quello che una persona può arrivare a fare, e perché, per avere successo. Capire il prezzo di centomila o un milione di follower.

 

JE: Instagram è in crescita, no?

EP: È il presente che sarà futuro. Probabilmente perché è più veloce, il più veloce che c'è in questo momento. E in questo momento la gente vuole connessione più che dialogo. Una foto, boom, mille like, mille persone che sanno che esisti.

 

JE: Ma nessuna parola, comunicazione non verbale, quasi.

EP: In realtà qualche parola la si può inserire, ma sicuramente il mezzo per comunicare è l’immagine.

 

JE: E tornando ai tuoi ultimi due anni: il romanzo ti ha tolto tempo. Lavori sempre in ambito sigarette elettroniche?

EP Sì. Da due anni tutta la mia vita, almeno quella in superficie, ha gravitato intorno alle sigarette elettroniche. Il romanzo ha avuto anche questa responsabilità. Mi ha indicato la porta di uscita, mi ha fatto capire che gravitare per un po’ va bene, oltre diventa colla.

 

JE: E nel romanzo tutto questo mondo che gira intorno alle sigarette elettroniche è rappresentato o c’è solo il protagonista?

EP: No, non solo il protagonista, molto gira in quell’ambito. E a pensarci da lettore più che da scrittore, il mondo che ne viene fuori, eccezion fatta per due persone, non è del tutto positivo.

 

JE: Quindi, premettendo che noi abbiamo pubblicato un libro de il Santone dello Svapo su come uscire dalle sigarette, considerando che lo svapo è sicuramente un fenomeno positivo, come studio sociologico è interessante, no?
EP: Interessante vedere le dinamiche all’interno di un gruppo parecchio chiuso e molto egoriferito. Ma non tanto per studiare chi svapa, ma proprio per vedere e conoscere meglio il branco.

 

JE: E secondo te gli svapatori sono riconoscibili? Se tu vedi una persona sai se svapa, come e perché?
EP: Se vedo una persona senza sigaretta elettronica no, ma se ne ha una, sicuramente dal modello, da come la usa, da come si atteggia: molto si può dire su di lui.


JE: E se tu ti vedessi svapare da fuori in che categoria ti metteresti e cosa penseresti della tua categoria?

EP: In quella dello svapatore distratto. Che è capitato in un mondo e che cerca di conoscerlo, spesso arrancando. Come uno che si ritrova in mezzo al mare e vuole tornare in terra ferma, ma facendo fatica, non sapendo bene che stile di nuoto è efficace in quelle acque, cercando di vedere le onde e, soprattutto, sperando di non affogare.


JE: Un po’ come il protagonista de La farsa, no?
EP: Esattamente.

JE: E perché un lettore dovrebbe comprarla, La farsa?

EP: Per vedere se è scritta da uno YouTuber o da una persona. Per vedere se è in pieno cliché ho un po’ di follower che saranno lettori, quindi un prodotto o se davvero è un romanzo.
JE: Due scrittori che ami?
EP: Edward Bunker,  ho amato Come una bestia feroce; Chuck Palahniuk, li ho amati tutti, paradossalmente fatta eccezione di Fight club, e aggiungo un italiano, Paolo Sorrentino. Bellissimo il suo Hanno tutti ragione.

JE: E come scrittore hai autori che ti hanno influenzato?
EP: Non credo, almeno non in coscienza.

JE: Guardando i tuoi video sembri, in effetti, più figlio della cultura rap.
EP: Assolutamente sì, è un mondo che mi coinvolge da sempre.

JE: Ultimissima domanda, quando la presentazione de La farsa?
EP: Torino, Salone del libro, domenica 13 maggio, ore 16.

 

Link a La farsa


Disegno di Alberto Baroni

Seconda delle tre parti dell'intervista a Enrico Pistoni. Venerdì 13 aprile l'ultima. (Parte prima)

 

JE: E tutto questo ha anche portato a prendere il personaggio Ignoranz Svapo e a farlo uscire dal video ed entrare in un romanzo o le due cose sono slegate?
EP: Sì, il mio canale si chiama, appunto, Ignoranz Svapo, La farsa è stata la mia occasione per prenderlo e portarlo in giro, fuori dai video.

JE: E cosa fa questo personaggio?
EP: Combatte tra il rifugio che si è creato con il suo personaggio e la difficoltà di andare fuori.
E poi c’è la vita che conduce, ci sono le persone che incontra. Una delle quali, uno per cui aveva fatto delle recensioni, nella storia diventerà il suo nemico, uno che lo minaccia, che non vuole che lui smetta di fare video.

JE: “Nemici in rete” è un tema di cui si parla molto. Il cyber bullismo. È davvero un fenomeno così diffuso?
EP: Dipende dall’accezione che vogliamo dare a questi hater. Il paragone con la televisione è questo: se uno guarda un qualcosa che non ama, cambia canale. Invece, su YouTube, prima di farlo ha la possibilità di scrivertelo, e spesso in modo parecchio esplicito.

 

JE: Ma fino a che si limita a scrivertelo è lecito, no? Io posso vedere un tuo video, non apprezzarlo e dirti cosa ne penso. Il problema, forse, ma ripeto, è un mondo che conosco poco e male, sono quelli che insultano, no?
EP: Certo, quelli sono meno numerosi, forse, ma ci sono anche loro. Figurati che diversi mesi fa feci un video che voleva essere ironico, sul Natale. E feci, come spesso faccio, parlare il mio personaggio con la musica. E prendevo in giro il Natale. Non puoi immaginare quanti insulti mi hanno scritto. Ecco, una cosa che ho capito con i social è di non toccare mai il Natale, si arrabbiano di brutto.

