particolari

particolari (4)

 

Calamità innaturali
di Alessandra Ceccoli e Nicola Rovetta

La vide per la prima volta, in lontananza, di fronte alla porta della terza emme; doveva essere arrivata da un'altra scuola, o l'avrebbe certamente notata in precedenza. Dietro di lei, il lungo corridoio con le altre classi svanì nel nulla, solo il danzante movimento dei sui biondi capelli rimase nella mente di Eddy, tutti gli altri pensieri finirono inevitabilmente nell'oblio. L’idea che lei non fosse reale sfiorò la sua mente, per dissiparsi non appena le passò accanto, il sorriso che le fece con le sinuose fossette pronte a mandargli in pappa il cervello, il naso e le guance punteggiati da perfette imperfezioni. Da subito non gli sembrò estremamente altezzosa e piena di sé come le altre ragazze, capaci di attirare nient’altro che il disprezzo o, per lo più, il dindarolo del giovane scolaro.

Quando sparì dietro Eddy, calpestando l’ombra di lui, volle da subito rivederla, l'ineluttabile desiderio di conoscerla era così puro: avere la possibilità di parlare con una ragazza come lei o semplicemente divertircisi insieme era il suo unico desiderio. Quando se ne fu andata si sentì le orecchie molto calde e, al tatto, gli apparvero grandicelle rispetto al solito.

Consapevole della propria asociale eccentricità, il quindicenne si rese conto che le solite ansie che provava vicino a gente sconosciuta si ingigantivano a dismisura con una ragazza così radiosa, dolce e carina. Doveva riuscire a invitarla a chiacchierare, o se non altro riuscire a rivolgerle poche striminzite parole. Come avrebbe potuto riuscirci? Non aveva la ben che minima idea di come approcciarsi. ''Potrei passarle accanto di proposito e farle dei complimenti''.

Alla pari dell’ombra che seguiva sempre il corpo di Eddy nei suoi movimenti, l’ansia lo accompagnava, ovunque lui andasse. Troppo spesso finiva per oscurargli intelligenza e senso pratico, e quando succedeva si sentiva un vero idiota. Eddy aveva cercato di fare pace con l’Ombra, ché forse solo accettandola se la sarebbe fatta amica, ma era lei piuttosto a far di tutto per rimanergli ostile. D’accordo, da un certo punto di vista, osservando la scena da fuori, pareva lo assecondasse: quel che lui faceva, lei lo riproduceva; rimaneva dietro a lui, sempre qualche passo indietro, ma poi finiva sempre per travolgerlo, precederlo in un certo senso, anticipando le sue azioni e ribaltando la percezione del povero ragazzo. E, anziché essere la sua proiezione, diventava sovente la sua premonizione. La loro era una relazione patologica: l’ombra provava per lui un amore malato, possessivo. Voleva appiccicarglisi addosso, essere l'unica custode del suo lato oscuro, di contro lui la odiava e la temeva, pur considerandola un luogo sicuro in cui rifugiarsi. Era un’amante gelosa e capricciosa: se lui cercava di fare un rapido passo avanti per scrollarsela di dosso, lei per ripicca sabotava i suoi piani, finendo per inglobarlo.

Nemmeno a dirlo, le si era appena presentata l’occasione giusta: minacciata dalla eterea figura della ragazza, come spesso accadeva, l’Ombra aveva deciso di spegnere la luce sul raziocinio di Eddy, mandandogli in corto circuito ogni abilità relazionale.

Convinto di essere totalmente ottenebrato agli occhi della ragazza e temendo di essere del tutto ignorato, per disfarsi dell’oscura presenza, Eddy tendeva involontariamente ad attivare meccanismi di difesa atti a evidenziare la sua presenza al resto del mondo. Quello delle orecchie che crescevano a dismisura era solo uno spiacevole esempio. Gli era capitato di vedersi rimpicciolire i piedi a tal punto da non riuscire più a reggersi senza doversi sostenere, oppure di cambiare il colore del viso a seconda di chi aveva di fronte, o addirittura di squagliarsi a terra a seguito di uno strano processo di liquefazione.

E il peggio era che non poteva capire o sapere se si trattasse di una sua sensazione o se la cosa fosse visibile anche all’esterno. Questa volta la ridicola sorte era toccata alle sue orecchie, ma fortunatamente era riuscito a rassicurare Melissa e a convincerla che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

In un bel giorno assolato, nel verde giardino della scuola, Eddy vide nuovamente arrivare Melissa.

