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Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in racconti e novelle

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in redazione

“E così, finalmente ci vediamo!”

La stanza è grande e accogliente con due grandi finestre all’inglese attraversate da pesanti infissi di legno scuro. Ci sono due poltrone di velluto tinta cammello, un lettino o una chaise-longue, forse, due sedie, una bella scrivania in noce lucidato, con quattro barattoli colmi di penne e un quaderno. Le pareti sono color crema. Non c’è lampadario: solo quattro grandi lampade a terra, una per ogni angolo della stanza più una ricurva sulla scrivania.

Heinrich Wanner è un uomo abbastanza alto, dal viso tondo e corporatura forte. Una fisiognomica spicciola potrebbe definirlo un uomo pacioso e autorevole allo stesso tempo: guance paffute, occhietti chiari e sopracciglia e capelli biondo miele, questi ultimi tagliati corti a mò di istrice. Indossa una camicia bianca a maniche corte, una cravatta mozza carta da zucchero con pantaloni blu scuro e porta tondi occhiali con la montatura dorata. Heinrich non ha gusto nel vestire, d’altronde è tedesco, sebbene trapiantato a Boston da anni e poi è un professionista, non bada all’aspetto esteriore.

Heinrich Wanner, il dottor Wanner, è uno psicoterapeuta. Lo si potrebbe dire dai suoi occhiali, vagamente junghiani.

“Sì, finalmente” aveva risposto lei. La sua nuova paziente, Emma. Una donna bionda e minuta, carnagione chiarissima, vestita di grigio antracite. Emma era bella o forse lo era stata nonostante le occhiaie pesanti e un’espressione persa, che non riusciva a camuffare, sebbene volesse darsi un tono, sembrare distinta, come se non fosse lì per un disperato bisogno di curare la sua psiche.

Emma aveva chiamato lo studio una prima volta, aveva preso appuntamento, poi aveva richiamato e disdetto con una scusa, cui ne seguirono altre cinque. Il dottor Wanner lo sapeva che fanno tutti così. In realtà è una pratica messa in atto più dalle donne, che s’inventano impegni con i figli, con la madre malata e così rimangono attaccate alle proprie sofferenze.

La segretaria del dottor Wanner, Erika, lo sapeva bene anche lei. D’altronde, lei stessa si era comportata così tanti anni fa, aveva ventisei anni ma poi finalmente si decise “ad aprire la sua anima” al dottore, come diceva lei; il quale, oltre a curarla la prese anche a lavorare con sé e lei divenne la sua segretaria. Erika lavorava lì da sedici anni.

“Si accomodi, dove vuole. C’è il lettino, quella chaise-longue lì o la poltrona o la sedia. Forse sulla poltrona sta più comoda”.

Emma era sprofondata nella poltrona.

“Mi parli, Emma. Se preferisce che ci diamo del tu, io sono d’accordo ma preferirei tuttavia il Lei per una forma di rispetto nei suoi confronti. Non so se mi ha capito ma ciò che voglio dire è che io sono adesso il suo psicoterapeuta e Lei la mia paziente”.

“Va benissimo il Lei”.

“Mi dica, Emma”. Il Dottor Wanner la guardava ora con aria impegnata, gli occhi strizzati. Lui si era seduto su uno sgabello che aveva piazzato davanti a lei ma in diagonale rispetto alla sua faccia. Aveva chinato il busto. Sembrava pronto a mungere e ad Emma quasi venne da ridere.

“Cosa devo dirle?”. Emma aveva abbozzato un sorriso. Non sapeva minimamente cosa aspettarsi.

“Ah, certo. Lei non ha idea di come si svolga una seduta. Mi diceva Erika, la mia segretaria, che è la prima volta che lei varca la soglia dello studio di uno psicoterapeuta”.

“Sì”.

“Bene. Mi dica perché è qui. Cosa l’ha spinta a cercare il mio aiuto”. Ora sorrise lui.

Sospiro. Emma guarda a sinistra in alto, poi in basso e poi parla: “E’ un periodo un po’ buio e devo rimettere insieme un po’ i pezzi”.

“Continui a parlare” e il dottore accompagnò alle parola il gesto del suo braccio mosso come un’onda, ma a scatti.

“Sono separata da tre mesi. Mio marito, il mio ex-marito, è in carcere. E’ in carcere, perché ha cercato di uccidermi”.

“Vada avanti”.

Emma si aspettava una parola accorata, uno sguardo compassionevole ma niente. Forse è così che funziona la seduta.

“Mi picchiava, era geloso senza motivo”.

“Quanti anni è stata sposata?”

“Dieci. Lo so, è tanto tempo ma all’inizio non era così”.

“Cosa intende per ‘l’inizio’”?

“I primi tre, quattro anni di matrimonio. Noi siamo stati fidanzati un annetto, ci siamo sposati subito.”

“E come mai, secondo Lei, suo marito è cambiato?”

“Da quando ho ricominciato a lavorare, era infastidito da tutti”.

“E che lavoro faceva Lei?”

“Io lavoravo in un canale televisivo. Oh, niente di importante. Una rete locale ma mi piaceva”.

“E come lo ha trovato quel lavoro?”

“Dopo la scuola di giornalismo, aveva fatto uno stage nella rete in cui lavorava il mio direttore e poi lui mi ha contattato qualche anno dopo, quando hanno aperto il nuovo canale”.

“E perché ha chiamato proprio Lei?”

“Suppongo, perché avessi lavorato bene prima. Si era ricordato di me e così ho ricominciato”.

“E lavora ancora lì?”

“No”

“E che cosa faceva, che ruolo aveva?”

“Ero in redazione. Poi mi hanno proposto un programma pomeridiano leggero, di quelli con un divano, cinque-sei ospiti e un tema da dipanare, era divertente”.

“E perché?”

“Lavoravo ma non sentivo pressioni. E poi si parlava di cucina, musica country, elezioni presidenziali ma sempre in modo leggero, al limite dell’inconsistenza, insomma, niente di impegnativo”.

“Ma a Lei piaceva”.

“All’inizio ho cercato di dare un taglio più serio al programma ma non era stato proprio possibile”, Emma aveva sorriso: “Come puoi parlare di politica internazionale, quando gli opinionisti sono un giocatore di baseball, un cantante country, e un grosso allevatore dell’Arkansas”.

“Ha mai pensato di fare un altro lavoro?”

“Sì, certo. Però al Quincy Channel ci stavo bene, eravamo una famiglia”.

“Perché le donne pensano sempre di dovere trovare una famiglia ovunque vadano. E poi pretendono di ricevere indietro quell’affetto che devono riversare comunque e sempre”, pensava Heinrich tra se e sé e intanto la guardava attento.

Aveva bussato Erika.

“Sì?”

“Sono Erika, Dottore”.

“Cosa c’è?”

“C’è sua moglie al telefono”

“E cosa vuole?”

“Non lo so ma è urgente”

“Mi scusi”. Il Dottor Wanner si alzò di scatto e si incamminò verso la porta dicendo con un sorriso garbato “Mai una volta che mi lasci in pace!”

Intanto Erika era entrata nella stanza, ne aveva approfittato per sistemare alcune cartelline sulla scrivania del Dottore. Incrociò lo sguardo di Emma. Le sfuggì un: “Come va?” Emma rispose nell’unico modo in cui si risponde in questi casi: “Bene, grazie”.

Nel frattempo, il Dottor Wanner era rientrato di fretta e con uno scatto si era seduto sullo sgabello ma prima aveva chiamato fuori dallo studio Erika, per dirle che non doveva mai rivolgere parola ai suoi pazienti. Le disse così: “Non mi piace che interloquisci con i miei pazienti, d’accordo, Erika? Chi ti dà il permesso?” Erika rispose: “Le ho chiesto solo come stesse, così per educazione” e lui: “Ecco, lascia perdere la tua educazione. Sei una segretaria? Bene, fai la mia segretaria e basta. E poi ti prego, evita di passarmi quella rompipalle! Ah, un’altra cosa: evita anche questo tremendo smalto rosso, sai che non mi piace”.

Emma, che si era alzata per guardare fuori dalla finestra era rimasta incuriosita per la verità dalla voce bassa e concitata del dottore e aveva voluto avvicinarsi alla porta che dava sul corridoio, dove era piazzata la scrivania di Erika.

Aveva sentito tutto.

Possibile che quel pacioso dottore fosse così volgare? Forse sua moglie era una specie di virago, forse Erika non aveva rispettato una sorta di protocollo che vige negli studi degli strizzacervelli: non interagire con i pazienti. Forse. Eppure quell’atteggiamento non le era piaciuto ma aveva deciso di dare tempo a Wanner e di darsi tempo per capire.

Il Dottore, dunque, si era piazzato sullo sgabello.

“Mi scusi, contrattempi ogni tanto. Dunque…” ma Emma lo interruppe: “la signora Erika è proprio gentile” e lui: “Ma sì, è la mia segretaria, cosa vuole. Ci conosciamo da tanti anni e ancora mi sopporta!” disse ridacchiando. “Comunque, mi diceva del suo lavoro alla tivù dove non lavora più”.

“Esatto. No, non ci lavoro più da un anno”

“E perché?”

“Perché mio marito era convinto che avessi una storia con il mio direttore, è arrivato a minacciarlo”.

“E lei ce l’aveva, la storia?"

“No, certo che no. John era diventato come un padre per me”.

“E allora perché l’ha licenziata?”

“Non poteva più subire le minacce di mio marito. E poi le voci avevano cominciato per davvero a circolare, insomma, tutti pensavano che fossi la sua amante”.

“Se tutti lo pensano, forse qualcosa di vero c’è. Certe donne, forse tutte, non lo so, prima lanciano il sasso e poi nascondono la mano. Suvvia, avrà voluto essere carina con lui, per sdebitarsi dell’assunzione. Guarda Erika, sempre a sorridermi, con quello smalto rosso, ma cosa vuole da me? Lo so io cosa vuole da me” pensava Heinrich. “Era una mezza depressa, l’ho ripulita per benino e le ho dato pure un lavoro, ci credo che voglia essere carina, però poi la colpa sarebbe mia”, pensava convinto, Heinrich.

Silenzio. Il Dottore era assorto nelle sue considerazioni.

Emma non capiva se stesse elaborando una qualche teoria o semplicemente pensasse ai fatti suoi.

All’improvviso, il Dottore riprese con le domande: “Dunque, Emma, al tempo in cui faceva la soubrette” /”Scusi?”/”Dicevo, nel periodo televisivo”/”Guardi che non facevo la soubrette”/”Ah ma non ci sarebbe nulla di male!”/”Certo, solo che non facevo la soubrette”.

“Sì, già immagino: minigonna, trucco eccessivo, tacchi alti, lustrini. A chiedere il parere di un cantante country. L’hanno messa lì perché è avvenente, diciamo trombabile”, pensava Heinrich.

“Va bene, mi scusi, allora. Noi scienziati tendiamo a vedere il mondo della tivù tutto lustrini ma sappiamo che non è così dappertutto. Facciamo una cosa. Io non le faccio più domande, lei mi parli, mi parli liberamente ora non solamente del suo periodo lavorativo, ma di suo marito, di come si è sentita lei. A proposito, avete dei figli?”

“No”

“Sposati da dieci anni, senza un figlio. Quel poveraccio è andato fuori di testa. Forse lei non ne ha voluti, per tentare di essere una giornalista d’assalto oppure non è neanche in grado. Certe donne sono così inutili. Lo sanno anche loro, che diamine, che se non fanno figli sono donne a metà, persone a metà. Non me ne importa un accidente di quello che dice la psicologia moderna, anni e anni di evoluzione e siamo sempre qui: donne che frignano, che cercano disperatamente di essere come noi e  non si arrendono al fatto che non sono come noi”.

Emma lo destò dal suo teorizzare interiore: “Dunque, allora, visto che abbiamo cominciato con il lavoro, io proseguo. Come Le dicevo, a mio marito non andava che comparissi in video, non voleva che parlassi con i miei ospiti, perché erano quasi sempre uomini. Era geloso del mio direttore. Ha cominciato prima ad essere geloso, cioè un po’ lo è sempre stato ma non in maniera, come dire, pesante; ma adesso si mostrava triste, mi diceva che non ce la faceva a pensarmi circondata da ‘tutti quegli uomini’, a me una volta è venuto da ridere. Ma quali uomini? L’allevatore dell’Arkansas? O l’attorucolo da avanspettacolo con il parrucchino biondo platino? Solo che lui si è alzato dal divano e mi ha dato uno schiaffo. Era la prima volta. Io sono rimasta di sasso. Lui mi ha guardato, si è messo a piangere. Mi ha detto che lo avevo fatto sentire stupido, mi ha abbracciato e l’ho abbracciato anche io. La gelosia ti fa stare male, ti fa dire e fare cose tremende, di cui ti penti subito dopo, perciò ho cercato di comprendere. Lui è stato tranquillo per un po’, poi è tornato all’attacco. In una maniera diversa. Ha cominciato a sminuirmi. Mi diceva che il mio lavoro non valeva niente, che anche una senza laurea avrebbe potuto farlo, che tanto vale mostrare le cosce, che si vergognava a dire in giro ciò che facevo. Alle cene con i suoi colleghi, si faceva beffe di me e, intanto, flirtava con tutte quelle che gli capitavano a tiro. Una sera, tornando da una di quelle orribili serate, appena entrati in casa, mi tira per i capelli, da dietro e mi dice ‘ma chi cazzo era quello con cui hai parlato o dovrei dire ti sei comportata come un’oca?’-mi scusi per il linguaggio ma devo raccontare come stavano le cose- Comunque, io sinceramente non sapevo proprio di chi stesse parlando. Era una specie di festa con tante persone. Lui mi ha detto che era stufo delle mie balle e che stava male e poi mi ha detto ‘sei una troia’, così come se niente fosse. A quel punto ho avuto paura e non ho detto niente. Tremavo. Avevo paura di andare a dormire. Volevo andarmene via ma poi come avrei fatto a tornare a casa mia? Mi sono messa a letto, alla fine, ma sempre all’erta. La mattina dopo ero a pezzi. Quando mi sono alzata lui era già uscito, io mi sono preparata per andare a lavoro, nel frattempo mi avevo mandato dieci messaggi al telefono con le sue scuse, che era un periodo nero e mi augurava buona giornata, con tanti cuoricini. Io gli ho risposto “anche a te”. Quando sono tornata,in serata, lui era sul divano. Io ho pensato tutto il giorno a come affrontarlo ma soprattutto durante il tragitto di rientro. La verità è che ero terrorizzata. Alla fine ho pensato che avrei fatto come sempre, lo avrei salutato, forse con un bacio. Ho aperto, ho detto “Eccomi” e lui niente, allora mi sono avvicinata e lui: ‘Oh, è arrivata la diva!’ e…”

E Qualcuno bussò. Era Erika.

“Dottore, mi perdoni“ e lui: ”Ma quante volte devo dire di non interrompermi? Ma Lei mi ascolta o cosa?” e lei, assurdamente composta, davanti alla reazione esagerata di lui: ”Volevo solo dirLe che c’è il Dottor Blooming, è arrivato ora da New York, mi scusi, altrimenti non l’avrei disturbata” e lui: ”Ah, ma se è così! Arrivo subito! Emma mi perdoni!” E se ne uscì.

Il Dottor Blooming era un luminare, uno di quelli che se parlano male di te, tu sei finito. Ma il Dottor Blooming non parlava male di nessuno, era un professionista serio, infatti redarguì subito Wanner, appena saputo che aveva lasciato una paziente in studio per salutarlo. Gli disse che sarebbe andato in albergo, che si sarebbero visti dopo e si congedò. Wanner lo salutò garbatamente e non appena Blooming chiuse il portone dietro di sé, Wanner si scagliò contro Erika: “Belle figure mi fa fare!” e lei: “Ma Dottore, è uscito Lei e…” ma lui la interruppe:” Erika, stia zitta e torni a badare alle sue unghie”.

Emma, che si era messa a girovagare per la stanza, non appena il dottore era uscito, anche questa volta, si era avvicinata alla porta e aveva sentito tutto. Avrebbe voluto abbracciare quella donna e poi scuoterla: ma come poteva farsi trattare così, fosse anche lui il più scienziato degli scienziati della Terra?

Ed ecco ricomparire Wanner. Emma era ancora in piedi.

“Mi scusi, Emma. Mi scusi davvero ma non potevo proprio dire di no al Dottor Blooming”.

“Ah no? E allora perché te la sei preso con la tua segretaria, razza di meschino?” pensava Emma. Era soprattutto la frase sulle unghie che l’aveva mandata in bestia. Ma come si permetteva…

“Dunque, riprendiamo, mi diceva di suo marito, della sua ostinata gelosia, mi dica”.

“Mi chiedevo se conoscere da tanto tempo una persona, dia il diritto di trattarla male”, disse Emma.

Wanner stava zitto e ad Emma venne da dire: “Lei che ne pensa?”

“Ah, non è importante ma se lo vuole sapere, dico no, certo. Suo marito si è approfittato del suo ruolo e della confidenza che si era giustamente creta fra voi”. Disse Wanner, in modo accademico.

“Quindi, anche lei con la signora Erika”.

“Prego?”

“Vi conoscete da sedici anni, ha detto, giusto?”

“Sì, giusto e allora?” rispose Wanner con un finto stupito sorriso.

“Lei la tratta malissimo, la offende. Perché non dovrebbe mettersi lo smalto? Perché a Lei, dottore, non piace?”
Wanner era imbarazzato e pensava che sicuramente il marito di Emma era stato portato all’esasperazione. Chi mai era questa soubrette, sì soubrette, che osava mettere il becco nelle sue faccende? E poi cosa mai aveva fatto di male?

“Emma, questi sono fatti miei.” Disse Wanner, con il solito sorriso di cortesia, “Non siamo qui per parlare della mia segretaria”

“E invece sì. Piuttosto, stavo parlando di Lei. Come posso fidarmi di Lei ed essere sicura che anche Lei non sia uno di quelli che odiano le donne? Non c’è bisogno di arrivare ad uccidere, sa. Basta trattare una donna come un essere senza cervello, dicendole se deve o no mettere lo smalto o pensare che una faccia la soubrette, solo perché lavora in tv. Dottor Wanner, la mia seduta finisce qui. Ho lasciato un maschio meschino e ora non posso ritrovarlo camuffato nel mio terapeuta” e se ne uscì, con l’intenzione di scuotere Erika e di pregarla di andare a lavorare altrove. Si sentiva come liberata. Forse meglio di una terapia.

Lei non avrebbe potuto più permettere a nessun uomo di comportarsi da maschio arrogante ma soprattutto non lo avrebbe più permesso a quelli “perbene”, quelli istruiti, lupi travestiti da agnelli, in realtà, più bigotti e più medievali di tutti.

Wanner rimase fermo, nel mezzo della stanza, incredulo, con lo sguardo fisso alla porta e disse sottovoce: “Troia”.

Pubblicato in concorso

Fece tre grossi respiri e uscì dal bagno. Finse di non aver trovato nulla, che fosse tutto normale. Lo baciò sulle labbra, come ogni mattina, un bacio rapido, di cortesia. "Buon lavoro". Lo guardò allontanarsi col passo lento, quasi trascinato, e sparire dietro al portone nero. Attese, senza respirare, il motore dell’auto che si allontanava lasciandola sola e al sicuro. Fino a una settimana prima la presenza di suo marito la faceva sentire protetta, adesso la spaventava. Matteo andava a caccia, amava il senso di potere che trovava nell’imbracciare e usare un fucile, scovare una preda e decidere della sua vita. Diceva che lo avvicinava a Dio. Gliela aveva trasmessa il padre di Alice quella passione, prima che legasse con lui ne era addirittura disgustato. Ma quello che Alice aveva trovato tra i suoi trofei era uno scalpo, non erano peli di animali. Ciò nonostante, dopo la sorpresa e prima della paura, quello che aveva sentito più di tutto era delusione. Credeva che tra loro non ci fossero segreti.

Si erano conosciuti alle elementari, durante la ricreazione. Frequentavano due classi differenti perché lui era più grande di due anni. La loro scuola era molto piccola, aveva in tutto cinque classi e una sola sezione, quindi i bambini si conoscevano tutti. Fu lei a presentarsi. Lo vedeva ogni giorno starsene seduto in un angolo del giardino a guardare gli altri che giocavano. Lo chiamavano il pappagallo. Gli si avvicinò presentandosi.

"Ciao, io sono Alice".

Lui continuava a guardarsi i piedi.

"Io sono Alice, tu come ti chiami?".

"Mm-m-matteo".

"Vieni a giocare con me?". Lo prese per mano e se lo trascinò dietro, e se gli altri ridevano di lei perché giocava col balbuziente a lei non interessava.

Iniziò così la loro amicizia, e cominciarono a frequentarsi anche fuori dalla scuola. Matteo fu il primo e l'unico che Alice invitò a casa, perché si vergognava di quella piccola costruzione di mattoni con l'intonaco scrostato che cadeva a pezzi, e l'esterno era nulla in confronto alla desolazione che trovavi dentro. C'era la poltrona sformata dal culo di suo padre, con a fianco il posacenere rosa a forma di reggiseno pieno di tabacco masticato. C’era la vecchia televisione tutta scocciata e di fianco il tiro a segno, alcune freccette attaccate, altre a terra. C’era il fucile da caccia sempre poggiato sul tavolo di legno, distante qualche passo dalla poltrona. Era l’unico tavolo della casa, sul quale mangiavano a pranzo e cena, ma non importava, suo padre doveva avere sempre vicino il proprio fucile. E poi c’erano i suoi vestiti sporchi, ovunque, buttati a terra come capitava. La cameretta di Alice era uno sgabuzzino con incastrati solo il letto e un armadio a due ante. Nel piccolo spazio che rimaneva a terra lei e Matteo passavano i pomeriggi a fantasticare.

Seduto alla cattedra Matteo si godeva quegli attimi di silenzio. I suoi alunni stavano svolgendo un compito in classe. Odiava il proprio lavoro. Ripensò a come fosse finito lì. Lui e Alice stavano insieme da quindici anni e convivevano da cinque. Quella sera tornò a casa e si accorse che lei era diversa. Una vita trascorsa a osservare gli altri, in disparte, gli aveva permesso di sviluppare un'eccezionale capacità visiva: solo guardando una persona, anche pochi secondi, percepiva le sue emozioni, ne scorgeva i tratti del volto mutati; e quella sera Alice era spaventata. Aveva le sopracciglia lievemente alzate e le labbra in fuori. Proprio come stamani, rifletté. Che fosse di nuovo incinta? Ci avevano dato dentro quel mese, era possibile, ma strano che non gli avesse detto niente. Forse voleva aspettare. Aveva sofferto molto l’altra volta, quando poi aveva perso il bambino. Raccontare a tutti di un aborto spontaneo l'aveva straziata. E anche a lui era dispiaciuto, ma non poteva condividerla con nessuno. Finse gioia alla notizia di quella nascita. Su richiesta di Alice lasciò il suo lavoro precario come redattore e accettò l'incarico di docente nell’Istituto privato. Avrebbe guadagnato di più, era per il bambino, lei ripeteva. E lui l'aveva accontentata. Ma accettare quell’incarico era stato solo un diversivo, un gioco di prestigio: mentre lei gioiva per la sua accondiscendenza, lui scioglieva del veleno nella tisana, e senza macchiarsi di nulla si era disfatto del feto. Lei non lo aveva mai scoperto. Tornare a scuola, poi, dopo quel lutto così atroce, era stata una prova di coraggio e di profondo amore, ma il gioco di prestigio non si era concluso e quello che Matteo aveva creduto, che sedere su una cattedra gli avrebbe dato potere, che avrebbe stretto fra le mani le testoline di quei ragazzetti come faceva con i suoi trofei di caccia, non si era mai avverato. Entrare ogni mattina in quell'Istituto era come tornare indietro nel tempo e ridiventare il pappagallo, perché tra i colleghi professori c'era Alessandro, l'aguzzino della sua giovinezza. Era arrivato lì perché ce lo aveva piazzato il padre, ed era rimasto il solito sbruffone. Lo aveva incontrato il primo giorno del suo nuovo lavoro. Si erano incrociati nel corridoio. Matteo, il cuore che spaccava il petto, aveva finto di non riconoscerlo. Alessandro, invece, si era girato verso di lui e a voce alta aveva gridato:

"Non ci posso credere...sei davvero tu? Pappagallo? Dai, e che ci fai qui? Non mi dirai mica che sei un insegnante adesso??? T-ti cc-ci vorrà tutto il g-gg-giorno a ff-f-finire una l-lezione!". E gli diede una pacca sulla spalla. Poi ebbe la premura di presentarlo a tutti i colleghi raccontando come si erano conosciuti, lui e pappagallo.

Alice aveva veramente compreso il suo amico Matteo solo quando era entrata in quell'abitazione di via Pontichelli. Di per sé era una normale casa popolare, molti suoi compagni vivevano in luoghi simili, ciò che la turbò furono i suoi inquilini. Matteo viveva con la madre, Barbara, e una sua amica, Elena. Le stanze delle due donne erano grandi e luminose, con alte finestre. Erano arredate in maniera simile: avevano entrambe un letto matrimoniale, un grande armadio a sei ante con specchio centrale, due comodini con abat iour e uno specchio sul soffitto. La cameretta di Matteo, invece, era piccola e sembrava ricavata in quello che in origine aveva dovuto essere un ripostiglio. Aveva un letto, un armadio a tre ante e una scrivania, ma nessuna finestra. Le prime volte che vi entrò ad Alice sembrò di essere un criceto in una scatola di cartone, uno di quei contenitori angusti nei quali vengono messi quando li compri alle fiere di paese. Poi si abituò. Con il passare del tempo non fece neppure più caso ai molti uomini che si aggiravano per l'appartamento. Arrivavano, si sedevano sul divano e poi si intrufolavano nella camera di una delle due amiche. Dalla stanza di Matteo si sentiva tutto: rumori, colpi ritmici che crescevano di intensità e poi le urla, sempre uguali. A volte era la voce di Barbara a emettere un gemito, a volte quella di Elena, seguivano sempre i grugniti maschili.

Il giorno in cui Matteo conobbe la morte aveva quattordici anni. Era il compleanno di Elena, la bella amica di sua madre. Aveva passato le due settimane precedenti a intagliare nel legno il manico di un coltello, assemblandovi poi una lama. Lo aveva incartato in un foglio di quaderno e si era seduto ad aspettare che l'ultimo cliente del giorno uscisse da camera della donna. Poi si era fatto avanti.

"T-tieni questo è per te...".

"Grazie...Cos'è? Un regalo...che carino che sei...". Lo scartò.

Lui si avvicinò e le dette un bacio sulle labbra. Elena ricambiò quel bacio e infilò la sua lingua morbida nella bocca del ragazzo. Poi lo avvolse con le sue prosperose forme iniziandolo a un mondo di piacere. Lui, una volta distesi nudi nel letto, le confessò il suo amore.

"Era solo sesso...piccolo...ti ho fatto un favore, nessuna sarebbe mai venuta con uno come te...che dolce!". E iniziò a ridere fragorosamente. Quella risata acuta penetrò nelle orecchie di Matteo e arrivò fino al cervello innescando una reazione, un istinto primordiale. Afferrò il coltello e trafisse il corpo di lei più volte fino a che l'adrenalina non si affievolì e lui ritornò ad essere il quieto Matteo, il pappagallo. Elena non venne più nominata. E qualche tempo dopo una certa Gina prese il suo posto.

Alice si mise a cercare indizi nella camera da letto. Il pulsare del sangue era così forte che le rimbombava nel cervello, ma doveva concentrarsi e rimettere tutto nell'esatto modo in cui lui l'aveva trovato. Col cellulare fotografava ogni cosa prima di spostarla e poi ricomponeva il puzzle con attenzione. Le mani le tremavano, ma doveva sapere. Stava frugando nel cassetto dei calzini quando trovò una foto, ma era solo il ritratto di sua suocera: Barbara che sorrideva abbracciata a Matteo. L’aveva già vista mille volte e si domandava sempre in quale occasione avesse dato prova di tanta maternità, lei che lo aveva sempre considerato un ritardato. Quando ancora erano ragazzini l’aveva vista sputargli in faccia e urlargli che era un buono a nulla, come suo padre. “Almeno lui ha avuto il buon gusto di andarsene, tu invece stai qui con quell'aria da fesso a farti mantenere!". Solo perché aveva sbagliato a prepararle il caffè. Veniva picchiato o insultato almeno una volta al giorno, quando sua madre era di buon umore. Alice ripensò a quante volte Matteo avesse provato a fare colpo su quella donna, ad avere un legame con lei, senza mai riuscirci, tranne, evidentemente, in occasione di quella foto.

Si sedette sul letto e scrutò l’immagine da vicino cercando di carpire dove fosse stata scattata e quando. Riconobbe la casetta in legno alle loro spalle, gliela aveva lasciata sua madre. Si alzò di scatto e con ancora le mani tremanti rimise la foto quasi al proprio posto.

Alice era sempre stata una ragazzina socievole che coltivava molte amicizie, ma quando aveva incontrato Matteo, che si era insinuato nella sua vita come un piccolo corso d'acqua, e giorno dopo aveva scavato il proprio percorso spazzando via tutto ciò che lo intralciava, aveva lasciato che lui la allontanasse dai propri amici. Lo aveva fatto con apparente dolcezza, brandendo come lama il suo apparente amore. Anche più tardi, quando c'erano stati i primi episodi di violenza, aveva sempre usato quella scusa: non riusciva a controllarsi da quanto la amava. E lei ci aveva creduto, lo aveva giustificato, all'uomo poteva scappare qualche ceffone, lo aveva già vissuto in casa da bambina, ciò che contava era il resto del tempo, quando lui era calmo e la trattava come una signora.

Era una rosa sotto un vetro, non poteva lavorare né uscire da sola, ma era il prezzo dell'amore.

Alice, quella sera, lo aveva pregato di fare una gita nel bosco, l'indomani. Voleva andare alla piccola dimora di montagna, quella che gli aveva lasciato sua madre. Era una donna determinata la sua Alice, aveva già preparato tutto, e lui non aveva potuto negarle quella piccola fuga. Prima di coricarsi, però, aveva notato dentro il cassetto la foto fuori posto. Niente di strano se lei avesse aggiunto dei calzini, ma erano gli stessi dodici che c'erano la mattina quando si era vestito. Quell'istantanea gli ricordava un evento speciale. Lui e sua madre, di notte, avevano camminato per ore nel bosco, sulle spalle un lungo e pesante sacco, sui sessanta chili, nella sua mano una torcia, in quella della donna una pala. Avevano poi scavato, arrivati al posto giusto, e sotterrato quel segreto di nome Elena. Si erano poi coricati nella baracca di montagna, di loro proprietà da varie generazioni, e l'indomani Barbara aveva voluto scattare una foto, orgogliosa. Matteo controllò sua moglie, era ancora sul divano a guardare un programma in televisione, e andò ad aprire il suo nascondiglio. C'era qualcosa di strano in lei, che avesse scoperto tutto? Ne ebbe la conferma nell'istante in cui guardò i suoi trofei di caccia: i capelli erano stati spostati.

Alice seguiva Matteo lungo il sentiero cercando di memorizzare il percorso, ma non era facile: non aveva mai avuto un buon orientamento. La paura del giorno precedente aveva lasciato il posto alla curiosità, molte domande le risuonavano nella testa. Era tutto frutto della sua fantasia? No, i capelli erano veri, li aveva toccati con le sue stesse mani. Vagarono per quasi venti minuti nel bosco, in un tratto non segnalato, per raggiungere la casa. Non sapeva neanche lei cosa si aspettava di trovarvi, ma sentiva che quel posto nascondeva qualche segreto. Quando varcarono la soglia un forte odore di chiuso e muffa le penetrò nelle narici. Salì al piano superiore, quello della camera, e aprì le finestre, qualche minuto, giusto per far circolare l'aria. Matteo la aiutò a scoprire il letto dal telo di plastica e a prendere le lenzuola pulite. Poi uscirono fuori a godersi il panorama. Matteo si mise al suo fianco e le cinse la vita, si baciarono. Alice poi, con la scusa di dover cucinare, rientrò in casa. Aprì il frigo e vi trovò della carne. La prese, ma suo marito la fermò subito: era il cibo per i cani. Strano, a casa non mangiavano mai carne, lui non voleva, gli rifilava sempre quelle crocchette del supermercato dicendo che era quello il loro cibo. Forse era carne scaduta. Più tardi, mentre Matteo dormiva, si alzò dal letto, tornò in cucina, si avvicinò al frigo e aprì il contenitore. Notò, tra quei pezzi di carne, quello che era di sicuro un dito umano. Si precipitò fuori, al freddo, e iniziò a vomitare, prima di svenire. Quando riprese conoscenza era di nuovo in casa e Matteo la stava legando alle sponde del letto. Per un istante i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di sorpresa, poi ricordò tutto.

"Volevi sapere...ecco ti mostro cosa facevo a quelle donne...avrai lo stesso trattamento...".

"Ma...perché? Chi erano? Quando è iniziata questa storia? È colpa mia?".

E mentre le tagliava via i vestiti di dosso, iniziò a raccontare: "Non è colpa tua, non lo è mai stato. Tu mi hai salvato, però non dovevi intrometterti, non dovevi curiosare...vuoi sapere come è iniziato tutto questo? La prima è stata Elena. Te la ricordi? Mi aveva preso per il culo con i suoi modi affettuosi, ma l'ha pagata. Poi, circa un anno fa, giravo di sera per il centro e mi vidi passare accanto una donna molto simile a lei. Sul momento pensai di avere di fronte proprio Elena. Incuriosito la seguii fino al locale ed entrai. Dopo poco mi accorsi che era un'altra persona, ma qualcosa dentro di me si era riacceso, avevo provato nuovamente il senso di potere che si sperimenta rubando una vita, e mi piaceva. A lavoro ero divenuto lo zimbello di tutti, i miei alunni non mi ascoltavano, lanciavano le sedie in aula durante le mie lezioni, mi deridevano. Avevo bisogno di amplificare il potere che mi dava la caccia. Alla fine anche noi siamo animali, giusto?". La violentò selvaggiamente, proprio come aveva fatto con le altre, niente sconti. E di nuovo svenne.

Al secondo risveglio era libera, ma nuda e in mezzo al bosco. Avrebbe voluto piangere e chiamare aiuto, ma non c'era nessuno. Prese a correre cercando di non sentire i tagli che le si stavano formando sotto i piedi, di non tremare per il freddo, cercò di sopravvivere. Aveva paura, ma combatté fino alla fine.

Pubblicato in concorso