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Immaginavo fosse così. Passi la vita a pensare cosa faresti se ti dicessero che ti rimangono 6 mesi, un mese o una settimana e quando finalmente arriva il momento, a coloro che hanno la fortuna di sentirselo dire, niente ha più importanza.

Non importa se non mai ho nuotato con i delfini, se non ho imparato l’ucraino come avrei voluto, se non ho mai scalato il Machu Pichu, se non ho mai provato quello che sostengono di aver provato i poeti nelle loro tormentate poesie d’amore (morirò comunque convinta del fatto che mentano). Tutto sembra già così lontano adesso. E poi diciamocelo sinceramente, lo sappiamo tutti sin dall’inizio che sempre e comunque qualcosa deve restar fuori.

Mi sono sempre piaciute le linee pulite, i bordi definiti e le cifre tonde e quindi ho scelto la data del mio compleanno. Quel giorno mi hanno fatto entrare in questa vita e quel giorno me ne andrò. Puff

46 meravigliosi anni di cui non cambierei niente, se non la velocità con cui sono trascorsi.

Cazzo però, come al solito sono in ritardo! Ma è possibile che debba sempre fare tutto di corsa? Neanche la preparazione alla mia morte posso godermi in pace. Non ho ancora comprato la biancheria intima, devo andare dal parrucchiere, scegliere il vestito ed ho dei peli sulle gambe che potrebbe competere con la Selva Morena. Una laurea in medicina e due specializzazioni ed ancora non ho fugato i miei dubbi sul fatto se i peli continuino a crescere o meno anche dopo la morte. A parte l’orrore di immaginarmi cadavere peloso, non sopporterei l’idea che dopo una guerra feroce ed estenuante di tutta una vita a botte di cerette, pinzette e laser, alla fine avrebbero loro il sopravvento.

Tre giorni di tempo sembrano tanti, ma se inizi a pensare a tutti i dettagli di un suicidio fatto con tutte le regole, ti accorgi che sono ben pochi.

Anche scegliere il metodo non è stato semplice. Nei miei corsi di suicidio creativo ho sempre preso a modello il suicidio di Evelyn McHale. Che invidia! Se avessi la certezza del risultato sceglierei di morire come lei, ma in questi lunghi anni ho visto troppe scatole craniche fracassate ed arti disarticolati per poter sfidare la statistica. Voglio essere bellissima e soprattutto voglio essere sorridente.

Già! Sembra facile far sorridere un cadavere o anche soltanto trovare un complice che ti permetta di farlo. Ho pensato inizialmente di chiedere ad Aristide, uno dei pochi che non avrebbe fatto tante storie. Ma poi mi sono ricordata del suo gusto per le cose brutte ed ho rinunciato. Chissà come mi avrebbe trasformata. Sfidare la sorte sì, ma non fino a questo punto.

L’unica persona a cui avrei potuto chiedere è Mazen. Del resto è anche uno dei pochi ad aver saputo della diagnosi ed uno dei più fedeli sostenitori nonché collaboratori dei miei deliziosi suicidi. Quanti ne abbiamo ideati e realizzati insieme e sempre con grande soddisfazione nei risultati. Assistenti al suicidio perfetti!

Ho pensato comunque di chiedere consiglio ad Aristide, la sua creatività mascherata da falsa originalità (gli piace molto pensarsi così) mi ha sempre divertito. Come mi aspettavo mi ha proposto qualcosa di splatter, un’elettrocuzione che avrebbe provocato il black-out di tutta Dublino al momento finale della finale dei mondiali di rugby. Proposta bocciata per motivi estetici (non sopporto immaginarmi con i capelli arruffati), pratici (non avrei saputo come avere accesso alla centrale elettrica, l’unico collegamento che ho con i centri del potere elettrico è il tecnico della televisione che mi sono scopata per errore qualche anno fa) ed organizzativi (la finale cade a maggio, e questo manderebbe a puttane la cifra tonda dei miei anni). Però ho apprezzato l’idea.