Pur esprimendo assoluta pienezza e unicità, nemmeno lei sembrava presentarsi mai del tutto sola. Dove c’era Melissa, c’era L’Aura e, a qualsiasi occhio attento, la cosa non sfuggiva. L’Aura la amava di un amore puro, incondizionato e corrisposto, un amore fraterno. Melissa, in fin dei conti, doveva esserle grata perché le regalava una luce singolare, che faceva sì che nessuno le potesse levare gli occhi di dosso. E doveva ringraziare la brillantezza di L’Aura se poteva permettersi di sfoggiare con orgoglio quel pizzico di sicurezza e vanità, senza che stonassero o risultassero inopportune. La si poteva definire una corazza di protezione e positività, fatto sta che, assieme a lei, Melissa non doveva temere nulla e poteva considerarsi immune alle avversità che la vita spesso le riservava. Al contrario, quando la sua luce era più soffusa, vere e proprie calamità si sprigionavano dal corpo della ragazza. Era successo di rado, ma se al telegiornale si parlava di incendi, terremoti o uragani, il più delle volte c'era il suo zampino.

Eddy si fece forza e, di scatto, si mise proprio di fronte a Melissa, mentre gli passava accanto, assicurandosi di nascondere l’Ombra col suo stesso corpo. I due si scontrarono quasi, forse non era quella la maniera migliore per incontrarsi, ma accadde inevitabilmente in modo istintivo.

''Ci siamo già visti''? Solitamente le ragazze lo snobbavano al primo sguardo ma lei, nonostante lo strano approccio iniziale, non si lasciò intimorire.

''Ccciao, sono Eddy...non ci conosciamo ma volevo dirti che sei molto carina''.

''Sei gentile, io sono Melissa. Mi sei spuntato fuori così all'improvviso, strana questa cosa...hai corso? Hai il fiatone''. Non poteva fare a meno di notare la spossatezza del ragazzo. Nel vedere così vicini quegli occhi dalle molte sfumature, Eddy si sentì il corpo divampare. Unendosi, tutti quei colori mostravano un brillante verde smeraldo, erano molto simili a quegli ammassi informi di gas che il giovane vedeva nelle riviste di astronomia e ci si perse come quando si nascondeva dal mondo dentro la propria mente. ''Che sta succedendo, oddio mi sta venendo uno svenimento'' Non gli era mai capitato prima, ma nemmeno l'agitazione era mai stata tanto forte. “Ho la testa così pesante''.

“Oddio...sei sicuro di stare bene?!” Il volto corrugato e sconvolto di lei lo spaventò ancor di più.

“Perché, cos'ho che non va?!”. Seguendo la direzione dei suoi occhi, si portò le mani alle orecchie, come dopo il loro primo incontro sentì subito del calore, questa volta molto più forte. “Oddio...cosa sono queste?” Se le prese tra le mani e alzò entrambe le braccia, poi se le portò davanti agli occhi già fissi e spalancati a dismisura.

“Forse dovresti andare all'ospedale?”

“Tranquilla, non è la prima volta che mi succede, tra un po’ passa. A te piace leggere?”

“Certo, i gialli li amo. Non ho mai trovato un ragazza con cui parlare di queste cose, a te cosa piace?”.

Melissa fissava le orecchie e le orecchie fissavano Melissa, il disagio era palpabile.

“Mi piace il genere fantasy, un po’ la letteratura russa e poi molto i romanzi storici. Sono sempre molto agitato quando incontro una persona nuova e con una ragazza bella come te è anche più difficile. Ma mi piace molto parlare con te, sono contento di averti incontrata.”

Stupita dalle parole di Eddy e oltraggiata dall’inaspettato moto di coraggio, L’Ombra divenne nera di rabbia e con aria di sfida si staccò dal fedele compagno di vita. Nel tentativo di ingelosirlo, decise di confondersi momentaneamente con l’ombra di un pino del giardino scolastico, osservatore immobile e imparziale.

Capì subito che il suo atto di ribellione non avrebbe dato troppo fastidio a nessuno: non era fatta per nascondersi, ma piuttosto per imporsi e, anche se il concetto potrebbe sembrare paradossale, ebbe una improvvisa illuminazione. Sfrontata e impertinente, nel tentativo di spogliare Melissa da L’Aura, le si gettò addosso e cercò di offuscare quella fastidiosa luce, approfittando del passaggio di una nuvola per non dar troppo nell’occhio.

La ragazza subito emise un grido di spavento, inseguendo con sguardo esterrefatto l’Ombra che le girava attorno scattante e furibonda, poi iniziò a correre qua e là per cercare di scrollarsela di dosso.