 

JE: Due anni di video, di lavoro, di editing, di social, cosa ti ha dato e cosa ti ha tolto?
EP: Quello che ha tolto è semplice: il tempo. Chi vede video difficilmente sa quanto tempo ci vuole per realizzarli. Bisogna avere una idea. Bisogna scrivere un copione. Bisogna girarlo e poi editarlo. Tempo però che non è stato perso. In due anni ho imparato parecchio. Conosco il mondo della sigaretta elettronica molto meglio di due anni fa, riesco a girare più facilmente un video, riesco, insomma, a comunicare meglio.

 

JE: E in questo personaggio quanto c’è di Entico Pistoni?
EP: C’è molto di quello che sono e poco di quello che faccio. In parte è come fossi io, ma interpretassi non la mia vita ma quella di un’altra persona. Quindi almeno in parte, mie emozioni, sensazioni, modi di vedere la vita, quasi nulla di mio, invece, come trama, come storia.

JE Quindi il guscio è Ignoranz Svapo, l’interno sei tu?
EP: Una parte, sì, non certo tutto, ma una parte senza altro.

 

JE Qual è stato l'approccio alla scrittura? Che legame si crea con la trama?
EP: Non avevo un piano preciso in testa. Era solo un'idea, ossia quella di voler mettere in luce alcuni retroscena che lo spettatore di YouTube non può vedere. Certo, questa idea derivava sicuramente da alcune mie fatiche personali. Sono partito da quello che ho vissuto io in certi periodi, e ho provato a immaginarmi un personaggio che rimane fortemente invischiato dentro quei retroscena. Volevo portare all'eccesso le cose per vedere cosa sarebbe successo. Nel libro uso il mio vero nome(Enrico) e uso Ignoranz svapo, sebbene non sia una autobiografia o una cronaca di fatti realmente accaduti. È una storia, semplicemente.

 

JE: Come hai vissuto il legame che si crea, quando si scrive un libro, con l’editor?
EP: Prima di scrivere questo libro conoscevo per sentito dire la figura dell'editor ma non avevo davvero in mente il suo ruolo. Oggi posso dire che senza l'editor (Renzo Semprini Cesari) questo libro non esisterebbe. Mi ha aiutato in tutto, correggendo e fornendo stimoli. Per me ha svolto una funzione di specchio per quanto avevo scritto, e di bussola per quello che dovevo scrivere. Non gli sarò mai abbastanza riconoscente per il suo lavoro, lo so già.

 

 JE: stai già pensando al prossimo romanzo?

Link alla terza parte dell'intervista
Link al romanzo.

Oggi, in occasione del suo romanzo in uscita, La farsa, intervistiamo Enrico Pistoni.

Enrico Pistoni: Buongiorno!

JE: Buongiorno a te. Partiamo dagli ultimi  anni della tua  vita: chi è Ignoranz Svapo?

Enrico Pistoni: Ignoranz Svapo è il nome del mio canale youtube, canale in cui tratto di sigarette elettroniche: faccio delle presunte recensioni. È un canale che ho aperto da un paio d’anni. Il mio approccio ai video è dettato dall’avere un pretesto. Il mio è, appunto, quello della sigaretta elettronica, che uso per raccontare delle storie.

JE: E con questa tua frase ci siamo automaticamente giocati tutti i tuoi iscritti che non compreranno più il romanzo.

Enrico Pistoni: Assolutamente. Ho appena deluso, credo, un cinquantamila persone.

JE: Cinquantamila sono tanti, no?

Enrico Pistoni: Sì, penso che di iscritti, tra tutti i vari social, sui cinquanta/sessantamila.

JE: E come si fa ad avere cinquantamila iscritti? Insomma, non deve essere facile.

Enrico Pistoni: Come si fa non lo so, posso dire quello che ho fatto io. In questo momento tutti i social sono inflazionati, no? Secondo me uno che voglia entrare in questo mondo deve fare una serie di analisi di mercato.

JE: Quindi non basta improvvisare o, semplicemente, aprire un canale e vedere come andranno le cose?

Enrico Pistoni: Ni. Nel senso che poi la fortuna c’è e tutto quanto, però se vogliamo escludere la fortuna come variabile o comunque imboccarla al meglio possibile, secondo me si deve fare una seria analisi della nicchia in cui si vuole andare a mettere e fare qualcosa che altri non fanno. Se una persona decidesse di fare video sulla sigaretta elettronica dovrebbe guardare cosa e come fanno gli altri e trovare un modo nuovo di farla da una diversa prospettiva. Andare in diretta competizione con chi fa da anni un lavoro che vuoi fare da giorni, non porta a niente di buono.

JE: E, premettendo che uno come te ha davvero trovato un modo nuovo per fare comunicazione attraverso la sigaretta elettronica, c’è ancora spazio per chi vuole iniziare adesso? Non siete già in tanti?

Enrico Pistoni: Non c’è spazio se non hai fantasia, voglia di lavorare, perché fare video porta via tantissimo tempo, e fretta. Se hai fantasia, molta, se riesci a trovare un modo diverso dagli altri, c’è sempre spazio.

