IL ROMANZO DIETRO AL QUADRO

di

Aneres T. Lone Wolfe

Depose con grazia la frutta e i dolci sull’alzata di vetro e ottone, quella che teneva con cura quasi volesse confortarla. La base era stata forgiata in metallo, mentre il piatto che la sovrastava, piccolo, sottile e privo di decorazioni, si ergeva dal tavolo su tre protuberanze. Davano l’impressione di non avere neanche la forza di reggere tutto quel peso. Si tenne improvvisamente a questa base cercando la stabilità necessaria alle sue gambe, ormai prive di vigore, poiché indebolite dal peso dei pensieri. Le mani erano tremanti, perché lavorare in quella casa era diventato difficile, ma soprattutto doloroso. “Molto doloroso”. Negli ultimi mesi tutta quella tensione e l’atmosfera che saturava come una cappa i suoi abitanti, l’avevano appesantita. “O forse la forza l’aveva abbandonata per altri motivi? Si trattava veramente di un evento esterno? Se non avesse fatto quella domanda, se non avesse chiesto dove si trovava la signora, sarebbe stato tutto diverso ora? Cosa era successo veramente? Che cosa aveva visto il Padrone? Nessuno gliene aveva mai parlato, e perché mai avrebbero dovuto farlo del resto?”. La testa della serva e il suo corpo erano rivolti ancora verso l’alzata, con una parvenza di serenità, ma l’espressione sul suo volto svelava la sofferenza che portava dentro, una sofferenza che non provava solo lei in quella casa. Marta fece roteare i biscotti che ormai non profumavano più come quando li aveva sfornati, o così le sembrava. Appena fatti erano dolci, fragranti e gustosi, croccanti fuori e morbidi dentro. “Quando si dice trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato”. Se avesse potuto cambiare quell’evento, se solo avesse taciuto o semplicemente non si fosse interessata, ora probabilmente le cose sarebbero state come allora: “il dessert perfetto”. Il cuore dei biscotti era fatto di cioccolato, una crema gustosa che usciva riversandosi nel piatto, un accessorio che ormai non faceva più parte di quel tavolo, diventato inutile e superfluo dal momento che il padrone tollerava ben poco di restare in quella stanza, e lo scarso appetito che aveva lo sedava in pochi minuti. In quello stesso tempo, trangugiava del vino rosso direttamente dalla bottiglia, tanto più che, ormai, anche i bicchieri erano diventati superflui. “Troppe cose erano diventate superflue”. Si chiese se lo fosse diventata anche la sua presenza in quella casa. Ora i suoi Padroni avevano perso ogni senso del gusto, del piacere, della realtà. Amava preparare quei dolcetti, la mattina presto, adorava levarsi alle prime ore dell’alba e lasciare quella scia profumata in tutta la casa, che guidava i Padroni appena svegli verso la cucina per assaggiarne qualcuno appena sfornato. Un rito ormai perso.. Ora vivevano in due stanze separate in cui passavano la maggior parte della loro giornata. Osservò il cibo disperso all’altro capo del tavolo, di questo se ne sarebbe occupata solo più tardi, aveva ancora tempo. Sarebbe stato un altro atto, un’altra scena che si ripeteva come in un flashback, sempre la solita. La Padrona sarebbe arrivata per prima, il Padrone sarebbe tornato solo più tardi, quando lei fosse uscita. Entrambi avevano ancora una volta bevuto la stessa quantità di vino, lei quello bianco dolce che le dava tanto conforto, lui quello rosso vivo. Rosso come le pareti che aveva voluto dipingere e come la tovaglia che aveva voluto far colorare. Rosso cupo, come il suo umore, come i suoi pensieri, rosso come la pazzia che lo ottenebrava, rosso. Un rosso vivo su cui sua moglie aveva voluto dipingere dei fiori blu a ricordargli quegli elementi della natura che tanto amava lavorare, mentre prendeva la misura del terreno che aveva voluto comprare e sistemare per lei. Non voleva che dimenticasse quanto fosse bravo nel curare il giardino, nel curare il terreno, nel curare la loro vita. “Il loro amore”. Invece ora era tutto abbandonato. “Fuori da quella finestra si vedeva la devastazione in quel cupo giorno di marzo”. Solo degli scarni rametti di mimosa, disposti con cura nella seconda alzata, ricordavano l’arrivo della primavera. Invece in casa c’era l’inverno, così come nei loro pensieri. L’erba era alta, incolta, a coprire oltre la metà dell’altezza di quegli arbusti, o forse erano alberi, ormai non lo ricordava più. Erano piegati dal vento, da molto tempo non venivano più curati. “Troppo tempo”. In mezzo ad essi, dei fiori di campo selvatici facevano capolino, azzurri e gialli. Quelli azzurri erano i preferiti della padrona e suo marito lo sapeva, per questo lei aveva dipinto quei vasi di fiori ovunque sulle pareti, nella tovaglia, se avesse potuto li avrebbe dipinti anche dentro al suo cuore. Lui, forse per qualche forma di autocontrollo che possedeva ancora, o di legame con il passato, aveva dipinto delle erbacce tra i suoi fiori preferiti, alte e grandi a sovrastarle, ma senza coprirle, né cancellarle, anche se le aveva dipinte di nero. Ma la Padrona le aveva colorate di blu, con cura. A volte il Padrone l’aveva notata mentre lo faceva, entrando in quella stanza, ma era uscito in fretta sbattendo la porta, pur sempre senza stringere i pugni. Fuori il cielo era triste e non dava speranze, gonfio e scuro prometteva pioggia. La sedia della padrona era come sempre appoggiata al muro, lì doveva restare, fuori dalla vista di suo marito. Il padrone invece aveva la sedia appoggiata al tavolo, di lato, tre passi più avanti alla sua, controllati ogni giorno, ogni ora con le sue stesse gambe. Entrambe le sedie erano dirette verso un’unica direzione, mai si doveva incrociare lo sguardo fra loro: due binari paralleli, due strade distinte che non si incontrano mai, a guardare verso una direzione dove non c’era nient’altro se non il vuoto. Ma non il vuoto dei pensieri, e questo si capiva dal cibo disperso sul tavolo con rabbia, in ogni direzione. Sempre la stessa scena, sempre lo stesso flashback. Il Padrone era uscito in fretta, di corsa, con un turbine di pensieri e la tempesta in atto all’interno della mente. Con i capelli arruffati e i pugni stretti come se dovesse stringere tutto e al tempo stesso volesse liberarsi di qualcosa, o come se, improvvisamente, aprendoli, avesse potuto fare sparire tutto nel vuoto di quell’odioso passato. La Signora lo aveva seguito cauta, in silenzio, a testa bassa, lo stesso sguardo rivolto verso il tavolo che teneva lei ora in questo momento, una testa che non poteva mai più alzare, nessuno poteva più incrociare il suo sguardo. Lei lo alzò, solo per un attimo, rivolgendolo fuori per osservare quella costruzione lontana, ma non poi così lontana. Una costruzione che il Padrone voleva fare demolire, crollare, anzi che avrebbe voluto distruggere con le proprie mani, pezzo dopo pezzo, mattone dopo mattone. Una costruzione dove aveva visto quello che non avrebbe dovuto vedere. Stranamente questa volta rientrò per primo e si avvicinò alla finestra, poi strinse nuovamente i pugni. Guardò il tavolo arrabbiato poi uscì di nuovo. Il rosso era anche nei suoi occhi ormai iniettati di sangue, un rosso che non sarebbe più scomparso, il rosso di un uomo che non avrebbe mai dimenticato. Un rosso misto di rabbia odio e dolore, un rosso che aveva dipinto lui stesso ma di cui non era l’autore né l’artefice. La Signora rientrò e si sedette in quella sedia appoggiata al muro, osservando la serva che continuava a sistemare i pasticcini su quello stesso piatto, con la testa ancora china, in silenzio. Doveva essere un dessert perfetto e invece continuò a fissare il vuoto astratto in cui non c’era niente, o meglio nel quale c’era qualcosa, una tensione nell’aria che non poteva dimenticare. Gli eventi non potevano più cambiare le cose, anche se avevano comunque e inevitabilmente cambiato il presente e il futuro; ormai ogni giorno sarebbe rimasto per sempre così: “il dessert imperfetto”.

"Ti fa stare bene", titolo che arriva direttamente da una canzone di Capareza
Come sempre potete ispirarvi all'opera originaleoriginale e prendere qualsiasi direzione troviate inerente.

Le regole, sempre le stesse:

I racconti (inediti) devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it

La lunghezza massima (e vivamente consigliata) è di quattromila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office (doc, docs, odt).
Il titolo deve essere composto dal vostro nome-cognome e da "Ti fa stare bene".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Scadenza 30 novembre 2017.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito e a mettere un like alla pagina facebook. Sarà più semplice comunicare e potrete seguire ogni nostra iniziativa.
Cosa si vince?

I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it

 Entro fine  dicembre 2017 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

Link a Prospettive, l'ebook della prima antologia.

 

A pochi giorni dall'uscita di Che lo svapo sia con voi (2) intervistiamo l'autore (Matteo Gallegati - Il santone dello svapo) ed il curatore, Renzo Semprini Cesari

 

-         Ci puoi descrivere, in poche parole, “Che lo svapo sia con voi (2)?

MG È semplicemente il riassunto di come riuscir a rigenerare qualsiasi cosa tenendo conto delle regole fondamentali della rigenerazione.

RSC Con questo volume, il Santone dello svapo ha completato il suo ampio percorso per introdurre al mondo dello svapo e mostrarne gli aspetti basilari. Parla principalmente di rigenerazione, e lo fa suggerendo dei principi di massima, per poi scendere nel dettaglio degli attrezzi, delle resistenze, dei fili e dei liquidi. È una sorta di vademecum per il neofita - al quale è rivolto il libro in prima battuta - con assiomi e anche qualche risposta alle domande più frequenti, ma allo stesso tempo è un promemoria per il vaper più esperto, perché parla anche di obbiettivi (sia personali, sia dello svapo in generale), di rispetto del lavoro dei modder e di qualità.

-          Che differenze ci sono rispetto al primo volume?

MG Questo è puramente tecnico, il primo volume mi raccontava molto di più.

RSC Nel primo volume si può vedere di più Matteo Gallegati, e lo svapo è quasi il pretesto per conoscere qualcosa della sua vita e del suo modo di pensare. Non è un’auto celebrazione, ma il mostrarsi da parte di un uomo che - volente o nolente, haters o lovers - è un personaggio con followers in ogni social, che parla di svapo in maniera euristica e che dello svapo ha seguito e fatto la storia. Dal punto di vista tecnico, il secondo volume è la chiusura del cerchio.

-         Completati i due volumi e in attesa del libro che li raggrupperà, in uscita a dicembre, pensi che adesso sia un saggio completo o ci sono altri argomenti da trattare?

MG Penso che siamo arrivati a buon punto e che possa essere molto utile per i neo vapers. Ovvio si puo sempre dire di più su questo argomento, ma volevo ottenere un libro che non fosse troppo complicato e adatto a tutti i tipi di utenti, nello svapo se si vuol scendere nel tecnico si potrebbero scrivere volumi interi. Magari con il tempo approfondiremo. Ma io in primo luogo sono uno youtuber quindi la fonte più grande di informazioni rimane sempre il mio canale.

RSC Penso che il saggio sia completo, senza dimenticare, come ho già detto, che è rivolto prima di tutto ai neofiti, a chi si sta affacciando, o si vuole affacciare, al mondo dello svapo. Questo non vuol dire che non sia interessante anche per i vaper più esperti, perché il libro nel suo insieme, oltre a far conoscere più da vicino Matteo Gallegati e il suo pensiero, è un ottimo strumento di confronto. È chiaro che a livello di saggio non scende nei dettagli più complessi, nelle sfumature da nerd, non affronta tutte le casistiche speciali, ma se non lo fa è anche perché l’idea di fondo del Santone dello svapo, e più volte lo ribadisce, è che per svapare bene, ma nella vita in genere, bisogna essere svegli, osservare, provare, sbagliare e provare ancora. Quindi non esisteranno mai manuali o saggi che diffondono la verità assoluta, perché la verità assoluta non esiste.

-          Com’è stato lavorare con RSC, MG?

MG Mi sono trovato molto bene, l’editoria ha tempi molto serrati ma devo dire che è stata un’ottima esperienza.

RSC Piacevole, facile, curioso, costruttivo. Mi ha fatto conoscere un mondo a me ignoto, e una persona vera.

-           Progetti lavorativi? Hai altre iniziative editoriali?

MG Per ora non ho altri progetti oltre al cartaceo, ma per il futuro non si sa mai, tempo permettendo ovviamente.