“Fermati, vieni qua... smettila di spaventarla”. Eddy Voleva solo continuare a chiacchierare, rischiava di non riuscire più a parlarle per la paura che le era venuta. “Sarò dannato a portarmela addosso per l'eternità”. Lo sguardo del ragazzo si abbassò, gravemente sconfortato dalla situazione.

Ci fu un attimo di confusione: L’Aura, nonostante la sua innata imperturbabilità e tranquillità interiore, oppose resistenza, tentò senza successo di divincolarsi dalla morsa dell’oscura presenza, cercando di continuare a splendere con tutte le sue forze, poi la sua luce divenne intermittente fino a scomparire pian piano. Eddy si sentì dapprima rinvigorito, improvvisamente abbandonato dal fastidioso torpore, fin quando l’Ombra tornò a incatenare il già sconfortato scolaro. Melissa, di contro, pur se interessata e lusingata dalla compagnia di Eddy, divenne estremamente vulnerabile, sovraesposta agli agenti esterni e, con ciò, il suo fascino iniziò a scolorirsi anche agli occhi del ragazzo.

I due, completamente divorati dall'angoscia della situazione, non si parlarono più per quelli che parvero alcuni lunghi istanti.

Non appena lui si girò per andarsene, con le grosse orecchie dondolanti e senza nemmeno salutarla, Melissa iniziò a piangere. Quelle poche lacrime diventarono pian piano sempre più copiose, fino a trasformarsi in ruscelli che le ricadevano abbondanti sulla candida pelle delle guance.

Dopo aver percorso lentamente i metri che lo separavano da lei, ancora sconfortato e appesantito dal terribile peso dell’Ombra, Eddy iniziò a sentire un forte gorgoglìo e non appena fece per voltarsi, il muro d'acqua inesorabilmente lo travolse.

Il ragazzo trascorse alcuni mesi in ospedale, per i dovuti accertamenti, dopodiché la madre decise di iscriverlo in un’altra scuola e i due non si rividero mai più.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

L’ultimo sogno
di Selene Capodarca e Serena Barsottelli

Sibilla l’aveva vista in un sogno o era saltata fuori dal barattolo, non ricordava con precisione. O forse si era posata sul suo cuscino quando dormiva ed era entrata nell’orecchio come una formica, a passi piccoli e svelti. Da dove venisse l’idea Sibilla non lo sapeva, se l’era ritrovata davanti agli occhi come un’apparizione, un ricordo sbiadito, senza sapere se fosse reale o frutto del sonno.

Era schizzato tutto fuori dal barattolo: c’erano tracce di luce sul cuscino, sul comodino e persino sul vetro della finestra. Era colpa loro, delle idee, perché esplodevano quando meno ci si aspettava e non si era mai pronti a fermarle in tempo. E quella mattina di luce ce ne era molta: una luce scura, quasi buia, ma Sibilla non ne aveva paura, perché alcune figure lì dentro si muovevano e si affaccendavano. C’era chi lavorava e chi semplicemente si dedicava a morire, chi aveva tutto chiaro e chi era pieno di dubbi. Così mutavano le forme di nebbia nella luce scura, con velocità sempre più lenta e Sibilla si sforzava di guardare meglio, con la penna tra le dita, per fermare l’idea sul foglio prima che svanisse del tutto.

La luce, il buio, la nebbia. La storia prendeva forma. La nebbia, il buio, la luce. L’immagine era la forma.

Aveva visto Amret, il fachiro del materasso, rigirarsi sulle comode reti di un letto nello spazio espositivo azzurro del centro commerciale. Di svegliarsi non ne voleva sapere: dopo tanti anni passati a dormire sui chiodi, non si era ancora abituato al suo nuovo incarico da animatore del reparto materassi. Così Amret dormiva per giorni, anzi per settimane, e si sarebbe detto in catalessi, o forse morto, se il referto di Ishtar non avesse confermato l’esatto contrario. Perché la morte era simile al sonno, Ishtar lo sapeva bene, ma Sibilla, la spettatrice del sogno, non ne era poi così tanto sicura.

Successe più di una volta che Amret il fachiro fosse morto o quasi morto, poi i colleghi avevano quasi iniziato ad abituarsi a queste sue morti temporanee. Una volta si era addormentato sul bordo di una testiera in rovere. Rimase così, immobile, per 8 giorni, finché i responsabili del reparto non cominciarono a sospettare che la sua rigidità fosse dovuta più al rigor mortis che non alle sue capacità trascendentali. Ma Alice, la ragazzina bionda del reparto biancheria, sapeva che il fachiro non era morto, almeno non quel giorno. Lei certe cose le sentiva, e poi non aveva ancora avuto modo di esaurire il suo ultimo sogno. Per Alice i sogni erano più di quello che gli altri potessero immaginare. Per Alice sognare era creare.

