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A_ Ciao John, come stai? Intanto, grazie per concederci un po’ del tuo tempo che, grazie al cielo, in questo momento storico pare sia dilatato, dandoci la possibilità di fare tutto quello che lasciavamo da parte. Anche negli Stati Uniti state attuando la quarantena simile a quella in vigore in Italia?

J_ Ciao, Alessandra. Qui negli Stati Uniti la rigidità della quarantena varia da stato a stato e, in certi casi, persino di città in città. Qui a Des Moines, in Lowa, una città che sorge nel bel bezzo della campagna, il numero dei casi è relativamente basso. Sono state chiuse le scuole, i locali, i teatri e altro; insomma, quasi tutto, ma ci è ancora permesso uscire per una passeggiata a piedi o per un giro in bici. Stanno facendo vari lavori stradali e roba del genere. Naturalmente, New York – che proprio come l’Italia è in un certo senso aperta al mondo e a qualsiasi tipo di virus – è stato il luogo più duramente colpito. A NY ho parte della mia famiglia che si trova letteralmente confinata in casa, fatta eccezione per qualche commissione considerata essenziale, che è ancora concessa. A volte capita che un amico o un cugino posti su Facebook l’immagine fugace di un parco, ma sinceramente non so come riescano ad organizzare questo genere di fughe; a ogni modo, quel che sembra preoccupare maggiormente tutti è la ripercussione economica. Mio fratello ha la possibilità di lavorare da casa, ma il suo figlio maggiore, che è impiegato nel settore dello spettacolo, ha visto la sua busta paga volatilizzarsi. Ce ne sono tante, tantissime, di storie simili in ogni angolo di tutto il paese. Il Sud, la vecchia Dixie (n.d.t. soprannome che si riferisce agli stati e alle persone del sud degli U.S.A.) pare stia patendo incredibilmente la situazione, considerando le condizioni di maggiore povertà, scarsa istruzione e mancanza di servizi.

A_ In questa singolare circostanza, come trascorri le tue giornate? Nell’ambito delle varie discipline artistiche, ho avuto modo di constatare come molti scrittori, poeti, musicisti, pittori o altro, stiano vivendo un inceppamento del processo creativo. Capita anche a te la stessa cosa, o stai approfittando del maggior tempo che abbiamo a disposizione per scrivere? Pensi che questo drammatico momento ci stia donando una maggiore o minore lucidità di osservazione?

J_ Ci sarà anche qualche eccezione, ma la maggior parte degli scrittori che mi viene in mente, in un modo o nell’altro lavora da casa. Alcuni di noi hanno l’esigenza di rimanere incollati alla scrivania e sintonizzarsi sulle voci interiori che ci frullano nella testa. Proprio questa settimana, nemmeno a farlo apposta, avevo una scadenza da parte di una rivista di Brooklyn: io e l’editore ci abbiamo lavorato via mail, come al solito. Per quanto riguarda invece il mio processo creativo, sì, sono perennemente distratto dalle notizie: chi non lo sarebbe? Ma ci sono anche le giornate buone. Di sicuro non sono un Boccaccio, ma direi che – in generale – sto riuscendo a cogliere, nonostante questa peste, un impulso alla narrazione. Parlando di incontri alternativi, per esempio, ho partecipato a un paio di letture di gruppo su Zoom e persino a una fantastica tavola rotonda internazionale su Elena Ferrante, in diretta da New York. Durante questo evento mi sono fatto una bella chiacchierata con un altro scrittore proprio in italiano. Devo ammettere che sento la mancanza di quel “dare e ricevere”, del rapporto reciproco: per essere uno scrittore, sono molto socievole e non me la posso ancora prendere che un gran numero di eventi sia stato cancellato. Uno dei miei sarebbe dovuto avvenire proprio a New York, e Dio solo sa a quando sarà posticipato, sempre che il locale non si trovi costretto a chiudere i battenti. Le risorse economiche stanno esaurendo un po’ per tutti, inclusi i posti in cui mi sono esibito come la City Lights di San Francisco o il KGB di New York.

A_ Stavamo parlando di processo creativo: come scrittore, di cosa hai bisogno (se di qualcosa hai bisogno) per riuscire a scrivere? Agio, tranquillità, serenità, inquietudine? E, infine, la scrittura in sé (intesa come atto mentale e fisico) la vivi come qualcosa di liberatorio e benevolo o piuttosto come una procedura faticosa e dolorosa? La percepisci, insomma, come un incontro o come uno scontro con il John Domini scrittore?

J_ È una bella domanda, suggerisce una riflessione profonda e, ahimè, nessuna risposta certa! Immagino che molti scrittori percepiscano l’ispirazione talvolta come un’amante provocante e talvolta come una micidiale febbre. Personalmente, so quello che mi serve per tenere allenato il muscolo della creatività in modo regolare. Se non lo utilizzo per troppi giorni, ne soffro la mancanza, si atrofizza. Anche quando sono venuto in Italia per promuovere Movieola!, tra una presentazione e l’altra e in mezzo agli spostamenti in treno, ho cercato di infilare un paio di momenti da dedicare al mio diario e al computer. Per quanto riguarda, invece, il tipo di vita di cui ho bisogno per scrivere, temo di dover ripiegare sulla risposta più ovvia e ammettere che si tratti di tranquillità e solitudine. Chiaro, ognuno ha bisogno di una certa dose di sofferenza e colpi duri per fare della buona arte - ogni canzone è, in fondo, un blues - ma mi viene in mente la fredda citazione di Hemingway, che diceva: da una piccola ferita può nascere una buona storia, ma se la ferita è profonda, non è un bene né per uno scrittore né per nessun altro.

A_ A proposito di case, di reclusioni imposte e più o meno apprezzate da chi le vive, mi sono rimaste impresse nella memoria delle immagini di casa tua – a Des Moines, in Iowa – semplicemente di scorci fugaci di quando ci sentivamo in videochiamata durante la traduzione di MOVIEOLA!: la tua libreria affollata, i dipinti che mi hai raccontato aver comprato a Napoli, la fotografia in bianco e nero di Bob Dylan e Allen Ginsberg, incorniciata e appesa al muro e, infine, la finestra che dava su uno di quei cortili sul retro tipico delle cittadine rurali americane (a quel tempo innevato). Vorrei che raccontassi ai nostri lettori cosa vedi, in questo istante, da quella finestra. È un’immagine che ti da conforto o vorresti – magari – in un momento come questo poter vedere altro e trovarti altrove?

J_ Lo dico dal profondo del cuore: mi manca l’Italia. Ero stato invitato a parlare a un simposio a fine maggio a Lucca, quindi avevo programmato di trascorrere una settimana a Napoli. Ora è saltato tutto, che peccato. Grazie a Whatsapp, però, sono riuscito a vedere i miei amici e familiari di Napoli e a chiacchierarci un po’. Un mio cugino è medico, e qualche volta l’ho trovato davvero esausto, ma per lo meno ci fornisce notizie dalla prima linea e, a quanto pare, non riuscirò a venire in Italia per niente quest’anno. Insomma, è chiaro che mi piaccia guardare fuori dalla finestra del mio ufficio che dà sul cortile: è primavera, i fiori stanno sbocciando e dal terreno spuntano i grossi e verdi getti delle radici di rabarbaro. Ma, in verità, da qui mi piacerebbe ammirare il Vesuvio e il Golfo.

A_ Torniamo alla fotografia che ritrae Michael McClure, Bob Dylan e Allen Ginsberg; immagino che tu l’abbia appesa perché, in un certo senso – simbolicamente – racconti due dei tuoi grandi interessi e punti saldi della tua cultura: quella musicale e quella letteraria. Quali sono i tuoi maggiori riferimenti e cosa hanno apportato alla tua figura di artista e scrittore?

J_ Ogni forma d’arte che ho in casa è una sorta di fonte di sostegno e di gioia. E, questa in particolare, di Dylan, Ginsberg e McClure dietro la City Lights Bookstore – guarda caso! – è una foto speciale. È un regalo che mi fece mia moglie prima di essere mia moglie, Lettie Prell: una scrittrice di fantascienza ben pubblicata, tra l'altro. Il che da un significato ancora più importante a questa fotografia. Ho assistito a performance indimenticabili sia di Ginsberg che di Dylan. Certamente sono figure che hanno contribuito a plasmare la mia idea di artista nel mondo. Quello che mi arriva, tuttavia, è qualcosa di mio, è idiosincratico. A me sembrano sempre personaggi leggeri, pieni di sorprese, ma un altro scrittore potrebbe percepirli come qualcosa di solido e confortante. Penso che sia ricorrente ritrovare queste differenze di percezione, quando gli artisti parlano dei loro personaggi di riferimento. Si ha in mente una figura, una fantasia, anche mitica. Quando dico che Italo Calvino mi ha aiutato a formarmi, mi riferisco solo a una fetta di tutto l’insieme che riguarda Calvino: il modo in cui ha trattato il racconto come un parco giochi, pur rimanendo un fuoriclasse per gli scrittori che gli stavano a cuore.

A_ Vorrei ora passare a un altro argomento, un'altra dimensione culturale che non può essere estranea a chiunque sia venuto al mondo, come noi, nella seconda metà del ventesimo secolo: il cinema. E, parlando di cinema, ne vorrei approfittare per tirare in ballo il tuo Movieola!, la raccolta di racconti attraverso la quale noi e i nostri lettori ti abbiamo conosciuto. Come è nata l’idea di questo libro e per quale motivo hai deciso di mettere il cinema (e l’ambiente di Hollywood) al centro della narrazione?

J_ Prima di tutto, grazie infinite a Jona Editore per l'ottimo lavoro svolto con la pubblicazione italiana di Movieola!: il libro ha un aspetto meraviglioso, e so anche le attenzioni che hai dedicato alla traduzione. Grazie di cuore. Detto questo, queste storie mi sembrano una sorta di omaggio agli eroi defunti. Voglio dire che le immagini hollywoodiane con cui siamo cresciuti sono ormai sepolte e scomposte nei video di YouTube. Non c’era bisogno del COVID-19 per impedire alla gente di riunirsi nei vecchi templi del cinema, le sale che un tempo erano il fulcro di ogni città. Erano già stati convertiti a negozi e locali, e l'arte che presentavano si è trasformata in qualcosa di grottesco, la cosiddetta “Industrial Hollywood”, fatta di spettacoli interamente dedicati al profitto e sempre incredibilmente prevedibili e scontati. Non sono l'unico a notarlo, naturalmente; Steve Erickson ha ritratto questo tracollo nel suo grande romanzo Zeroville. Lo ha fatto, però, attraverso il genere drammatico; io, invece, non appena ho iniziato a comporre il primo dei racconti - "Making the Trailer" - ho capito di avere uno sguardo più comico.