RSC Al momento sono impegnato nella promozione del mio primo romanzo, Zeppole e Nuvole, uscito in formato ebook da diversi mesi, e in formato cartaceo a fine settembre. Ci tengo molto, è una dedica a Napoli e alla commedia all’italiana. Per fine dell’anno, poi, forse Natale, c’è in cantiere una grossa sorpresa, il sequel di Pinocchio, con illustrazioni dell’amico pittore Gianni Caselli. Ovviamente parliamo di pubblicazioni Jona Editore.

-           Se dovessi individuare quello che ancora ti manca, nella tua attività creativa, solo una cosa, cosa diresti?

MG Beh devo specializzarmi tecnicamente in produzioni audio-video. Voglio imparare sempre più cose per dare contenuti sempre migliori.

RSC La gloria imperitura. Scherzo (non del tutto). Non c’è una sola cosa, non ci può essere, almeno per me. L’attività creativa non ha mai fine, per cui non riesco a pensare a una sola cosa che mi manchi, se non il vivere di questo mestiere.

-          Se, invece, dovessi individuare un traguardo, in tal senso, che hai raggiunto e di cui sei fiero, quale diresti?

MG Beh sono fiero dei miei 200 mila iscritti e di tutta la community che sto creando attorno a questo settore, e vi prometto che farò di tutto per migliorare sempre.

RSC Il matrimonio con Jona Editore.

-          La cosa più importante che intendi realizzare nel 2018?

MG Creare un’attività stabile e produttiva che possa far lavorare per me altre persone in modo da dare sempre un prodotto migliore ai miei followers, ampliare format e fare video sempre migliori e di qualità maggiore!

RSC Sopravvivere. Poi, in seconda battuta, vendere un milione di copie.

-         Un aggettivo, solo uno, per il tuo compagno di scrittura?

MG CROCCANTISSIMO!

RSC “Croccante” sarebbe scontato, allora dico “genuino”.


Link al Libro
Ricordiamo che inserendo il coupon "santone" potete acquistare i due volumi de Che lo svapo sia con voi al prezzo scontato di 15 euro.

Ed ecco il secondo, attesissimo, volume de Che lo svapo sia con voi, de Il Santone Dello Svapo. In questo volume Matteo ci spiega tutte le tecniche per rigenerare, arrivando, così, al massimo dell'aroma e del gusto possibile.
Da leggere, ovviamente, dopo il primo volume, per avere una buona base di apprendimento.

Abbiamo creato un coupon "santone" (dovete inserirlo, senza virgolette, nel carrello) che vi permetterà di prendere entrambi i volumi con 5 euro di sconto e, in più, per chi acquista i due volumi o anche solo il secondo, avrà altri 5 euro di sconto per il cartaceo, in uscita a dicembre.
(Curatore: Renzo Semprini Cesari)

Settimana prossima intervista doppia a Matteo Gallegati e Renzo Semprini Cesari.

Link all'ebook

Il Gran Premio

Buona sera a tutti, sono Erin Minà, e sono in collegamento dalla bolla gravitazionale sopra al nuovo circuito continentale dove tra poco avrà inizio la gara conclusiva del Gran Premio di Formula Mix.

Lo chiamano “il Cavo”: dieci virgola sette chilometri di condotto laser, che si snodano attraverso tre diversi livelli della città, in pieno centro, collegando insieme i centodiciotto anelli di proiezione per un diametro di sei metri. Il Governatore, che è venuto questa sera a inaugurare il circuito, è adesso in collegamento dalla tribuna mobile. Buonasera Governatore!

«Guarda papà, ci siamo anche noi!»

«Dove?»

«Lì, sul proiettore.»

«Non vedo niente, e a te scappa la pipì.»

«Non è vero.»

«Allora perché continui a muovere le gambe?»

«Sono emozionato.»

Lui sorride, e a me scappa la pipì. Mi scappa da morire, ma non voglio perdermi la partenza. Papà ha trovato questi posti nella tribuna mobile da dove si vede l’imbocco del Cavo. Ci sono un sacco di poliziotti, perché in tribuna ci sono anche il Governatore e Lady-Va, che ha cantato prima della gara. Adesso i piloti stanno salendo sui gusci. Da qui vedo Bonam che si collega alla capsula. L’argento della carrozzeria è bellissimo.

«Ma come si mettono questi cosi?»

Mio padre non ha mai usato un proiettore oculare.

«Le placche vanno appoggiate sulle tempie, non sulle orecchie! Vedi? Basta appoggiarle e si configurano da sole. Così mentre vedi la gara puoi seguire anche le telecamere e la cronaca negli occhiali. Funziona?»

Papà sorride. Le novità lo spaventano, ma poi si diverte.

«Si, funziona benissimo, lo vedi anche tu il tubo?»

«Si chiama “cavo” papà, è la l’involucro energetico che delimita la pista.»

Ecco che il primo anello si è acceso. Vedete il cavo che si snoda come un drago luminoso verso la costa e di nuovo in alto, fino all’Eliopoli. I piloti sono pronti. Il campione mondiale Richard Bonam partirà in posizione centrale, fiancheggiato dal compagno di scuderia e da Keita Meini, il nuovo prodigio delle scuderie Ferrari, che in sole otto gare è riuscita a insidiare la vetta della classifica. Governatore, com’è la vista dalla tribuna?

É bellissima Erin, la tribuna scorre dai box fino alla prima torsione, potremo seguire i piloti per cinquecento metri ad ogni giro. Sono davvero orgoglioso!

«Hai sentito il Governatore Papà?»

«Non molto, la gente è impazzita, non si sente niente!»

Ecco che i gusci si sollevano, è sempre una grande emozione vedere l’impronta luminosa sul piazzale, prima che entrino nel cavo. Poi l’ultimo tratto della barriera laser chiuderà il circuito.

Semaforo rosso. Sono pronti, i gusci sono tutti in assetto da carica, con il muso leggermente rivolto verso il basso. Verde, sono partiti! Trentotto gusci che dal piazzale devono imbucarsi nei sei metri di diametro del cavo. Ecco i primi contatti, Ave Loi sembra aver perso il controllo, con la vettura di traverso impedisce agli altri di passare. Che sia una strategia?

Lo è di sicuro, Bonam e Keita sono già schizzati avanti, mentre tutti gli altri si ammassano nell’ingorgo. La Ferrari è più veloce, Keita lo sta raggiungendo. Ormai è sopra al guscio di Bonam, se entrerà per prima nel cavo sarà difficile per lui recuperare.

É incredibile, Keita ha preso quota per superare Bonam dall’alto, ma la sua scheggia d’argento si impenna e con lo scudo posteriore tocca il guscio di Keita. Si è schiantata sull’imbocco del circuito. L’impatto ha tranciato la cabina e il corpo della pilota è sbalzato in mezzo al piazzale. Ma un attimo, dov’è la testa?

I droni inquadrano il piazzale, poi catturano il primo piano della testa che rotola verso la tribuna, proprio davanti a noi. Il casco è integro e il processo si è attivato automaticamente. Bonam è in testa.

Tutti gli altri lo seguono a distanza e la tribuna slitta lungo il cavo. Guardo il campione saettare fino al primo tornante. Quando la tribuna torna al punto di partenza Keita esce dall’incubatore. La vedo nel proiettore oculare, indica Bonam in uno schermo, si infila il casco e sale sul secondo guscio. In tribuna fischiano, ma lungo le strade tutti fanno il tifo per lei. Esce dai box proprio sotto alla tribuna e si getta all’inseguimento.

In un bunker ricavato dalla sala macchine in disuso quattro uomini seguono la gara attraverso un vecchio monitor olografico.

Due sono di fronte al monitor, gli altri sono appoggiati alla porta blindata.

L’ologramma mostra Bonam in difficoltà, chiuso nella morsa di tre veicoli avversari.

Il tizio con la cicatrice in faccia si volta verso il più grosso di quelli alla porta.

«Ravi, hai mai avuto un ricaricabile in famiglia?»

«Certo che no.»

«E quanta voglia hai di fotterne un po’?»

«Che domande fai Dooger? Quella che hai tu.»

«Allora sarà tutto più semplice. Sembra che Bonam non ne abbia più per molto e Settimo è pronto.»

L’uomo accanto a Dooger è concentrato. Non commenta, bisbiglia qualcosa che i due alla porta non possono sentire, poi si volta e si sposta in un antro della sala attrezzato come una camera operatoria. Ci sono due letti metallici con anelli di sicurezza per polsi e caviglie, uno grosso macchinario a forma di sigaro e un quadro comandi da cui pendono una serie di cavi che terminano in un casco integrale. Un tubo lucente che scende dal soffitto punta la sua bocca nera su uno dei letti.

Ravi resta immobile alla porta.

«Che succede Ravi? Hai la faccia di uno che sta cacando un riccio.»

«Nulla… Solo che non sono preparato per questo, hai seguito tu l'addestramento...»

«Settimo ha il diritto di scegliere il suo esecutore, e ha scelto te. Dovresti essere contento. Tutto il Blocco Insorgente saprà del vostro contributo. Oggi comincia la nuova era, quindi togliti le spine e cominciamo.»

In pochi giri Keita ha raggiunto Bonam, grazie al supporto di tutte le scuderie. Sono tutti contro il campione. Adesso sono testa testa e su ogni rettilineo il guscio Ferrari mostra la sua potenza recuperando frazioni di secondo.

Settimo si stende sul letto. Gli occhi aperti, fissi sulla bocca del cannone che lo sovrasta. Muove le labbra in una muta preghiera, o forse una è filastrocca per bambini.

Amal attiva il quadro comandi.

Settimo si mette seduto. Dalle feritoie aperte alla base del cranio ben rasato escono due rivoli di siero che colano lungo il collo fin dentro la muta.

Attenzione, c’è un mezzo fermo sulla dorsale nord, il sistema di trascinamento non è riuscito a rimuoverlo e Bonam sta puntando dritto verso la carcassa. Attira Keita in trappola. Eccolo che vira a pochi metri dall’impatto mentre l’inseguitrice finisce dritta contro le lamiere. L’esplosione raggiunge il guscio di Bonam.

Le traiettorie impazzite del veicolo in fiamme illuminano il bunker a intermittenza. Bonam è riverso a terra. Il sistema di trascinamento si attiva per espellere dal cavo tutto il materiale distrutto, piloti compresi. Dai box partono le vetture di recupero dei corpi.

«Abbiamo due minuti e trentasette secondi prima che Bonam sia ricaricato nel nuovo corpo. Ho già sincronizzato il nostro loader con quello ai box, sono pronto a dirottarlo. Forza Ravi, tocca a te.»

Ravi continua a fissare il monitor olografico. Sulla console c’è un modulo per la comunicazione bidirezionale.

«Cosa aspetti?»

Dooger lo sorprende alle spalle, lo fissa per qualche secondo, poi lo strattona fino al lettino e gli punta una criolama sotto la scapola sinistra.

«Mettiti al lavoro senza fare scherzi»

«Vacci piano Dooger! Sto solo cercando il coraggio necessario per ridurre un amico in poltiglia.»

«Più soffre e più siamo sicuri che funzioni. È addestrato per questo.»

Settimo rivolge lo sguardo a Ravi. «Fallo, abbiamo poco tempo.»

Poi riprende il suo mantra silenzioso. Ravi gli infila le sonde di ritenzione neurale nel cranio. Uno schizzo di siero lo centra in un occhio. Si pulisce con la mano mentre il flusso cremisi anima i cavi. Settimo indossa il casco e si adagia sul letto. Amal controlla il quadro comandi e dà il via libera. Ravi guarda Dooger, accenna un sorriso e abbassa la leva del loader.

Il ronzio iniziale diventa un boato sordo. La bocca del cannone preme sul torace di Settimo. Il suo strazio sta producendo buoni risultati, a giudicare dall’espressione soddisfatta di Dooger. Ravi deve usare entrambe le mani per impedire che il casco si sfili a causa delle convulsioni. La luce cremisi diventa rosso intenso.

«Dirottato!» esclama Amal.

Un fascio di luce rossa fluisce dai macchinari verso il monitor. Ha raggiunto la copia del ritentore nei box di Bonam. Dooger è soddisfatto.

«Qualcosa non va ai box, perché Bonam non si è ancora riattivato?»

Mio papà ha ragione. Keita è già tornata in pista mentre Bonam non si vede… ma ora finalmente le telecamere inquadrano l’incubatore.

C’è stato un problema tecnico ma adesso tutto sembra risolto. Vedete che il nuovo corpo del campione viene riscaldato. Apre gli occhi e si guarda intorno. Il ritardo deve averlo disorientato. Niente saluti questa volta, evidentemente Bonam è concentrato e non concede un secondo alle telecamere. Deve recuperare terreno. Collega il casco e parte.