Questa storia dell’ultimo sogno era cominciata dieci anni prima, inaspettatamente. In quei giorni si trovava a far visita a sua nonna, ricoverata in ospedale per una brutta frattura. Non aveva occasione di scambiare molte parole con la canuta signora del letto accanto, finché un giorno questa non le si avvicinò e cominciò a raccontare. Le raccontò del suo primo amore, di come lui la guardasse con quei grandi occhi verdi, di quando si erano scambiati il primo bacio al fiume. Continuò parlandole delle nuvole dense, di come le spighe le pungessero la camicetta e di come il cuore le battesse impazzito per il terrore di essere scoperta.

Alice ascoltava attenta, ma si chiedeva perché le stesse raccontando tutto questo, e con tale dovizia di dettagli. Lo capì soltanto il giorno dopo, quando si risvegliò stanca morta. Aveva fatto un sogno stranissimo. Ricordò di aver lavorato tutta la notte a sistemare spighette di forasacchi sull’erba, a condensare le nuvole, a spostare i raggi di sole e sistemare i due amati all’ombra dell’albero. Tutto era stato ricreato alla perfezione, anche il suono dei grilli e il battito dei cuori in sottofondo. Quando tornò a trovare la nonna, il letto accanto al suo era vuoto.

E da lì fu un susseguirsi di regie: nascite, amori proibiti, ricordi di figli persi troppo presto. Un uomo di affari cinese che aveva sempre vissuto in solitudine, le raccontò di aver amato per una notte una prostituta di Hong Kong. E Alice, diligente, eseguì. Sistemò la bottiglia di whiskey sulla moquette accanto al letto, li spogliò e mise le braccia della donna attorno all’uomo. Le ordinò di rimanere così fino al mattino, fin quando Alice non avrebbe chiesto al cielo di albeggiare sui grattacieli della città.

Recentemente si era imbattuta in un curioso libro. Un fotografo americano aveva fotografato gli ultimi pasti dei condannati a morte. Anche lei avrebbe desiderato fare altrettanto con i suoi ultimi sogni.

Con Augusto era capitata una cosa stranissima. Augusto continuava a tornare da lei e Alice non capiva. La prima volta le raccontò di essere stato fuoco e le parlò del senso di onnipotenza provato nel distruggere con tutta la violenza che aveva dentro le foreste della California del Sud. Quella notte Alice lavorò alacremente per regalargli il suo sogno, il più difficile tra tutti quelli che aveva creato.  

Augusto tornò da lei tre volte. La seconda volta le confessò il suo segreto.

“Posso entrare nei quadri che voglio e prendere forma e sembianza di quanto raffigurato”, le disse. Alice trattenne a fatica le risate.

L’ultima volta le disse di chiamarsi Marat, e le parlò di folle e di rivoluzioni. Lei lo guardò stupita. Sapeva benissimo che era Augusto ma non fece domande, come del resto non faceva mai. La notte stessa eseguì l’ennesimo ultimo sogno di Augusto.

Alice non fu la sola a essere confusa. La prima volta che portarono Augusto sul suo tavolo, Ishtar riuscì piuttosto rapidamente a confermare le cause della morte. “Lesioni da ustione estesa”, avrebbe scritto il giorno dopo sul referto autoptico, se le cose non fossero andate diversamente. La sera stessa pensò a quei residui di plastica bruciata ritrovati sul corpo ustionato di Augusto. Sorrise pensando a quanto assomigliassero a una delle Combustioni di Burri, quella che Ferdinand aveva in sala. Se lo ricordava bene, a non tutti capita di fare l’amore davanti a un Burri.

Quando il giorno dopo sollevò il telo dal corpo ebbe un sussulto. Corse subito a ricontrollare il fascicolo: Augusto Berdini, nato il primo luglio del 1963. Era lui indubbiamente, ma dei residui di plastica e dei segni di ustione non vi era più traccia. Anche i vestiti che indossava nei reperti fotografici erano diversi.

Da dove era uscito quell’ampio camicione e quel pantalone giallo? Guardò meglio la foto e trovò ironico come la luce, quel mucchio di corpi riversi e il paesaggio sullo sfondo le ricordassero il famoso quadro di Goya. Doveva smettere di rapportare tutto ciò che la circondava con l’arte. “Torniamo ad occuparci della verità”, si disse.

Ishtar esaminò accuratamente la documentazione, esplorò il cadavere e giunse alla conclusione, anche stavolta piuttosto ovvia: “morte per arma da fuoco”. Neanche quella sera riuscì a stilare il referto autoptico. Alle 7.30 dovette scappare. Avrebbe incontrato Paul e non voleva fare tardi. Aveva una voglia pazza di vederlo.