Pubblicato in racconti e novelle

Immaginavo fosse così. Passi la vita a pensare cosa faresti se ti dicessero che ti rimangono 6 mesi, un mese o una settimana e quando finalmente arriva il momento, a coloro che hanno la fortuna di sentirselo dire, niente ha più importanza.

Non importa se non mai ho nuotato con i delfini, se non ho imparato l’ucraino come avrei voluto, se non ho mai scalato il Machu Pichu, se non ho mai provato quello che sostengono di aver provato i poeti nelle loro tormentate poesie d’amore (morirò comunque convinta del fatto che mentano). Tutto sembra già così lontano adesso. E poi diciamocelo sinceramente, lo sappiamo tutti sin dall’inizio che sempre e comunque qualcosa deve restar fuori.

Mi sono sempre piaciute le linee pulite, i bordi definiti e le cifre tonde e quindi ho scelto la data del mio compleanno. Quel giorno mi hanno fatto entrare in questa vita e quel giorno me ne andrò. Puff

46 meravigliosi anni di cui non cambierei niente, se non la velocità con cui sono trascorsi.

Cazzo però, come al solito sono in ritardo! Ma è possibile che debba sempre fare tutto di corsa? Neanche la preparazione alla mia morte posso godermi in pace. Non ho ancora comprato la biancheria intima, devo andare dal parrucchiere, scegliere il vestito ed ho dei peli sulle gambe che potrebbe competere con la Selva Morena. Una laurea in medicina e due specializzazioni ed ancora non ho fugato i miei dubbi sul fatto se i peli continuino a crescere o meno anche dopo la morte. A parte l’orrore di immaginarmi cadavere peloso, non sopporterei l’idea che dopo una guerra feroce ed estenuante di tutta una vita a botte di cerette, pinzette e laser, alla fine avrebbero loro il sopravvento.

Tre giorni di tempo sembrano tanti, ma se inizi a pensare a tutti i dettagli di un suicidio fatto con tutte le regole, ti accorgi che sono ben pochi.

Anche scegliere il metodo non è stato semplice. Nei miei corsi di suicidio creativo ho sempre preso a modello il suicidio di Evelyn McHale. Che invidia! Se avessi la certezza del risultato sceglierei di morire come lei, ma in questi lunghi anni ho visto troppe scatole craniche fracassate ed arti disarticolati per poter sfidare la statistica. Voglio essere bellissima e soprattutto voglio essere sorridente.

Già! Sembra facile far sorridere un cadavere o anche soltanto trovare un complice che ti permetta di farlo. Ho pensato inizialmente di chiedere ad Aristide, uno dei pochi che non avrebbe fatto tante storie. Ma poi mi sono ricordata del suo gusto per le cose brutte ed ho rinunciato. Chissà come mi avrebbe trasformata. Sfidare la sorte sì, ma non fino a questo punto.

L’unica persona a cui avrei potuto chiedere è Mazen. Del resto è anche uno dei pochi ad aver saputo della diagnosi ed uno dei più fedeli sostenitori nonché collaboratori dei miei deliziosi suicidi. Quanti ne abbiamo ideati e realizzati insieme e sempre con grande soddisfazione nei risultati. Assistenti al suicidio perfetti!

Ho pensato comunque di chiedere consiglio ad Aristide, la sua creatività mascherata da falsa originalità (gli piace molto pensarsi così) mi ha sempre divertito. Come mi aspettavo mi ha proposto qualcosa di splatter, un’elettrocuzione che avrebbe provocato il black-out di tutta Dublino al momento finale della finale dei mondiali di rugby. Proposta bocciata per motivi estetici (non sopporto immaginarmi con i capelli arruffati), pratici (non avrei saputo come avere accesso alla centrale elettrica, l’unico collegamento che ho con i centri del potere elettrico è il tecnico della televisione che mi sono scopata per errore qualche anno fa) ed organizzativi (la finale cade a maggio, e questo manderebbe a puttane la cifra tonda dei miei anni). Però ho apprezzato l’idea.

Pubblicato in redazione

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in racconti e novelle

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in redazione