JE: Cinquantamila iscritti, due anni di video: cosa ti hanno dato e cosa ti hanno tolto?

Enrico Pistoni: Mi ha tolto molto tempo, molto davvero. Mi hanno dato, be’, diciamo che mi hanno fatto scoprire che anche partendo da una totale ignoranza in materia e in maniera completamente autodidatta si può arrivare a un buon livello. E sembra banale, ma davvero uno si accorge che lo stesso principio lo si può adattare in ogni campo della propria vita. La fine del “non lo so fare” diventa l’inizio del “non ho ancora trovato il modo per farlo”.

JE: Quindi davvero, due anni fa eri completamente all’oscuro sia della sigaretta elettronica, sia di montaggio video?

Enrico Pistoni: Assolutamente sì, ero completamente ignaro dell’una e dell’altra cosa. Il mio primo video postato nel canale è stato il primo video da me girato in cui vedevo per la prima volta un componente di una sigaretta elettronica. O forse il secondo, ma non il terzo di sicuro.

JE: Quel che si dice: “crescere col canale”.

Enrico Pistoni: Assolutamente sì, fare, disfare, imparare, mostrare. Un bel percorso, molto bello, anche se ovviamente mi ha tolto tantissime energie e tempo. Ma davvero, sono felice di avere usato quel tempo per fare quelle cose.

JE: E hai sempre voglia di fare video?

Enrico Pistoni: Ho sempre voglia di fare video, sì; sempre farli in funzione della sigaretta elettronica sì e no. Non è un argomento infinito, ma vedremo bene se ci sono nuove strade per parlarne. Ma sicuramente fare video è una cosa che amo, amo questo linguaggio.

JE: Anche perché tu di linguaggi ne usi parecchi, nel video c’è la musica, col video narri una storia.

Enrico Pistoni: Cerco di usarne, sì. C’è quello che al di là del video non si vede, un mini copione per raccontare la storia è il primo linguaggio, poi c’è la musica, e poi c’è il video. Una delle cose che mi ha dato il mio canale è proprio la possibilità di conoscere meglio questi linguaggi, esplorarli, cercando di unirli e giocando a disunirli.

JE: E tutto questo ha anche portato a prendere il personaggio Ignoranz Svapo e a farlo uscire dal video ed entrare in un romanzo o le due cose sono slegate?

 

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Calamità innaturali
di Alessandra Ceccoli e Nicola Rovetta

La vide per la prima volta, in lontananza, di fronte alla porta della terza emme; doveva essere arrivata da un'altra scuola, o l'avrebbe certamente notata in precedenza. Dietro di lei, il lungo corridoio con le altre classi svanì nel nulla, solo il danzante movimento dei sui biondi capelli rimase nella mente di Eddy, tutti gli altri pensieri finirono inevitabilmente nell'oblio. L’idea che lei non fosse reale sfiorò la sua mente, per dissiparsi non appena le passò accanto, il sorriso che le fece con le sinuose fossette pronte a mandargli in pappa il cervello, il naso e le guance punteggiati da perfette imperfezioni. Da subito non gli sembrò estremamente altezzosa e piena di sé come le altre ragazze, capaci di attirare nient’altro che il disprezzo o, per lo più, il dindarolo del giovane scolaro.

Quando sparì dietro Eddy, calpestando l’ombra di lui, volle da subito rivederla, l'ineluttabile desiderio di conoscerla era così puro: avere la possibilità di parlare con una ragazza come lei o semplicemente divertircisi insieme era il suo unico desiderio. Quando se ne fu andata si sentì le orecchie molto calde e, al tatto, gli apparvero grandicelle rispetto al solito.

Consapevole della propria asociale eccentricità, il quindicenne si rese conto che le solite ansie che provava vicino a gente sconosciuta si ingigantivano a dismisura con una ragazza così radiosa, dolce e carina. Doveva riuscire a invitarla a chiacchierare, o se non altro riuscire a rivolgerle poche striminzite parole. Come avrebbe potuto riuscirci? Non aveva la ben che minima idea di come approcciarsi. ''Potrei passarle accanto di proposito e farle dei complimenti''.

Alla pari dell’ombra che seguiva sempre il corpo di Eddy nei suoi movimenti, l’ansia lo accompagnava, ovunque lui andasse. Troppo spesso finiva per oscurargli intelligenza e senso pratico, e quando succedeva si sentiva un vero idiota. Eddy aveva cercato di fare pace con l’Ombra, ché forse solo accettandola se la sarebbe fatta amica, ma era lei piuttosto a far di tutto per rimanergli ostile. D’accordo, da un certo punto di vista, osservando la scena da fuori, pareva lo assecondasse: quel che lui faceva, lei lo riproduceva; rimaneva dietro a lui, sempre qualche passo indietro, ma poi finiva sempre per travolgerlo, precederlo in un certo senso, anticipando le sue azioni e ribaltando la percezione del povero ragazzo. E, anziché essere la sua proiezione, diventava sovente la sua premonizione. La loro era una relazione patologica: l’ombra provava per lui un amore malato, possessivo. Voleva appiccicarglisi addosso, essere l'unica custode del suo lato oscuro, di contro lui la odiava e la temeva, pur considerandola un luogo sicuro in cui rifugiarsi. Era un’amante gelosa e capricciosa: se lui cercava di fare un rapido passo avanti per scrollarsela di dosso, lei per ripicca sabotava i suoi piani, finendo per inglobarlo.