“Ma cazzo, no! Non è lui!”, urlò la mattina dopo quando scoprì nuovamente il corpo. Quello non era il cadavere che aveva esaminato il giorno prima. “Cioè sì, porca troia! È lui, eccome se è lui”.

Ma dove era finita la ferita di arma da fuoco? E quella melma argillosa che ricopriva il corpo di Augusto? E questa ferita da taglio all’altezza del petto? Infastidita da quella assurdità, si affrettò a stilare il referto autoptico dopo aver eseguito gli esami da procedura. Caso chiuso.

Respirò profondamente, si legò i capelli e uscendo dalla stanza si fermò a guardare la riproduzione de “La morte di Marat” di David appesa al muro del suo studio. Ricordava ogni dettaglio di quel quadro a memoria, eppure quella sera non aveva dubbi, era comparso un ghigno burlone sul viso di Marat. Si affrettò a uscire, Sean Ruddy l’aspettava a teatro.

Sul tavolo di Ishtar c’era posto per Amret il fachiro? Era morto davvero, quella mattina, quando non dormiva sul materasso da circa undici giorni e sette ore? Alice conosceva la risposta, perché un giorno, prima di cadere nel sonno, le si era avvicinato e le aveva parlato a lungo di sua madre, del caffè che le faceva trovare ogni volta in cui tornava a casa dopo ore di riposo sui chiodi e degli abbracci con cui lo circondava ogni volta che se ne doveva andare, quasi a bloccarlo, a non farlo ripartire. Quello che Amret non diceva, ma che Alice sapeva, era che il fachiro sentiva la mancanza della sua terra e più di tutto della sua famiglia, semmai terra e famiglia possano essere scisse tra loro.

Alice, quel giorno, aveva ascoltato ogni dettaglio, trattenendo a fatica le lacrime perché sentiva il dolore di Amret e soprattutto sapeva perché le stesse raccontando tutto questo.

Quando Ishtar si trovò di fronte il corpo di Amret il fachiro, si accorse che il suo viso era sereno, la sua pelle rilassata anzi luminosa. Alice la aspettava fuori dalla stanza per parlarle, le disse, e togliere ogni dubbio dalla faccenda di Amret il fachiro dormiglione. Sul fascicolo Ishtar scrisse soltanto “suicidio” e non ne parlò più, ricordando le lacrime di Alice, la dolcezza del cadavere e quel caso altrettanto strano di Augusto il mutaforma.

E Sibilla, con la sua luce, fece fatica a stare dietro alle idee che prendevano forma nella nebbia, ma quando la mattina si addormentò, fece un sogno stranissimo e bellissimo, dove con la penna dalla punta fatta a sole raccontava questa e altre storie, poi sorrise ricordandosi di Alice.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

 

La pillola
di Angela Colapinto e Debora Gatelli

Un tipo apparentemente normale, Vito, di professione: grafico pubblicitario. Bravo sul lavoro e con una grande passione per i motori: possedeva un enorme garage dove restaurava moto e auto d’epoca di ogni tipo, più per il piacere di farlo che per usarle. La sua preferita era senza ombra di dubbio “lo squalo”, una Citroen DS pallas 23 nera e lucida, che aveva completamente ricostruito con pezzi originali, dotandola inoltre di accessori ultra moderni. All’interno aveva installato persino un sensore per il parcheggio assistito, che ai tempi in cui l’auto era nata non esisteva di certo. Sembrava incredibile ma quest’auto aveva la particolarità di essere una seconda Sagrada Familia (se non peggio): non era mai finita. C’era sempre qualche modifica o miglioria da apportare, e ogni scusa era buona per rinchiudersi in garage a lavorarci. Sapete perché accedeva tutto questo? Perché l’auto, o meglio alcune parti di essa, una volta si chiamavano Vanessa. Vanessa era una ragazza alla soglia della ventina con la particolare particolarità di essere in grado di trasformarsi nell’oggetto che sceglieva. Vanessa era stata un asciugamano, e dopo essere stata sfregata sulle ascelle di tutta la famiglia, si era fatta un giro di giostra in lavatrice. Poi, era stata una forchetta, aveva viaggiato in un paio di bocche e si era fatta fare un trattamento in lavastoviglie. E infine, aveva provato a essere una chiave e si era infilata in quelle fessure strette adatte alla sua sagomatura. Vanessa al tempo aveva un fidanzato con una spiccata passione per le auto e una sera si trasformò nel cambio della sua Citroen. Quando si trovò infilata in un pertugio non calcolato, decise che non sarebbe mai più ritornata una donna, e sfruttò la sua particolarità per punire Vito e l’amante penetrata, Cornelia.