Questo nuovo tracciato ha macinato un bel numero di vittime Governatore, ne abbiamo già viste dodici e la gara non è ancora finita.

Si Erin, è un successo senza precedenti.

Con buona pace per i costi delle scuderie.

Sono certo che le scuderie saranno ben ripagate. Non sente la folla in delirio? Questo è esattamente quello che i nostri cittadini vogliono.

Avete sentito il Governatore dalla tribuna, torniamo in pista!

«Eccolo papà, può ancora farcela.»

«Certo che può farcela, è il campione.»

Papà mi abbraccia, mi scoppia la vescica e sono preoccupato. Keita è in vantaggio e Bonam non sembra per niente in forma. Qualcosa nel reload non ha funzionato, questo giro è almeno due secondi più lento del precedente. La tribuna si blocca e torna verso il punto di partenza. Perdo di vista Bonam per qualche secondo e quando ricompare nel proiettore non capisco cosa stia facendo. Sembra che si sia fermato.

Il guscio è in panne ma dai box non è arrivato alcun messaggio. Il team non riesce a comunicare con il pilota. Forse la connessione di Bonam è difettosa. Ma cosa fa? Si è lanciato in senso contrario, finirà per schiantarsi sugli altri piloti.

Nel bunker Dooger ha ricominciato a seguire la gara dal monitor. Ravi aiuta Amal a portare il grosso sigaro in assetto operativo. L’apparecchio ha un rilevatore di frequenze con il quale Amal imposta la direzione e l’angolo di gittata dell’impulso. Indossa un paio di cuffie e controlla di nuovo la mira poi mette un piede sulla pedana alla base della macchina.

«Ce l’ho! Ho ingaggiato il generatore davanti alla tribuna. Che faccio Dooger?»

Dooger osserva sul monitor la traiettoria dell’attentatore.

«Ancora un attimo. L’impulso del jammer durerà per pochi secondi, dobbiamo aspettare che Settimo si avvicini al bersaglio.»

Solleva un dito, poi lo abbassa. «Spara!»

Amal sposta tutto il suo peso sulla pedana. La raffica dei colpi che partono dal jammer si abbassa progressivamente fino a sparire all’udito, restano le vibrazioni delle pareti che entrano in risonanza. L’onda si propaga fuori dal bunker e intercetta il primo anello della pista, quello che genera il tratto iniziale del Cavo. La barriera laser si spegne nel tratto di fronte alla tribuna.

«Cos’è questo tremore papà?»

Non è il rumore a spaventarmi, ma l’espressione di papà. Lui era nelle truppe coloniali e ora sta zitto e fa la faccia di quando racconta della guerra. Sento ancora qualcosa dal proiettore.

Sembra che il tratto iniziale del cavo sia stato disattivato, se Bonam lo raggiungesse a questa velocità…

Papà mi stacca le placche, mi afferra una mano e mi trascina tra le sedie. Cerca di passare tra gli spettatori ma tutte le file sono bloccate. Le grida sovrastano il rombo di Bonam, che schiva due gusci e corre verso di noi. Quelli della sicurezza ci spintonano cercando di creare una via d’uscita per il Governatore. Mio padre mi stringe con un braccio e mi spinge in basso, dietro alle sedie della fila davanti a noi. Vedo Bonam dalla fessura tra una sedia e l’altra. Il suo guscio è appena partito con il massimo dell’energia. Perché lo fa?

Chiudo gli occhi.

Amal abbraccia il sigaro per mantenere premuto il piede sulla pedana, Dooger è davanti al monitor che pregusta la carneficina. Nessuno presta attenzione a Ravi che scivola alle spalle di Dooger, gli sfila la criolama e lo sorprende. Il taglio netto della carotide non genera schizzi. Il sangue rimane fermo, come intrappolato, e quando il cuore smette di pompare sgorga come una colata di lava appiccicosa. Amal è concentrato sul jammer e non si accorge di niente. Ravi gli afferra la testa e gli spezza il collo, poi lo solleva dalla pedana e il jammer si spegne. Le pareti smettono di vibrare, il rumore di fondo cessa con un ultimo sussulto. Si volta verso il monitor per controllare se ha fatto in tempo a onorare il suo compito di agente governativo. Pochi secondi di tregua e dei colpi alla porta blindata lo avvertono che non è ancora finita.

Sento il soffio di una lama e poi il boato del pubblico. Non riesco a vedere niente. Trovo in terra un proiettore oculare e me lo metto.

... Salvi! Il cavo è stato riattivato appena in tempo.

Sul proiettore scorre a ripetizione la ripresa del guscio argento di Bonam che viene segato in due dalla parete laser che si riattiva appena in tempo. Quando gli spettatori si disperdono vedo il corpo del mio idolo tagliato a metà.

Ancora non sappiamo bene cosa sia successo ma sembra che il corpo di Bonam sia stato occupato da un terrorista. I tecnici dicono che non è possibile, ma staremo a vedere. Se Bonam si riattiverà in modo corretto nel prossimo reload magari potrà raccontarci cosa è successo. Mi chiedo, è possibile che la sua coscienza sia sopravvissuta a una latenza così lunga?

Un commando ha raggiunto il bunker con il corpo di Bonam, quello vero, devastato dall’incidente.

«Aprite, la traccia vitale di questo stronzo non è ancora svanita!»

Ravi si ferma con la mano sulla porta blindata. Se Bonam fosse ancora collegato al casco e crepasse adesso potrebbe riattivare il processo di reload. Apre la porta blindata per lasciar entrare la lettiga. L’uomo che la spinge fa appena in tempo ad accorgersi dei corpi dei compagni a terra, sente il tonfo della porta blindata che si richiude alle sua spalle, e la criolama di Ravi lo trafigge.

Due minuti dopo Richard Bonam apre gli occhi e mette a fuoco i tubi che dal soffitto scendono nel suo naso, nella bocca e in qualche altra parte del corpo. Non riesce a muovere la testa, solo gli occhi ruotano per vedere la stanza. Nonostante le droghe il dolore è insopportabile.

Un uomo che sta armeggiando con l’apparecchiatura attorno al lettino si muove scavalcando i corpi abbandonati sul pavimento.

«Ma guarda chi si è svegliato, il nostro Campione del Mondo!»

L’uomo si avvicina al letto di Bonam e gli sorride.

«Molto piacere, mi chiamo Ravi Madal, e sono un agente governativo infiltrato in questa cellula di cialtroni.»

Bonam socchiude gli occhi poi li riapre, per un attimo crede di essere salvo.

«Non puoi parlare, ma non ce n’è bisogno, io so tutto di te Richard, ti seguo da quando avevi il corpo originale. Mi spiace di non potermi fermare a farti compagnia ma vedi, restano pochi secondi per attivare il processo con il quale prenderò il controllo del tuo corpo.»

Ravi si allontana per sedersi sul letto e con un colpo secco si pianta le sonde di ritenzione neurale nel collo.

«Non so se dopo molti reload la percezione del dolore sia attenuata come dicono, ma ti assicuro che non sei messo molto bene. Ho dovuto tenerti in vita, capisci? Ma non ti preoccupare, appena mi sarà possibile tornerò qui per darti sollievo.»

Con una mano stringe il bordo del letto e con l’altra abbassa la leva del loader. Il processo si attiva e la bocca del cannone scende a schiacciargli il torace.

Ai box è sceso il silenzio. Tutti i droni si sono spostati verso la tribuna dove il Governatore rilascia dichiarazioni sull’efficienza dei sistemi di sicurezza. Un tecnico è rimasto a sorvegliare l’apparecchiatura dell’incubatore. Milioni di investimenti andati in fumo in pochi secondi.

Si accende una spia, poi una seconda. Il primo abbattitore si scalda e il nuovo corpo di Bonam, già vestito di tuta, apre gli occhi. Il tecnico cerca di contattare la squadra ma la porta si è già aperta.

Il nuovo corpo di Richard Bonam si guarda le mani. Le apre e le chiude due volte, poi si rivolge al tecnico, sorride e allunga la mano. Il tecnico la stringe.

«Richard, sei tu?»

«È stato terribile, ma adesso è tutto finito.»

Il campione del mondo esce dall’incubatore e si ferma davanti ai box, aspetta che i droni si accorgano di lui. Sente le grida della folla. Sorride alla telecamera più vicina e solleva la mano per salutare il pubblico più lontano.

«Visto papà? Ė tornato!»

«Si, è andato tutto bene per fortuna.»

Bonam si sta avvicinando, devo stringergli la mano!

«Remì?»

«Sì papà?»

«Hai i pantaloni bagnati.»

Se c’è una cosa che non sopporto al mondo - una su tutte - è la doccia fredda alla fine di un allenamento. Con quello che paghiamo di quota mensile vuoi che non si possano permettere un convertitore molecolare decente? Anche se fosse, se adesso non funziona, che attivino l’impianto geotermico, mioddio. Saranno antiquati, ma il loro lavoro l’hanno sempre fatto. Invece niente, docce fredde e tanti saluti. È che sono dei pezzi di merda, nient’altro, dei pigri e menefreghisti di merda, perché tanto la gente viene qui anche se in giro è pieno di CPV migliori. Da quando il Responsabile di Area ha messo il Sigillo, questo Centro Polisportivo Virtuale sembra diventato la Mecca: vengono tutti qui, anche se le docce sono fredde e i ledwall hanno una risoluzione da Terza Guerra Mondiale. A un certo punto, oggi, sembrava di giocare con una palla da pallavolo. Ha voglia poi a urlare, l’allenatore, e a dire che siamo delle fighette e che non dobbiamo trovare scuse perché una volta si giocava su campi da basket veri, con palloni veri, e quando si prendeva una pallonata su un dito bene che andava il dito si gonfiava per una settimana. Anche il nonno di mio nonno, quando era ragazzo, giocava a calcio con palloni veri - erano nostalgici - e quando andava male, e il dito o la caviglia, anziché gonfiarsi e basta si rompevano, glieli bloccavano per un mese con una miscela di garza e gesso, ma parliamo di preistoria, che discorsi sono? E suo nipote, mio nonno, andava a caccia in 3D con la mascherina per la realtà virtuale, e allora? Oggi, per fortuna, ci sono skinpad e ledwall sferici che hanno mandato in pensione sia il 3D, sia le mascherine, ma se non vanno bene, se non sono di qualità, non è questione di fighette o di uomini duri, ma è questione di simulare una partita di basket con un pallone che ogni tanto si trasforma in una palla da pallavolo, ed è uno schifo. Punto. È questione di imprenditori che lucrano sull’attività sportiva dei ragazzini. Non certo sulla nostra, perché noi abbiamo la forza e il coraggio di lamentarci, ma i più piccoli si abituano a tutto e fra qualche anno sarà normale allenarsi con palloni che all’improvviso cambiano forma, colore, e destinazione, con docce fredde alla fine dell’allenamento, con vaporizzatori che anziché aromatizzare cuoio e parquet aromatizzano un campo d’erba medica in alta quota. Lo dico piano, perché non ho voglia di beccarmi un’altra denuncia da sovversivo dopo la faccenda del tridimessaggio che ho condiviso insieme a Drip, ma questa cosa del green è sfuggita di mano a tanti. Vorrei vedere, poi, se questo CPV se lo merita davvero il Sigillo. Dicono che le certificazioni siano accessibili a chiunque ne faccia richiesta, ma per registrarsi al Portale Governativo occorre una laurea in lettere e un corso di orientering digitale ché ci sono talmente tante parole da leggere (ho contato più di sette righe, fitte come le pagine di un vecchio libro di carta) e istruzioni e rimandi a link lenti e obsoleti, da farti passare la voglia, altro che disponibili a tutti.

Secondo Drip qualcuno ci mangia sopra, qualche pezzo grosso, proprio come succedeva prima della Guerra Indolore. Drip è un anarchico totale. Non crede affatto al nuovo Governo ed è convinto che la Guerra Indolore sia stata una farsa e che la decimazione della popolazione mondiale sia stata pilotata. “Dobbiamo ribellarci a questo Sistema, non lo capisci? Sarà mica un caso che adesso si vada tutti d’accordo? Possibile che nessun delinquente abbia votato per i vincitori?”

Non ha tutti i torti, ma se mettessimo in dubbio la legittimità delle elezioni come si spiegherebbe che tutta la popolazione mondiale, o quanto meno i nove decimi che la mattina dopo non si sono svegliati, abbiano preso la pillola collegata al proprio candidato? Nella preistoria, quando Trump e il koreano giocavano ai pistoleri sulla pelle della gente, era impensabile che un giorno i governi di tutti i Paesi del Mondo si mettessero d’accordo per un’elezione globale, anche se quella elezione, con lo sterminio dei perdenti, avesse risolto il problema del sovrappopolamento e allo stesso tempo avesse garantito nuova e prosperosa vita ai sopravvissuti; eppure la Guerra Indolore si è tenuta e la gente la pillola l’ha ingoiata. “Il tuo scetticismo è già una prova che nessuno ha manipolato le cose - gli dico - perché altrimenti uno come te sarebbe finito tra quelli che il giorno dopo non si sono risvegliati!”. Ma non mi sta a sentire e continua a inneggiare alla rivoluzione, come se i quaranta giorni di esclusione dalla rete per avere condiviso quel tridimessaggio, che sbugiardava un Sigillo apposto a un ricovero per anziani, non gli fossero bastati. A me sono bastati, eccome, ma tornando al Sigillo apposto a questo CPV devo ammettere che la penso come Drip, anche se nessuno lo dovrà mai sapere.

Prima di uscire dal Centro passo a dare un’occhiata alla sezione delle virtual-bike. Qui i monitor sembrano migliori - almeno questi che danno sul corridoio, in favore dei guardoni - e lo skin scanner funziona a meraviglia. Ogni volta che ci penso sono tentato di pagare l’upgrade dell’abbonamento e sbloccare il filtro dell’intimo, ma duecento crediti per vedere tette a penzoloni e chiappe sotto sforzo, per quanto questi corsi siano pieni di fighe, mi sembrano ancora una follia. E poi ci sono sempre quelle che se ne fregano delle regole e l’intimo schermato non lo indossano, e così mi godo lo spettacolo completo senza pagare. Brave ragazze, siete la salvezza della mia masturbazione, anche se venire a fare bicicletta virtuale in pausa pranzo e vestirsi tirate apposta per farsi spogliare dagli skin scanner, e addirittura non indossare intimo schermato, è davvero da depravati, ma siate benedette, amiche mie, e se un giorno non sapeste dove passare la notte sappiate che ho un mio modulo personale e lì dentro sarete sempre le benvenute. Potrei farvi vedere la Ghirlesca, per esempio, uno dei pochi esemplari di bicicletta ancora esistente sulla faccia della terra. Se vi dicessi quanto l’ho pagata all’asta online mi dareste del matto, ma sono un nostalgico: mio nonno - sì, sempre quello che andava ancora a caccia con la mascherina per la realtà virtuale - da bambino ne aveva avuta una e i suoi racconti sulle sensazioni che provava, il vento vero sulla faccia, le asperità del terreno, la catena che scricchiolava, le ruote che alla lunga perdevano la centratura e iniziavano a ondeggiare, mi hanno fatto innamorare di questo reperto. Una bella parte del modulo è occupato da quella bicicletta, ma un po’ di spazio per noi lo rimedio, non vi preoccupate.

Fuori dal CPV c’è il solito clima perfetto. Il telefono lenticolare mi fa intravedere i livelli di qualità dell’aria e segnala semaforo verde su tutti i fronti: Ozono a 14, Biossido di Azoto a 1,7, Biossido di Zolfo a 1, Monossido di Carbonio a 47, PM10 a 1,1, PM2,5 a 0,9. Le aiuole sono ben rasate, il cielo è azzurro, il sole splende, il fruscio degli “alberi del vento” - retaggio vintage di cui il Responsabile di Area va molto fiero - è l’unica distorsione in questo paesaggio apparentemente perfetto. La mia floatingboard è sospesa a pochi centimetri da terra, dove l’avevo lasciata. È l’unica, tutti gli altri avventori del CPV non si fidano e le portano dentro, negli armadietti, ma mai uno che si sia preso una denuncia. Se lo facessi io, o se lo facesse Drip, sono sicuro che ci prenderemmo subito un’ammenda di sette crediti per diffusione di sfiducia e malcontento. Va be’, poco cambia, finché ho questo modello antiquato a fluttuazione a trenta centimetri da terra non credo che venga in mente a qualcuno di portarlo via. Non che io pensi che ci siano malviventi in circolazione, sia chiaro, che magari qui fuori hanno piazzato dei recettori del pensiero; dico solo per dire.

Drip ha l’ultima versione, la W12, una figata pazzesca: fluttua a due metri da terra e non è più grande di un’impronta di scarpe misura 47. Costa milleottocento crediti, una follia. Io non potrei permettermela neanche se per tre mesi lavorassi un’ora tutte le sere e tutte le quattro ore nei fine settimana, ma suo padre ha chiuso un appalto con la Macro Area 25 per lo spurgo dei convertitori molecolari e non ho idea di quanto incassi ogni anno. Immagino che sia una cifra spropositata. Drip non è un frequentatore di questo CPV, che io sappia non lo è di nessun Centro Polisportivo Virtuale in genere, ma se mai venisse qua non lascerebbe di certo la sua floatingboard W12 incustodita nel parcheggio esterno, con la differenza che, rispetto a tutti gli altri che portano abusivamente le floating negli armadietti, anche lui, come me, sarebbe subito beccato dai droni governativi.

Arrivato a casa vedo lampeggiare il nome del mio amico tra me e il portone, do’ un colpo di testa verso sinistra e rispondo al lenticolare. “Ciao vecchio – esordisce, prima che io possa sentire il rumore di due gocce di Ipradim vaporizzate – hai idea di cosa ci sia da fare per domani a scuola?”

Gli chiedo se nell’Ipradim ci abbia messo anche qualche goccia di Nivomax200 perché mi sembra che sia giocato il cervello: “Drip, credi davvero che io possa averne idea? Ho loggato il registro e ho lasciato che sia la rete ad assolvere ai miei doveri scolastici, come sempre”.

“Cos’è che hai sciolto in rete, vecchio?”

“Assolto, Drip, non sciolto. Lascia stare, ho copiato, ok? Cosa mi dovevi chiedere? Non ci credo che mi hai chiamato per i compiti”.

“Si, vabbè, non solo per quello…”.

“Sei solo a casa anche oggi?”

“Sì vecchio, e non c’è niente da mangiare, lo sai com’è fatta mia madre”.

“Vieni da me, non c’è problema. Questa mattina, prima di uscire, ho visto che la soia è arrivata a maturazione e ci devono essere anche delle fave di tonca e del seitan olandese”.

“Come cazzo fate a coltivare quella roba, vecchio? Sarà che mia madre non ci ha neanche mai provato e continua a spendere barche di crediti per comprare due filetti di pesce, che neanche mi piace”.

“Non siete una famiglia normale Drip, con quello che spendete a ogni pasto noi ci mangiamo per un anno intero”.

“In effetti sono dei ladri, vecchio, non si possono pagare tutti quei crediti per un etto di carne o due filetti di pesce, cazzo”.

“Ma tu hai idea di quanto costi allevare dei pesci in condizioni del tutto naturali, e aspettare che terminino il loro ciclo vitale, prima di poterli uccidere per farne cibo? E allevare un bue? Hai mai visto quanto è grosso un bue?”

“Perché non mettiamo su un allevamento, vecchio? Faremmo una montagna di crediti”.

“Perché ci vogliono generazioni prima di poter monetizzare anche uno solo di quegli animali, e nel frattempo cosa facciamo? Ci sarà un motivo per cui i maiali girano solo tra ricchi sfondati, no? La frase “Un maiale è per sempre” non è solo una pubblicità che riflette l’amore di chi lo regala, ma anche la vita di quel fottuto suino, Drip, ché muori prima tu davanti alle tue console, tempestato di skinpad sessuali, che quelli, all’aria aperta, serviti e riveriti. E non credo che a te ti potrei macellare”.

“Ho capito, va, continuiamo a restare schiavi del Sistema. Di’ a tua madre di preparare qualcosa anche per me, che arrivo”.

Drip è un caro amico, ma a forza di svapare sostanze strane credo davvero che si sia giocato il cervello. Mettere su un allevamento di animali. Come gli può saltare in mente?

Finiamo di cenare e Drip si mette a fare un pippone a mia madre. “Signora Caselli lei è davvero il prototipo della donna ideale, credo che nessuna sia in grado di gestire la casa e il giardino alimentare pensile come lei. Se mio padre avesse avuto la fortuna di incontrarla prima che lei avesse preso marito, anziché incontrare quella negata di madre!”. Pippone che la signora Caselli, mia madre, assorbe come una spugna di mare. Facciamo ancora due chiacchiere, ma prima che mia madre si monti la testa e si metta a raccontare tutti i segreti della casalinga perfetta ce ne andiamo in stanza, ognuno a casa propria, davanti alle console, per finire di discutere tra noi mentre scongiuriamo l’ennesima invasione di alieni.

La mattina dopo, la sveglia mi richiama a quella che ci è dato considerare realtà. Col dubbio in testa che alzarsi tutti i giorni alle otto e trenta, per farsi tre ore di scuola, non sia umano, butto giù il mio bicchiere di balanced breakfast e riprendo il mio ruolo in quello che certamente è il gioco virtuale di una qualche forma di vita superiore. Per strada è tutto perfetto. Per ogni macchina che fluttua in una direzione ce n’è una che fluttua nella direzione opposta. Il sole del mattino le avrà già ricaricate per l’intera giornata, qualsiasi sia il loro tragitto, e guardarle scorrere ha lo stesso effetto di arare un piccolo giardino zen da scrivania, quelli con la sabbia dentro e il rastrellino di legno, talmente sono armoniche e silenziose. Tallone e Ragno, i nostri vicini di casa omosessuali, passeggiano con le loro carrozzine uguali. Da quando hanno ottenuto le gemelline, la loro prima missione si è completata e i ventimila crediti che si sono ritrovati in conto li hanno resi ancora più felici. Ma un conto sono i vicini, un altro sono le piccole, che prima o poi cresceranno. Voglio vedere se saranno grate ai padri quando dovranno iniziare a fare a metà di ogni pagnotta. Per fortuna il mio, di padre, se n’è andato di casa poco dopo che sono nato, così mia madre non ha dovuto pensare a sfornarmi una sorella per ristabilire l’equilibrio familiare. Ventimila crediti fanno comodo a chiunque, la politica di bilanciamento della popolazione del Nuovo Governo è generosa ed efficace, ma ringrazio la sorte che sia riconosciuta come perfetta anche la famiglia di due persone, perché condividere la mia vita con una sorella non rientra davvero nelle mie aspettative.

Fuori dalla scuola trovo Drip e Medusa, come ogni mattina. Lui è avvolto nella solita nuvola di vapore, lei è bella da fare paura. Drip il problema della sorella non l’ha avuto, suo padre tira su talmente tanti crediti col lavoro, da non avere bisogno dei ventimila del programma. Medusa, invece, è figlia singola per contestazione: ai suoi genitori ventimila crediti servirebbero come l’aria che si respira, intonsa e pulita, ma si sono rifiutati di piegarsi alla logica del Governo, il figlio maschio non l’hanno concepito, e dopo di lei hanno chiuso bottega. Non dico che non facciano sesso, non sono i tipi, ma hanno deciso di non sbattere al mondo un’altra creatura, e per questo li stimo tantissimo, oltre che per avere generato Medusa.

“Arrivare due minuti prima, per una volta, no eh?” mi rimprovera Medusa con quelle labbra morbide e sensuali. Potrebbe anche darmi del tecnologicamente disadattato, che provocherebbe comunque la mia eccitazione.

“Ragazzi, la vita è talmente perfetta che due minuti di ritardo sono l’errore necessario a renderla reale. Vogliamo combatterlo questo Sistema, o ci dobbiamo sempre conformare come il resto dei sopravvissuti?”

“Lucio, tu sei la personificazione del ragazzo modello, l’anticristo della ribellione, sei il ragazzo del futuro, l’unica volta che hai alzato la testa ti sei beccato una denuncina da sette crediti ed è bastata a rimetterti in riga. Lo sai bene che la tolleranza dei ritardi è di due minuti e mezzo e che i tuoi due minuti non fanno impressione a nessuno, non fare il fico”.

“Drip, ma vaffanculo”

Esaurito il ciclo dei saluti entriamo in classe e ci apprestiamo ad affrontare la nostra lunga mattinata di studio.

Un pomeriggio in cui non ho allenamento, Medusa mi manda un messaggio per chiedermi se ho voglia di andare con lei a fare un giro fino al lago. Dice che ha trovato in rete qualcosa di speciale e che lo vuole condividere con me, perché saprei apprezzare. È un po’ lontano, il lago, ma l’idea mi alletta. Prima di risponderle controllo se lo scooter è carico, ché non possiamo andare fino laggiù con le floatingboard. Segna 90%, anche se gli accumulatori stanno battendo gli ultimi colpi dovremmo riuscire ad andare e tornare senza problemi, per cui le rispondo dicendo che per me si può fare. Non presto attenzione alla storia della sorpresa perché, a differenza mia, Medusa in rete non acquista mai nulla per cui al massimo avrà trovato un articolo curioso, o una foto particolare, forse che riguarda Drip, o forse qualche altro amico comune, ma dubito, in ogni caso, che possa riguardare me e che mi debba preoccupare.