A_ Sempre in riferimento a Movieola!, puoi dirci se c’è un motivo particolare per cui hai optato per il racconto, come forma narrativa, piuttosto che per il romanzo? È stata una decisione a priori o gli hai dato questa struttura durante la stesura? Te lo domando, perché in un certo senso, i racconti non sono tracce a sé stanti: l’argomento principale è unico, anche se poi si ramifica e articola in diverse sottoclassi.

J_ In realtà, ora vedo il libro più come un'eruzione dell'identità. Quando ho messo insieme le prime storie, stavo concentrando le energie sul mio "grande progetto", una trilogia di romanzi ambientata a Napoli. Quei romanzi sono ora in stampa, e sono orgoglioso del lavoro svolto, ma in fin dei conti seguono semplicemente i Dieci Comandamenti della letteratura del mistero messi a punto da Raymond Chandler: sono realistici, fondamentalmente; fanno attenzione alla fonte del guadagno e all’organizzazione dei tempi e del luogo. Queste preoccupazioni sono legittime, fanno parte del lavoro, certo, ma a un certo punto il Domini dionisiaco non ce la faceva più. Il ragazzo ribelle dentro di sé è esploso in qualcosa di ultraterreno, in queste storie in cui il denaro non è un oggetto e qualsiasi personaggio può essere di fantasia. Chiunque, inciampando nel paesaggio devastato del tardo capitalismo malato, può divenire uno zombie. Una deviazione del genere va contro la buona abitudine romanzesca, non c'è dubbio. D'altra parte, questa deviazione forse ha contribuito a dare una boccata d’ossigeno anche al mio progetto più lungo, e a evitare che i suoi passaggi finali sembrassero forzati e troppo poco spontanei.

A_ Vorrei approfittare per dire a te, e a tutti i lettori, che tradurre Movieola! è stata per me un’avventura surreale, come penso lo sia per chi lo abbia già letto o lo farà a breve. È stata impresa ardua e faticosa, destabilizzante, da un lato per la tua unicità e ricchezza espressiva (sia a livello di vocabolario, di uso del linguaggio, sia a livello di riferimenti culturali e sociali al mondo di Hollywood e degli Stati Uniti tutti). Questi racconti sono molto vivaci, ironici, sfiorano al tempo stesso il surreale e l’iperrealismo, tanto da chiederci spesso durante la lettura se sia più giusto ridere a crepapelle o rattristarci. Questa doppia dimensione è forse, a mio parere, lo spirito stesso e il fine ultimo di questi racconti: durante la stesura (o prima, o dopo) ti sei trovato a chiederti se tutto quello di cui stavi parlando era in un certo senso troppo strano per essere vero o troppo vero per essere strano?

J_ Devo sottolineare che hai fatto un lavoro meraviglioso con la traduzione, e te ne sono molto grato. Complimenti, davvero! A parte questo, ribadisco quanto ho già detto sopra riguardo all’ingresso nella zona dei morti viventi, dove anche i supereroi decidono di fare a pezzi i loro costumi e la lingua diventa una sfida fatta di scrittura sbalorditiva e di quell’uso fitto di acronimi tipico dei pezzi grossi di Hollywood. Anche qui, non ho potuto fare a meno di riconoscere la mia America sopra le righe, spinta dall'avidità di commettere sempre gli stessi errori. Almeno, come ci ha insegnato Karl Marx, quando si parla di storia, la seconda ripetizione è una farsa.

A_ Ti è capitato che attribuissero l’etichetta di “Postmoderno” a questo tuo prodotto letterario? Pensi abbia un senso, viste le caratteristiche di Movieola! parlare di racconti che hanno tanti aspetti tipici di questa corrente letteraria e non solo? Se è successo, lo ritieni una forzatura e una smania da parte della critica o pensi sia un risultato naturale, quindi una tappa obbligata per chi ha prodotto arte, cinema, letteratura o architettura nel mondo occidentale da circa trent’anni a questa parte?

J_ Non si può infatti negare che sia il libro MOVIEOLA! sia il suo scrittore John Domini siano "Postmoderni". Gioco in questa squadra, e ho scritto saggi su altri che indossano la stessa divisa, come W.G. Sebald. D'altra parte - sempre cercando di evitare qualsiasi sovrapposizione con quanto ho detto sopra - vorrei sottolineare che una caratteristica unica e distintiva del Postmode rno è proprio l'appropriarsi delle forme precedenti, prendendole e capovolgendole per creare qualcosa di nuovo. Ecco perché il rap originale, uscito dal devastato South Bronx, era incredibilmente postmoderno: qualcuno come Grandmaster Flash ha spezzato le vecchie melodie e ce le ha sbattute di fronte a tempo di beat, le ha rimesse insieme usando solo due giradischi e un microfono. Così, ha inventato una nuova hit.

A_ Adesso ti dico una cosa che penso ti riempirà di gioia: sappi, però, che questo complimento non è fine a sé stesso, ma utile a capire se questo parallelo sia motivato, e il perché lo sia: sempre traducendo la tua raccolta di racconti, non ho potuto fare a meno di ritrovarmi in una dimensione molto simile a quella in cui Italo Calvino ci ha trasportati con le sue Cosmicomiche, non solo per la tua scrittura ironica e intelligente (di cui ho già parlato prima) ma pure per l’espediente letterario utilizzato: un’ambientazione reale che nel tuo caso è il mondo di Hollywood, del cinema, con i suoi processi di produzione (in Calvino è l’universo con le sue fasi evolutive e le nozioni scientifiche) per i costruirci sopra delle storie immaginarie e paradossali, dunque in un processo che è in un certo senso opposto e speculare a quello della letteratura o del cinema di fantascienza, dove da un’ambientazione immaginaria e futura siamo portati a ragionare su quella presente e reale. Se questo parallelo tra MOVIEOLA! e Le Cosmicomiche non è azzardato, ma sensato, pensi sia attribuibile a qualche ragione?

J_ Giustissimo: niente mi lusinga di più del paragone con Calvino, e suppongo che ora dovrò andare a flagellarmi da solo per compensare. È Pasqua, dopotutto. Seriamente, però, Le Cosmicomiche di Calvino sono state uno dei testi che ha reso possibile Movieola!. Ce ne sono altri che potrei citare, come 60 Stories di Donald Barthelme, poco conosciuto in Italia ma che rivive, inconsapevolmente, nell’ironia e nell’inventiva tipicamente italiane. Anche Howl di Allen Ginsberg, magari. Ma il motivo per cui ho trovato il Calvino degli anni Sessanta così condivisibile, così stimolante, be’, rimarrà sempre un mistero. Penso che nessuna delle mie chiacchierate nel corso delle interviste come questa chiariranno l'enigma insito in ogni impulso a creare. Tra le intricate radici di Movieola!, o di qualsiasi libro di narrativa che ho scritto, si annidano gli imperscrutabili colpi di scena del mio DNA e del mio mondo onirico. L'unica cosa che posso dire con certezza è che le storie di Calvino sono state tra le prime scoperte letterarie che ho fatto interamente da solo. Verso il 1970, ho cominciato a trovarlo nelle traduzioni, nelle riviste e nelle librerie di Boston, dove vivevo, e le ho lette - letteralmente divorate - al di là di quelli che erano i miei incarichi universitari o le richieste dei professori.

 

i.

A_ Abbiamo parlato di Calvino e dell’influenza che, più o meno indirettamente, può avere avuto sulla tua produzione di scrittore. Quanto, allo stesso modo, le tue radici italiane (culturali ma anche genealogiche) hanno influito sulla percezione della tua identità? Per rendere la mia domanda più diretta: cosa significa per te essere italoamericano? È un qualcosa che ti ha reso, in senso figurato, più completo o più diviso?

J_ Penso che sia giunto il momento di tirare in ballo Frank Zappa. Sbaglio? È uno degli artisti che ancora non ho menzionato, eppure lo vedo seduto tra il pubblico di tutti gli incontri e i sui palcoscenici del mio Movieola!. Zappa, dopotutto, si è sempre preso gioco delle stravaganze tipicamente americane; inoltre è sempre stato entusiasta nello sfruttare le avanguardie tecnologiche, rendendosi conto – al tempo stesso – meglio di chiunque altro, che nessun nuovo aggeggio avrebbe mai potuto cambiare l'animale umano. Ed era – c’è bisogno che lo dica? – italoamericano. Il padre era emigrato dalla Sicilia e la famiglia della madre era napoletana. Mentre ascolto l'opera di Zappa, le sue sovrapposizioni strumentali barocche, la sua chitarra lirica, il suo umorismo nero ma sapiente, sento una delle ultime e più belle trasformazioni dello spirito italiano. Che io percepisca questo elemento nel suo lavoro prima della maggior parte degli altri, riflette sicuramente il modo di sentire me stesso e la mia vocazione. Anche in questo caso, c'è qualcosa di misterioso. Né mio fratello né mia sorella si definiscono particolarmente "italiani", anche se hanno visitato Napoli e sentito come me la lingua che si parlava a casa. Per me, però, l'etnia rimane centrale in quello che sono, per come interagisco e per qualsiasi tipo di arte che sono riuscito a creare. Sapete, c'è un critico e studioso italoamericano di nome Fred Gardaphé che ha partorito una bella citazione su questo libro, che mi sembra la perfetta nota conclusiva: "Se Pirandello fosse ancora in vita, oggi scriverebbe qualcosa come Movieola!”.

 

 

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Pubblicato in redazione

Immaginavo fosse così. Passi la vita a pensare cosa faresti se ti dicessero che ti rimangono 6 mesi, un mese o una settimana e quando finalmente arriva il momento, a coloro che hanno la fortuna di sentirselo dire, niente ha più importanza.

Non importa se non mai ho nuotato con i delfini, se non ho imparato l’ucraino come avrei voluto, se non ho mai scalato il Machu Pichu, se non ho mai provato quello che sostengono di aver provato i poeti nelle loro tormentate poesie d’amore (morirò comunque convinta del fatto che mentano). Tutto sembra già così lontano adesso. E poi diciamocelo sinceramente, lo sappiamo tutti sin dall’inizio che sempre e comunque qualcosa deve restar fuori.

Mi sono sempre piaciute le linee pulite, i bordi definiti e le cifre tonde e quindi ho scelto la data del mio compleanno. Quel giorno mi hanno fatto entrare in questa vita e quel giorno me ne andrò. Puff

46 meravigliosi anni di cui non cambierei niente, se non la velocità con cui sono trascorsi.

Cazzo però, come al solito sono in ritardo! Ma è possibile che debba sempre fare tutto di corsa? Neanche la preparazione alla mia morte posso godermi in pace. Non ho ancora comprato la biancheria intima, devo andare dal parrucchiere, scegliere il vestito ed ho dei peli sulle gambe che potrebbe competere con la Selva Morena. Una laurea in medicina e due specializzazioni ed ancora non ho fugato i miei dubbi sul fatto se i peli continuino a crescere o meno anche dopo la morte. A parte l’orrore di immaginarmi cadavere peloso, non sopporterei l’idea che dopo una guerra feroce ed estenuante di tutta una vita a botte di cerette, pinzette e laser, alla fine avrebbero loro il sopravvento.