Nemmeno a dirlo, le si era appena presentata l’occasione giusta: minacciata dalla eterea figura della ragazza, come spesso accadeva, l’Ombra aveva deciso di spegnere la luce sul raziocinio di Eddy, mandandogli in corto circuito ogni abilità relazionale.

Convinto di essere totalmente ottenebrato agli occhi della ragazza e temendo di essere del tutto ignorato, per disfarsi dell’oscura presenza, Eddy tendeva involontariamente ad attivare meccanismi di difesa atti a evidenziare la sua presenza al resto del mondo. Quello delle orecchie che crescevano a dismisura era solo uno spiacevole esempio. Gli era capitato di vedersi rimpicciolire i piedi a tal punto da non riuscire più a reggersi senza doversi sostenere, oppure di cambiare il colore del viso a seconda di chi aveva di fronte, o addirittura di squagliarsi a terra a seguito di uno strano processo di liquefazione.

E il peggio era che non poteva capire o sapere se si trattasse di una sua sensazione o se la cosa fosse visibile anche all’esterno. Questa volta la ridicola sorte era toccata alle sue orecchie, ma fortunatamente era riuscito a rassicurare Melissa e a convincerla che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

In un bel giorno assolato, nel verde giardino della scuola, Eddy vide nuovamente arrivare Melissa.

Pur esprimendo assoluta pienezza e unicità, nemmeno lei sembrava presentarsi mai del tutto sola. Dove c’era Melissa, c’era L’Aura e, a qualsiasi occhio attento, la cosa non sfuggiva. L’Aura la amava di un amore puro, incondizionato e corrisposto, un amore fraterno. Melissa, in fin dei conti, doveva esserle grata perché le regalava una luce singolare, che faceva sì che nessuno le potesse levare gli occhi di dosso. E doveva ringraziare la brillantezza di L’Aura se poteva permettersi di sfoggiare con orgoglio quel pizzico di sicurezza e vanità, senza che stonassero o risultassero inopportune. La si poteva definire una corazza di protezione e positività, fatto sta che, assieme a lei, Melissa non doveva temere nulla e poteva considerarsi immune alle avversità che la vita spesso le riservava. Al contrario, quando la sua luce era più soffusa, vere e proprie calamità si sprigionavano dal corpo della ragazza. Era successo di rado, ma se al telegiornale si parlava di incendi, terremoti o uragani, il più delle volte c'era il suo zampino.

Eddy si fece forza e, di scatto, si mise proprio di fronte a Melissa, mentre gli passava accanto, assicurandosi di nascondere l’Ombra col suo stesso corpo. I due si scontrarono quasi, forse non era quella la maniera migliore per incontrarsi, ma accadde inevitabilmente in modo istintivo.

''Ci siamo già visti''? Solitamente le ragazze lo snobbavano al primo sguardo ma lei, nonostante lo strano approccio iniziale, non si lasciò intimorire.

''Ccciao, sono Eddy...non ci conosciamo ma volevo dirti che sei molto carina''.

''Sei gentile, io sono Melissa. Mi sei spuntato fuori così all'improvviso, strana questa cosa...hai corso? Hai il fiatone''. Non poteva fare a meno di notare la spossatezza del ragazzo. Nel vedere così vicini quegli occhi dalle molte sfumature, Eddy si sentì il corpo divampare. Unendosi, tutti quei colori mostravano un brillante verde smeraldo, erano molto simili a quegli ammassi informi di gas che il giovane vedeva nelle riviste di astronomia e ci si perse come quando si nascondeva dal mondo dentro la propria mente. ''Che sta succedendo, oddio mi sta venendo uno svenimento'' Non gli era mai capitato prima, ma nemmeno l'agitazione era mai stata tanto forte. “Ho la testa così pesante''.

“Oddio...sei sicuro di stare bene?!” Il volto corrugato e sconvolto di lei lo spaventò ancor di più.

“Perché, cos'ho che non va?!”. Seguendo la direzione dei suoi occhi, si portò le mani alle orecchie, come dopo il loro primo incontro sentì subito del calore, questa volta molto più forte. “Oddio...cosa sono queste?” Se le prese tra le mani e alzò entrambe le braccia, poi se le portò davanti agli occhi già fissi e spalancati a dismisura.

“Forse dovresti andare all'ospedale?”

“Tranquilla, non è la prima volta che mi succede, tra un po’ passa. A te piace leggere?”

“Certo, i gialli li amo. Non ho mai trovato un ragazza con cui parlare di queste cose, a te cosa piace?”.

Melissa fissava le orecchie e le orecchie fissavano Melissa, il disagio era palpabile.

“Mi piace il genere fantasy, un po’ la letteratura russa e poi molto i romanzi storici. Sono sempre molto agitato quando incontro una persona nuova e con una ragazza bella come te è anche più difficile. Ma mi piace molto parlare con te, sono contento di averti incontrata.”

Stupita dalle parole di Eddy e oltraggiata dall’inaspettato moto di coraggio, L’Ombra divenne nera di rabbia e con aria di sfida si staccò dal fedele compagno di vita. Nel tentativo di ingelosirlo, decise di confondersi momentaneamente con l’ombra di un pino del giardino scolastico, osservatore immobile e imparziale.

Capì subito che il suo atto di ribellione non avrebbe dato troppo fastidio a nessuno: non era fatta per nascondersi, ma piuttosto per imporsi e, anche se il concetto potrebbe sembrare paradossale, ebbe una improvvisa illuminazione. Sfrontata e impertinente, nel tentativo di spogliare Melissa da L’Aura, le si gettò addosso e cercò di offuscare quella fastidiosa luce, approfittando del passaggio di una nuvola per non dar troppo nell’occhio.

La ragazza subito emise un grido di spavento, inseguendo con sguardo esterrefatto l’Ombra che le girava attorno scattante e furibonda, poi iniziò a correre qua e là per cercare di scrollarsela di dosso.

“Fermati, vieni qua... smettila di spaventarla”. Eddy Voleva solo continuare a chiacchierare, rischiava di non riuscire più a parlarle per la paura che le era venuta. “Sarò dannato a portarmela addosso per l'eternità”. Lo sguardo del ragazzo si abbassò, gravemente sconfortato dalla situazione.

Ci fu un attimo di confusione: L’Aura, nonostante la sua innata imperturbabilità e tranquillità interiore, oppose resistenza, tentò senza successo di divincolarsi dalla morsa dell’oscura presenza, cercando di continuare a splendere con tutte le sue forze, poi la sua luce divenne intermittente fino a scomparire pian piano. Eddy si sentì dapprima rinvigorito, improvvisamente abbandonato dal fastidioso torpore, fin quando l’Ombra tornò a incatenare il già sconfortato scolaro. Melissa, di contro, pur se interessata e lusingata dalla compagnia di Eddy, divenne estremamente vulnerabile, sovraesposta agli agenti esterni e, con ciò, il suo fascino iniziò a scolorirsi anche agli occhi del ragazzo.

I due, completamente divorati dall'angoscia della situazione, non si parlarono più per quelli che parvero alcuni lunghi istanti.

Non appena lui si girò per andarsene, con le grosse orecchie dondolanti e senza nemmeno salutarla, Melissa iniziò a piangere. Quelle poche lacrime diventarono pian piano sempre più copiose, fino a trasformarsi in ruscelli che le ricadevano abbondanti sulla candida pelle delle guance.

Dopo aver percorso lentamente i metri che lo separavano da lei, ancora sconfortato e appesantito dal terribile peso dell’Ombra, Eddy iniziò a sentire un forte gorgoglìo e non appena fece per voltarsi, il muro d'acqua inesorabilmente lo travolse.

Il ragazzo trascorse alcuni mesi in ospedale, per i dovuti accertamenti, dopodiché la madre decise di iscriverlo in un’altra scuola e i due non si rividero mai più.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

L’ultimo sogno
di Selene Capodarca e Serena Barsottelli

Sibilla l’aveva vista in un sogno o era saltata fuori dal barattolo, non ricordava con precisione. O forse si era posata sul suo cuscino quando dormiva ed era entrata nell’orecchio come una formica, a passi piccoli e svelti. Da dove venisse l’idea Sibilla non lo sapeva, se l’era ritrovata davanti agli occhi come un’apparizione, un ricordo sbiadito, senza sapere se fosse reale o frutto del sonno.

Era schizzato tutto fuori dal barattolo: c’erano tracce di luce sul cuscino, sul comodino e persino sul vetro della finestra. Era colpa loro, delle idee, perché esplodevano quando meno ci si aspettava e non si era mai pronti a fermarle in tempo. E quella mattina di luce ce ne era molta: una luce scura, quasi buia, ma Sibilla non ne aveva paura, perché alcune figure lì dentro si muovevano e si affaccendavano. C’era chi lavorava e chi semplicemente si dedicava a morire, chi aveva tutto chiaro e chi era pieno di dubbi. Così mutavano le forme di nebbia nella luce scura, con velocità sempre più lenta e Sibilla si sforzava di guardare meglio, con la penna tra le dita, per fermare l’idea sul foglio prima che svanisse del tutto.

La luce, il buio, la nebbia. La storia prendeva forma. La nebbia, il buio, la luce. L’immagine era la forma.

Aveva visto Amret, il fachiro del materasso, rigirarsi sulle comode reti di un letto nello spazio espositivo azzurro del centro commerciale. Di svegliarsi non ne voleva sapere: dopo tanti anni passati a dormire sui chiodi, non si era ancora abituato al suo nuovo incarico da animatore del reparto materassi. Così Amret dormiva per giorni, anzi per settimane, e si sarebbe detto in catalessi, o forse morto, se il referto di Ishtar non avesse confermato l’esatto contrario. Perché la morte era simile al sonno, Ishtar lo sapeva bene, ma Sibilla, la spettatrice del sogno, non ne era poi così tanto sicura.

Successe più di una volta che Amret il fachiro fosse morto o quasi morto, poi i colleghi avevano quasi iniziato ad abituarsi a queste sue morti temporanee. Una volta si era addormentato sul bordo di una testiera in rovere. Rimase così, immobile, per 8 giorni, finché i responsabili del reparto non cominciarono a sospettare che la sua rigidità fosse dovuta più al rigor mortis che non alle sue capacità trascendentali. Ma Alice, la ragazzina bionda del reparto biancheria, sapeva che il fachiro non era morto, almeno non quel giorno. Lei certe cose le sentiva, e poi non aveva ancora avuto modo di esaurire il suo ultimo sogno. Per Alice i sogni erano più di quello che gli altri potessero immaginare. Per Alice sognare era creare.

Questa storia dell’ultimo sogno era cominciata dieci anni prima, inaspettatamente. In quei giorni si trovava a far visita a sua nonna, ricoverata in ospedale per una brutta frattura. Non aveva occasione di scambiare molte parole con la canuta signora del letto accanto, finché un giorno questa non le si avvicinò e cominciò a raccontare. Le raccontò del suo primo amore, di come lui la guardasse con quei grandi occhi verdi, di quando si erano scambiati il primo bacio al fiume. Continuò parlandole delle nuvole dense, di come le spighe le pungessero la camicetta e di come il cuore le battesse impazzito per il terrore di essere scoperta.

Alice ascoltava attenta, ma si chiedeva perché le stesse raccontando tutto questo, e con tale dovizia di dettagli. Lo capì soltanto il giorno dopo, quando si risvegliò stanca morta. Aveva fatto un sogno stranissimo. Ricordò di aver lavorato tutta la notte a sistemare spighette di forasacchi sull’erba, a condensare le nuvole, a spostare i raggi di sole e sistemare i due amati all’ombra dell’albero. Tutto era stato ricreato alla perfezione, anche il suono dei grilli e il battito dei cuori in sottofondo. Quando tornò a trovare la nonna, il letto accanto al suo era vuoto.

E da lì fu un susseguirsi di regie: nascite, amori proibiti, ricordi di figli persi troppo presto. Un uomo di affari cinese che aveva sempre vissuto in solitudine, le raccontò di aver amato per una notte una prostituta di Hong Kong. E Alice, diligente, eseguì. Sistemò la bottiglia di whiskey sulla moquette accanto al letto, li spogliò e mise le braccia della donna attorno all’uomo. Le ordinò di rimanere così fino al mattino, fin quando Alice non avrebbe chiesto al cielo di albeggiare sui grattacieli della città.

Recentemente si era imbattuta in un curioso libro. Un fotografo americano aveva fotografato gli ultimi pasti dei condannati a morte. Anche lei avrebbe desiderato fare altrettanto con i suoi ultimi sogni.

Con Augusto era capitata una cosa stranissima. Augusto continuava a tornare da lei e Alice non capiva. La prima volta le raccontò di essere stato fuoco e le parlò del senso di onnipotenza provato nel distruggere con tutta la violenza che aveva dentro le foreste della California del Sud. Quella notte Alice lavorò alacremente per regalargli il suo sogno, il più difficile tra tutti quelli che aveva creato.  

Augusto tornò da lei tre volte. La seconda volta le confessò il suo segreto.

“Posso entrare nei quadri che voglio e prendere forma e sembianza di quanto raffigurato”, le disse. Alice trattenne a fatica le risate.

L’ultima volta le disse di chiamarsi Marat, e le parlò di folle e di rivoluzioni. Lei lo guardò stupita. Sapeva benissimo che era Augusto ma non fece domande, come del resto non faceva mai. La notte stessa eseguì l’ennesimo ultimo sogno di Augusto.

Alice non fu la sola a essere confusa. La prima volta che portarono Augusto sul suo tavolo, Ishtar riuscì piuttosto rapidamente a confermare le cause della morte. “Lesioni da ustione estesa”, avrebbe scritto il giorno dopo sul referto autoptico, se le cose non fossero andate diversamente. La sera stessa pensò a quei residui di plastica bruciata ritrovati sul corpo ustionato di Augusto. Sorrise pensando a quanto assomigliassero a una delle Combustioni di Burri, quella che Ferdinand aveva in sala. Se lo ricordava bene, a non tutti capita di fare l’amore davanti a un Burri.

Quando il giorno dopo sollevò il telo dal corpo ebbe un sussulto. Corse subito a ricontrollare il fascicolo: Augusto Berdini, nato il primo luglio del 1963. Era lui indubbiamente, ma dei residui di plastica e dei segni di ustione non vi era più traccia. Anche i vestiti che indossava nei reperti fotografici erano diversi.

Da dove era uscito quell’ampio camicione e quel pantalone giallo? Guardò meglio la foto e trovò ironico come la luce, quel mucchio di corpi riversi e il paesaggio sullo sfondo le ricordassero il famoso quadro di Goya. Doveva smettere di rapportare tutto ciò che la circondava con l’arte. “Torniamo ad occuparci della verità”, si disse.

Ishtar esaminò accuratamente la documentazione, esplorò il cadavere e giunse alla conclusione, anche stavolta piuttosto ovvia: “morte per arma da fuoco”. Neanche quella sera riuscì a stilare il referto autoptico. Alle 7.30 dovette scappare. Avrebbe incontrato Paul e non voleva fare tardi. Aveva una voglia pazza di vederlo.

“Ma cazzo, no! Non è lui!”, urlò la mattina dopo quando scoprì nuovamente il corpo. Quello non era il cadavere che aveva esaminato il giorno prima. “Cioè sì, porca troia! È lui, eccome se è lui”.

Ma dove era finita la ferita di arma da fuoco? E quella melma argillosa che ricopriva il corpo di Augusto? E questa ferita da taglio all’altezza del petto? Infastidita da quella assurdità, si affrettò a stilare il referto autoptico dopo aver eseguito gli esami da procedura. Caso chiuso.

Respirò profondamente, si legò i capelli e uscendo dalla stanza si fermò a guardare la riproduzione de “La morte di Marat” di David appesa al muro del suo studio. Ricordava ogni dettaglio di quel quadro a memoria, eppure quella sera non aveva dubbi, era comparso un ghigno burlone sul viso di Marat. Si affrettò a uscire, Sean Ruddy l’aspettava a teatro.

Sul tavolo di Ishtar c’era posto per Amret il fachiro? Era morto davvero, quella mattina, quando non dormiva sul materasso da circa undici giorni e sette ore? Alice conosceva la risposta, perché un giorno, prima di cadere nel sonno, le si era avvicinato e le aveva parlato a lungo di sua madre, del caffè che le faceva trovare ogni volta in cui tornava a casa dopo ore di riposo sui chiodi e degli abbracci con cui lo circondava ogni volta che se ne doveva andare, quasi a bloccarlo, a non farlo ripartire. Quello che Amret non diceva, ma che Alice sapeva, era che il fachiro sentiva la mancanza della sua terra e più di tutto della sua famiglia, semmai terra e famiglia possano essere scisse tra loro.

Alice, quel giorno, aveva ascoltato ogni dettaglio, trattenendo a fatica le lacrime perché sentiva il dolore di Amret e soprattutto sapeva perché le stesse raccontando tutto questo.

Quando Ishtar si trovò di fronte il corpo di Amret il fachiro, si accorse che il suo viso era sereno, la sua pelle rilassata anzi luminosa. Alice la aspettava fuori dalla stanza per parlarle, le disse, e togliere ogni dubbio dalla faccenda di Amret il fachiro dormiglione. Sul fascicolo Ishtar scrisse soltanto “suicidio” e non ne parlò più, ricordando le lacrime di Alice, la dolcezza del cadavere e quel caso altrettanto strano di Augusto il mutaforma.

E Sibilla, con la sua luce, fece fatica a stare dietro alle idee che prendevano forma nella nebbia, ma quando la mattina si addormentò, fece un sogno stranissimo e bellissimo, dove con la penna dalla punta fatta a sole raccontava questa e altre storie, poi sorrise ricordandosi di Alice.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

 

La pillola
di Angela Colapinto e Debora Gatelli

Un tipo apparentemente normale, Vito, di professione: grafico pubblicitario. Bravo sul lavoro e con una grande passione per i motori: possedeva un enorme garage dove restaurava moto e auto d’epoca di ogni tipo, più per il piacere di farlo che per usarle. La sua preferita era senza ombra di dubbio “lo squalo”, una Citroen DS pallas 23 nera e lucida, che aveva completamente ricostruito con pezzi originali, dotandola inoltre di accessori ultra moderni. All’interno aveva installato persino un sensore per il parcheggio assistito, che ai tempi in cui l’auto era nata non esisteva di certo. Sembrava incredibile ma quest’auto aveva la particolarità di essere una seconda Sagrada Familia (se non peggio): non era mai finita. C’era sempre qualche modifica o miglioria da apportare, e ogni scusa era buona per rinchiudersi in garage a lavorarci. Sapete perché accedeva tutto questo? Perché l’auto, o meglio alcune parti di essa, una volta si chiamavano Vanessa. Vanessa era una ragazza alla soglia della ventina con la particolare particolarità di essere in grado di trasformarsi nell’oggetto che sceglieva. Vanessa era stata un asciugamano, e dopo essere stata sfregata sulle ascelle di tutta la famiglia, si era fatta un giro di giostra in lavatrice. Poi, era stata una forchetta, aveva viaggiato in un paio di bocche e si era fatta fare un trattamento in lavastoviglie. E infine, aveva provato a essere una chiave e si era infilata in quelle fessure strette adatte alla sua sagomatura. Vanessa al tempo aveva un fidanzato con una spiccata passione per le auto e una sera si trasformò nel cambio della sua Citroen. Quando si trovò infilata in un pertugio non calcolato, decise che non sarebbe mai più ritornata una donna, e sfruttò la sua particolarità per punire Vito e l’amante penetrata, Cornelia.

Consideriamo ora, che quando non trafficava in garage, Vito si metteva al computer e ordinava pezzi di ricambio e accessori su siti di seconda mano. Accadeva quasi ogni sera, immancabilmente pochi minuti dopo aver messo piede in casa. Per lui era come una droga: se non ordinava almeno un paio di ricambi alla settimana gli veniva la febbre, e quando la febbre superava i trentotto gradi, cominciavano a cadergli i capelli. Fino a che era stato con Vanessa, aveva avuto folti capelli castani che portava scompigliati, ma da quando Cornelia era entrata nella sua vita, i capelli di Vito parevano essersi trasferiti sulla gambe della ragazza, ed era apparsa ormai da mesi un’evidente chierica sulla testa dell’uomo.

Perché a Cornelia crescevano i peli? Semplice, non sopportava gli uomini pelati e ogni volta che vedeva un calvo cominciavano a crescerle – spropositatamente - peli superflui su tutto il corpo. Cornelia non sopportava nemmeno che il suo fidanzato passasse più tempo con le auto che con lei e faceva di tutto per interrompere la sua attività quotidiana. Convivevano da parecchi anni e in un continuum di dai e togli, lo scambio tra loro più frequente era a base di cheratina. Se mi vuoi vicino a te, mi avrai pelato! Se ti vedo pelato, divento un mammut! Se rivuoi gambe lisce, lasciami ordinare dei pezzi, così mi ricresceranno i capelli! La crescita smisurata di peli forse non era, come la calvizie, una particolarità delle più particolari, ma anche in questo mondo surreale esistevano diversi gradi di originalità. Ritorniamo per un attimo a Vanessa, di sicuro li batteva entrambi in fatto di originalità, ma a lei interessava solo portare a compimento la sua vendetta. Ecco perché dopo essere stata il cambio, si era trasformata in una candela, nella cinghia di trasmissione, nel carburatore e ancora nella marmitta. E ogni volta, o si era rotta di proposito o se n’era andata, abbandonando la postazione e innescando così l’orrenda reazione a catena tra Vito e Cornelia.