Consideriamo ora, che quando non trafficava in garage, Vito si metteva al computer e ordinava pezzi di ricambio e accessori su siti di seconda mano. Accadeva quasi ogni sera, immancabilmente pochi minuti dopo aver messo piede in casa. Per lui era come una droga: se non ordinava almeno un paio di ricambi alla settimana gli veniva la febbre, e quando la febbre superava i trentotto gradi, cominciavano a cadergli i capelli. Fino a che era stato con Vanessa, aveva avuto folti capelli castani che portava scompigliati, ma da quando Cornelia era entrata nella sua vita, i capelli di Vito parevano essersi trasferiti sulla gambe della ragazza, ed era apparsa ormai da mesi un’evidente chierica sulla testa dell’uomo.

Perché a Cornelia crescevano i peli? Semplice, non sopportava gli uomini pelati e ogni volta che vedeva un calvo cominciavano a crescerle – spropositatamente - peli superflui su tutto il corpo. Cornelia non sopportava nemmeno che il suo fidanzato passasse più tempo con le auto che con lei e faceva di tutto per interrompere la sua attività quotidiana. Convivevano da parecchi anni e in un continuum di dai e togli, lo scambio tra loro più frequente era a base di cheratina. Se mi vuoi vicino a te, mi avrai pelato! Se ti vedo pelato, divento un mammut! Se rivuoi gambe lisce, lasciami ordinare dei pezzi, così mi ricresceranno i capelli! La crescita smisurata di peli forse non era, come la calvizie, una particolarità delle più particolari, ma anche in questo mondo surreale esistevano diversi gradi di originalità. Ritorniamo per un attimo a Vanessa, di sicuro li batteva entrambi in fatto di originalità, ma a lei interessava solo portare a compimento la sua vendetta. Ecco perché dopo essere stata il cambio, si era trasformata in una candela, nella cinghia di trasmissione, nel carburatore e ancora nella marmitta. E ogni volta, o si era rotta di proposito o se n’era andata, abbandonando la postazione e innescando così l’orrenda reazione a catena tra Vito e Cornelia.

Una sera Vito notò che a “lo squalo” mancava il paraurti anteriore. Decise di fare subito l’ordine e di farlo in fretta, lasciando Cornelia a svuotare la lavastoviglie. Lei lo sorprese mentre stava finalizzando il pagamento, ma non disse niente. Si sentì prudere, laggiù sotto al ginocchio e una folta pelliccia in pochi minuti trapassò i suoi collant. Vito tuttavia sperava di averla fatta franca e quando andò a dormire, trovò con piacevole sorpresa la sua dolce metà ad attenderlo in una sottoveste trasparente. Lo legò alla testiera del letto con una sciarpa di seta, gli lanciò sguardi ammiccanti, ma poi inaspettatamente andò a dormire sul divano lasciandolo chiuso in camera in compagnia della sua chioma ribelle e di Flick, il loro barboncino nano, che per ore gli leccò la faccia e non solo, felicissimo nel vedere che Vito non poteva usare le mani.

Dopo una nottataccia del genere il nostro secondamanodipendente se ne guardò bene dal rifare acquisti online per un paio di giorni, anche se gli serviva assolutamente una sella per la moto da corsa, dato che era sparita pure quella. Va da sé che al terzo giorno cominciò a salirgli la febbre, così comprò in fretta e furia la suddetta sella e già che c’era aggiunse all’ordine un paio di carburatori.

Cornelia, che nel frattempo aveva affinato le sue tecniche, si rallegrò per il fatto che la febbre fosse scesa in tempo, prima che i capelli di lui iniziassero a cadere e i peli di lei a crescere di fronte all’ennesimo abbandono serale. Invitò prontamente degli amici di Vito per un drink in casa, senza avvertirlo e…bingo!!! Con le visite a sorpresa aveva trovato un metodo infallibile per impedirgli di scendere in garage ad assemblare i suoi maledetti pezzi appena comprati.

A parte questi lievi dissapori, Vito e Cornelia erano comunque una coppia unita. Da sempre avevano gusti diversi, è vero, ma ciò non sempre è un male, si sa. A lui per esempio piaceva il caffè nero a colazione, amaro. Lei il caffè non lo voleva nemmeno sentir nominare, meglio una bella tazza di latte caldo.