Tre giorni di tempo sembrano tanti, ma se inizi a pensare a tutti i dettagli di un suicidio fatto con tutte le regole, ti accorgi che sono ben pochi.

Anche scegliere il metodo non è stato semplice. Nei miei corsi di suicidio creativo ho sempre preso a modello il suicidio di Evelyn McHale. Che invidia! Se avessi la certezza del risultato sceglierei di morire come lei, ma in questi lunghi anni ho visto troppe scatole craniche fracassate ed arti disarticolati per poter sfidare la statistica. Voglio essere bellissima e soprattutto voglio essere sorridente.

Già! Sembra facile far sorridere un cadavere o anche soltanto trovare un complice che ti permetta di farlo. Ho pensato inizialmente di chiedere ad Aristide, uno dei pochi che non avrebbe fatto tante storie. Ma poi mi sono ricordata del suo gusto per le cose brutte ed ho rinunciato. Chissà come mi avrebbe trasformata. Sfidare la sorte sì, ma non fino a questo punto.

L’unica persona a cui avrei potuto chiedere è Mazen. Del resto è anche uno dei pochi ad aver saputo della diagnosi ed uno dei più fedeli sostenitori nonché collaboratori dei miei deliziosi suicidi. Quanti ne abbiamo ideati e realizzati insieme e sempre con grande soddisfazione nei risultati. Assistenti al suicidio perfetti!

Ho pensato comunque di chiedere consiglio ad Aristide, la sua creatività mascherata da falsa originalità (gli piace molto pensarsi così) mi ha sempre divertito. Come mi aspettavo mi ha proposto qualcosa di splatter, un’elettrocuzione che avrebbe provocato il black-out di tutta Dublino al momento finale della finale dei mondiali di rugby. Proposta bocciata per motivi estetici (non sopporto immaginarmi con i capelli arruffati), pratici (non avrei saputo come avere accesso alla centrale elettrica, l’unico collegamento che ho con i centri del potere elettrico è il tecnico della televisione che mi sono scopata per errore qualche anno fa) ed organizzativi (la finale cade a maggio, e questo manderebbe a puttane la cifra tonda dei miei anni). Però ho apprezzato l’idea.

Pubblicato in racconti e novelle

Immaginavo fosse così. Passi la vita a pensare cosa faresti se ti dicessero che ti rimangono 6 mesi, un mese o una settimana e quando finalmente arriva il momento, a coloro che hanno la fortuna di sentirselo dire, niente ha più importanza.

Non importa se non mai ho nuotato con i delfini, se non ho imparato l’ucraino come avrei voluto, se non ho mai scalato il Machu Pichu, se non ho mai provato quello che sostengono di aver provato i poeti nelle loro tormentate poesie d’amore (morirò comunque convinta del fatto che mentano). Tutto sembra già così lontano adesso. E poi diciamocelo sinceramente, lo sappiamo tutti sin dall’inizio che sempre e comunque qualcosa deve restar fuori.

Mi sono sempre piaciute le linee pulite, i bordi definiti e le cifre tonde e quindi ho scelto la data del mio compleanno. Quel giorno mi hanno fatto entrare in questa vita e quel giorno me ne andrò. Puff

46 meravigliosi anni di cui non cambierei niente, se non la velocità con cui sono trascorsi.

Cazzo però, come al solito sono in ritardo! Ma è possibile che debba sempre fare tutto di corsa? Neanche la preparazione alla mia morte posso godermi in pace. Non ho ancora comprato la biancheria intima, devo andare dal parrucchiere, scegliere il vestito ed ho dei peli sulle gambe che potrebbe competere con la Selva Morena. Una laurea in medicina e due specializzazioni ed ancora non ho fugato i miei dubbi sul fatto se i peli continuino a crescere o meno anche dopo la morte. A parte l’orrore di immaginarmi cadavere peloso, non sopporterei l’idea che dopo una guerra feroce ed estenuante di tutta una vita a botte di cerette, pinzette e laser, alla fine avrebbero loro il sopravvento.

Tre giorni di tempo sembrano tanti, ma se inizi a pensare a tutti i dettagli di un suicidio fatto con tutte le regole, ti accorgi che sono ben pochi.

Anche scegliere il metodo non è stato semplice. Nei miei corsi di suicidio creativo ho sempre preso a modello il suicidio di Evelyn McHale. Che invidia! Se avessi la certezza del risultato sceglierei di morire come lei, ma in questi lunghi anni ho visto troppe scatole craniche fracassate ed arti disarticolati per poter sfidare la statistica. Voglio essere bellissima e soprattutto voglio essere sorridente.

Già! Sembra facile far sorridere un cadavere o anche soltanto trovare un complice che ti permetta di farlo. Ho pensato inizialmente di chiedere ad Aristide, uno dei pochi che non avrebbe fatto tante storie. Ma poi mi sono ricordata del suo gusto per le cose brutte ed ho rinunciato. Chissà come mi avrebbe trasformata. Sfidare la sorte sì, ma non fino a questo punto.

L’unica persona a cui avrei potuto chiedere è Mazen. Del resto è anche uno dei pochi ad aver saputo della diagnosi ed uno dei più fedeli sostenitori nonché collaboratori dei miei deliziosi suicidi. Quanti ne abbiamo ideati e realizzati insieme e sempre con grande soddisfazione nei risultati. Assistenti al suicidio perfetti!

Ho pensato comunque di chiedere consiglio ad Aristide, la sua creatività mascherata da falsa originalità (gli piace molto pensarsi così) mi ha sempre divertito. Come mi aspettavo mi ha proposto qualcosa di splatter, un’elettrocuzione che avrebbe provocato il black-out di tutta Dublino al momento finale della finale dei mondiali di rugby. Proposta bocciata per motivi estetici (non sopporto immaginarmi con i capelli arruffati), pratici (non avrei saputo come avere accesso alla centrale elettrica, l’unico collegamento che ho con i centri del potere elettrico è il tecnico della televisione che mi sono scopata per errore qualche anno fa) ed organizzativi (la finale cade a maggio, e questo manderebbe a puttane la cifra tonda dei miei anni). Però ho apprezzato l’idea.

Pubblicato in redazione

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in racconti e novelle

16/12/2033 – ore 20:00

Scrigno non mi serve più al bancone appoggiando distratto il solito calice di bianco fermo mentre prende un'altra ordinazione. Adesso mi riserva un tavolo, il mio preferito, quello nell'angolo vicino al palco. Sa che mi piace la musica, e che soprattutto mi piacciono i musicisti giovani, avidi di esperienze e di racconti. Fare sesso con una milf è una delle cose da collezionare nei loro tour e da raccontare ad amici e fan. Fare sesso con un musicista invece è un modo per tenermi in allenamento ed essere sempre al passo con gusti e perversioni.

Questa sera ho voglia di festeggiare: diciassette anni fa mi trovavo a Firenze, davanti a Santa Maria del Fiore, avvolta dalla nebbia. Ero là per un incontro, un uomo che non avevo mai visto prima ma che mi avrebbe fatto una promessa, la più importante.

Entro e vado diretta verso la targhetta con su scritto Riservato Solani. Noto il palco vuoto, nessun tecnico del suono al mixer. Mi tolgo il cappotto e lo appoggio sulla sedia accanto alla mia, slaccio il foulard quel tanto che basta per lasciare scoperto l'inizio del seno, tiro fuori le sigarette, bisogna sempre prepararsi un alibi per le conversazioni troppo pesanti.

«Il solito whiskey?»

«Sì, grazie. Scusa Scrigno, questa sera non suona nessuno?»

«Margherita è mercoledì, è la sera della settimana in cui di solito rimorchi semplici clienti».

Ogni sera della settimana ha le sue abitudini, da molto tempo, e il mercoledì è la prima in cui mi affaccio sul mondo esterno dopo il fine settimana. È la sera in cui mi piace tentare la sorte e provare per pochi istanti quella piacevole ansia data dall'incertezza. Voltare le spalle all'intero locale aspettando di vedere la sedia muoversi e una voce maschile chiedermi se può accomodarsi.

Sfilo una sigaretta dal pacchetto e mi dirigo verso l'uscita. Scrigno mi fa segno di andare nel retro, gli dico di no, ho bisogno di una boccata d'aria fresca. Quando rientro il whiskey non è ancora arrivato. Mi siedo con le spalle sempre rivolte alle persone.

Una mano compare alla mia sinistra e avvicina un bicchiere alle mie labbra. Non dice una parola, non dico una parola. Lo sfioro e lui lo inclina fino a farmi scivolare un po' di quel liquido bianco in bocca. Lo mando giù.

Dalla mia reazione deve aver capito che non mi è dispiaciuto, così ripete il gesto.

Mi scioglie i capelli e lascia che cadano sulle mie spalle, poi sposta il cappotto e si siede.

«È vodka, liscia».

«È buona».

«Ne vuoi ancora?»

«Vorrei il mio whiskey se a te e a Scrigno non dispiace».

Fa un gesto verso il bar e in un attimo quello che ho ordinato si materializza davanti a me.

Avrà poco più di vent'anni, potrebbe essere mio figlio se dimostrassi davvero l'età che ho. Potrebbe esserlo ugualmente ma la cosa non mi interessa e pare non interessare nemmeno a lui.

Non chiede niente di me e non racconta nulla di sé ma conversa e lo fa divinamente. La noia che abita con tanta facilità le mie giornate scompare all'improvviso e mi trovo a ridere di gusto, per la prima volta dopo Andrea.

Alla nostra prima consumazione se ne aggiunge una seconda e poi una terza, alla quarta dico no, voglio restare lucida, voglio ricordarmi di lui. Si dirige verso la cassa e salda il conto, Scrigno da lontano mi fa l'occhiolino, segno che non gli devo nulla.

Il ragazzo torna da me, prende il cappotto dalla sedia e mi aiuta a indossarlo.

«Abiti qui vicino?»

«Sì».

«È perfetto».

 

Pubblicato in racconti e novelle

16/12/2033 – ore 20:00

Scrigno non mi serve più al bancone appoggiando distratto il solito calice di bianco fermo mentre prende un'altra ordinazione. Adesso mi riserva un tavolo, il mio preferito, quello nell'angolo vicino al palco. Sa che mi piace la musica, e che soprattutto mi piacciono i musicisti giovani, avidi di esperienze e di racconti. Fare sesso con una milf è una delle cose da collezionare nei loro tour e da raccontare ad amici e fan. Fare sesso con un musicista invece è un modo per tenermi in allenamento ed essere sempre al passo con gusti e perversioni.

Questa sera ho voglia di festeggiare: diciassette anni fa mi trovavo a Firenze, davanti a Santa Maria del Fiore, avvolta dalla nebbia. Ero là per un incontro, un uomo che non avevo mai visto prima ma che mi avrebbe fatto una promessa, la più importante.