Una sera Vito notò che a “lo squalo” mancava il paraurti anteriore. Decise di fare subito l’ordine e di farlo in fretta, lasciando Cornelia a svuotare la lavastoviglie. Lei lo sorprese mentre stava finalizzando il pagamento, ma non disse niente. Si sentì prudere, laggiù sotto al ginocchio e una folta pelliccia in pochi minuti trapassò i suoi collant. Vito tuttavia sperava di averla fatta franca e quando andò a dormire, trovò con piacevole sorpresa la sua dolce metà ad attenderlo in una sottoveste trasparente. Lo legò alla testiera del letto con una sciarpa di seta, gli lanciò sguardi ammiccanti, ma poi inaspettatamente andò a dormire sul divano lasciandolo chiuso in camera in compagnia della sua chioma ribelle e di Flick, il loro barboncino nano, che per ore gli leccò la faccia e non solo, felicissimo nel vedere che Vito non poteva usare le mani.

Dopo una nottataccia del genere il nostro secondamanodipendente se ne guardò bene dal rifare acquisti online per un paio di giorni, anche se gli serviva assolutamente una sella per la moto da corsa, dato che era sparita pure quella. Va da sé che al terzo giorno cominciò a salirgli la febbre, così comprò in fretta e furia la suddetta sella e già che c’era aggiunse all’ordine un paio di carburatori.

Cornelia, che nel frattempo aveva affinato le sue tecniche, si rallegrò per il fatto che la febbre fosse scesa in tempo, prima che i capelli di lui iniziassero a cadere e i peli di lei a crescere di fronte all’ennesimo abbandono serale. Invitò prontamente degli amici di Vito per un drink in casa, senza avvertirlo e…bingo!!! Con le visite a sorpresa aveva trovato un metodo infallibile per impedirgli di scendere in garage ad assemblare i suoi maledetti pezzi appena comprati.

A parte questi lievi dissapori, Vito e Cornelia erano comunque una coppia unita. Da sempre avevano gusti diversi, è vero, ma ciò non sempre è un male, si sa. A lui per esempio piaceva il caffè nero a colazione, amaro. Lei il caffè non lo voleva nemmeno sentir nominare, meglio una bella tazza di latte caldo.

Una domenica mattina d'inverno di parecchi anni prima, mentre facevano colazione con calma davanti alla stufa accesa, decisero di provare qualcosa che fosse nuovo per entrambi. Faceva freddo, non avevano programmi per la giornata; Vito non aveva comprato pezzi di ricambio nei due giorni precedenti e Cornelia era tranquilla e senza peli superflui in crescita. Fu così che presero una bella tazza grande e mischiarono le loro bevande: da un semplice caffè nero e un nutriente latte bianco uscì un bellissimo pupo marroncino con una testa di ricci schiumosi e una spruzzata di cacao sulle guance. Lo chiamarono Cappuccino, il loro adorato primogenito.

Vito e Cornelia erano orgogliosissimi di lui, Cappuccino era un bimbetto spumeggiante che cresceva forte e sicuro di sé, anche se faticava a crearsi una vita al di fuori della cucina. Sin da piccolissimo aveva sviluppato una cotta fortissima per la Zuccheriera, e una volta raggiunta l’adolescenza le fece una corte così serrata che lei alla fine cedette e si fidanzarono.

Da quel giorno Cappuccino divenne un ragazzo dolcissimo oltre che spumeggiante e i due vissero una storia d’amore molto felice. Qualche difficoltà subentrò quando lui cominciò a diventare geloso e possessivo, mentre lei non voleva saperne di essergli fedele e continuava a zuccherare di tutto, da tazze di tè a torte, e addirittura spremute e frullati. Ma lui non si perse d'animo, nonostante la giovane età era già molto saggio. In fondo l'aveva imparato dai suoi genitori che qualche battibecco nella coppia è inevitabile. Se Vito e Cornelia erano ancora insieme nonostante le cicliche crisi di febbre con calvizie e peluria da scimmia annesse e connesse, poteva farcela benissimo anche lui a gestire una fidanzata eccessivamente generosa. E così fu, fino a quando Zuccheriera si stancò e diventò di nuovo un oggetto inanimato. Cappuccino ne soffrì molto ma presto trovò consolazione in Cacao, il migliore amico che potesse desiderare.

Che fine aveva fatto Vanessa? Beh, Vanessa, dopo aver abbandonato l’auto e anche la zuccheriera, si era trasferita in Cornelia. Aveva visto una pillola sul tavolo e ci si era infilata dentro. Quando la donna l’aveva assunta, Vanessa si era sciolta nel suo stomaco ed era entrata nei suoi tessuti. Adesso sì che la sua vendetta poteva dirsi completa. Di nuovo al fianco di Vito ma senza che Vito lo sapesse e soprattutto in grado di torturarlo: capelli sì, capelli no. Non le piacevano gran che i peli, ma come dice il detto: se qualcun’altra vuoi apparire, un po’ devi soffrire.


Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

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