Una domenica mattina d'inverno di parecchi anni prima, mentre facevano colazione con calma davanti alla stufa accesa, decisero di provare qualcosa che fosse nuovo per entrambi. Faceva freddo, non avevano programmi per la giornata; Vito non aveva comprato pezzi di ricambio nei due giorni precedenti e Cornelia era tranquilla e senza peli superflui in crescita. Fu così che presero una bella tazza grande e mischiarono le loro bevande: da un semplice caffè nero e un nutriente latte bianco uscì un bellissimo pupo marroncino con una testa di ricci schiumosi e una spruzzata di cacao sulle guance. Lo chiamarono Cappuccino, il loro adorato primogenito.

Vito e Cornelia erano orgogliosissimi di lui, Cappuccino era un bimbetto spumeggiante che cresceva forte e sicuro di sé, anche se faticava a crearsi una vita al di fuori della cucina. Sin da piccolissimo aveva sviluppato una cotta fortissima per la Zuccheriera, e una volta raggiunta l’adolescenza le fece una corte così serrata che lei alla fine cedette e si fidanzarono.

Da quel giorno Cappuccino divenne un ragazzo dolcissimo oltre che spumeggiante e i due vissero una storia d’amore molto felice. Qualche difficoltà subentrò quando lui cominciò a diventare geloso e possessivo, mentre lei non voleva saperne di essergli fedele e continuava a zuccherare di tutto, da tazze di tè a torte, e addirittura spremute e frullati. Ma lui non si perse d'animo, nonostante la giovane età era già molto saggio. In fondo l'aveva imparato dai suoi genitori che qualche battibecco nella coppia è inevitabile. Se Vito e Cornelia erano ancora insieme nonostante le cicliche crisi di febbre con calvizie e peluria da scimmia annesse e connesse, poteva farcela benissimo anche lui a gestire una fidanzata eccessivamente generosa. E così fu, fino a quando Zuccheriera si stancò e diventò di nuovo un oggetto inanimato. Cappuccino ne soffrì molto ma presto trovò consolazione in Cacao, il migliore amico che potesse desiderare.

Che fine aveva fatto Vanessa? Beh, Vanessa, dopo aver abbandonato l’auto e anche la zuccheriera, si era trasferita in Cornelia. Aveva visto una pillola sul tavolo e ci si era infilata dentro. Quando la donna l’aveva assunta, Vanessa si era sciolta nel suo stomaco ed era entrata nei suoi tessuti. Adesso sì che la sua vendetta poteva dirsi completa. Di nuovo al fianco di Vito ma senza che Vito lo sapesse e soprattutto in grado di torturarlo: capelli sì, capelli no. Non le piacevano gran che i peli, ma come dice il detto: se qualcun’altra vuoi apparire, un po’ devi soffrire.


Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

Ognuno aveva una particolarità.
Marta, quando dormiva, aveva le palpebre che diventavano nere. Ma non sempre, solo quando la giornata era stata brutta. La mattina tornava quasi normale. Non proprio, ma quasi.
Giovanni a seconda dell’umore poteva diventare trasparente. Un giorno ebbe una lite furibonda con la fidanzata e scomparve per una settimana, nessuno riusciva a vederlo. Non parlava, per giunta.
Michele diventava più alto a seconda dei profumi. Se sentiva odore di rosa era capace di crescere di un metro e mezzo. Con i tulipani, invece, non succedeva nulla. Cresceva molto anche con l’odore delle rotaie dei tram, ma solo se i tram ci erano passati da poco e avevano lasciato l’odore della frenata.
Poi c’erano i più strani.
Rosalinda dimagriva o ingrassava a seconda di chi incontrava, la mattina, appena uscita da casa. Se incontrava un uomo poteva prendere fino a cinquanta chili, se incontrava una donna ne perdeva fino a cinque. Una volta incontrò, simultaneamente, una coppia di sposi. Il suo corpo impazzì, per due ore mutò tremendamente. Chi la vide non riusciva a capire se fosse una fotomodella o un ippopotamo, difatti dimagriva di cinque e ingrassava di cinquanta a ripetizione. Nel giro di un’ora arrivò a pesare ottocentosettanta chili.
Poi c’era Marco. Marco faceva il regista. Il suo mutare non dipendeva da lui ma dal comportamento della sua fidanzata. Più lei lo tradiva, più lui diventava un mafioso. Lei un giorno fece un’orgia, poco dopo lui chiese il pizzo in un ristorante cinese.
Lo trovarono qualche giorno dopo, in una discarica, stranamente i suoi occhi sembravano lietissimi.
Il cane Ugo aveva una particolare particolarità. Se vedeva un gatto si trasformava in un topo. Se vedeva un topo si trasformava in un gatto. Tutto ciò non gli procurò nulla di disdicevole. A parte una volta, quando incontrò Panza, una gatta che si trasformava in topa quando incontrava un cane. Ebbero un figlio, Mario.
Mario non aveva nessuna particolarità, era un uomo normale.