Entro e vado diretta verso la targhetta con su scritto Riservato Solani. Noto il palco vuoto, nessun tecnico del suono al mixer. Mi tolgo il cappotto e lo appoggio sulla sedia accanto alla mia, slaccio il foulard quel tanto che basta per lasciare scoperto l'inizio del seno, tiro fuori le sigarette, bisogna sempre prepararsi un alibi per le conversazioni troppo pesanti.

«Il solito whiskey?»

«Sì, grazie. Scusa Scrigno, questa sera non suona nessuno?»

«Margherita è mercoledì, è la sera della settimana in cui di solito rimorchi semplici clienti».

Ogni sera della settimana ha le sue abitudini, da molto tempo, e il mercoledì è la prima in cui mi affaccio sul mondo esterno dopo il fine settimana. È la sera in cui mi piace tentare la sorte e provare per pochi istanti quella piacevole ansia data dall'incertezza. Voltare le spalle all'intero locale aspettando di vedere la sedia muoversi e una voce maschile chiedermi se può accomodarsi.

Sfilo una sigaretta dal pacchetto e mi dirigo verso l'uscita. Scrigno mi fa segno di andare nel retro, gli dico di no, ho bisogno di una boccata d'aria fresca. Quando rientro il whiskey non è ancora arrivato. Mi siedo con le spalle sempre rivolte alle persone.

Una mano compare alla mia sinistra e avvicina un bicchiere alle mie labbra. Non dice una parola, non dico una parola. Lo sfioro e lui lo inclina fino a farmi scivolare un po' di quel liquido bianco in bocca. Lo mando giù.

Dalla mia reazione deve aver capito che non mi è dispiaciuto, così ripete il gesto.

Mi scioglie i capelli e lascia che cadano sulle mie spalle, poi sposta il cappotto e si siede.

«È vodka, liscia».

«È buona».

«Ne vuoi ancora?»

«Vorrei il mio whiskey se a te e a Scrigno non dispiace».

Fa un gesto verso il bar e in un attimo quello che ho ordinato si materializza davanti a me.

Avrà poco più di vent'anni, potrebbe essere mio figlio se dimostrassi davvero l'età che ho. Potrebbe esserlo ugualmente ma la cosa non mi interessa e pare non interessare nemmeno a lui.

Non chiede niente di me e non racconta nulla di sé ma conversa e lo fa divinamente. La noia che abita con tanta facilità le mie giornate scompare all'improvviso e mi trovo a ridere di gusto, per la prima volta dopo Andrea.

Alla nostra prima consumazione se ne aggiunge una seconda e poi una terza, alla quarta dico no, voglio restare lucida, voglio ricordarmi di lui. Si dirige verso la cassa e salda il conto, Scrigno da lontano mi fa l'occhiolino, segno che non gli devo nulla.

Il ragazzo torna da me, prende il cappotto dalla sedia e mi aiuta a indossarlo.

«Abiti qui vicino?»

«Sì».

«È perfetto».

 

Pubblicato in redazione

Sono una vera dura, amore non ne chiedo mai.

Raccolgo quel che arriva per caso, come succede con le monetine che cadono dalle tasche e rimangono incastrate tra i cuscini del divano. Quando gli ospiti si alzano, si dileguano e la sala è vuota, senza qualcuno attorno che mi osservi, di nascosto, vado a cercarle. E a raccoglierle.

Voglio dire, è pur sempre una forma di accattonaggio, ma non si tratta di elemosina manifesta. Lo trovo ben diverso: alla fin fine quel che arriva è comunque un premio. E questo premio, se non te lo aspetti, se non è lì per te, è ben più goduto.

Allo stesso modo era arrivato Marco. Era entrato nella mia boriosa esistenza senza chiedere il permesso, senza che lo cercassi. Per casualità, ma con prepotenza, ché quelle come me venerano il dio del caso, ma ne adorano anche l'arroganza: non pretendere nulla, badate bene, non è una forma di pigrizia quanto una smodata passione per la sopraffazione.

A Marco lo avevo conosciuto la scorsa estate ad una festa, la festa di compleanno di Ester. Lui era lì per lei: non perché fosse il suo compleanno, intendiamoci. Non come me, che presenziavo per una certa forma di doverosa cortesia, nonostante odiassi stare in mezzo a troppa gente. Marco era lì per lei, perché le faceva il filo; ne era innamorato, è sempre stato invaghito di Ester, lo è tuttora. Quando arrivai, lo vidi seduto in giardino, su quella poltrona in vimini sotto il salice piangente. Era belloccio, tutto sommato: un bel viso abbronzato, i lineamenti abbastanza marcati, mascolini, anche se armonici nel complesso. Vestito bene: semplice, minimale. Ma non è per la bellezza che lo notai, quella è merce sopravvalutata, bensì per il suo sguardo perso e assieme fisso, puntato sul culo di Ester, sul suo bel fondoschiena fasciato in un tubino rosso, sfoggiato con ostentazione per l'occorrenza.

La convinzione che Ester fosse la fedele fidanzata di Davide mi rincuorò, non per una improvvisa e immotivata gelosia che non potevo provare verso uno sconosciuto qualsiasi, ma dovrei piuttosto dire che mi rassicurò, mi guidò come un faro acceso in piena notte, che illumina la strada salvaguardandoti dal rischio, dal pericolo. E lì mi resi conto: Marco poteva essere l'uomo per me, e io potevo essere la sua seconda scelta. Glielo avrei fatto capire? Certo che no. Mi sarei nascosta, all'ombra di una qualsiasi altra presenza più distinguibile, affinché mi venisse a cercare. E sarebbe venuto, ma solo se lo avesse voluto davvero. E, ne ero certa, lo voleva.

“Piacere, io sono Valentina” gli avevo risposto, infatti, solo dopo che - al banco del bar - mi si era avvicinato un po' troppo, pestandomi il piede accidentalmente e uscendosene con uno “Scusa, perdonami, non l'ho fatto apposta” e aggiungendo poi “Ah, sono Marco” mentre mi porgeva la mano. Per pura educazione, di certo, non perché mi trovasse attraente. Del resto, “piacere” lui non lo aveva detto, o almeno non lo avevo sentito. Mentre io, dolorante, nonostante fossi stata calpestata ci avevo tenuto a sottolineare che ero contenta di fare le sue conoscenze. E questo la dice lunga su come tutto ebbe inizio, tra me e lui, e su come tutto proceda, tra me e la vita.

Lui è stato il mio incidente, in un certo senso. Io sono stata la sua seconda scelta. E questo mi lusinga, non perché impazzisca all'idea di essere seconda a qualcuno, sia ben chiaro, sarebbe assai triste, bensì perché è un pensiero davvero consolatorio: essere comunque la sua scelta, al di là delle classifiche, che quelle non contano.

Sono innamorata di lui? Non lo so. Anche la passione, come la bellezza, è roba sopravvalutata.

Lui è innamorato di me? Non so neppure questo. E, soprattutto, a chi importa? Dovrei dire che sono felice di stare lì al mio posto, accanto a lui, a travasare da me quel che c'è in lui da colmare, ché l'amore come sentimento invece esiste, e si trova nel prestarsi a qualcuno, senza negarsi ai suoi bisogni. Siamo vasi comunicanti, in questo, fatti forse l'uno per l'altro.

La scorsa settimana sono tornata a casa e Marco non c'era ancora. Aveva lasciato il cellulare a casa, sulla mensola della cucina: se me ne sono accorta è stato per il drin che avvisava dell’arrivo di un messaggio e per la luce dello schermo che balenò nella semi oscurità della stanza. Non avrei mai voluto leggere quel che c'era scritto, sarei pronta a giurarlo, ma l'anteprima della notifica mi avvisava che era da parte di Ester. Una mia amica, anche, quindi ero autorizzata ad aprirlo.

“Rifacciamolo”, diceva. E un drin dopo “ne ho sempre voglia”, aggiungeva. Che cosa?

L’ “amore mio” finale chiariva ogni possibile dubbio.

Mi sono infuriata? Non lo so. Ma, naturalmente, mi sono vista costretta a cancellare il messaggio, o Marco se ne sarebbe accorto e non avrei potuto far finta di nulla, la miglior scelta possibile.

Rincasato, sembrava felice, e nel vederlo così il mio cielo nero si era fatto terso. Ogni nuvola spazzata via. Sì, trovo serenità nel compiacerlo, esisto nell'assecondarlo. Godo del non essere io a godere, lasciandogli spazio per fare quello che vuole, non mostrando quel che dovrebbere essere frustrazione, ma che chiamerei apatia.

Pubblicato in redazione

 

Calamità innaturali
di Alessandra Ceccoli e Nicola Rovetta

La vide per la prima volta, in lontananza, di fronte alla porta della terza emme; doveva essere arrivata da un'altra scuola, o l'avrebbe certamente notata in precedenza. Dietro di lei, il lungo corridoio con le altre classi svanì nel nulla, solo il danzante movimento dei sui biondi capelli rimase nella mente di Eddy, tutti gli altri pensieri finirono inevitabilmente nell'oblio. L’idea che lei non fosse reale sfiorò la sua mente, per dissiparsi non appena le passò accanto, il sorriso che le fece con le sinuose fossette pronte a mandargli in pappa il cervello, il naso e le guance punteggiati da perfette imperfezioni. Da subito non gli sembrò estremamente altezzosa e piena di sé come le altre ragazze, capaci di attirare nient’altro che il disprezzo o, per lo più, il dindarolo del giovane scolaro.

Quando sparì dietro Eddy, calpestando l’ombra di lui, volle da subito rivederla, l'ineluttabile desiderio di conoscerla era così puro: avere la possibilità di parlare con una ragazza come lei o semplicemente divertircisi insieme era il suo unico desiderio. Quando se ne fu andata si sentì le orecchie molto calde e, al tatto, gli apparvero grandicelle rispetto al solito.

Consapevole della propria asociale eccentricità, il quindicenne si rese conto che le solite ansie che provava vicino a gente sconosciuta si ingigantivano a dismisura con una ragazza così radiosa, dolce e carina. Doveva riuscire a invitarla a chiacchierare, o se non altro riuscire a rivolgerle poche striminzite parole. Come avrebbe potuto riuscirci? Non aveva la ben che minima idea di come approcciarsi. ''Potrei passarle accanto di proposito e farle dei complimenti''.

Alla pari dell’ombra che seguiva sempre il corpo di Eddy nei suoi movimenti, l’ansia lo accompagnava, ovunque lui andasse. Troppo spesso finiva per oscurargli intelligenza e senso pratico, e quando succedeva si sentiva un vero idiota. Eddy aveva cercato di fare pace con l’Ombra, ché forse solo accettandola se la sarebbe fatta amica, ma era lei piuttosto a far di tutto per rimanergli ostile. D’accordo, da un certo punto di vista, osservando la scena da fuori, pareva lo assecondasse: quel che lui faceva, lei lo riproduceva; rimaneva dietro a lui, sempre qualche passo indietro, ma poi finiva sempre per travolgerlo, precederlo in un certo senso, anticipando le sue azioni e ribaltando la percezione del povero ragazzo. E, anziché essere la sua proiezione, diventava sovente la sua premonizione. La loro era una relazione patologica: l’ombra provava per lui un amore malato, possessivo. Voleva appiccicarglisi addosso, essere l'unica custode del suo lato oscuro, di contro lui la odiava e la temeva, pur considerandola un luogo sicuro in cui rifugiarsi. Era un’amante gelosa e capricciosa: se lui cercava di fare un rapido passo avanti per scrollarsela di dosso, lei per ripicca sabotava i suoi piani, finendo per inglobarlo.

Nemmeno a dirlo, le si era appena presentata l’occasione giusta: minacciata dalla eterea figura della ragazza, come spesso accadeva, l’Ombra aveva deciso di spegnere la luce sul raziocinio di Eddy, mandandogli in corto circuito ogni abilità relazionale.

Convinto di essere totalmente ottenebrato agli occhi della ragazza e temendo di essere del tutto ignorato, per disfarsi dell’oscura presenza, Eddy tendeva involontariamente ad attivare meccanismi di difesa atti a evidenziare la sua presenza al resto del mondo. Quello delle orecchie che crescevano a dismisura era solo uno spiacevole esempio. Gli era capitato di vedersi rimpicciolire i piedi a tal punto da non riuscire più a reggersi senza doversi sostenere, oppure di cambiare il colore del viso a seconda di chi aveva di fronte, o addirittura di squagliarsi a terra a seguito di uno strano processo di liquefazione.

E il peggio era che non poteva capire o sapere se si trattasse di una sua sensazione o se la cosa fosse visibile anche all’esterno. Questa volta la ridicola sorte era toccata alle sue orecchie, ma fortunatamente era riuscito a rassicurare Melissa e a convincerla che non c’era nulla di cui preoccuparsi.

In un bel giorno assolato, nel verde giardino della scuola, Eddy vide nuovamente arrivare Melissa.

Pur esprimendo assoluta pienezza e unicità, nemmeno lei sembrava presentarsi mai del tutto sola. Dove c’era Melissa, c’era L’Aura e, a qualsiasi occhio attento, la cosa non sfuggiva. L’Aura la amava di un amore puro, incondizionato e corrisposto, un amore fraterno. Melissa, in fin dei conti, doveva esserle grata perché le regalava una luce singolare, che faceva sì che nessuno le potesse levare gli occhi di dosso. E doveva ringraziare la brillantezza di L’Aura se poteva permettersi di sfoggiare con orgoglio quel pizzico di sicurezza e vanità, senza che stonassero o risultassero inopportune. La si poteva definire una corazza di protezione e positività, fatto sta che, assieme a lei, Melissa non doveva temere nulla e poteva considerarsi immune alle avversità che la vita spesso le riservava. Al contrario, quando la sua luce era più soffusa, vere e proprie calamità si sprigionavano dal corpo della ragazza. Era successo di rado, ma se al telegiornale si parlava di incendi, terremoti o uragani, il più delle volte c'era il suo zampino.

Eddy si fece forza e, di scatto, si mise proprio di fronte a Melissa, mentre gli passava accanto, assicurandosi di nascondere l’Ombra col suo stesso corpo. I due si scontrarono quasi, forse non era quella la maniera migliore per incontrarsi, ma accadde inevitabilmente in modo istintivo.

''Ci siamo già visti''? Solitamente le ragazze lo snobbavano al primo sguardo ma lei, nonostante lo strano approccio iniziale, non si lasciò intimorire.

''Ccciao, sono Eddy...non ci conosciamo ma volevo dirti che sei molto carina''.

''Sei gentile, io sono Melissa. Mi sei spuntato fuori così all'improvviso, strana questa cosa...hai corso? Hai il fiatone''. Non poteva fare a meno di notare la spossatezza del ragazzo. Nel vedere così vicini quegli occhi dalle molte sfumature, Eddy si sentì il corpo divampare. Unendosi, tutti quei colori mostravano un brillante verde smeraldo, erano molto simili a quegli ammassi informi di gas che il giovane vedeva nelle riviste di astronomia e ci si perse come quando si nascondeva dal mondo dentro la propria mente. ''Che sta succedendo, oddio mi sta venendo uno svenimento'' Non gli era mai capitato prima, ma nemmeno l'agitazione era mai stata tanto forte. “Ho la testa così pesante''.

“Oddio...sei sicuro di stare bene?!” Il volto corrugato e sconvolto di lei lo spaventò ancor di più.

“Perché, cos'ho che non va?!”. Seguendo la direzione dei suoi occhi, si portò le mani alle orecchie, come dopo il loro primo incontro sentì subito del calore, questa volta molto più forte. “Oddio...cosa sono queste?” Se le prese tra le mani e alzò entrambe le braccia, poi se le portò davanti agli occhi già fissi e spalancati a dismisura.

“Forse dovresti andare all'ospedale?”

“Tranquilla, non è la prima volta che mi succede, tra un po’ passa. A te piace leggere?”

“Certo, i gialli li amo. Non ho mai trovato un ragazza con cui parlare di queste cose, a te cosa piace?”.

Melissa fissava le orecchie e le orecchie fissavano Melissa, il disagio era palpabile.

“Mi piace il genere fantasy, un po’ la letteratura russa e poi molto i romanzi storici. Sono sempre molto agitato quando incontro una persona nuova e con una ragazza bella come te è anche più difficile. Ma mi piace molto parlare con te, sono contento di averti incontrata.”

Stupita dalle parole di Eddy e oltraggiata dall’inaspettato moto di coraggio, L’Ombra divenne nera di rabbia e con aria di sfida si staccò dal fedele compagno di vita. Nel tentativo di ingelosirlo, decise di confondersi momentaneamente con l’ombra di un pino del giardino scolastico, osservatore immobile e imparziale.

Capì subito che il suo atto di ribellione non avrebbe dato troppo fastidio a nessuno: non era fatta per nascondersi, ma piuttosto per imporsi e, anche se il concetto potrebbe sembrare paradossale, ebbe una improvvisa illuminazione. Sfrontata e impertinente, nel tentativo di spogliare Melissa da L’Aura, le si gettò addosso e cercò di offuscare quella fastidiosa luce, approfittando del passaggio di una nuvola per non dar troppo nell’occhio.

La ragazza subito emise un grido di spavento, inseguendo con sguardo esterrefatto l’Ombra che le girava attorno scattante e furibonda, poi iniziò a correre qua e là per cercare di scrollarsela di dosso.

“Fermati, vieni qua... smettila di spaventarla”. Eddy Voleva solo continuare a chiacchierare, rischiava di non riuscire più a parlarle per la paura che le era venuta. “Sarò dannato a portarmela addosso per l'eternità”. Lo sguardo del ragazzo si abbassò, gravemente sconfortato dalla situazione.

Ci fu un attimo di confusione: L’Aura, nonostante la sua innata imperturbabilità e tranquillità interiore, oppose resistenza, tentò senza successo di divincolarsi dalla morsa dell’oscura presenza, cercando di continuare a splendere con tutte le sue forze, poi la sua luce divenne intermittente fino a scomparire pian piano. Eddy si sentì dapprima rinvigorito, improvvisamente abbandonato dal fastidioso torpore, fin quando l’Ombra tornò a incatenare il già sconfortato scolaro. Melissa, di contro, pur se interessata e lusingata dalla compagnia di Eddy, divenne estremamente vulnerabile, sovraesposta agli agenti esterni e, con ciò, il suo fascino iniziò a scolorirsi anche agli occhi del ragazzo.

I due, completamente divorati dall'angoscia della situazione, non si parlarono più per quelli che parvero alcuni lunghi istanti.

Non appena lui si girò per andarsene, con le grosse orecchie dondolanti e senza nemmeno salutarla, Melissa iniziò a piangere. Quelle poche lacrime diventarono pian piano sempre più copiose, fino a trasformarsi in ruscelli che le ricadevano abbondanti sulla candida pelle delle guance.

Dopo aver percorso lentamente i metri che lo separavano da lei, ancora sconfortato e appesantito dal terribile peso dell’Ombra, Eddy iniziò a sentire un forte gorgoglìo e non appena fece per voltarsi, il muro d'acqua inesorabilmente lo travolse.

Il ragazzo trascorse alcuni mesi in ospedale, per i dovuti accertamenti, dopodiché la madre decise di iscriverlo in un’altra scuola e i due non si rividero mai più.

 

Foto di Dino Morri, tratta da People di Dino Morri e Renzo Semprini Cesari, in uscita ad aprile 2018 per Jona Editore

Pubblicato in particolari

“E così, finalmente ci vediamo!”

La stanza è grande e accogliente con due grandi finestre all’inglese attraversate da pesanti infissi di legno scuro. Ci sono due poltrone di velluto tinta cammello, un lettino o una chaise-longue, forse, due sedie, una bella scrivania in noce lucidato, con quattro barattoli colmi di penne e un quaderno. Le pareti sono color crema. Non c’è lampadario: solo quattro grandi lampade a terra, una per ogni angolo della stanza più una ricurva sulla scrivania.

Heinrich Wanner è un uomo abbastanza alto, dal viso tondo e corporatura forte. Una fisiognomica spicciola potrebbe definirlo un uomo pacioso e autorevole allo stesso tempo: guance paffute, occhietti chiari e sopracciglia e capelli biondo miele, questi ultimi tagliati corti a mò di istrice. Indossa una camicia bianca a maniche corte, una cravatta mozza carta da zucchero con pantaloni blu scuro e porta tondi occhiali con la montatura dorata. Heinrich non ha gusto nel vestire, d’altronde è tedesco, sebbene trapiantato a Boston da anni e poi è un professionista, non bada all’aspetto esteriore.

Heinrich Wanner, il dottor Wanner, è uno psicoterapeuta. Lo si potrebbe dire dai suoi occhiali, vagamente junghiani.

“Sì, finalmente” aveva risposto lei. La sua nuova paziente, Emma. Una donna bionda e minuta, carnagione chiarissima, vestita di grigio antracite. Emma era bella o forse lo era stata nonostante le occhiaie pesanti e un’espressione persa, che non riusciva a camuffare, sebbene volesse darsi un tono, sembrare distinta, come se non fosse lì per un disperato bisogno di curare la sua psiche.

Emma aveva chiamato lo studio una prima volta, aveva preso appuntamento, poi aveva richiamato e disdetto con una scusa, cui ne seguirono altre cinque. Il dottor Wanner lo sapeva che fanno tutti così. In realtà è una pratica messa in atto più dalle donne, che s’inventano impegni con i figli, con la madre malata e così rimangono attaccate alle proprie sofferenze.

La segretaria del dottor Wanner, Erika, lo sapeva bene anche lei. D’altronde, lei stessa si era comportata così tanti anni fa, aveva ventisei anni ma poi finalmente si decise “ad aprire la sua anima” al dottore, come diceva lei; il quale, oltre a curarla la prese anche a lavorare con sé e lei divenne la sua segretaria. Erika lavorava lì da sedici anni.

“Si accomodi, dove vuole. C’è il lettino, quella chaise-longue lì o la poltrona o la sedia. Forse sulla poltrona sta più comoda”.

Emma era sprofondata nella poltrona.

“Mi parli, Emma. Se preferisce che ci diamo del tu, io sono d’accordo ma preferirei tuttavia il Lei per una forma di rispetto nei suoi confronti. Non so se mi ha capito ma ciò che voglio dire è che io sono adesso il suo psicoterapeuta e Lei la mia paziente”.

“Va benissimo il Lei”.

“Mi dica, Emma”. Il Dottor Wanner la guardava ora con aria impegnata, gli occhi strizzati. Lui si era seduto su uno sgabello che aveva piazzato davanti a lei ma in diagonale rispetto alla sua faccia. Aveva chinato il busto. Sembrava pronto a mungere e ad Emma quasi venne da ridere.

“Cosa devo dirle?”. Emma aveva abbozzato un sorriso. Non sapeva minimamente cosa aspettarsi.

“Ah, certo. Lei non ha idea di come si svolga una seduta. Mi diceva Erika, la mia segretaria, che è la prima volta che lei varca la soglia dello studio di uno psicoterapeuta”.

“Sì”.

“Bene. Mi dica perché è qui. Cosa l’ha spinta a cercare il mio aiuto”. Ora sorrise lui.

Sospiro. Emma guarda a sinistra in alto, poi in basso e poi parla: “E’ un periodo un po’ buio e devo rimettere insieme un po’ i pezzi”.

“Continui a parlare” e il dottore accompagnò alle parola il gesto del suo braccio mosso come un’onda, ma a scatti.

“Sono separata da tre mesi. Mio marito, il mio ex-marito, è in carcere. E’ in carcere, perché ha cercato di uccidermi”.

“Vada avanti”.

Emma si aspettava una parola accorata, uno sguardo compassionevole ma niente. Forse è così che funziona la seduta.

“Mi picchiava, era geloso senza motivo”.

“Quanti anni è stata sposata?”

“Dieci. Lo so, è tanto tempo ma all’inizio non era così”.

“Cosa intende per ‘l’inizio’”?

“I primi tre, quattro anni di matrimonio. Noi siamo stati fidanzati un annetto, ci siamo sposati subito.”

“E come mai, secondo Lei, suo marito è cambiato?”

“Da quando ho ricominciato a lavorare, era infastidito da tutti”.

“E che lavoro faceva Lei?”

“Io lavoravo in un canale televisivo. Oh, niente di importante. Una rete locale ma mi piaceva”.

“E come lo ha trovato quel lavoro?”

“Dopo la scuola di giornalismo, aveva fatto uno stage nella rete in cui lavorava il mio direttore e poi lui mi ha contattato qualche anno dopo, quando hanno aperto il nuovo canale”.

“E perché ha chiamato proprio Lei?”

“Suppongo, perché avessi lavorato bene prima. Si era ricordato di me e così ho ricominciato”.

“E lavora ancora lì?”

“No”

“E che cosa faceva, che ruolo aveva?”

“Ero in redazione. Poi mi hanno proposto un programma pomeridiano leggero, di quelli con un divano, cinque-sei ospiti e un tema da dipanare, era divertente”.

“E perché?”

“Lavoravo ma non sentivo pressioni. E poi si parlava di cucina, musica country, elezioni presidenziali ma sempre in modo leggero, al limite dell’inconsistenza, insomma, niente di impegnativo”.

“Ma a Lei piaceva”.

“All’inizio ho cercato di dare un taglio più serio al programma ma non era stato proprio possibile”, Emma aveva sorriso: “Come puoi parlare di politica internazionale, quando gli opinionisti sono un giocatore di baseball, un cantante country, e un grosso allevatore dell’Arkansas”.

“Ha mai pensato di fare un altro lavoro?”

“Sì, certo. Però al Quincy Channel ci stavo bene, eravamo una famiglia”.

“Perché le donne pensano sempre di dovere trovare una famiglia ovunque vadano. E poi pretendono di ricevere indietro quell’affetto che devono riversare comunque e sempre”, pensava Heinrich tra se e sé e intanto la guardava attento.

Aveva bussato Erika.

“Sì?”

“Sono Erika, Dottore”.

“Cosa c’è?”

“C’è sua moglie al telefono”

“E cosa vuole?”

“Non lo so ma è urgente”

“Mi scusi”. Il Dottor Wanner si alzò di scatto e si incamminò verso la porta dicendo con un sorriso garbato “Mai una volta che mi lasci in pace!”

Intanto Erika era entrata nella stanza, ne aveva approfittato per sistemare alcune cartelline sulla scrivania del Dottore. Incrociò lo sguardo di Emma. Le sfuggì un: “Come va?” Emma rispose nell’unico modo in cui si risponde in questi casi: “Bene, grazie”.

Nel frattempo, il Dottor Wanner era rientrato di fretta e con uno scatto si era seduto sullo sgabello ma prima aveva chiamato fuori dallo studio Erika, per dirle che non doveva mai rivolgere parola ai suoi pazienti. Le disse così: “Non mi piace che interloquisci con i miei pazienti, d’accordo, Erika? Chi ti dà il permesso?” Erika rispose: “Le ho chiesto solo come stesse, così per educazione” e lui: “Ecco, lascia perdere la tua educazione. Sei una segretaria? Bene, fai la mia segretaria e basta. E poi ti prego, evita di passarmi quella rompipalle! Ah, un’altra cosa: evita anche questo tremendo smalto rosso, sai che non mi piace”.

Emma, che si era alzata per guardare fuori dalla finestra era rimasta incuriosita per la verità dalla voce bassa e concitata del dottore e aveva voluto avvicinarsi alla porta che dava sul corridoio, dove era piazzata la scrivania di Erika.

Aveva sentito tutto.

Possibile che quel pacioso dottore fosse così volgare? Forse sua moglie era una specie di virago, forse Erika non aveva rispettato una sorta di protocollo che vige negli studi degli strizzacervelli: non interagire con i pazienti. Forse. Eppure quell’atteggiamento non le era piaciuto ma aveva deciso di dare tempo a Wanner e di darsi tempo per capire.

Il Dottore, dunque, si era piazzato sullo sgabello.

“Mi scusi, contrattempi ogni tanto. Dunque…” ma Emma lo interruppe: “la signora Erika è proprio gentile” e lui: “Ma sì, è la mia segretaria, cosa vuole. Ci conosciamo da tanti anni e ancora mi sopporta!” disse ridacchiando. “Comunque, mi diceva del suo lavoro alla tivù dove non lavora più”.

“Esatto. No, non ci lavoro più da un anno”

“E perché?”

“Perché mio marito era convinto che avessi una storia con il mio direttore, è arrivato a minacciarlo”.

“E lei ce l’aveva, la storia?"

“No, certo che no. John era diventato come un padre per me”.

“E allora perché l’ha licenziata?”

“Non poteva più subire le minacce di mio marito. E poi le voci avevano cominciato per davvero a circolare, insomma, tutti pensavano che fossi la sua amante”.

“Se tutti lo pensano, forse qualcosa di vero c’è. Certe donne, forse tutte, non lo so, prima lanciano il sasso e poi nascondono la mano. Suvvia, avrà voluto essere carina con lui, per sdebitarsi dell’assunzione. Guarda Erika, sempre a sorridermi, con quello smalto rosso, ma cosa vuole da me? Lo so io cosa vuole da me” pensava Heinrich. “Era una mezza depressa, l’ho ripulita per benino e le ho dato pure un lavoro, ci credo che voglia essere carina, però poi la colpa sarebbe mia”, pensava convinto, Heinrich.

Silenzio. Il Dottore era assorto nelle sue considerazioni.

Emma non capiva se stesse elaborando una qualche teoria o semplicemente pensasse ai fatti suoi.

All’improvviso, il Dottore riprese con le domande: “Dunque, Emma, al tempo in cui faceva la soubrette” /”Scusi?”/”Dicevo, nel periodo televisivo”/”Guardi che non facevo la soubrette”/”Ah ma non ci sarebbe nulla di male!”/”Certo, solo che non facevo la soubrette”.

“Sì, già immagino: minigonna, trucco eccessivo, tacchi alti, lustrini. A chiedere il parere di un cantante country. L’hanno messa lì perché è avvenente, diciamo trombabile”, pensava Heinrich.

“Va bene, mi scusi, allora. Noi scienziati tendiamo a vedere il mondo della tivù tutto lustrini ma sappiamo che non è così dappertutto. Facciamo una cosa. Io non le faccio più domande, lei mi parli, mi parli liberamente ora non solamente del suo periodo lavorativo, ma di suo marito, di come si è sentita lei. A proposito, avete dei figli?”

“No”

“Sposati da dieci anni, senza un figlio. Quel poveraccio è andato fuori di testa. Forse lei non ne ha voluti, per tentare di essere una giornalista d’assalto oppure non è neanche in grado. Certe donne sono così inutili. Lo sanno anche loro, che diamine, che se non fanno figli sono donne a metà, persone a metà. Non me ne importa un accidente di quello che dice la psicologia moderna, anni e anni di evoluzione e siamo sempre qui: donne che frignano, che cercano disperatamente di essere come noi e  non si arrendono al fatto che non sono come noi”.

Emma lo destò dal suo teorizzare interiore: “Dunque, allora, visto che abbiamo cominciato con il lavoro, io proseguo. Come Le dicevo, a mio marito non andava che comparissi in video, non voleva che parlassi con i miei ospiti, perché erano quasi sempre uomini. Era geloso del mio direttore. Ha cominciato prima ad essere geloso, cioè un po’ lo è sempre stato ma non in maniera, come dire, pesante; ma adesso si mostrava triste, mi diceva che non ce la faceva a pensarmi circondata da ‘tutti quegli uomini’, a me una volta è venuto da ridere. Ma quali uomini? L’allevatore dell’Arkansas? O l’attorucolo da avanspettacolo con il parrucchino biondo platino? Solo che lui si è alzato dal divano e mi ha dato uno schiaffo. Era la prima volta. Io sono rimasta di sasso. Lui mi ha guardato, si è messo a piangere. Mi ha detto che lo avevo fatto sentire stupido, mi ha abbracciato e l’ho abbracciato anche io. La gelosia ti fa stare male, ti fa dire e fare cose tremende, di cui ti penti subito dopo, perciò ho cercato di comprendere. Lui è stato tranquillo per un po’, poi è tornato all’attacco. In una maniera diversa. Ha cominciato a sminuirmi. Mi diceva che il mio lavoro non valeva niente, che anche una senza laurea avrebbe potuto farlo, che tanto vale mostrare le cosce, che si vergognava a dire in giro ciò che facevo. Alle cene con i suoi colleghi, si faceva beffe di me e, intanto, flirtava con tutte quelle che gli capitavano a tiro. Una sera, tornando da una di quelle orribili serate, appena entrati in casa, mi tira per i capelli, da dietro e mi dice ‘ma chi cazzo era quello con cui hai parlato o dovrei dire ti sei comportata come un’oca?’-mi scusi per il linguaggio ma devo raccontare come stavano le cose- Comunque, io sinceramente non sapevo proprio di chi stesse parlando. Era una specie di festa con tante persone. Lui mi ha detto che era stufo delle mie balle e che stava male e poi mi ha detto ‘sei una troia’, così come se niente fosse. A quel punto ho avuto paura e non ho detto niente. Tremavo. Avevo paura di andare a dormire. Volevo andarmene via ma poi come avrei fatto a tornare a casa mia? Mi sono messa a letto, alla fine, ma sempre all’erta. La mattina dopo ero a pezzi. Quando mi sono alzata lui era già uscito, io mi sono preparata per andare a lavoro, nel frattempo mi avevo mandato dieci messaggi al telefono con le sue scuse, che era un periodo nero e mi augurava buona giornata, con tanti cuoricini. Io gli ho risposto “anche a te”. Quando sono tornata,in serata, lui era sul divano. Io ho pensato tutto il giorno a come affrontarlo ma soprattutto durante il tragitto di rientro. La verità è che ero terrorizzata. Alla fine ho pensato che avrei fatto come sempre, lo avrei salutato, forse con un bacio. Ho aperto, ho detto “Eccomi” e lui niente, allora mi sono avvicinata e lui: ‘Oh, è arrivata la diva!’ e…”

E Qualcuno bussò. Era Erika.

“Dottore, mi perdoni“ e lui: ”Ma quante volte devo dire di non interrompermi? Ma Lei mi ascolta o cosa?” e lei, assurdamente composta, davanti alla reazione esagerata di lui: ”Volevo solo dirLe che c’è il Dottor Blooming, è arrivato ora da New York, mi scusi, altrimenti non l’avrei disturbata” e lui: ”Ah, ma se è così! Arrivo subito! Emma mi perdoni!” E se ne uscì.

Il Dottor Blooming era un luminare, uno di quelli che se parlano male di te, tu sei finito. Ma il Dottor Blooming non parlava male di nessuno, era un professionista serio, infatti redarguì subito Wanner, appena saputo che aveva lasciato una paziente in studio per salutarlo. Gli disse che sarebbe andato in albergo, che si sarebbero visti dopo e si congedò. Wanner lo salutò garbatamente e non appena Blooming chiuse il portone dietro di sé, Wanner si scagliò contro Erika: “Belle figure mi fa fare!” e lei: “Ma Dottore, è uscito Lei e…” ma lui la interruppe:” Erika, stia zitta e torni a badare alle sue unghie”.

Emma, che si era messa a girovagare per la stanza, non appena il dottore era uscito, anche questa volta, si era avvicinata alla porta e aveva sentito tutto. Avrebbe voluto abbracciare quella donna e poi scuoterla: ma come poteva farsi trattare così, fosse anche lui il più scienziato degli scienziati della Terra?

Ed ecco ricomparire Wanner. Emma era ancora in piedi.

“Mi scusi, Emma. Mi scusi davvero ma non potevo proprio dire di no al Dottor Blooming”.

“Ah no? E allora perché te la sei preso con la tua segretaria, razza di meschino?” pensava Emma. Era soprattutto la frase sulle unghie che l’aveva mandata in bestia. Ma come si permetteva…

“Dunque, riprendiamo, mi diceva di suo marito, della sua ostinata gelosia, mi dica”.

“Mi chiedevo se conoscere da tanto tempo una persona, dia il diritto di trattarla male”, disse Emma.

Wanner stava zitto e ad Emma venne da dire: “Lei che ne pensa?”

“Ah, non è importante ma se lo vuole sapere, dico no, certo. Suo marito si è approfittato del suo ruolo e della confidenza che si era giustamente creta fra voi”. Disse Wanner, in modo accademico.

“Quindi, anche lei con la signora Erika”.

“Prego?”

“Vi conoscete da sedici anni, ha detto, giusto?”

“Sì, giusto e allora?” rispose Wanner con un finto stupito sorriso.

“Lei la tratta malissimo, la offende. Perché non dovrebbe mettersi lo smalto? Perché a Lei, dottore, non piace?”
Wanner era imbarazzato e pensava che sicuramente il marito di Emma era stato portato all’esasperazione. Chi mai era questa soubrette, sì soubrette, che osava mettere il becco nelle sue faccende? E poi cosa mai aveva fatto di male?

“Emma, questi sono fatti miei.” Disse Wanner, con il solito sorriso di cortesia, “Non siamo qui per parlare della mia segretaria”

“E invece sì. Piuttosto, stavo parlando di Lei. Come posso fidarmi di Lei ed essere sicura che anche Lei non sia uno di quelli che odiano le donne? Non c’è bisogno di arrivare ad uccidere, sa. Basta trattare una donna come un essere senza cervello, dicendole se deve o no mettere lo smalto o pensare che una faccia la soubrette, solo perché lavora in tv. Dottor Wanner, la mia seduta finisce qui. Ho lasciato un maschio meschino e ora non posso ritrovarlo camuffato nel mio terapeuta” e se ne uscì, con l’intenzione di scuotere Erika e di pregarla di andare a lavorare altrove. Si sentiva come liberata. Forse meglio di una terapia.

Lei non avrebbe potuto più permettere a nessun uomo di comportarsi da maschio arrogante ma soprattutto non lo avrebbe più permesso a quelli “perbene”, quelli istruiti, lupi travestiti da agnelli, in realtà, più bigotti e più medievali di tutti.

Wanner rimase fermo, nel mezzo della stanza, incredulo, con lo sguardo fisso alla porta e disse sottovoce: “Troia”.

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Fece tre grossi respiri e uscì dal bagno. Finse di non aver trovato nulla, che fosse tutto normale. Lo baciò sulle labbra, come ogni mattina, un bacio rapido, di cortesia. "Buon lavoro". Lo guardò allontanarsi col passo lento, quasi trascinato, e sparire dietro al portone nero. Attese, senza respirare, il motore dell’auto che si allontanava lasciandola sola e al sicuro. Fino a una settimana prima la presenza di suo marito la faceva sentire protetta, adesso la spaventava. Matteo andava a caccia, amava il senso di potere che trovava nell’imbracciare e usare un fucile, scovare una preda e decidere della sua vita. Diceva che lo avvicinava a Dio. Gliela aveva trasmessa il padre di Alice quella passione, prima che legasse con lui ne era addirittura disgustato. Ma quello che Alice aveva trovato tra i suoi trofei era uno scalpo, non erano peli di animali. Ciò nonostante, dopo la sorpresa e prima della paura, quello che aveva sentito più di tutto era delusione. Credeva che tra loro non ci fossero segreti.

Si erano conosciuti alle elementari, durante la ricreazione. Frequentavano due classi differenti perché lui era più grande di due anni. La loro scuola era molto piccola, aveva in tutto cinque classi e una sola sezione, quindi i bambini si conoscevano tutti. Fu lei a presentarsi. Lo vedeva ogni giorno starsene seduto in un angolo del giardino a guardare gli altri che giocavano. Lo chiamavano il pappagallo. Gli si avvicinò presentandosi.

"Ciao, io sono Alice".

Lui continuava a guardarsi i piedi.

"Io sono Alice, tu come ti chiami?".

"Mm-m-matteo".

"Vieni a giocare con me?". Lo prese per mano e se lo trascinò dietro, e se gli altri ridevano di lei perché giocava col balbuziente a lei non interessava.

Iniziò così la loro amicizia, e cominciarono a frequentarsi anche fuori dalla scuola. Matteo fu il primo e l'unico che Alice invitò a casa, perché si vergognava di quella piccola costruzione di mattoni con l'intonaco scrostato che cadeva a pezzi, e l'esterno era nulla in confronto alla desolazione che trovavi dentro. C'era la poltrona sformata dal culo di suo padre, con a fianco il posacenere rosa a forma di reggiseno pieno di tabacco masticato. C’era la vecchia televisione tutta scocciata e di fianco il tiro a segno, alcune freccette attaccate, altre a terra. C’era il fucile da caccia sempre poggiato sul tavolo di legno, distante qualche passo dalla poltrona. Era l’unico tavolo della casa, sul quale mangiavano a pranzo e cena, ma non importava, suo padre doveva avere sempre vicino il proprio fucile. E poi c’erano i suoi vestiti sporchi, ovunque, buttati a terra come capitava. La cameretta di Alice era uno sgabuzzino con incastrati solo il letto e un armadio a due ante. Nel piccolo spazio che rimaneva a terra lei e Matteo passavano i pomeriggi a fantasticare.

Seduto alla cattedra Matteo si godeva quegli attimi di silenzio. I suoi alunni stavano svolgendo un compito in classe. Odiava il proprio lavoro. Ripensò a come fosse finito lì. Lui e Alice stavano insieme da quindici anni e convivevano da cinque. Quella sera tornò a casa e si accorse che lei era diversa. Una vita trascorsa a osservare gli altri, in disparte, gli aveva permesso di sviluppare un'eccezionale capacità visiva: solo guardando una persona, anche pochi secondi, percepiva le sue emozioni, ne scorgeva i tratti del volto mutati; e quella sera Alice era spaventata. Aveva le sopracciglia lievemente alzate e le labbra in fuori. Proprio come stamani, rifletté. Che fosse di nuovo incinta? Ci avevano dato dentro quel mese, era possibile, ma strano che non gli avesse detto niente. Forse voleva aspettare. Aveva sofferto molto l’altra volta, quando poi aveva perso il bambino. Raccontare a tutti di un aborto spontaneo l'aveva straziata. E anche a lui era dispiaciuto, ma non poteva condividerla con nessuno. Finse gioia alla notizia di quella nascita. Su richiesta di Alice lasciò il suo lavoro precario come redattore e accettò l'incarico di docente nell’Istituto privato. Avrebbe guadagnato di più, era per il bambino, lei ripeteva. E lui l'aveva accontentata. Ma accettare quell’incarico era stato solo un diversivo, un gioco di prestigio: mentre lei gioiva per la sua accondiscendenza, lui scioglieva del veleno nella tisana, e senza macchiarsi di nulla si era disfatto del feto. Lei non lo aveva mai scoperto. Tornare a scuola, poi, dopo quel lutto così atroce, era stata una prova di coraggio e di profondo amore, ma il gioco di prestigio non si era concluso e quello che Matteo aveva creduto, che sedere su una cattedra gli avrebbe dato potere, che avrebbe stretto fra le mani le testoline di quei ragazzetti come faceva con i suoi trofei di caccia, non si era mai avverato. Entrare ogni mattina in quell'Istituto era come tornare indietro nel tempo e ridiventare il pappagallo, perché tra i colleghi professori c'era Alessandro, l'aguzzino della sua giovinezza. Era arrivato lì perché ce lo aveva piazzato il padre, ed era rimasto il solito sbruffone. Lo aveva incontrato il primo giorno del suo nuovo lavoro. Si erano incrociati nel corridoio. Matteo, il cuore che spaccava il petto, aveva finto di non riconoscerlo. Alessandro, invece, si era girato verso di lui e a voce alta aveva gridato:

"Non ci posso credere...sei davvero tu? Pappagallo? Dai, e che ci fai qui? Non mi dirai mica che sei un insegnante adesso??? T-ti cc-ci vorrà tutto il g-gg-giorno a ff-f-finire una l-lezione!". E gli diede una pacca sulla spalla. Poi ebbe la premura di presentarlo a tutti i colleghi raccontando come si erano conosciuti, lui e pappagallo.

Alice aveva veramente compreso il suo amico Matteo solo quando era entrata in quell'abitazione di via Pontichelli. Di per sé era una normale casa popolare, molti suoi compagni vivevano in luoghi simili, ciò che la turbò furono i suoi inquilini. Matteo viveva con la madre, Barbara, e una sua amica, Elena. Le stanze delle due donne erano grandi e luminose, con alte finestre. Erano arredate in maniera simile: avevano entrambe un letto matrimoniale, un grande armadio a sei ante con specchio centrale, due comodini con abat iour e uno specchio sul soffitto. La cameretta di Matteo, invece, era piccola e sembrava ricavata in quello che in origine aveva dovuto essere un ripostiglio. Aveva un letto, un armadio a tre ante e una scrivania, ma nessuna finestra. Le prime volte che vi entrò ad Alice sembrò di essere un criceto in una scatola di cartone, uno di quei contenitori angusti nei quali vengono messi quando li compri alle fiere di paese. Poi si abituò. Con il passare del tempo non fece neppure più caso ai molti uomini che si aggiravano per l'appartamento. Arrivavano, si sedevano sul divano e poi si intrufolavano nella camera di una delle due amiche. Dalla stanza di Matteo si sentiva tutto: rumori, colpi ritmici che crescevano di intensità e poi le urla, sempre uguali. A volte era la voce di Barbara a emettere un gemito, a volte quella di Elena, seguivano sempre i grugniti maschili.

Il giorno in cui Matteo conobbe la morte aveva quattordici anni. Era il compleanno di Elena, la bella amica di sua madre. Aveva passato le due settimane precedenti a intagliare nel legno il manico di un coltello, assemblandovi poi una lama. Lo aveva incartato in un foglio di quaderno e si era seduto ad aspettare che l'ultimo cliente del giorno uscisse da camera della donna. Poi si era fatto avanti.

"T-tieni questo è per te...".

"Grazie...Cos'è? Un regalo...che carino che sei...". Lo scartò.

Lui si avvicinò e le dette un bacio sulle labbra. Elena ricambiò quel bacio e infilò la sua lingua morbida nella bocca del ragazzo. Poi lo avvolse con le sue prosperose forme iniziandolo a un mondo di piacere. Lui, una volta distesi nudi nel letto, le confessò il suo amore.

"Era solo sesso...piccolo...ti ho fatto un favore, nessuna sarebbe mai venuta con uno come te...che dolce!". E iniziò a ridere fragorosamente. Quella risata acuta penetrò nelle orecchie di Matteo e arrivò fino al cervello innescando una reazione, un istinto primordiale. Afferrò il coltello e trafisse il corpo di lei più volte fino a che l'adrenalina non si affievolì e lui ritornò ad essere il quieto Matteo, il pappagallo. Elena non venne più nominata. E qualche tempo dopo una certa Gina prese il suo posto.

Alice si mise a cercare indizi nella camera da letto. Il pulsare del sangue era così forte che le rimbombava nel cervello, ma doveva concentrarsi e rimettere tutto nell'esatto modo in cui lui l'aveva trovato. Col cellulare fotografava ogni cosa prima di spostarla e poi ricomponeva il puzzle con attenzione. Le mani le tremavano, ma doveva sapere. Stava frugando nel cassetto dei calzini quando trovò una foto, ma era solo il ritratto di sua suocera: Barbara che sorrideva abbracciata a Matteo. L’aveva già vista mille volte e si domandava sempre in quale occasione avesse dato prova di tanta maternità, lei che lo aveva sempre considerato un ritardato. Quando ancora erano ragazzini l’aveva vista sputargli in faccia e urlargli che era un buono a nulla, come suo padre. “Almeno lui ha avuto il buon gusto di andarsene, tu invece stai qui con quell'aria da fesso a farti mantenere!". Solo perché aveva sbagliato a prepararle il caffè. Veniva picchiato o insultato almeno una volta al giorno, quando sua madre era di buon umore. Alice ripensò a quante volte Matteo avesse provato a fare colpo su quella donna, ad avere un legame con lei, senza mai riuscirci, tranne, evidentemente, in occasione di quella foto.

Si sedette sul letto e scrutò l’immagine da vicino cercando di carpire dove fosse stata scattata e quando. Riconobbe la casetta in legno alle loro spalle, gliela aveva lasciata sua madre. Si alzò di scatto e con ancora le mani tremanti rimise la foto quasi al proprio posto.

Alice era sempre stata una ragazzina socievole che coltivava molte amicizie, ma quando aveva incontrato Matteo, che si era insinuato nella sua vita come un piccolo corso d'acqua, e giorno dopo aveva scavato il proprio percorso spazzando via tutto ciò che lo intralciava, aveva lasciato che lui la allontanasse dai propri amici. Lo aveva fatto con apparente dolcezza, brandendo come lama il suo apparente amore. Anche più tardi, quando c'erano stati i primi episodi di violenza, aveva sempre usato quella scusa: non riusciva a controllarsi da quanto la amava. E lei ci aveva creduto, lo aveva giustificato, all'uomo poteva scappare qualche ceffone, lo aveva già vissuto in casa da bambina, ciò che contava era il resto del tempo, quando lui era calmo e la trattava come una signora.

Era una rosa sotto un vetro, non poteva lavorare né uscire da sola, ma era il prezzo dell'amore.

Alice, quella sera, lo aveva pregato di fare una gita nel bosco, l'indomani. Voleva andare alla piccola dimora di montagna, quella che gli aveva lasciato sua madre. Era una donna determinata la sua Alice, aveva già preparato tutto, e lui non aveva potuto negarle quella piccola fuga. Prima di coricarsi, però, aveva notato dentro il cassetto la foto fuori posto. Niente di strano se lei avesse aggiunto dei calzini, ma erano gli stessi dodici che c'erano la mattina quando si era vestito. Quell'istantanea gli ricordava un evento speciale. Lui e sua madre, di notte, avevano camminato per ore nel bosco, sulle spalle un lungo e pesante sacco, sui sessanta chili, nella sua mano una torcia, in quella della donna una pala. Avevano poi scavato, arrivati al posto giusto, e sotterrato quel segreto di nome Elena. Si erano poi coricati nella baracca di montagna, di loro proprietà da varie generazioni, e l'indomani Barbara aveva voluto scattare una foto, orgogliosa. Matteo controllò sua moglie, era ancora sul divano a guardare un programma in televisione, e andò ad aprire il suo nascondiglio. C'era qualcosa di strano in lei, che avesse scoperto tutto? Ne ebbe la conferma nell'istante in cui guardò i suoi trofei di caccia: i capelli erano stati spostati.

Alice seguiva Matteo lungo il sentiero cercando di memorizzare il percorso, ma non era facile: non aveva mai avuto un buon orientamento. La paura del giorno precedente aveva lasciato il posto alla curiosità, molte domande le risuonavano nella testa. Era tutto frutto della sua fantasia? No, i capelli erano veri, li aveva toccati con le sue stesse mani. Vagarono per quasi venti minuti nel bosco, in un tratto non segnalato, per raggiungere la casa. Non sapeva neanche lei cosa si aspettava di trovarvi, ma sentiva che quel posto nascondeva qualche segreto. Quando varcarono la soglia un forte odore di chiuso e muffa le penetrò nelle narici. Salì al piano superiore, quello della camera, e aprì le finestre, qualche minuto, giusto per far circolare l'aria. Matteo la aiutò a scoprire il letto dal telo di plastica e a prendere le lenzuola pulite. Poi uscirono fuori a godersi il panorama. Matteo si mise al suo fianco e le cinse la vita, si baciarono. Alice poi, con la scusa di dover cucinare, rientrò in casa. Aprì il frigo e vi trovò della carne. La prese, ma suo marito la fermò subito: era il cibo per i cani. Strano, a casa non mangiavano mai carne, lui non voleva, gli rifilava sempre quelle crocchette del supermercato dicendo che era quello il loro cibo. Forse era carne scaduta. Più tardi, mentre Matteo dormiva, si alzò dal letto, tornò in cucina, si avvicinò al frigo e aprì il contenitore. Notò, tra quei pezzi di carne, quello che era di sicuro un dito umano. Si precipitò fuori, al freddo, e iniziò a vomitare, prima di svenire. Quando riprese conoscenza era di nuovo in casa e Matteo la stava legando alle sponde del letto. Per un istante i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di sorpresa, poi ricordò tutto.

"Volevi sapere...ecco ti mostro cosa facevo a quelle donne...avrai lo stesso trattamento...".

"Ma...perché? Chi erano? Quando è iniziata questa storia? È colpa mia?".

E mentre le tagliava via i vestiti di dosso, iniziò a raccontare: "Non è colpa tua, non lo è mai stato. Tu mi hai salvato, però non dovevi intrometterti, non dovevi curiosare...vuoi sapere come è iniziato tutto questo? La prima è stata Elena. Te la ricordi? Mi aveva preso per il culo con i suoi modi affettuosi, ma l'ha pagata. Poi, circa un anno fa, giravo di sera per il centro e mi vidi passare accanto una donna molto simile a lei. Sul momento pensai di avere di fronte proprio Elena. Incuriosito la seguii fino al locale ed entrai. Dopo poco mi accorsi che era un'altra persona, ma qualcosa dentro di me si era riacceso, avevo provato nuovamente il senso di potere che si sperimenta rubando una vita, e mi piaceva. A lavoro ero divenuto lo zimbello di tutti, i miei alunni non mi ascoltavano, lanciavano le sedie in aula durante le mie lezioni, mi deridevano. Avevo bisogno di amplificare il potere che mi dava la caccia. Alla fine anche noi siamo animali, giusto?". La violentò selvaggiamente, proprio come aveva fatto con le altre, niente sconti. E di nuovo svenne.

Al secondo risveglio era libera, ma nuda e in mezzo al bosco. Avrebbe voluto piangere e chiamare aiuto, ma non c'era nessuno. Prese a correre cercando di non sentire i tagli che le si stavano formando sotto i piedi, di non tremare per il freddo, cercò di sopravvivere. Aveva paura, ma combatté fino alla fine.

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