Quando la passo a prendere la trovo già pronta sotto casa, con una borsa termica a tracolla. Evito di chiederle anticipazioni e rimando l’effetto wow a quando saremo arrivati al lago.

Lungo il tragitto vedo sfilare alberi su entrambi i lati del percorso, in numero e specie uguale, tanti e tali da una parte, altrettanti e tali dall’altro. Lo scooter fluttua mantenendo un ottimo equilibrio nonostante gli anni e gli acciacchi, e nonostante la borsa frigo di Medusa che pesa solo da una parte. Fino adesso ho glissato sia sul contenuto di quella borsa, sia sulla sorpresa, che inizio a pensare coincidano, ma spero che Medusa, appena arriveremo, sciolga ogni riserva. Invece così non è.

“Devi avere ancora un attimo di pazienza”, dice quando le chiedo spiegazioni “prendiamo una barca, ti va di remare?”

C’è un noleggio di piccole imbarcazioni a remi: un credito all’ora, quattro crediti per tutta la giornata. “Chi prenderebbe mai una barca a remi per tutta la giornata?” chiedo a voce alta. L’ho fatto sovrappensiero, senza rivolgermi a nessuno, ma Medusa mi risponde: “Il lago è talmente vasto, che se qualcuno volesse anche solo attraversalo, da una sponda all’altra, non credo che basterebbe una giornata”.

“Accidenti, ci si può anche perdere allora”

“Perdere non credo”

“Già, i droni governativi vedrebbero tutto e arriverebbero in soccorso”

Medusa non replica, e si avvia verso il noleggio di imbarcazioni. Sono tutte in fila a pelo d’acqua, lungo cinque moli che si estendono per venti metri da riva verso il centro del lago. Neanche a dirlo, da una parte e dall’altra di ogni molo c’è lo stesso esatto numero di imbarcazioni. Mi chiedo cosa accadrà quando noi ne prenderemo una, come verrà ristabilito l’equilibrio perfetto? Striscio la tessera nel lettore e sblocco la prescelta. Non c’è bisogno di stabilire adesso quanto tempo terremo lo scafo, l’addebito verrà calcolato in automatico quando lo riporteremo indietro.

Salgo per primo, mi faccio passare la borsa frigo e poi aiuto Medusa a salire.

Mentre remo in maniera goffa e sgraziata, accorgendomi da subito che è tutta un’altra cosa rispetto ai vogatori virtuali, Medusa, seduta da vanti a me sulla base dello scafo, schiena inarcata e mani appoggiate all’indietro, mi guarda con i suoi occhi neri, ma soprattutto con le sue tette strepitose, che non riesce a nascondere sotto gli ampi maglioni. Parliamo di Drip, della scuola, parliamo anche della notizia che in questi giorni sta circolando in rete: in alcune Aree del Mondo è permesso controllare geneticamente, oltre al sesso dei nascituri, anche altri fattori come gusti, tendenze sessuali, predisposizione verso materie umanitarie o scientifiche, e ci confrontiamo sull’opportunità di portare questa innovazione anche all’interno della nostra Area. Ok, è Medusa a parlare e ad esprimere la propria opinione su questa cosa, definendola l’ennesima follia del Nuovo Mondo, perché a me in realtà non frega niente. Io remo e annuisco, e continuo a perdermi nell’ondeggiare delle sue tette. Quando perdiamo di vista la riva dalla quale siamo partiti, Medusa smette di parlare e fissa il vuoto per qualche secondo. Intuisco che stia controllando qualcosa sul telefono lenticolare. Vedo le sue pupille muoversi nel vuoto. Non posso immaginare cosa stia imputando, o cercando, attraverso le proprie sinapsi, ma dopo pochi secondi torna a guardare me e finalmente mi dice che ci possiamo fermare.

“Qui? Nel mezzo del nulla? A me va bene, ma perché non potevamo fermarci prima?”

“Perché abbiamo raggiunto la zona cieca. In questo punto i droni governativi non arrivano, sono a corto raggio e tutte le basi di decollo più vicine lasciano scoperta la stessa piccola zona, questa zona, per un raggio di una ventina di metri e basta, quindi butta giù l’ancora e stai bene attento a che non ci spostiamo da questo punto”.

“E tu come fai a saperlo?”

“Lucio, sui blog sovversivi si trova di tutto. Nella nostra Area ci sono tre zone cieche e questa è una, la più vicina”.

“Mah, sarà vero? E perché siamo venuti qui?”

“Per la sorpresa. Tu sei un nostalgico, non è vero? Con la bicicletta che tieni appesa nel tuo modulo e tutte le storie che racconti sui tuoi antenati, ti piace il vintage. In rete, oltre alla mappa delle zone cieche, ho trovato queste due chicche…” e apre la borsa termica per tirare fuori una bottiglia di Pampero, un liquore, esattamente un rhum, che si trovava in libera circolazione prima della Guerra Indolore, e una bottiglietta di Coca Cola da mezzo litro, di plastica.

“Ma tu sei fuori!” grido soffocando la mia voce per paura che i droni ci possano sentire. “Liquore e plastica, se ci vedono ci tolgono trentamila crediti a testa. Mettili subito via!”

“Tranquillo, dove siamo adesso non ci può vedere nessuno. Hai mai sentito parlare di Coca e Rhum? Dicono che sia una combo perfetta. Non è forse il Governo a dire che si deve puntare sempre alla perfezione?”

“Santoddio Medusa, sì, ma il liquore è bandito, e la plastica… la plastica è un derivato del petrolio, ti rendi conto? La cosa più lontana dalla biodegradabilità che ci fosse nel Vecchio Mondo. L’abbiamo anche studiato a scuola, no? Il petrolio, l’oro nero, le guerre. Medusa, a due come noi non basta una vita per accumulare trentamila crediti, questa sarebbe una sorpresa?”

“Stai tranquillo, ti ho detto che siamo in una zona cieca. E poi la sorpresa non era solo questa”

“Oh cielo, altro ancora?”

“Che fifone che sei Lucio, mi stai facendo pentire della mia idea”

“Quale sarebbe questa idea?”

“Brindare a Rhum e Cola, come facevano una volta, prima che il Mondo fosse inquadrato e reso equilibrato e perfetto, e fare sesso con te, ma se credi che i droni ci possano vedere…”

Quindici minuti dopo, io e Medusa siamo sdraiati sul fondo della barca a remi, pelle contro pelle, parte di me dentro parte di lei, mentre la bottiglia di plastica, vuota, galleggia a filo d’acqua e va a disperdersi su qualche sponda del lago, dove impiegherà tra i cento e mille anni prima di degradare ed essere completamente smaltita.

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"The Dessert: Harmony in Red", titolo che arriva direttamente da una dipinto di Henri Matisse. Come sempre potete ispirarvi all'opera originaleoriginale e prendere qualsiasi direzione troviate inerente.

Le regole, sempre le stesse:

I racconti (inediti) devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it

La lunghezza massima (e vivamente consigliata) è di quattromila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office (doc, docs, odt).
Il titolo deve essere composto dal vostro nome-cognome e da "The Dessert".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Scadenza 30 ottobre2017.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito e a mettere un like alla pagina facebook. Sarà più semplice comunicare e potrete seguire ogni nostra iniziativa.

 

Cosa si vince?

I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it

 Entro fine  dicembre 2017 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

Link a Prospettive, l'ebook della prima antologia.

Polvere. La vedo tra i fascicoli che giacciono sulla scrivania. La vedo danzare nella luce mentre ne sfilo uno dalla pila. Era rimasto lì sepolto, tra un rinvio a giudizio e l’altro. Non conviene intentare una causa, specie in Italia, in cui i tempi della giustizia sono tanto lunghi, se non vi si ha un reale interesse economico. Le questioni di principio vanno affrontate altrove, affidate al confessionale di una chiesa, rimesse all’ascolto creativo di uno psicanalista, risolte, nella migliore delle ipotesi, con una lunga discussione e un invito a cena. In ogni caso la violenza non serve, può solo peggiorare le cose. E’ per questo che da anni mi occupo solo di diritto penale commerciale, casi di spionaggio industriale e affini, lasciando ad altri la consulenza nel diritto civile. Nello studio in cui lavoro - un grosso studio legale di Milano - entrano solo uomini d’affari. Chiedono a me e ai miei soci di stendere i contratti in grado di garantire alle loro aziende i migliori profitti, tutelarsi contro i reclami, rimettere sul consumatore, quanto più possibile, la responsabilità di un guasto o del malfunzionamento del prodotto o di un servizio.

Oppure tutelare i propri dipendenti dal logorio psicofisico cui può esporli un lavoro di routine. Le cause di diritto del lavoro possono essere molto gravose per un’azienda: meglio evitare, meglio prevenire. Ci sono anche clienti che ci credono, intendo al benessere dei loro dipendenti, perché migliorare le condizioni di vita delle persone li fa sentire migliori, un po’ come fare beneficienza. E’ quanto ho imparato negli Stati Uniti, dove per beneficenza si organizzano eventi di ogni genere, a volte vere e proprie gare, per finanziare ricerche e gallerie d’arte, dare aiuto ai senzatetto, purificare l’acqua in regioni del mondo in cui non è utilizzabile, in sostanza per mettere a tacere il senso di colpa di persone benestanti verso chi ha meno di loro o esprimere, anche in quell’ambito, la competizione.

Quando ero bambina non avevo mai pensato che un giorno sarei potuta andare a vivere negli Stati Uniti. Per la verità ne ho dubitato o non ci ho pensato fino al mese precedente alla partenza. Sono cresciuta, figlia unica, affidata alle sole cure di mia madre. Mio padre l’ho visto poco, era sempre al bar a bere e le sue condizioni di salute, per via dell’alcool, sono via via andate peggiorando fino alla cirrosi epatica, che se l’è portato via in breve tempo quando io avevo otto anni. Era violento con mia madre, e lei non ha mai battuto ciglio, troppo occupata a mandare avanti la nostra specie di famiglia, e a sfruttare ogni centesimo che guadagnava per farmi studiare e per coprire le interminabili cure mediche di mio padre.

Mia madre faceva le pulizie. Vivevamo in piccolo appartamento alle porte di Milano. Ci siamo salvate grazie alla polvere, manciate, strati di cui si patinavano le scrivanie. Si metteva in bici la mattina presto, prima che io mi alzassi per andare a scuola, mentre mio padre giaceva addormentato sul divano. Lasciava il tavolo della colazione apparecchiato, legava dietro la nuca un fazzoletto che la proteggeva dal freddo, e si incamminava. Fu molti anni dopo la morte di mio padre, che prese a fare le pulizie presso uno degli studi legali del paese. Io all’epoca studiavo alle superiori, frequentavo ragioneria per poter avere subito un impiego al termine dei miei studi.

Conosco perfettamente le mansioni della segreteria cui ho appena dettato una lettera di lavoro, perché è da lì che ho cominciato. E’ come segretaria che, dopo il diploma, ho iniziato a lavorare in questo studio legale, lo stesso in cui mia madre aveva lavorato come donna delle pulizie. Fu proprio l’avvocato a proporglielo.

Disse:

-Me la faccia conoscere, ho bisogno di un po’ d’aiuto, poi magari chissà.

Ricordo ancora quando mia madre me lo propose, un sabato mattina, io al tavolo della cucina davanti al caffelatte e lei in piedi sulla soglia, il fazzoletto in testa e le mani unite, all’altezza del ventre. Ricordo ancora la luce di speranza nei suoi occhi.

-Sarebbe un lavoro sicuro e ben pagato. Poi magari chissà.

Facevo un po’ di tutto e mi recavo spesso in tribunale per notifiche di atti e altre mansioni da galoppino. L’avvocato credeva in me, diceva che ero sveglia, e mi incoraggiò a iscrivermi all’Università l’anno dopo: si sarebbe occupato lui della retta. E così fu, il primo anno, dopo molte riluttanze. Volevo essere autonoma, farmi da me, e gli anni successivi sono sempre andata avanti con borsa di studio. Fu sempre sua, quando stavo per laurearmi, l’idea di fare dell’esperienza all’estero presso un’ Università straniera, Inghilterra o Stati Uniti. Erano gli anni ottanta, grandissima crescita economica e sociale, e l’avvocato aveva iniziato a espandere il suo giro di conoscenze tra gli industriali.

Le aziende si aprivano al mercato estero, in cui il Made in Italy era diventato il nuovo status symbol, e c’era bisogno che qualcuno conoscesse l’inglese e si occupasse dei contratti internazionali. Sarebbe stata la sua nuova forma di business, e insieme saremmo stati pionieri di quell’avventura. L’avvocato mi parlava del King’s college di Londra e dell’ateneo di Harvard, di cui non sapevo quasi nulla se non per averne sentito parlare in qualche film. Erano anni in cui i giovani iniziavano a girare per l’Europa, spesso, durante l’estate. Si mettevano in treno con un biglietto Interrail e visitavano le principali capitali: Londra, Dublino, Vienna, Monaco. Visitavano i musei, le piazze con i monumenti, per poi lasciarsi trasportare dalle abitudini e tradizioni del luogo, la cucina, i concerti e ripartire alla volta di un’altra città.

I miei amici, quelli appartenenti a famiglie un po’ più abbienti, raccontavano delle loro esperienze e sembrava meraviglioso, ma io volevo laurearmi e diventare indipendente il prima possibile. Vivevo ancora con mia madre, che nel frattempo aveva smesso di fare pulizie presso lo studio, ed era andata a fare assistenza quasi fissa a una famiglia, in cui la nonna aveva bisogno di una badante, oltre che di una dama di compagnia. Spesso trascorreva da loro anche la notte e io, sempre più assorbita da lavoro e studio, la vedevo sempre meno. Ogni tanto tornava a casa, i polsi segnati di viola; le chiedevo cosa fosse e lei rispondeva che si era bruciata col forno, o ustionata con l’acido muriatico.

Per la verità non ci facevo molto caso, ché quando c’era mi accontentavo di stare un po’ con lei, per poi dedicarmi agli altri collaboratori dello studio - procuratori o avvocati – con i quali avevo iniziato a fare amicizia. Confrontarmi con loro era prezioso anche per capire cosa avrei voluto fare davvero “da grande”, o come funzionava quel mondo in cui muovevo i primi passi. Mi bastava sapere di essere sempre più padrona della mia vita e sapere che sia io che mia madre in qualche modo ci stavamo facendo la nostra vita come meglio potevamo, andando avanti in maniera dignitosa.

Mi feci convincere dall’avvocato a dare la tesi all’estero, presso la prestigiosa Università di Harvard. Furono mesi intensi in cui misi in gioco tutta me stessa. L’inizio non fu facile, soprattutto per via della lingua che non conoscevo così bene, poi tutto migliorò: studiare, ma anche confrontarmi con persone di ogni parte del mondo, alcune delle quali sento ancora a distanza di anni. Fu meraviglioso entrare a contatto con una cultura in cui i professori davano del tu agli studenti, e li spronavano a dare il proprio contributo.

Era diverso rispetto al panorama accademico italiano in cui vi era un certo distacco tra studenti e docenti, il cui sapere non veniva mai messo in discussione. In più, ero entrata a contatto con una cultura che favoriva l’accesso della donna a ogni settore della società, dalla ricerca, alle cariche politiche e manageriali. Ne veniva promosso lo sviluppo, l’inserimento, il rispetto. Vi erano delle contraddizioni nella cultura americana ma da quel punto di vista la consideravo un’ideale cui l’Italia avrebbe dovuto aspirare. Sul finire di quell’esperienza mia madre mi avvertì di essersi ammalata di epatite b, molto probabilmente a causa del contatto con l’anziana signora, che a sua volta l’aveva contratta in ospedale per via di una trasfusione. Non esitai e rientrai in Italia, com’era necessario. Mia madre guarì, anche se il suo fegato, oramai minato, la rese dipendente da alcuni farmaci.

A parte ciò, i segni sul suo corpo restavano e iniziai a insospettirmi. Insistetti a chiederle se andava tutto bene, come se li era procurati e profilai l’ipotesi di un maltrattamento. È lì che avrei dovuto approfondire, invece che lasciar perdere e restare concentrata sulle mie cose, ma il senno di poi non ha mai fatto la fortuna di nessuno. In paese girava voce che il genero della signora avesse le mani pesanti, sia con la moglie che con la suocera, ma le avevo ritenute dicerie e mia madre faceva la vaga. Mi ripeteva che era stanca, ma che le era necessario continuare a lavorare perché la retribuzione era buona. Trascorsero altri due anni, oramai mi muovevo con sicurezza in ambito giuridico, supportando l’avvocato e facendo fruttare i contatti che avevo preso negli stati uniti per sviluppare forme di commercio internazionale di cui curavo la contrattualistica, e potei andare a vivere da sola, in affitto.

Venne anche il giorno, indimenticabile, in cui superai brillantemente l’esame di abilitazione alla professione di avvocato. Festeggiai con un po’ di amici e il mio fidanzato, un giovane magistrato conosciuto a una cena sociale. Pochi giorni dopo, mia madre non si sentì bene e solo a quel punto mi confessò di ricevere percosse dal genero della signora anziana. Non c’era un motivo, lo faceva nei giorni in cui aveva avuto una giornata difficile o era particolarmente nervoso, lo faceva per spazzare via la rabbia o la frustrazione, ciascuno di noi a suo modo può avere uno strato di polvere nella sua vita. Nonostante la riluttanza di mia madre le imposi di interrompere subito quel lavoro e feci in modo di far disporre delle intercettazioni, eravamo ormai ai primi anni novanta, ma non servirono a molto per certi aspetti.

Mia madre fu trovata morta ai piedi della sua bicicletta una sera d’inverno. Il fegato, fiaccato dall’epatite, aveva ceduto a seguito di un calcio che era stato fatale, e aveva mandato tutto il corpo in arresto. Un corpo senza vita, per strada, tra foglie e polvere. L’uomo, adirato per come si erano messe le cose, fu individuato grazie alle telecamere di sorveglianza di una banca lì vicino. Ho vinto il processo per omicidio colposo contro quel mostro. La sentenza non me l’ha restituita, ma mi piace pensare possa essere un disincentivo a delinquere, e un incoraggiamento a tutte le donne perché denuncino chi getta polvere sulla loro serenità. Il tassello minuscolo di un mosaico. Dal 2013 i casi di femminicidio sono aumentati del cinquanta all’anno, dicono che alla base vi sia una concezione della donna come oggetto, fonte di possesso, priva di emozioni.

Gli studi dicono vi sia paura di abbandono o istinto di vendetta verso le vittime. Così cerco di insegnare a mia figlia a difendersi in caso di pericolo, e a mio figlio a rispettare le donne, chiunque esse siano, anche ora che riapro questo fascicolo, da cui esce un filo di polvere.

L’oggetto più simile al moderno aspirapolvere fu ideato nel 1908 da James Murray Spangler, un portinaio originario dell’Ohio. Si trattava del bizzarro assemblaggio di un ventilatore, una scatola e un cuscino, ma il brevetto, venduto alla società di un cugino, la Hoover Harness and Leather Goods Factory, fece di William H. Hoover un magnate nel campo degli elettrodomestici, e dell’aspirapolvere un articolo di lusso e oggetto del desiderio di ogni casalinga. Intorno al 1920, la ditta tedesca Vorwerk, che fabbricava tappeti, convertì la sua produzione in grammofoni. Dopo un iniziale successo, l’avvento della radio li rese obsoleti e gli affari precipitarono, finché non si pensò di utilizzare i motori dei grammofoni invenduti per realizzare un nuovo modello di aspirapolvere. Il primo prototipo uscì sul mercato nel 1930, e, grazie a un efficace sistema di vendita porta a porta, divenne un oggetto molto diffuso, tanto da venire esportato anche in Italia, dal 1938, con il nome di Folletto. Nel 1949 il numero di apparecchi venduti raggiunse lo strabiliante traguardo del milione.

Emma e Vittorio si conobbero nel marzo di quello stesso anno, per una banale coincidenza: lui, agente di commercio di ritorno da un giro di visite, si era ritrovato con una gomma a terra nei dintorni della biblioteca comunale in cui lavorava lei, come vice direttrice (con buone speranze di eliminare il “vice” entro un paio d’anni, quando la direttrice in carica, la Signorina Turbati, si sarebbe finalmente ritirata per godersi la pensione). Vittorio era entrato in biblioteca per usare il telefono. Emma aveva alzato gli occhi dall’elenco di libri che stava controllando e aveva visto all’ingresso un ragazzo dall’aspetto piuttosto ordinario, ma in evidente difficoltà, che allungava il collo cercando con lo sguardo qualcuno che lo potesse aiutare. Si diresse verso di lui, si presentò e, una volta che Vittorio le ebbe spiegato cosa gli era accaduto (“Un mio amico fa il meccanico, e ha l’officina proprio da queste parti. Se sono fortunato lo troverò ancora lì” le disse), lo accompagnò nell’ufficio della signorina Turbati, dove gli indicò il telefono. Uscì dalla stanza, ma rimase dietro la porta appena accostata. Sentì che Vittorio dava alcune indicazioni alla centralinista e poi: “Mamma, sono io. Ti sto chiamando dalla biblioteca, ho forato. Non ti preoccupare, sto bene, non è niente di grave.” Il suo tono si era fatto più dolce, come se stesse rassicurando un bambino molto piccolo appena svegliato da un brutto sogno. “No, penso che lascerò l’auto qui e tornerò a casa a piedi. Certo mamma, faccio prima che posso.” E riagganciò. Emma si meravigliò di quella bugia, per quanto innocente: perché inventare la storia del meccanico quando voleva solo avvisare la madre? Certo non si era comportata meglio lei, stando a origliare la conversazione privata di un figlio affettuoso.

“Se non ha fretta, posso accompagnarla a casa io: tra dieci minuti stacco e fuori sta per piovere”. Neanche lei sapeva da dove le fosse uscita una frase così sfacciata. Era stato come sentire la voce di un’estranea. Ma quel ragazzo aveva qualcosa che destava il suo interesse. Sul viso di Vittorio passarono prima la sorpresa, poi l’imbarazzo per quella proposta, e ad Emma parve che stesse per rifiutare, ma poi lanciò uno sguardo fuori dalla vetrata, in fondo al corridoio della biblioteca, e da lì all’orologio, calcolando (o almeno così parve a lei) quanto tempo avrebbe impiegato andando a piedi e quanto invece aspettando che lei smontasse e lo accompagnasse in macchina. “La ringrazio, ma vede, a piedi non mi ci vorranno comunque più di cinque minuti, mia madre mi sta aspettando a casa, e sarà in pensiero, con la storia della gomma bucata e il resto… E poi non voglio che faccia tardi a causa mia, farà stare in pensiero qualcuno…”. Emma fu più decisa di lui: “Posso uscire prima: capita spesso che mi trattenga qui oltre l’orario e se recupero dieci minuti non avranno da obiettare… E comunque vivo sola, non c’è nessuno a stare in pensiero”. Mentre infilava al volo il cappotto e recuperava la borsetta, si rese conto che mai, in quei tre anni, era uscita un minuto prima dell’ora prestabilita. Nemmeno per un raffreddore o per un’emergenza. “Ebbene, c’è sempre una prima volta” pensò senza parlare.

Il tragitto in macchina fu brevissimo, ma molto piacevole, per entrambi: Vittorio sembrò tranquillizzarsi alla prospettiva di arrivare a casa senza ritardi, Emma provò il brivido di una cosa nuova, e scambiarono quattro chiacchiere stando sulle generali. Arrivati davanti al vialetto della sua palazzina, Vittorio vide una luce accesa in casa e fu preso da una smania improvvisa: la salutò in fretta, profondendosi pur sempre in mille ringraziamenti, e, sceso dall’auto, corse fino alla porta di casa, il bavero del paltò alzato fin sopra le orecchie per proteggersi dalla pioggia che aveva iniziato a cadere. Le sembrò uno scolaro che affretta il passo al suono della campanella, più che un uomo che cercava riparo dal temporale, e sentì affiorare un’ondata di tenerezza.

Inaspettatamente, la mattina dopo Vittorio fece il suo ingresso in biblioteca stringendo tra le mani un mazzolino di fiori, che depose sul banco all’ingresso sotto gli occhi sbalorditi di Emma. “Mi sembra il minimo, per ringraziarla di quanto ha fatto per me ieri sera. Posso invitarla a pranzo?”. Emma naturalmente accettò, e a quel pranzo ne seguirono molti altri, e dopo i pranzi vennero le domeniche pomeriggio ai giardini pubblici, se il tempo lo consentiva, e le passeggiate prima di cena, quando le giornate iniziarono ad allungarsi. Un pomeriggio di aprile lui le prese la mano, ed Emma lo lasciò fare.

Un giorno, Vittorio si presentò ad Emma nervoso e trafelato: era evidente che doveva chiederle qualcosa, ma non sapeva come affrontare l’argomento- “Emma, mia madre vorrebbe conoscerti”. Lei provò un immediato e intenso sollievo: era dunque solo questo? Bene, avrebbe conosciuto la madre di Vittorio. Voleva forse dire che a breve le avrebbe chiesto di sposarla? Emma pensò al suo appartamentino, lo immaginò vuoto, la sua vita impacchettata in qualche baule, pronta per essere spedita a un indirizzo nuovo, e provò una stretta al cuore. Le sue amiche, tutte già sposate, sembravano condividere a riguardo un oscuro segreto. “Un passo alla volta”, si disse. E poi che male le avrebbe potuto fare quella donnina bisognosa solo di affetto e di rassicurazioni?

La domenica successiva suonò al campanello della palazzina dove viveva Vittorio con sua madre. Le aprì una donna più bassa di lei, della quale per prima cosa la colpì la particolare sottigliezza delle estremità: era come se uno scultore, arrivato il momento di modellare mani, piedi e cranio, avesse terminato l’argilla. Il viso, soprattutto, era affilato e spigoloso. Il naso, leggermente aquilino, sembrava intagliato dal vento. Alcune ciocche di capelli, chiari e sottili, volavano dalle tempie verso le orecchie, come penne di un uccello in picchiata. Gli occhi erano due spilli irrequieti. Durante le presentazioni, frettolose, sulla soglia, le labbra sottili si incresparono in un sorriso, poi la madre di Vittorio si ritrasse per farla entrare. Emma notò che, nonostante l’abbigliamento - non alla moda, ma curato - aveva le movenze rapide e la postura da cameriera. Si accomodarono in un salottino che diede ad Emma l’illusione di trovarsi nella vetrina di un negozio di arredamento: non perché vi fossero dei pezzi di particolare pregio, anzi la mobilia era del tutto ordinaria, ma perché sembrava il set di un film che doveva ancora essere girato. Non c’erano segni di occupazione - segni di vita, pensò - non c’era nulla fuori posto, ma l’ordine estremo, la disposizione dei pochi oggetti, le pieghe perfette e i cuscini senza un’ombra di sgualcitura, rendevano il tutto piuttosto impersonale. Era come prendere il caffè nella hall di una pensioncina di provincia. La madre di Vittorio sembrava riuscire a stare seduta sul piccolo divano senza toccarlo. Né in quell’incontro, né nei successivi avvenne nulla di evidente. Il tutto si svolgeva sempre secondo lo stesso copione: dopo i rapidi convenevoli, Vittorio e sua madre iniziavano a chiacchierare del più e del meno, e lei semplicemente scompariva. La madre di Vittorio le passava attraverso con il suo sguardo cortese ma indifferente, come se anche lei facesse parte dell’arredamento, o come se fosse un’ospite straniera che non parlava la loro lingua. A ogni visita, in particolar modo per le occasioni speciali come il compleanno della signora, Emma portava in dono, secondo quanto le era stato insegnato, un piccolo pensiero: un mazzo di fiori, un libro, dei pasticcini, che venivano immediatamente abbandonati in un angolo oppure occultati in cucina e ignorati per il resto del pomeriggio. Per contro, mai nulla aveva compiuto il percorso inverso, dalle mani della madre di Vittorio alle sue: non un pensiero, non un oggetto, anche di nessun valore, non un biglietto di auguri, che fosse il suo compleanno, o Natale, o Pasqua. Emma era certa che quelle visite avvenissero per volontà di Vittorio, che non fosse mai lei ad invitarla. E la donna le affrontava con lo stesso spirito con cui Emma immaginava si dedicasse alle faccende di casa: rassegnazione, indifferenza e l’intenzione di farle durare il meno possibile. Contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, Emma sentì che più passava il tempo e più la donna la trattava con freddezza. Nei rari momenti in cui il figlio non era presente, non perdeva l’occasione di lanciarle frasi ambigue. Capitò che si incrociassero per strada e che distogliesse lo sguardo, fingendo di non averla vista. Un paio di volte, Emma tentò di spiegare a Vittorio le sue sensazioni, ma non appena le prime parole le uscivano di bocca si andavano ad infrangere contro una scogliera impenetrabile: sua madre era fatta così, certo era una donna poco espansiva, ma quello era il suo carattere, e poi forse Emma era troppo suscettibile, faceva caso a particolari insignificanti, a gesti senza importanza e fatti in buona fede; e si disperdevano in una nebbiolina inconsistente. Emma cercava di pensare che, se mai lui glielo avesse chiesto, era Vittorio che avrebbe sposato, non sua madre, e l’attaccamento che provavano l’uno per l’altra avrebbe sempre appianato qualsiasi questione.

La proposta arrivò, ed Emma e Vittorio si sposarono l’autunno seguente. Si trasferirono in un appartamentino che si era appena liberato sullo stesso pianerottolo della madre di Vittorio. Le visite domenicali divennero incontri quotidiani, tanto sgradevoli quanto inevitabili. Ogni sera, dopo il lavoro, Vittorio passava a salutare la madre prima di rientrare a casa. Un sabato pomeriggio, mentre Vittorio leggeva il giornale e di tanto in tanto lanciava un’occhiata a Emma, intenta a riordinare la sala da pranzo, con il tono leggero di sempre le disse: “Forse è troppo faticoso badare alla casa e mantenere il tuo impiego in biblioteca. Non pensi che, ora che siamo sposati, io possa provvedere a te?”. Emma fermò a mezz’aria il battitappeto e lo osservò attentamente. Quelle parole non erano le sue. Vittorio aveva sempre apprezzato la sua indipendenza e conosceva le sue aspirazioni, il suo desiderio di diventare direttrice della biblioteca. “E poi, per quanto tu ti possa impegnare, e vedo che lo fai, purtroppo con tante ore passate fuori casa, le faccende inevitabilmente vengono trascurate. E la polvere si accumula”. “Oh, se è per quello, tra poco è il mio compleanno: perché non mi regali un aspirapolvere? Ormai ce n’è uno in ogni casa. E mi farebbe risparmiare un sacco di tempo!” ribatté lei. Dopo un attimo di silenzio, gli sentì dire: “Mia madre non ne ha mai avuto uno, eppure il pavimento su cui ho giocato da bambino era sempre immacolato” e questo pose fine alla discussione.

Mentre sgombrava il suo ufficio e raccoglieva le sue cose, Emma pensò che non poteva mettere a repentaglio il suo matrimonio per uno stupido lavoro, che tutte le sue amiche avrebbero dato chissà cosa per avere accanto un uomo affidabile e un’esistenza in cui la più grave preoccupazione fosse l’accumularsi della polvere. Ciononostante, la certezza di aver tradito il futuro che aveva tanto desiderato le procurò una fitta di dolore e le spense per sempre una luce negli occhi.

Per farle dimenticare il dispiacere, Vittorio organizzò una vacanza per il loro primo anniversario di matrimonio. Dopo qualche giorno dalla partenza l’umore di Emma si stabilizzò, mentre lei iniziava ad abituarsi all’idea che d’ora in avanti quella sarebbe stata la sua nuova vita.

Un imprevisto li costrinse ad anticipare il rientro: la madre di Vittorio aveva avuto un colpo apoplettico, che le aveva lasciato pesanti segni. Il volto era contratto in una smorfia, che lo rendeva ancora più truce di prima, le era ormai impossibile camminare e parlare, e il medico li preparò all’eventualità che un secondo episodio potesse sopraggiungere, ed esserle fatale.

Quando venne dimessa dall’ospedale, la trasferirono nel loro appartamento. “È una fortuna che ci sia tu ad occuparti di lei, non so davvero come avrei fatto” le disse Vittorio baciandola sulla fronte. Lanciò un ultimo sguardo alla moglie e alla madre, sedute a tavola davanti ai resti della colazione, e uscì per andare al lavoro.

All’inizio Emma aveva pensato di aiutare la donna e di chiedere a suo padre, medico, il nome di uno specialista, o magari fare lei stessa qualche telefonata. Poi decise di no, l’avrebbe lasciata annaspare, servendole una generosa porzione di indifferenza. Che si arrangiasse. Guardava ormai con disprezzo la versione di sé che subito avrebbe assunto un atteggiamento di sollecita quanto posticcia partecipazione, che avrebbe finto interesse. Ormai era sepolta, più che sotto le mille piccole angherie che aveva subito, o sotto l’immagine di quel volto odioso dal ghigno cattivo, era stata seppellita dal ricordo della cocente umiliazione di se stessa. Quanto si era sentita stupida e a disagio quando aveva fatto un qualsiasi gesto gentile nei suoi confronti, venendo ripagata solo con maleducazione, noncuranza e malcelata cattiveria. Quanta pena aveva avuto di se stessa, per essersi vista troppe volte nei panni di una mendicante senza convinzione. Quante volte aveva provato vergogna per aver teso una mano senza che dall’altra parte una mano venisse a lei tesa di rimando. Anche ora sentiva che, a ondate, quella misera Emma tentava di risorgere. Lei la lasciava fare, solo per ucciderla ogni volta. Che se la sbrigasse da sola. Anzi, si trovò persino a desiderare che la madre di Vittorio si sentisse sdegnata e offesa, vedendo che non muoveva un dito. Nonostante tutto, non traeva alcuna soddisfazione dalla condizione attuale della donna: era convinta infatti che la sua cattiveria sarebbe riuscita a trarla d’impaccio da ogni situazione. Questo forse più di tutto la indispettiva: pensare che se lo stesso incidente fosse capitato a qualcuno di buono (lei?), non avrebbe potuto fare altro che soccombere, mentre quella donna, con la sua incapacità di provare alcunché, la sua subdola, piccola prepotenza, in un modo o nell’altro sarebbe sempre uscita indenne da ogni tempesta. Quella cattiveria sembrava proteggerla, come un mantello, da qualsiasi dolore.

Quando la madre di Vittorio ebbe il secondo colpo apoplettico, lei ed Emma erano in casa da sole. Emma era andata in cucina a prendere un bicchiere di limonata fresca, quando aveva sentito un tonfo sordo e un rumore di vetri infranti. Corse in sala da pranzo e la vide, rattrappita sul pavimento. Una mano artigliava il bordo della tovaglia che aveva strattonato cadendo, il vaso di cristallo dal centro della tavola si era rovesciato a terra ed era esploso in un firmamento di frammenti aguzzi. Le punte dei piedi grattavano sulle piastrelle, come un impiccato che cercava un appiglio. La testa era ripiegata all’indietro in modo innaturale, tanto che i capelli sottili come ragnatele quasi sfioravano un punto tra le scapole. Gli occhi, due crune d’ago color carta da zucchero, sembravano vibrare di odio. Frugavano rabbiosamente cercando qualcosa. Cercavano lei. Emma istintivamente si ritrasse. E poi divenne di pietra. Non mosse un passo, non emise un fiato, non sentì nulla. Quando il torpore la abbandonò, si accorse che stringeva ancora tra le dita il bicchiere di limonata, divenuta tiepida.

I funerali si celebrarono di lì a due giorni, le poche persone che intervennero erano per lo più amici di Vittorio. La donna fu cremata, secondo le sue volontà, e l’urna fu posta accanto alle foto di famiglia sul vecchio cassettone in sala da pranzo. Emma non ebbe cuore di opporsi, ma quando Vittorio riprese a lavorare e si trovò per la prima volta sola in casa, il silenzio che seguì al rumore del motore dell’auto che si allontanava lungo il vialetto si chiuse sopra di lei. Il cuore prese a batterle più forte, come quando da piccola sua madre la mandava a prendere una bottiglia di vino in cantina e lei immaginava di vedere la porta richiudersi intrappolandola al buio. Pensava che se non avesse abbandonato il suo lavoro alla biblioteca, almeno avrebbe avuto un altro posto dove stare, qualcos’altro a cui pensare. Prese a riordinare la cucina, le camere da letto, pulì a fondo il bagno, lavò le finestre di tutta la casa, ma si tenne lontana dalla sala da pranzo. Uscì per delle commissioni e fece in modo di stare fuori quasi tutto il pomeriggio. Solo quando sentì Vittorio rientrare, si decise ad apparecchiare la tavola, con gesti automatici, senza togliere gli occhi dall’urna, muta al proprio posto.

Quella notte Emma dormì di un sonno leggero e agitato. Sognò di affacciarsi sulla sala illuminata solo dalla fredda luce del lampioncino sul vialetto. L’urna era sparita. Ricordava di aver pensato che Vittorio se la sarebbe presa con lei e che l’avrebbe costretta a comprarne una identica, con dentro nuove ceneri. Mentre rimestava questo assurdo pensiero, l’aveva vista. Seduta a tavola, immobile, a fissarla. Cancellato ogni segno del primo colpo apoplettico, il ghigno era tornato. L’urna non c’era più perché lei non era morta. Emma si svegliò di soprassalto, impiegando alcuni istanti a riemergere dall’incubo e quando le nebbie si furono sfilacciate fino a svanire, rimase a fissare il soffitto e non tentò più di prendere sonno. Fu con sollievo che vide, dopo un tempo che le parve eterno, le prime luci dell’alba filtrare dalle persiane accostate. Scese dal letto con la sensazione di avere sulla pelle una pesante coperta ghiacciata, e si chiuse in bagno. Guardandosi allo specchio vide i suoi occhi segnati da pesanti occhiaie, e due profonde rughe che le correvano agli angoli della bocca, piegati all’ingiù. Si sforzò di pensare che prima o poi si sarebbe abituata, che l’urna con le ceneri sarebbe scomparsa, come tutto ciò che abbiamo sempre sotto gli occhi. E poi non avrebbe saputo come chiedere a Vittorio di eliminarla. In fondo era solo polvere. Non rimaneva nulla, se non un chilo scarso di polvere. Polvere. Emma sentì la larva di un pensiero emergere dal gelo della notte appena trascorsa. La osservò agitarsi e crescere e prendere forma, come una creatura indipendente, dotata di volontà propria. Ed Emma la lasciò fare.

Non appena Vittorio uscì, corse a prepararsi. Avvertiva un leggero formicolio alle mani mentre estraeva dal cassetto il libretto degli assegni e lo infilava rapidamente nella tasca del paltò, come se temesse di farsi scoprire. Passando davanti all’urna con le ceneri della madre di Vittorio (“Solo polvere” pensò), non poté fare a meno di affrettare il passo. Si chiuse la porta di casa alle spalle e fu fuori. Il calore di un raggio di sole le si posò addosso, facendola sentire reale. Salì in macchina, uscì dal vialetto in retromarcia, lanciando un’occhiata alla finestra della sala, aspettandosi di vederla affacciata, i suoi occhi freddi puntati verso di lei. Parcheggiò davanti ai Grandi Magazzini Gaspari, ed entrò. Si diresse al reparto elettrodomestici, dove fu avvicinata da un commesso che le chiese in tono gentile se le servisse aiuto.

Quando fermò l’auto nuovamente in fondo al vialetto, rimase un istante a fissare l’immagine che le rimandava lo specchietto retrovisore. Sul sedile posteriore, ancora imballato, c’era l’ultimo modello di Folletto. La scritta verde smeraldo sullo scatolone risplendeva alla luce del sole, mandando bagliori rassicuranti. Sembrava quasi animata: Emma ebbe la sensazione di aver dato un passaggio a un buon amico. A quel pensiero le piombò addosso la solitudine che aveva provato negli ultimi tempi. Sentì quell’enorme peso cadere di schianto sulle sue spalle: l’isolamento, l’impotenza, l’indifferenza, la sordità disperante di Vittorio, incapace di ascoltare o di credere, solo teso nello sforzo di minimizzare o ridicolizzare ciò che lei cercava di mostrargli. Posò la fronte sul volante e pianse.

Aprì la porta di casa: la sentì vuota e silenziosa. Respirò un’aria di resa. Guardò le sue mani scartare l’imballaggio, estrarre l’aspirapolvere e inserire la spina nella presa a muro. Poi si volse verso l’urna. Per la prima volta da quando Vittorio l’aveva portata a casa le apparve per ciò che era: un oggetto inanimato, inoffensivo. Mentre allungava una mano per afferrarla fu attraversata da un pensiero assurdo: non sarebbe riuscita a muoverla, il peso delle ceneri, e di ciò che quella polvere significava, l’avrebbero tenuta inchiodata al cassettone. Perciò si stupì quando senza sforzo la sollevò a mezz’aria. Svitò il coperchio e si scoprì a pensare che era lo stesso gesto con cui ogni mattina apriva il barattolo del caffè. Imbracciò l’urna con entrambe le mani. La inclinò lentamente, chinandosi piano. Una finissima polvere grigia iniziò a scivolare fuori, andando a depositarsi sul pavimento. Emma la guardava scendere, tendendo l’orecchio affascinata per percepirne il leggero fruscio. Era come guardare i granelli che scorrevano in una clessidra; le tornarono in mente i giochi che faceva da bambina sulla spiaggia: quel velo di sabbia chiara e asciutta che svaniva nelle fessure tra le dita delle mani chiuse a coppa. Il pensiero della madre di Vittorio, della sua presenza reale, anche se in un passato ancora molto vicino, si era ormai sganciato da ciò che stava guardando: un cumulo di polvere.

Posò nuovamente l’urna, ora più leggera, sul cassettone e riavvitò il coperchio. Poi azionò l’aspirapolvere. Non sentiva il rumore secco dell’aspirazione, era come se si muovesse sott’acqua. Osservava la spazzola fare avanti e indietro in una danza sul pavimento. Non volle attaccare subito la piccola montagnola grigia: iniziò a girarle intorno e di tanto in tanto mandava il beccuccio più vicino, ne aspirava una boccata e di nuovo lo allontanava, come in un balletto. Era come guardare un piccione che prende a beccate un tozzo di pane. Dopo poco sentì che l’aspirapolvere la guidava, scivolando sicuro e senza fretta. Il braccio di Emma serviva solo a dargli l’inclinazione giusta, per il resto faceva tutto da solo. E lei non voleva che finisse subito. Già metà del mucchietto era stata ingoiato ed era scomparso. Un incantesimo aveva tramutato la strega in polvere, e ora toccava a lei sbarazzarsene. Quando non rimase più nulla, spense l’apparecchio, staccò la spina e rimase un istante ad ammirare ciò che aveva fatto. Poi corse ad aprire le tende e spalancò le finestre della sala per far entrare più luce e aria pulita.

Quella sera, al rientro dal lavoro, Vittorio trovò la casa perfettamente linda e in ordine. Emma colse l’occasione per mostrargli timidamente il suo nuovo acquisto. Lui tacque per qualche istante, poi stancamente disse: “Ma sì, hai fatto bene. Ormai ce l’hanno proprio tutti. E poi, dopo quello che hai passato anche tu, te lo meritavi”. “Lo credo anche io” rispose. Dopo cena, come al solito, Vittorio indossò il cappotto per portare fuori la spazzatura. “Tesoro – disse Emma – potresti buttare anche il sacco dell’aspirapolvere? Me ne sono completamente dimenticata”. Emma rimase alla finestra, a guardare Vittorio che percorreva il vialetto, illuminato appena dal lampioncino, e gettare nel cassone il sacco pieno di polvere.

Oggi sono in pace col mondo. Se tutto finisse qui sarebbe perfetto. Ma non finisce, il mondo va avanti e nel suo andare avanti mi srotola addosso la solita carta moschicida e le giornate come questa, giornate in cui sono in pace col mondo, sono sempre più rare. Come un Penny Black. Ma la maggior parte del mondo neanche ha idea di cosa sia un Penny Black. E in tutte le altre giornate mi sento uno scarto, un rifiuto, lo stampo di prova di un ragazzino venuto male. Quanti come me devono averne sbagliati prima di arrivare a fare un Giacomelli, fenomeno con le scarpette ai piedi e in odore delle giovanili del Cesena; oppure una Rubini, che riesce a far ridere i compagni e i professori anche per chiedere i compiti da scrivere sul diario; per non parlare di un Zambelli, Riccardo Zambelli, di quarta E, che nel dizionario sotto la voce popolarità ci potrebbero mettere la sua foto, talmente figo da non sembrare vero. E allora aveva voglia mio padre a dire che dovevo smetterla di stare attaccato al computer, che dovevo vivere nel mondo reale, che tutti quei contatti – perché, signori, avevo esaurito l'account facebook, tradotto: avevo la bellezza di cinquemila contatti – non erano vere amicizie, ma disperati come me che rifiutavano di affrontare la vita reale! I primi bozzetti di Big Jim non erano mica passati alla storia come i giocattoli del secolo. Gli stampi dei primi Goldrake venuti male – perché mio padre, così perfetto e calato nel mondo reale, era un appassionato di Goldrake Ufo Robot, tradotto: antidiluviano cartone animato giapponese, anni ottanta, non so se mi spiego – mica erano conservati al Moma di New York! Ma di cosa parliamo, che mio padre neanche aveva idea di cosa fosse il Moma di New York. Però che Big Jim io lo spogliavo per guardarlo sotto, anziché fargli fare i lavori da macho e fargli trattare Barbie come lui trattava mia madre, questo lo sapeva. Che non avevo amici perché mi chiamavano Jenny la checca, anche questo lo sapeva e non ce lo poteva perdonare. Né a me, né a mia madre.

Quando sei il prototipo dello sfigato, la brutta copia del compagno che nessuno vuole avere come vicino di banco, lo stampo di plastica dell'antisport disciolto sotto la luce di una vecchia lampadina a incandescenza, è ben difficile trovare nel mondo un posto che ti calzi a pennello, un posto che non sia un angolo buio o il fondo di una pattumiera, e sentircisi bene. E allora per fortuna che c'era la rete e che potevo socializzare anche senza essere un Giacomelli, una Rubini o uno Zambelli: sia lodato Zuckerberg, sempre sia lodato.

Se i miei genitori avessero mai provato a capire cosa mi passava davvero per la testa forse sarebbero stati più sereni e avrebbero smesso di stressarmi e di stressarsi. Ché non ero mai stata malata, anche se ogni tanto parlavo di me al femminile. E mia madre - perché sapevo che era stata lei a lasciare nella cronologia del tablet le ricerche sulla dipendenza da internet – non sarebbe andata a dormire a forza di pillole, con le rughe triplicate dai pensieri, ché questo figlio in fondo non era poi così anormale. Conoscevo anche io i sintomi della dipendenza dalla rete e non ne avevo neanche uno: non stavo male se non c'era connessione, non passavo la notte davanti alla tastiera, non avevo sbalzi di umore, non soffrivo di insonnia o del tunnel carpale – sì, pare che la dipendenza da internet e l'abuso del computer diano tutti questi disturbi, o almeno è questo che diceva la guida cui era arrivata la regina della casa – semplicemente era in rete che avevo tutte le mie amicizie. E se fuori dalla rete non parlavo con nessuno, di certo non con i miei genitori, forse avrebbero dovuto capire che sì, qualche cosa non andava, ma che era in loro, in loro e nei loro maledetti e maldestri e continui tentativi di farmi cambiare. Era mio padre che non andava. Il fatto che dannasse se stesso per avermi chiamato Gennaro, come se il mio essere Jenny la checca dipendesse solo da quello stupido nome. Si dannava anche per altre cose, ad esempio per non avermi preso a ceffoni quando aveva beccato me e Pietro che perlustravamo i nostri reciproci corpi giù in cantina. Mia madre gli aveva detto che era solo curiosità da ragazzini, che era meglio se scoprivamo tra noi come funzionava “quella cosa” piuttosto che tramite quelle schifezze che lui teneva nascoste nel comodino. “Quella cosa”, nel bigotto codice verbale di mia madre, era la masturbazione. Mio padre ogni sera si masturbava a letto sbirciando riviste pornografiche, a lume di abatjour, mentre lei fingeva di dormire e, quando avevano beccato me e il mio amico che ci facevamo una sega a vicenda, le era sembrato più facile definirlo “quella cosa” e lasciare che lui demonizzasse il nostro comportamento e le nostre giovani e inesperte voglie anziché parlare di masturbazione e affrontare con mio padre il motivo delle sue voglie di vecchio represso.

Oggi sono in pace col mondo perché nessuno mi è venuto a trovare. Ho potuto leggere e riposare. Dopo aver letto per un paio d’ore ho tenuto la finestra aperta e la serranda abbassata con i buchi, e la musica che arriva dalla spiaggia mi ha fatto compagnia. Ho immaginato corpi di ragazzi accaldati che ballavano in riva al mare.

Mi rendevo conto che non potevo considerare amici tutti i miei cinquemila contatti; forse neanche cinquecento, magari cinquanta; fossero stati anche solo cinquanta mi sarei dovuto preoccupare? Andavo bene a scuola. Non frequentavo cattive compagnie. Ok questa non vale perché non frequentavo nessun tipo di compagnia. Non avevo neanche mai chiesto il motorino. E anche questa non vale, perché questa per i miei era stato un problema. Per mia madre, perché lei voleva che io approfittassi della libertà che mi concedeva - probabilmente quella che lei alla mia età non aveva avuto - voleva che andassi in giro, che mi divertissi, che facessi tardi, che stessi tra la gente. Immagino che sarebbe stata contenta anche se col motorino fossi andato in cerca di ragazzi, tutto purché ne avessi approfittato, io che potevo. Per mio padre, perché lui sulla moto ci andava in giro, lui era un centauro, con la sua maledetta Harley nera. Un figlio maschio che non voleva il motorino era giusto che lo chiamassero Jenny la checca, ché solo i froci non avevano voglia di fare le corse col motorino.