Il figlio del cane Ugo e della gatta Panza non sapeva cosa fare. Avere per genitori due animali dalla razza diversa lo aveva destabilizzato. Aveva fatto le elementari dai figli dei gatti e le superiori da quelli dei cani. Era andato in una università per figli di topi. Adesso aveva un lavoro, era impiegato presso una società di ricerca scientifica. Biologo. Aveva una compagna, una casa in affitto, insomma, era un uomo normale. Ma il conoscere la natura della sua procreazione lo rendeva cupo e triste.
I genitori non andava quasi mai a trovarli, e le poche volte sempre con imbarazzo. Erano il cane e la gatta più longevi del mondo. Molto spesso si era domandato se non sarebbe stato meglio che fossero morti. Con il lutto avrebbe finalmente potuto dimenticare la sua vera natura. Invece nulla, avevano ormai 28 anni l’uno e stavano benissimo. Un veterinario di fama internazionale li aveva visitati e aveva detto: “hanno il fisico di due animali di cinque anni”. Un altro aveva sentenziato: “forse in loro c’è il mistero dell’immortalità”. L’ultimo era come impazzito, avevano dovuto staccarlo a forza da Panza mentre cercava di strangolarla. Subito dopo dichiarò: “in loro vive satana, bisogna ucciderli”. Fu ricoverato a forza.
Fatte le dovute proporzioni, secondo i calcoli del primo dottore,  i cinque anni dei genitori corrispondevano ai ventotto di un uomo. Tutto tornava; avendo generato un umano ne avevano preso la longevità. Sarebbero vissuti, salvo ignari e benedetti automobilisti ubriachi, ancora per molti e molti anni. E lui si intristiva, al pensiero, poi si arrabbiava per quella sensazione, poi, ancora, si intristiva ulteriormente per quella rabbia. Era in un vicolo cieco.
Una notte arrivò a pensare di ammazzarli. In fondo cosa rischiava? La legge come lo avrebbe punito? Assassino di genitori o di due povere bestiole? Ergastolo o multa di qualche euro? Non lo sapeva, avrebbe voluto chiederlo ad un avvocato ma si vergognava. Cercò di cancellare quel pensiero dalla sua mente quando un giorno ricevette una telefonata.
Era un venditore di regole. Gli disse: “le posso vendere quattro piccole e semplici regole a buon prezzo, siamo in periodo di saldi, le interessa?”. Accettò di buon grado

Le quattro regole erano:
Dimentica di chi sei figlio.
Dimentica il nome tuo.
Dimentica il nome dell’amata, quando ci sarà.
Quando avrai dimenticato tutto, fai un figlio e chiamalo Meticcio.

Mario si dimenticò di chi era figlio. Si dimenticò di chiamarsi Mario. Si innamorò e si dimenticò il nome dell’amata. Fece un figlio e lo chiamò Meticcio.Meticcio era il più particolare uomo degli uomini particolari. Aveva le sembianze di un uomo, ma ogni volta che incontrava un essere diveniva anche quell’essere. Era un meticcio vivente. La parte esteriore era la sua, mentre quella interiore assumeva la forma di chi incontrava.
Era uno schizofrenico delle altrui personalità.
Fino ai vent’anni studiò e divenne professore, studente, bidello. Uomo, donna. Divenne padre, madre. Topo, gatto, cane.
Poi si innamorò. Divenne un po’ uomo, un po’ donna. Un po’ amato, un po’ amata. Poi lei lo tradì. Lui divenne tradito e traditore.
Le conseguenze del suo essere meticcio continuavano a mutare. Tradito, traditore, geloso, fedifrago.
Fumò dell’hashish e divenne spacciatore. Da spacciatore, tossico. Andò in cura e divenne curatore, uno dei suoi pazienti scappò dalla casa di cura. Lui smise di curare e non si drogò più.
Quando faceva parte di un gruppo diveniva incrocio di tutte le vite altrui.  Non più solo fuori e dentro, come estremità, ma vero e proprio mosaico vivente.
Le persone, in lui, vedevano la somma delle loro personalità, ma senza saperlo.
Un giorno incontrò il venditore di regole, ormai vecchio.
Ho un’ultima regola da vendere, la vuoi comprare?
Divenne venditore di regole.
L’ultima era: vattene.

Se ne andò di mattina, c’era la nebbia.



Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore