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“Mi piace il Natale, cioè mi piace in linea teorica - le luci, e pure la frenesia - è la pratica che mi disturba; solo all’idea mi manca il respiro. Non è una questione religiosa. E’ tutto il resto: Natale uguale famiglia. Appunto”.

Lei era in piena paranoia. Era una di quelle persone che avevano sempre pregustato il Natale da fine agosto, ma negli ultimi due anni la fregola era stata rimpiazzata dall’ansia. Parlava a se stessa come si parla a un’amica, una che non può fare a meno di ascoltarti e cerca di placare le tue angosce. Quando parlava con le sue amiche in carne e ossa erano tutte ovvietà: “Quest’anno andiamo da mia suocera, così non devo preparare nulla/Tu i regali li hai già fatti tutti? Io ormai compro solo su internet/Noi andiamo tre giorni a Parigi, è il nostro regalo”. E via dicendo. Sorrisi esagerati a bocche spalancate, bacini e bacetti.

Anche quest’anno era andata così. La solita cena annuale “almeno per farsi gli auguri” e per lo scambio obbligato di regali inutili. Sia chiaro, a lei piacevano i regali inutili. “Cose che devono stupirti, nel bene e nel male, o perlomeno non essere prosaiche,” come lei era solita dire. Che so: un bracciale è utile? No, ti piace o non ti piace. E ti dice senza dubbio qualcosa su chi te lo ha regalato. Quelli delle amiche, però, erano sempre forzatamente insensati, diciamo presi a caso. Fatti per portare oggetti. Le mutande rosse, ad esempio. Quante ne aveva ormai? E poi a cosa le servivano? C’è crudeltà nel regalare mutande sexy a una fresca di divorzio. Stronze. Mettetevele voi, tanto i vostri mariti non se ne accorgono e probabilmente vi staranno facendo le corna mentre voi pensate al loro regalo.

Lei era divorziata ormai da due anni e si considerava ancora fresca di divorzio. Sarà che ancora non aveva digerito la cosa.

Il suo ex marito, invece, era felicemente accoppiato (vedi alla voce causa del divorzio); infatti pare avesse acconsentito con entusiasmo alla richiesta della propria madre di passare il Natale tutti insieme: figlio, consuoceri, ex-moglie e nuova compagna.

“E’ per il bambino, almeno vi vede insieme a Natale!”. Aveva detto sua suocera, o ex-suocera, come doveva puntualizzare ogni volta (in effetti non era più sua suocera, se lei non era più sposata). Lei, invece, sapeva che lo faceva solo per metterli tutti di fronte al fatto compiuto: una nuova e bella coppia pronta a ricevere la benedizione corale, compresa la sua, ché doveva fare la persona matura e incassare il colpo con educazione.

Lei aveva un nome, Tea, che era piaciuto molto al suo ex-marito. “E’ il nome di una rosa,” diceva quando la presentava a qualcuno con visibile orgoglio. Ne sottolineava la doppia bellezza: nel suono e nel significato. La sua nuova fidanzata - nuova per modo di dire, erano già passati due anni e qualcosa in più, senza contare i mesi di tresca - si chiamava Patrizia. Che nome rozzo. E a dispetto del suo significato! Sarà che si pronuncia come se ne avesse tre di zeta, ma non ha a che vedere con la soavità di Tea.

Lei l’aveva vista, Patrizia, dentro la macchina del suo ex-marito, sotto casa. Era stata la prima volta.

“Chi era quella?”.

“Quella chi?”.

“Quella che era dentro la tua macchina”.

“Ah. Ah già. Una collega. Non aveva la macchina oggi. Che rottura”.

Non aveva certo pensato al peggio, capita che si diano i passaggi alle colleghe. E poi non era un granché, diciamolo pure. Col caschetto spiaccicato in testa era un tutt’uno nero con cappotto e stivali. Una blatta.

Succedeva che erano in macchina. Lei non sarebbe dovuta tornare in quel momento, ma aveva parcheggiato e li aveva visti. Capita. Lui era salito a prendere qualcosa, era stato veloce. Quando era rientrato in macchina non c’era stata nessuna effusione, neanche un minimo contatto.

“E perché sei salito?”.

(Preoccupazione crescente)

“Mi scappava e le ho chiesto di aspettare cinque minuti”.

(Preoccupazione svanita)

A pensarci, che stronzo. Bravo attore, però. Nessun segno di tensione. Carino come sempre. Come poteva pensare male, Tea? Quando uno tradisce è distante, o ignora, oppure compensa con gesti d’affetto eccessivi. Lui no, carino come sempre. “Ma quanto è buono, lui,” dicevano le sue amiche. Sì, sì, in effetti lo era. Eccome. Intanto era arrivata la blatta.

Frequentavano lo stesso bar alla mattina. Erano finiti seduti allo stesso tavolino, poi avevano cercato di sedersi sempre a quel posto, fino ad aspettarsi. Chiacchiere. L’ufficio, il figlio, lo stress. Caffè, cornetto. “Meglio di no, sto diventando una balena,” “ma no, tu? Sei in gran forma!”. “Sarà ma è meglio che mi tenga, guarda!”. Indicandosi, con il preciso intento di fare vedere bene la sua maglia aderente, o piuttosto cosa c’era sotto. “Avercene come te!”. Insomma, flirtavano.

Basta poco, anche se sei tanto buono come lui, per trovarti dentro a una storia. Proprio poco, pensava Tea. Qualcuno che mostra un po’ d’interesse, che sorride socchiudendo gli occhi alle tue scemenze, che ride alle tue battute. Aggiungi, nel caso della blatta: tacchi vertiginosi, gonne fascianti e aria da donna curata, e il gioco è fatto. E’ matematico.

Poi sì, certo, come da copione è arrivata la parte struggente: la fanciulla smarrita, la donna dal cuore spezzato ma che ti sta dicendo che, in fin dei conti, la puoi considerare libera. “Mio marito non c’è mai, è fortunata tua moglie ad averti”. “No, guarda, è sfinente fare tutto da sola,” fino ad arrivare a: “Io ce l’ho messa tutta, ma alla fine molli la presa”. E con quali occhi glielo avrà detto. Preso all’amo. Che zoccola. Suo marito c’era eccome. Solo che lei non lo vedeva più. Non gliene fai una colpa, succede, ma rappresentarlo come un menefreghista, questo no. Questo fa di te una zoccola.

Tea era compiaciuta di ciò che pensava. Il suo ragionamento non faceva una piega, d’altronde.

Sta di fatto che l’ex marito il giorno della macchina era salito in casa loro a prendere i preservativi, ben nascosti tra le carte, nel cassetto della propria scrivania. Quel tardo pomeriggio però non aveva potuto usarli perché il marito di Patrizia aveva chiamato e lei era scattata sull’attenti, come un soldatino. Si era fatta accompagnare vicino casa per fare la brava moglie e andare chissà dove con suo marito, e lui, il fedifrago, tornava da Tea. Tranquillo, perché tanto sapeva che se non era stato oggi, sarebbe stato domani. Tranquillo, era entrato in casa e come al solito un bacio sulla guancia e un bacio sulle labbra.

Lui e Tea avevano un figlio, Lorenzo, cinque anni.

Lorenzo non capiva bene questa cosa del distacco tra i suoi genitori. Non capiva cosa fosse successo. Non collegava Patrizia, la fidanzata di papà, a tutto il resto. Patrizia era una nuova figura a sé stante che però viveva con papà al posto della mamma. In alcune cose le ricordava la mamma: era affettuosa come lei; in altre no: Patrizia sapeva fare le lasagne buonissime e si metteva lo smalto scuro.

Lorenzo abitava con Tea, ma due fine settimana al mese stava col padre. Ovviamente, una volta tornato da sua madre era un continuo parlare di papà, Patrizia (soprattutto Patrizia) e lasagne. Si può immaginare lo sforzo che faceva Tea ad ascoltarlo. Era felice che suo figlio stesse bene, ma allo stesso tempo ne soffriva. Quante volte si era trovata a chiedersi perché tutti i bambini odino le matrigne e il suo no? Forse quella era migliore di lei? Lo aveva comprato con due lasagne?

Mentre pensava a tutto questo, Tea stava guidando, Lorenzo dormiva beato dietro di lei, e si stavano dirigendo a casa della nonna, o della ex-suocera, dipende da come la vivi.

Tea aveva comprato anche un bel regalo per lei, una teiera vagamente indiana, anche se le era sembrato assurdo occuparsi della madre di colui che l’aveva lasciata così, dopo anni di vita insieme. Era rimasta impassibilmente fatalista, l’ex-suocera, un laconico: “se deve succedere, succede, bisogna andare avanti”. Che sotto sotto fosse contenta dell’accaduto?

Ci sarebbero stati anche i propri genitori, complici per amore del nipote, nonostante li avesse già visti la sera precedente, quella della Vigilia. C’erano stati anche sua sorella e i nipotini, in quell’occasione. I bambini si erano divertiti, un po’ meno Lorenzo, che era il bambino più grande, si annoiava e si aspettava da lei soluzioni immediate. Patrizia di certo le avrebbe avute. Sua sorella, dotata di tre figli piccoli e marito pacioso al limite dell’inconsistenza, le chiedeva di continuo come stava, con il tono di chi parla con una depressa. E Tea dentro di sé aveva sempre la stessa risposta: “Pensi che io sia depressa? I depressi non escono mai di casa, io sì,” mentre all’esterno liquidava rispondendo che stava bene.

Diciamo che, in realtà, era costretta a uscire per via di suo figlio, e del lavoro, e di quell’unica volta, sotto Natale, in cui si ricordava di essere parte di un gruppo di amiche, perlopiù inesistenti.

Le pesava ricordarsi la sua vita di prima. Adesso chi era? E cosa cercava? E dove mai sarebbe dovuta andare? Prima aveva il suo posto, il suo ruolo; adesso veniva percepita come una donna sola, anzi no, come una donna abbandonata e cornuta. Doveva magari iscriversi a un corso di ballo? E per cosa, per farsi alitare addosso da qualche vecchio imbolsito in cerca di emozioni, o subire il sogghigno di giovani uomini? No. E comunque non ci aveva mai pensato prima, quindi perché proprio ora? Lavorava in una redazione e quello le piaceva, le bastava, non aveva bisogno di riempire i suoi giorni di attività per sentire la vita.

”Sempre sul pezzo, lei!”. Le diceva il suo ex-marito prendendola per le spalle. Mah, teneva una rubrica di piante e fiori, mica era una cronista d’assalto. Lui, avvocato, lavorava in uno studio di grido, in giacca cravatta e scarpe lucide. Era uno di quelli di cui si dice: “E’ un bell’uomo”. Bello, forse inconsapevolmente, e quindi mai cascamorto, solo affabilmente cortese, di quelli che sanno stare al mondo in maniera ineccepibile. E a Tea piaceva questo suo modo di essere. A Tea piaceva lui.

I pensieri non le davano tregua: ne usciva uno, ne entrava un altro, ora di soppiatto ora con prepotenza: lui così bello, la blatta, le lasagne, la teiera. Comunque, grazie al cielo, la Vigilia era alle spalle. I sorrisi messi su per dire a tutti “Sto bene! Sto bene!”. Il rossetto rosso, la tristissima tombolata con suo padre mezzo addormentato e suo cognato che non proferiva parola. Non emetteva proprio suoni, a dire il vero, solo sorrisi ebeti. Dio mio.

E adesso stava guidando verso qualcosa di simile. Ma peggiore. Tutti, ma proprio tutti, schierati: i suoi, quelli di lui, l’altra. Una salvezza poteva essere partire per una meta esotica, ma suo figlio era troppo piccolo, e poi forse era meglio partecipare alla recita una volta per tutte.

Quello che l’angosciava maggiormente era la combinazione strampalata di tutte quelle persone. Come avrebbero rotto il ghiaccio? Con sua madre che soleva rimproverarla davanti a tutti, seppure scherzando? Come avrebbe reagito all’impatto?

Si guardò allo specchietto della macchina: troppa cipria, la riga della matita storta su una palpebra, le guance pallide. Accostò per darsi una sistemata. Tirò fuori dalla borsa il pennello quando suonò il cellulare: “Ciao, ma dove sei? Qui ci sono già tutti, almeno oggi per favore, cerchiamo di essere puntuali”. Era sua madre. Ovviamente, il pennello le cadde.

“Porca puttana/Ma cos’hai, calma, ho solo chiesto dove sei/Non ce l’ho con te, mamma, mi è caduta una cosa”.

Ogni volta era così faticoso non litigare, e questa volta certamente di più, ma era anche necessario mantenere la calma visto lo scenario che le si prospettava. E poi, nonostante tutto e tutti, era Natale. Le venne da piangere ma strinse i pugni e rimise in moto l’auto, con le labbra serrate e una rumorosa inspirazione.

Ci volle ancora un quarto d’ora prima che raggiungesse “la magione”, così Tea chiamava la casa degli ex-suoceri. Abitavano in campagna, in una vecchio casolare che lei aveva da subito amato. Ora le faceva male entrarci da estranea, o da cosa non sapeva bene neanche lei. Chi era lei adesso? Solo la madre del loro nipote. Aveva sperato d’invecchiare lì dentro, la cornice ideale per una vecchia scribacchina di piante, e magari, chissà, dove mettersi a scrivere davvero il suo primo romanzo. Si chiedeva se a Patrizia quel posto piacesse, ma era certa che si sarebbe fatta piacere di tutto. Doveva essere una donna accomodante.

Il cancello era aperto, lei entrò e parcheggiò. Il bambino si era svegliato da poco, era imbronciato e non voleva scendere.

“Dai che ci sono i nonni, c’è papà”.

“Lasciami qui, ho detto”.

Tea, a malincuore, si giocò l’ultima carta, non ne poteva più di piedi sbattuti e lacrime copiose: “C’è Patrizia”. Lorenzo si destò come da un brutto incantesimo e sorrise. “Va bene”. Il tempo di scendere dall’auto ed era corso raggiante verso casa.

“Quella zoccola gioca a fare la fatina buona,” rimuginava. “Avrà già fatto innamorare tutti di sé. Si deve prendere tutto” e con i tacchi sulla ghiaia seguì le orme del suo bambino.

“Permesso…”.

La prima apparizione fu un grigio nitore: gonna, maglia, spilla e orecchini fumé. Capelli argento. La conosceva da anni e raramente l’aveva vista con altri colori, o meglio: con colori veri addosso.

“Buon Natale, cara, entra pure” (ex-suocera).

“Buon Natale. Questo è per te. Per voi”.

“Ma non dovevi”.

“Ci mancherebbe”.

Primo scoglio superato.

Restava l’ingresso nella sala da pranzo: trionfale o profilo basso? Non fece in tempo a darsi una risposta.

“Buongiorno!/Auguri!/Alla buon’ora (madre)/Mamma, c’è Patrizia!”.

Tutti si erano salutati in coro. C’era da baciarsi, però. Merda, questi auguri odiosi.

“Poso il cappotto e arrivo”.

“No, no, facciamoci gli auguri per benino” (ex-suocero).

Bene, era partita ufficialmente la girandola dei baci. Erano rimasti per ultimi l’ex-marito, che l’aveva baciata come si fa con un conoscente, e Patrizia. La blatta era in ghingheri: gonna nera parecchio aderente, tacchi alti, camicia bianca, un microbolero nero, e il solito caschetto schiacciato sulla testa. “La cameriera di un ristorante messicano,” pensò Tea. La fatina delle lasagne però aveva la faccia stanca, e nonostante il trucco pesante, e forse una lampada, non aveva l’aria compiacente che Tea le aveva attribuito; neppure quella di una che ha vinto e può godersi un riposante trionfo senza più bisogno di sgomitare.

La tavola era apparecchiata in maniera impeccabile, c’erano anche i segnaposto a forma di angioletti argentati.

“Cinque minuti ed è pronto!”.

In cucina, l’ex-suocera stava occupandosi dei tortellini, mentre l’ex-consuocera di questa chiedeva stupidi ragguagli su ripieni e cotture.

“Vado a fumare una sigaretta, torno subito”.

Tea si mise il cuore in pace: se Patrizia fumava, non poteva essere incinta. Sì, l’aveva nascosto anche a se stessa, ma era la cosa che temeva di più un figlio dei due. Aveva pensato che quel pranzo fosse l’occasione per rivelarlo alla comunità intera, crudelmente e platealmente, altrimenti che senso aveva fare un pranzo tutti insieme? E invece no, l’intenzione era veramente quella di fare stare Lorenzo con la famiglia al completo il giorno di Natale.

“Tea, tu fumi?”.

“No, oddio, può capitare ma direi di no”. Mentre pronunciava queste parole Tea pensò di non essere ancora in grado di parlare con Patrizia. Poteva dire no e basta e invece no, quel “può capitare” detto con un mezzo sorriso. L’aveva fatta sentire stupida.

“Mi accompagni un attimo? Ti va?”.

“Ecco, mi tratta come fossi amica sua. Ma chi ti vuole. Adesso mi dice che è incinta”. Tea non avrebbe voluto starle vicino, ma doveva liberarsi dei pensieri che giravano a vuoto: se ci fosse stato un bambino in arrivo lo avrebbe saputo subito. Via il dente, via il dolore. Prima o poi sarebbe successo.

“Ma sì,” rispose con finta disinvoltura.

Uscirono in giardino. Patrizia accese la sigaretta guardando lontano, con gli occhi stretti. D’improvviso disse: “La conosci Elena Sabelli?”. “Se la conosco! E’ una mia amica,” rispose con fierezza. “E’ una mia amica: non tu, chiaro? Elena è una mia amica”. Questo prosieguo lo tenne per sé.

“Suppongo stiamo parlando della stessa persona: biondina, intellettuale…”. “Perché mi chiede di Elena? Ah, adesso si prende pure le mie amiche! Non ci credo!”. I pensieri correvano veloci. Ma Elena no! Lei era quella, tra le sue amiche posticce, che più somigliasse ad un’amica. Lei c’era quando si è separata. Lei ha tentato di parlare con il suo ex-marito. Lei…

”Ha una storia con Sandro”.

“Con Sandro? Come?”.

“Lo chiamava sempre. Voleva sapere come stava, lo chiamava a casa”.

“Da quanto?”.

“Tre, quattro mesi. Me lo ha detto suo marito”.

“Ma è vero?”.

“Tea, per favore, perché non dovrebbe esserlo? E poi ho le prove”.

“Ma lui come l’ha scoperto?”.

“Lo sospettava e poi hanno fatto un week-end in Spagna due settimane fa, e lui ha monitorato tutto. Li ha visti in aeroporto. Ha scattato le foto. Io sapevo che Sandro doveva essere ad una convention di avvocati, a Roma, mentre lei aveva detto che era impegnata con l’università: ricerche, robe così”.

Se pensi che il mondo ti sia crollato addosso, oh, sappi che la realtà ha in serbo soprese. Come dopo uno schiaffo ben assestato, o un tuffo da un trampolino altissimo, così si sentiva Tea. Non sapeva se stesse provando odio, senso di liberazione, o compassione. O forse tutto quello, insieme. “Ora capisci cosa significhi”. Forse voleva solo farsi una grande risata. Quell’uomo bello e buono, che per un po’ era stato suo, si dimostrava solo un debole alla ricerca di conferme continue.

“Lo so. Non posso chiederti scusa. E’ successo. Ma per me non è mai stata una storia così per dire. Io lo amavo. Adesso non lo so. Mi accorgo di non sapere chi sia Sandro”.

“Sandro non era così”.

“Sandro ti ha tradito anche prima del matrimonio. E’ stata l’unica volta, prima di me, ma è successo. Almeno così mi ha detto lui”.

“Ah sì, e con chi?”.

“Boh, una che aveva conosciuto in facoltà”.

“Gaia”.

“Allora lo sai”.

“Una volta è venuta a cena da noi. Il suo fidanzato era via”.

Silenzio.

“E’ quasi pronto! Entrate?”. L’ex-suocera si sporse fuori, guardò le due donne di suo figlio, forse avevano fatto amicizia. Ebbe anche il tempo di dire: “Ah, Tea, bella la teiera araba!”.

Patrizia guardò Tea. “Mi dispiace per Lorenzo, ma io adesso entro e faccio vedere le foto a Sandro e gli chiedo chi è davanti a tutti, e poi dico che lo so chi è, che conosco suo marito e Buon Natale Sandro”.

Entrarono in casa. I tortellini fumavano nei piatti.

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Devi fare ciò che ti fa stare bene

La vita dentro una canzone

 

Ormai era diventato il mantra di un eco lontano. “Eppure era così vicino”. Una frase che portava sempre nel cuore e che teneva bene a mente. “Un ordine impartito”. Solo nel corso degli anni aveva compreso, dal timbro caldo e dall’ampiezza del tono della voce di sua madre, che si trattava di un ordine gradito, l’opposto dell’arido imperativo che gli imponeva ogni giorno suo padre. “Studia! Non sognare!” Sì: sognare, ascoltare una favola raccontata da suo padre e cantare una canzone erano nella lunga lista delle cose non contemplate nella sua educazione. Ordinato, diligente, preparato, elegante, in sintesi un concentrato di tutto ciò che prevedevano l’istruzione e il comportamento nell’alta società. “Devi fare ciò che ti fa stare bene”. Ogni volta chiedeva a sua madre: «“cosa” devo fare», senza dare un tono interrogativo alla frase perché in quella casa non si potevano porre domande. Tra quelle mura non potevano essere esposte questioni o idee: bisognava solo eseguire gli ordini, intonati con severità, oppure scritti, come se fossero legge. Lei rispondeva in maniera evasiva, ma lui aveva imparato a comprendere che, all’insaputa di suo padre, al contrario di quelle che erano le sue volontà, nello studio e nella vita avrebbe sempre potuto contare su di lei.

Come se fosse un rito, sfilò con calma il foglio consumato, ma pur sempre intatto, dal taschino posto sotto i documenti del portafoglio, quella che una volta era una semplice tasca dei pantaloni, corti e blu, che indossava assieme alla camicia bianca, per andare a scuola. “Tutte le mattine”. Anche a causa di quell’abbigliamento sempre uguale era stato denigrato e isolato da una parte dei suoi compagni di scuola: “non meritava l’amicizia di nessuno”, così diceva quella banda di bulletti, e lo mettevano nelle condizioni di provare vergogna per se stesso, una vergogna che aveva preso la forma dei pensieri di suo padre e dell’unica cosa che riusciva a provare suo padre in quella casa. “Indifferenza”.

Ricordava ancora l’ansia che aveva provato nel cercare un posto nascosto in cui leggere per la prima volta quel biglietto. Il tremore si era impossessato delle gracili gambe, le mani sudavano. E ricordava anche l’emozione di leggerlo all’oscuro di tutto. “E di tutti”. Era stato scritto su di un semplice foglio, che sua madre aveva estratto con cura da uno dei suoi quaderni, senza che suo padre se ne accorgesse, perché i quaderni dovevano essere integri e perfetti! Si chiese se anche lei scrivendolo avesse provato lo stesso tremore e la stessa contentezza.

Lo custodiva con molta attenzione. Quella frase l’aveva letta almeno un milione di volte e l’aveva trascritta ovunque potesse essere posta di fronte ai suoi occhi, nella sua vita quotidiana, così da fare riaffiorare quelle parole. Continuamente. Nel suo cuore. L’aveva scritta su ogni diario. Compariva su tutte le agende che lo avevano accompagnato in quegli anni, di studio e di lavoro. Con lettere nitide. Precise. Ordinate. Con una grafia ricercata. L’aveva salvata sullo screen saver del computer. L’aveva memorizzata come sfondo nel cellulare. E l’aveva racchiusa in una cornice grigia di grandi dimensioni, che teneva appesa alla parete della sua stanza, disposta perfettamente al centro, davanti al suo letto. In fine l’aveva affissa sullo specchio, di fronte al quale dedicava fin troppo tempo rispetto a quello necessario a radere quel po’ di barba che osava togliere dal viso. Un viso sempre adornato dal pizzetto nero, così come nera e crespa era la montagna di capelli che si portava appresso, da sempre, e per la quale suo padre non aveva mai trovato il tempo di portarlo dal barbiere. “Non gli dedicava mai il proprio tempo”. Un tempo che non era contemplato nella dimensione della famiglia, tanto suo padre era preso dal lavoro. Così non c’era tempo per rispondere alle sue domande, per giocare con lui, per aiutarlo a studiare. “Il tempo è denaro”, diceva, e non ne sprecava neanche per interagire con sua madre - terza protagonista di quell’atto - i cui unici compiti erano quelli di accudire la casa e il giardino, enorme, che si era voluto concedere lui. “Isolandola da tutto e da tutti”. Nell’accudire la casa rientravano anche lavare i vestiti e preparare i suoi piatti preferiti, mai alla stessa ora. Gli orari li comunicava lui di giorno in giorno perché la sua vita da imprenditore non gli concedeva di fare diversamente, diceva. Sua madre gli aveva confidato, solo molti anni più tardi, che considerava quella casa un lager.

Crescere lui non era semplicemente in fondo alle priorità di suo padre, in quella lista non c’era proprio; ciò nonostante doveva essere il primo nello studio e nello sport e per questo lo aveva iscritto ad atletica, senza ammettere repliche. Ma non si era mai degnato di presentarsi a nessuna delle sue gare, anche se il suo corpo sembrava una macchina nata per vincere. Al traguardo gli unici applausi che sentiva erano quelli di sua madre e degli spettatori. “Tutto serve”. L’unica arida risposta che dava suo padre, una volta venuto a conoscenza della vittoria era: “Hai fatto solo il tuo dovere”.  

Per fortuna aveva quel foglio che gli ricordava, ogni volta che voleva, la presenza sicura di sua madre. Aveva passato i suoi anni a nasconderlo nel cuscino, sotto al materasso o dietro a un quadretto, appeso nella propria stanza, che conteneva una foto di suo padre e che lui non amava guardare. “Lì era al sicuro”. Lui non lo doveva trovare, non lo doveva vedere, non lo poteva leggere.

Il fruscio di quel foglio era musica per le sue orecchie. Lo avvicinò alle narici e inspirò, prima di rileggere quelle parole che gli placavano l’anima. Avrebbe voluto ritrovarvi anche il profumo di sua madre, ma suo padre le aveva sempre vietato di comprare fragranze e trucchi, inopportuni per una donna che doveva solo curarsi della casa e delle cose. Fece vibrare le corde vocali per scaldarle, ripetendo quella frase che amava tanto. “Siamo rimasti in venti calmi.” Poi socchiuse le labbra e iniziò a leggere:

Devi fare ciò che ti fa stare bene

anche quando ti dicono che non conviene

perché nel tuo cuore c’è soltanto il bene.

Devi camminare verso la via d’uscita

anche se fosse in salita

dovesse volerci tutta la vita.

Scegli la porta che vuoi varcare

ma non avere mai paura di volare

nel tuo cuore è già scritto dove devi arrivare.

Circondati di persone fidate

sono le uniche che possono essere amate

le uniche compagnie a poter essere considerate.

Stendi le ali e vola come un airone

il vento conosce già la direzione

e ti porterà dritto al tuo futuro senza esitazione.

Verrà il giorno in cui avverrà il cambiamento

lo vedrai dal luogo in cui ti avrà portato quel vento

e a quel punto capirai che è giunto il momento

sarà giunta l’ora di lasciarti andare

il tuo futuro non potrà più aspettare

prendi coraggio e fai ciò che devi fare.

Era una metrica imprecisa, piena di imperfezioni anche grammaticali, ma conteneva tutto quello che avrebbe voluto sentirsi dire.

Premette il foglio con il palmo aperto della mano verso il naso, con le sue dita grandi, quasi accartocciandolo, poi inspirò fino a dilatare i polmoni, portandoli al limiti, e rimase così per pochi secondi. Richiamò alla memoria il profumo della torta di mele appena sfornata, che tanto adorava aspettare seduto in cucina su quello sgabello così alto da non permettere ai suoi piedi di toccare per terra, rimasta impressa nei suoi pensieri, poi lo ripiegò con cura. Prese il portafoglio e lo infilò al suo posto, poi mise via anche quello. Fece incontrare le mani davanti a sé e allargò le dita posandovi le labbra. Ora capiva: quel giorno era arrivato. Indossò la tenuta da corsa e si diresse verso il campo sportivo dove si ritrovavano i lavoratori dell’azienda. Si dispose sulla riga di partenza. Poi contrasse i muscoli e fece leva sui legamenti, il corpo iniziò subito a rispondere alla loro contrazione, accanto a lui altri atleti correvano, ma era sempre stato quello più veloce, quello più forte, il più difficile da battere. Il primo della classe, il primo sul lavoro. “L’ultimo ad essere scelto dalle ragazze”. Fece un ultimo sforzo, poi un altro, mentre la sua mente giungeva al culmine del significato di quella strofa, miscelandosi alla frase sillabata che le ripeteva sempre sua madre quando tornava a casa frustrato per essere stato deriso, ancora una volta, a causa della sua perfezione, della sua impostazione, della sua compostezza. “Vuoi stare bene. Stare bene e ce la farai”. Quella frase sillabata prese ritmo con il suo cuore mentre il sangue gli pulsava nelle orecchie. Era solo davanti a tutti, solo come sempre e come sempre il primo. Fu allora che diede ordine ai suoi muscoli di rallentare mentre un’altra frase prendeva il sopravvento. “Voglio essere superato”. La contrazione sui muscoli si ridusse, gli arti continuarono a rallentare e mentre acquisiva la percezione del suo corpo, il sangue nelle sue orecchie rallentò anch’esso, pulsando con minore intensità. Fu allora che si accorse di essere stato superato e pensò che questo lo facesse “stare bene”. O almeno così gli sembrava. Chiuse gli occhi concentrandosi sui suoi organi di senso. Si accorse solo allora che le sue orecchie avevano un potere enorme. Un potere di cui non era consapevole, teso sempre verso l’obiettivo da raggiungere, l’ordine da rispettare, l’ostacolo da superare. Iniziò a percepire il vociare delle persone che si trovavano attorno a lui, il rumore del piede battuto sopra la gomma rossa che ricopriva la pista, il ringhio di chi stava forzando il proprio corpo per raggiungere più in fretta la meta. Tutti questi suoni e altrettanti rumori colpirono il suo udito, provocando lo stesso dolore di un muscolo indolenzito dalla colpa di non essere mai stato usato. Fu allora che si dedicò all’olfatto e si accorse che gli alberi di magnolie, che circondavano la pista, sovrastavano con il loro profumo il tanfo di sudore, oltre all’odore della terra e della gomma della pista. Le sue gambe rallentarono ancora, finché si accorse di essere stato superato e questo non lo faceva stare bene. Il pensiero andò a sua madre, dopo la morte di suo padre aveva iniziato a vivere: la camminata decisa e cadenzata, resa fluida dall’abito elegante e dalle scarpe all’ultima moda che finalmente si era potuta comprare, il viso truccato in modo leggero ma evidente, come qualche volta le vedeva fare di nascosto, davanti allo specchio, per ammirarsi solo pochi secondi subito prima di cancellare ogni prova. Ora erano gli altri che la ammiravano. “Lei aveva trovato ciò che la faceva stare bene”.

Lasciò il campo da atletica e mentre si dirigeva verso casa sfilò il cellulare dalla tasca e lo aprì sulla rubrica. La maggior parte dei numeri corrispondeva a colleghi di lavoro, persone prive di intelletto e di capacità, ma in grado di ferire con una sola parola detta dietro alle spalle, come un colpo di spada inferto per distruggere l’immagine dello sfortunato soggetto su cui avevano diretto la loro attenzione. Nella totalità delle volte si trattava di lui. Lui che era il responsabile di tutti loro, il direttore di tutti quei pigri succhia stipendi che infestavano l’azienda ricevuta in eredità da suo padre, un’eredità che gli pesava addosso come un macigno. Non avrebbe mai potuto rallentare sul lavoro come aveva fatto sulla pista di atletica, nessun neurone del suo cervello gli avrebbe mai e poi mai permesso di lasciare colare a picco l’azienda e lui con essa, ma qualcosa poteva fare. “Voleva fare”. Una bella ripulita allo staff e ai suoi capelli. Non avrebbe più permesso a nessuno di trattarlo come uno spauracchio, un ridicolo idiota di cui farsi beffa. Era capace. “Pensare a questo lo faceva stare bene”. Lo dimostrava il fatto che a venticinque anni aveva preso in mano le redini di quell’azienda e l’aveva fatta risorgere dalle macerie in cui era finita con suo padre, che, al contrario di lui, si era arreso alla propria incapacità e si era punito con un’arma. Anche lui si era armato, ma di buona volontà e con coraggio aveva messo a frutto la propria formazione e l’aveva trasformata in successo in omaggio a sua madre, che lo aveva sempre fatto stare bene. Così le aveva donato la dignità e l’indipendenza che non aveva mai ricevuto dal marito.

Nel proprio intervento di ristrutturazione aveva mantenuto tutto il personale dell’azienda, ma ora si era accorto che la metà di questo non lavorava e si assentava in orario di lavoro, a scapito dei colleghi che davano il doppio. Tutto questo sarebbe finito. Avrebbe dato una bella ripulita e al loro posto avrebbe assunto personale fresco e motivato, prima di tutti Giulia. L’aveva sempre guardata a distanza, lei che per laurearsi era stata costretta a lavorare tutte le sere poiché nella sua famiglia i soldi erano a malapena sufficienti a garantire il sostentamento. Lei che proveniva da una famiglia troppo povera per essere considerata nei colloqui di lavoro adatti al suo livello di studi. Lei che era guardata con la stessa supponenza con cui era sempre stato guardato anche lui. Si erano sempre osservati a distanza, come due prede che si studiano senza mai fare il primo passo. L’avrebbe assunta come braccio destro e le avrebbe chiesto di uscire con lui. “Anche questo lo faceva stare bene”.

Si diresse nuovamente al campo, come se nuova linfa avesse preso a circolare all’interno del proprio corpo, una linfa che forse faceva parte di lui da sempre, ma che non si era mai accorto di possedere. Arrivato alla pista si mise in linea accanto agli stessi atleti coi quali aveva gareggiato poco prima. Ora la chiave d’accesso del suo “stare bene” gli era nota e cara. La risposta non era il “cosa” ma il “come.” Partì all’unisono con i suoi compagni, guardandoli sghignazzare. Pochi minuti prima lo avevano battuto, erano convinti di essere più forti di lui? Contrasse i muscoli con decisione ma senza forzare, lasciando che l’odore delle magnolie penetrasse nelle sue narici, alle quali arrivavano anche altre fragranze di cui non conosceva le origini, né l’esistenza. Rimase affiancato agli altri. La linfa divenne improvvisamente fresca, come una doccia ristoratrice in un caldo giorno d’estate e allora affondò. Ricambiò il ghigno, superò il traguardo con disinvoltura e si voltò a braccia conserte a guardare i compagni ancora in arrivo. Fermo. In piedi. La loro andatura era scomposta e rabbiosa. “Scomposta, come la loro attività lavorativa, ma soprattutto scostante”. Non erano di nessuna utilità per l’azienda, lavoravano poco e male, mai in collaborazione con i colleghi, sempre in antitesi con lui. S'incamminò nuovamente verso casa. Fece una doccia e si recò dal barbiere. “Devi fare ciò che ti fa stare bene”. Guardò le ciocche cadere per terra formando una montagna. Il pavimento bianco improvvisamente era diventato nero, un nero che fino a pochi minuti prima invadeva la sua mente e oscurava i suoi pensieri. Pensò a come sarebbe stato sedersi su quella sedia di fianco a suo padre, mentre il suo volto emergeva in quello splendido taglio. “Questo mi fa stare bene”. Alzò gli occhi guardando nel vuoto, come se in quella dimensione potessero manifestarsi i suoi ricordi e scorrere sullo schermo come in un film. Un film che al cinema, sul grande schermo, lui non aveva mai visto. Si chiuse in se stesso giusto il tempo per ricomporre i pezzi della propria vita, ma solo per accorgersi che erano stati tenuti insieme da quelle parole. Scritte. Con cura. Su quel foglio. Fece il vuoto nella sua mente, ma il vuoto non c’era. C’era solo una parola che rimbombava, come un eco. “Devi”.

Pubblicato in concorso


"Di cosa parliamo quando parliamo d'amore"
, titolo che arriva direttamente dal genio di Carver
Come sempre potete ispirarvi all'opera originaleoriginale e prendere qualsiasi direzione troviate inerente.

Le regole, sempre le stesse:

I racconti (inediti) devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it

La lunghezza massima (e vivamente consigliata) è di quattromila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office (doc, docs, odt).
Il titolo deve essere composto dal vostro nome-cognome e da "Di cosa parliamo quando parliamo d'amore".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Scadenza 31 dicembre 2017.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito e a mettere un like alla pagina facebook. Sarà più semplice comunicare e potrete seguire ogni nostra iniziativa.
Cosa si vince?

I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it

 Entro marzo 2018  i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

Link a Prospettive, l'ebook della prima antologia.

Pubblicato in redazione

(Armonia in rosso)

     Di fronte a lui era seduta una donna di mezz’età dall’aria affranta, forse per la giornata che si lasciava dietro le spalle, o forse per la serata che l’aspettava. Magari per entrambe. Il vagone della metro era quasi pieno. Sergio aveva trovato posto, non gli capitava spesso, e poteva osservare chi gli stava attorno senza preoccuparsi di restare in equilibrio o di impedire agli altri passeggeri di salirgli sui piedi. I suoi orari erano sempre gli stessi, e coincidevano con quelli di tanta altra gente che lavora dalle otto e mezza della mattina alle sei e mezza della sera. Solo quando andava in trasferta in qualche paese della provincia prendeva la macchina, che per tutta la settimana restava chiusa in garage. La tirava fuori il sabato per andare a fare la spesa in un supermercato distante da casa sua, che aveva prezzi più bassi rispetto agli altri. Con un solo stipendio e con la famiglia che s’allargava non poteva permettersi neanche la più piccola spesa superflua. Sua moglie era bloccata in casa nell’ultima fase della gravidanza per ordine del medico. Avevano sperato che potesse lavorare fino a due mesi prima del parto, ma le minacce di distacco della placenta, che si erano presentate alla tredicesima settimana, avevano interferito con i loro piani. Naisha, prima della pausa forzata, lavorava qualche ora la mattina, come segretaria, presso una cooperativa sociale. Era stato così che si erano conosciuti: lui era andato a ritirare un computer guasto e aveva trovato lei, che gli aveva spiegato con una dolcezza a cui non era abituato quali problemi avesse il proprio computer. Quando, dopo la riparazione, era arrivato il momento di riconsegnarlo, Pietro aveva insistito per andare di persona e ne aveva approfittato per offrirle un caffè al bar vicino alla cooperativa. Poi c’era stato un invito al cinema, e da lì era proseguito in modo del tutto naturale. Sua madre aveva fatto qualche obiezione all’inizio, troppe differenze culturali, ma alla fine anche lei aveva ceduto alla magia di quegli occhi neri, dentro i quali s’intuivano tutti i misteri della terra da cui proveniva la ragazza. Tutta un’altra cosa da quelle che le erano state presentate, in modo più o meno ufficiale, fino a quel momento.

     Sergio era in ritardo di almeno due ore. Aveva telefonato a casa per avvertire, ma non sapeva di quanto tempo avrebbe avuto bisogno per portare a termine quello che stava facendo. Dipendeva da tutta una serie di fattori. Doveva aspettare e vedere come evolveva la situazione. Quando aveva staccato, alla solita ora, era sceso nel garage che si trovava sotto il palazzo, un complesso di uffici dove aveva sede anche la sua ditta, e dove erano parcheggiate tutte le auto degli impiegati e dei dirigenti. La sua intenzione era quella di affrontare il dottor Emili, il suo capo, in un faccia a faccia appartato, senza timore che qualcuno potesse sentirli. In ufficio aveva provato a spiegargli la propria situazione, ma era troppo sconvolto, le parole gli morivano in gola, tutto quello che era riuscito ad articolare erano concetti scollegati, il cui nesso era chiaro solo a lui: nessuno sarebbe riuscito a capirne il senso, figurarsi quell’uomo tutto compreso nel suo ruolo di selezionatore di scarti: questo sì, questo no, questo forse, vediamo. Il responsabile delle risorse umane. Forse il concetto che sua moglie fosse incinta l’aveva afferrato, quello Sergio era sicuro di averlo esposto in modo chiaro, ma, anche se l’aveva capito, aveva fatto finta di niente continuando a recitare la sequela inarrestabile di spiegazioni e di giustificazioni come una litania imparata a memoria: cifre, statistiche, bilancio, microeconomia, profitto. Il suo fiume di parole aveva tracimato, riversandosi con violenza brutale nella sua vita. E sbaragliandola. Ma adesso avrebbe potuto recuperare. Sapeva che Emili si sarebbe trattenuto qualche minuto di più in ufficio, usciva sempre dopo che tutti se ne erano andati. Si preparò ad aspettarlo, sperando nel frattempo di calmarsi e di riacquistare la lucidità necessaria per dire tutto quello che aveva in mente. Nel garage individuò subito la macchina dell’uomo, una Lexus nera, sempre tirata a lucido, arrogante come possono esserlo le auto che servono a far dimenticare la mediocrità di chi le guida. E che doveva essere costata quasi quanto la casa di cui lui e Naisha stavano pagando il mutuo. Si mise non lontano dall’auto, dietro un muretto, per non essere visto da nessuno: il garage s’era quasi svuotato, ma, oltre a quella di Emili, c’erano ancora diverse vetture parcheggiate in ordine sparso, in attesa di essere ritirate. Mentre aspettava, iniziarono a scorrergli nella testa le immagini al rallenty della scena di cui era stato, suo malgrado, protagonista un paio d’ore prima, e riprovò le stesse sensazioni, amplificate dalla consapevolezza, che si era rafforzata con lo scorrere dei minuti, che ci fosse ben poco da fare per uscire da quel dedalo inestricabile tracciato sulle sue paure.         

     Prima di allora non aveva mai notato quanto fosse sgradevole quella faccia. Lui lavorava a testa bassa, non aveva tempo per occuparsi d’altro. Ma quel giorno, durante il colloquio, quell’uomo era lì, a qualche centimetro da lui, a separarli la scrivania col piano di cristallo. Non erano mai stato così vicini. Emili era uno che si rintanava nel proprio ufficio e ne usciva solo per andare a pranzo e per tornare a casa. I contatti con i dipendenti erano tenuti dai responsabili di settore. Senza rendersene conto, Sergio si ritrovò a prendere consapevolezza dei tratti disarmonici, sproporzionati, del viso che gli stava di fronte. Non era solo l’aspetto esteriore: quello ormai cominciava ad apparigli come un guscio deforme e sgraziato dentro cui si adattava, seguendone in modo preciso i contorni, una massa duttile e malsana. Gli capitava di rado di considerare le caratteristiche fisiche delle persone, non gli interessavano, ma in quella situazione non riusciva a evitarlo. All’immagine di quell’uomo si sovrapponeva, in un gioco di trasparenze, quella di un suino, un maiale, come quelli che i suoi nonni in paese allevavano per tutto l’anno per poi far loro la festa a gennaio. Il testone dalla fronte stretta si allargava sulle guance fino alle mandibole, che erano la parte più larga del viso, quasi attaccate al collo largo e tozzo, corto, quasi inesistente. Gli occhi piccoli, con dentro due puntini neri che in quel momento erano fissi su di lui, ma che a tratti vagavano per la stanza alla ricerca di un oggetto qualsiasi su cui soffermarsi, da mettere a fuoco, come per permettere al portatore di quello sguardo sfuggente di riprendere lena, per finire un discorso che diventava sempre più penoso. Le parole filtravano tra le labbra sottili, la bocca larga sembrava un taglio, una ferita tra il naso e il mento. Nell’ascoltare quello che diceva, Sergio si sentiva montare dentro un’ondata di rabbia che cominciava a diventare difficile arginare. Lui non era un violento, non lo era mai stato. Ma di fronte a quella faccia imperturbabile nella sua sfrontatezza cominciava ad avvertire il desiderio di scuotere quell’uomo fino a fargli perdere quella sua aria da padreterno in overdose di onnipotenza. Avrebbe dato qualsiasi cosa per cancellare quel sorriso stereotipato, buono per tutte le stagioni e per ogni circostanza. Ma oltre a ribollire dentro non poteva permettersi altro: qualsiasi cosa avesse fatto avrebbe finito per ricadere anche sulla sua famiglia appena abbozzata. La concentrazione al minimo, sentiva solo a tratti quello che l’altro gli stava dicendo. Coglieva parole qua e là, ma il concetto era stato già espresso all’inizio, anche se lui ci aveva messo un po’ a rendersene conto. «… esubero… sei giovane … la crisi… referenze…». Se ne sbatteva grandemente delle sue referenze, dove diavolo lo trovava un altro lavoro, così su due piedi, e con la moglie incinta di sei mesi? Puntaccapo, si chiamava così il centro di vendita e riparazione dei computer dove prestava la sua opera, forse più qualificata di quanto non fosse richiesto. Aveva frequentato due anni di ingegneria informatica all’università e a lui quel lavoro piaceva: gli permetteva di mettere in pratica l’esperienza e le conoscenze acquisite. Non aveva mai finito gli studi perché, dopo la morte del padre, non se l’era sentita di gravare sulle spalle della madre, che ormai doveva vivere con la pensione di reversibilità e pensare anche a sua sorella minore. E quando aveva provato a cercarsi un lavoro part-time, aveva dovuto ammettere che i pochi soldi guadagnati non gli sarebbero bastati per tutte le spese e, se avesse lavorato di più, non avrebbe potuto dedicare allo studio il tempo necessario. Allora si era detto che avrebbe lavorato per un po’, messo da parte un po’ di soldi, per poi riprendere quando gli fosse stato possibile. Ma più il tempo passava, più quel proposito si allontanava. Ormai se ne rendeva conto anche lui, la laurea era destinata a rimanere uno dei tanti progetti naufragati strada facendo. Per la verità nella sua vita non ce ne erano stati molti, ma rinunciare a quello gli era bruciato più degli altri perché aveva tradito le aspettative di suo padre, che sognava di vedere in lui il primo dottore in famiglia. Puntaccapo, in quel momento quel nome manifestava un’ironia spietata. Lui non poteva mettere un punto, e non poteva andare a capo, perché non era più solo, sebbene non lo fosse mai stato, solo, come in quel momento. Era stato cacciato in quel labirinto e doveva percorrerlo senza appoggiarsi a nessuno.

     Fu strappato a questi pensieri dal rumore metallico della pesante porta di ferro dell’interrato, che sbatteva richiudendosi. Doveva essere quella che portava agli ascensori e, nel deserto silenzioso del grande parcheggio sotterraneo, il rimbombo rimandò un’eco quasi sinistra.  Qualcuno era entrato, se ne sentivano i passi veloci sopra il cemento. Sergio sbirciò dal suo angolo per vedere se si trattava di Emili, ma riconobbe nell’uomo che si avviava verso un’utilitaria uno degli impiegati della ditta, stacanovista o forse solo ritardatario. Si rimise in attesa, ormai non doveva mancare molto. Fece respiri profondi per allentare la tensione, doveva mantenersi calmo. Sentì il motore avviarsi e la macchina partire. Poi di nuovo silenzio, e allora ebbe l’impressione di sentire un rumore non lontano. Mise di nuovo la testa fuori dal proprio nascondiglio: Emili era vicino alla sua auto, a qualche passo da lui. Aveva appena aperto la portiera e si stava togliendo l’impermeabile prima di salire. Non poteva farselo sfuggire. Uscì di corsa da dietro il muro: «Dottor Emili, aspetti un secondo, la prego!», gridò. L’altro si voltò sorpreso e, nel riconoscerlo, assunse la stessa aria di sufficienza di due ore prima. «Ferranti, cosa c’è adesso? Ci siamo già detti tutto, non c’è nulla da aggiungere, mi dispiace.» «Ma mi lasci spiegare», quasi implorò Sergio. «Prima sono stato colto di sorpresa, non me l’aspettavo…» continuò. «Mi creda, la situazione è chiarissima, ma le ho anche spiegato le esigenze della ditta. Mi scusi, vado di fretta, ho gente a cena. Buonasera», e fece per salire. Sergio lo afferrò per un braccio: «Mi ascolti, me lo deve! Almeno questo, me lo deve!» «Ma che ca…! Ma è impazzito! Mi tolga subito le mani di dosso.» Sergio si controllava a fatica: le sistoli e le diastoli s’erano scatenate in una danza frenetica dentro il suo petto, il cuore si era come dilatato a occupare tutto lo spazio, le tempie pulsavano, le mani tremavano. Lui non mollava la presa, mentre Emili cercava di liberarsi: «Farabutto esaltato, lasciami in pace!», urlò il selettore di scarti. «Lasciami in pace? Brutto figlio di puttana! », sibilò Sergio, ormai fuori controllo, «a me la stai togliendo la pace! Mi stai togliendo tutto, grandissimo pezzo di merda! Lo capisci questo? Mi stai togliendo tutto!». Aveva iniziato a strattonarlo. Emili cercava di liberarsi per salire in macchina. Nei suoi occhi, che non avevano comunque perso l’arroganza ormai consolidata, era affiorata anche la paura. Si guardava attorno nella speranza di vedere arrivare qualcuno, ma c’erano solo loro due. «Ma va a farti fottere, buffone imbranato!», e fece un ultimo tentativo per liberare il braccio stretto nella morsa delle mani di Sergio, che a quel punto perse quel briciolo di autocontrollo che gli era rimasto e, afferrata la portiera, iniziò a sbatterla con forza contro l’uomo. Nel tentativo di entrare in macchina, Emili era rimasto con una gamba dentro e l’altra fuori, incastrato e destinato a subire i colpi senza possibilità di scampo. La pesante portiera si abbatteva su di lui con la violenza della rabbia repressa. Sergio non riusciva a fermarsi: «Infame barile di lardo, vuoi essere lasciato in pace, eh?», e continuava a colpire. «Hai gente a cena, vero? Adesso ti concio per le feste, e poi ti ci mando io dai tuoi preziosi ospiti!» I colpi diventavano sempre più violenti. A un certo punto Emili scivolò verso terra e, nella caduta, la sua testa si trovò nella traiettoria della portiera che si abbatteva su di lui per l’ennesima volta. Dalla tempia dell’uomo uscì un fiotto di sangue che in un attimo si diffuse su tutto il viso. Fu a quel punto che Sergio si fermò e, come paralizzato, fissò sconvolto l’altro, riverso sul pavimento di cemento del garage. Gli ci volle del tempo, lui non saprebbe dire quanto, per rendersi conto di quello che era successo: il suo incubo era diventato un incubo peggiore. Quando sentì sbattere la porta di ferro dalla parte degli ascensori, riuscì a scuotersi e, riacquistato un barlume di lucidità, si rese conto che doveva allontanarsi, e alla svelta. Cercando di restare nell’ombra si avviò verso una porta che stava dalla parte in cui si trovava lui e, attento a non fare rumore, l’accompagnò nel chiudersi e salì di corsa le scale che l’avrebbero portato fuori di lì. A casa.

Si era fatto due chilometri a piedi per arrivare alla stazione della metro: avrebbe potuto prendere il bus, come sempre, ma sentiva il bisogno di camminare, di scaricare il miscuglio di tensione, rabbia e paura. Ridiventare padrone di sé, almeno per quella sera. Doveva riuscire a dominare il terrore che gli era rimasto dentro per quanto era successo nel garage, non poteva portarlo a casa. Doveva anche tenersi dentro tutti gli interrogativi sulla sorte di Emili che gli si affollavano in testa: i giorni successivi sarebbero stati decisivi per il corso della sua vita futura. Poteva succedere tutto. O niente.

     Quando era sceso dalla metro aveva percorso le poche centinaia di metri che lo separavano da casa sua quasi di corsa. Era già buio, in genere arrivava prima. Non vedeva l’ora di rientrare nella villetta a schiera nella prima periferia della città, dove aveva sognato di passare il resto della vita con Aisha e con i figli che sarebbero venuti. Quella sera più che mai aveva bisogno di un rifugio certo. Della presenza di sua moglie. Una donna coraggiosa: era partita dall’India settentrionale da sola per frequentare l’università in Italia. Quando si erano conosciuti era al terzo anno, e lavorava anche qualche ora nell’ufficio in cui si erano conosciuti. Col matrimonio e la gravidanza aveva rallentato, ma non rinunciato del tutto: aveva intenzione di riprendere appena possibile. Da dov’era Sergio cominciava a intravedere la luce del loro piccolo giardino: Aisha l’accendeva sempre, diceva che portava bene. E che nel suo paese c’era la festa della luce, e la divinità della ricchezza, in quel giorno, faceva visita nelle case dove ce n’era.

     Era a due passi dal piccolo cancello della sua casa: si fermò un attimo per essere sicuro di riuscire a mantenere l’atteggiamento pacato che si era imposto. La finestra del salotto era aperta e ne usciva tanta luce: Aisha doveva aver acceso il lampadario centrale. Di solito accendeva solo le due lampade sulla credenza, mentre guardava la televisione dopo cena. Nell’avvicinarsi alla casa, giunse davanti alla finestra e vide che dentro c’era il tavolo apparecchiato. Sua moglie stava sistemando dolci e frutta sulla tovaglia rossa, come il suo sari. Era quello che aveva indossato quando si erano sposati: rosso, con ricami in varie tonalità di blu. Il rosso era il colore dell’abito da sposa nella parte del paese da cui lei veniva, era considerato il colore della purezza. Lo aveva cercato tanto in Italia, senza successo, e poi aveva chiesto alla sua famiglia di spedirgliene uno dall’India. Lui ne ricordava ancora la meraviglia quando aveva aperto il pacco. Lo aveva indossato solo un’altra volta dopo il matrimonio: in occasione del loro primo anniversario. E di colpo, con uno spasimo di consapevolezza, Sergio si rese conto che quel giorno era proprio il loro anniversario, il secondo, e lui, trascinato e stritolato nel tritasassi di quella giornata, lo aveva completamente dimenticato. Non riusciva a staccare gli occhi da quella scena, e l’armonia che sprigionava dai gesti distesi di sua moglie gli restituiva un po’ della fiducia che si era dissolta nella confusione, nella paura, nella rabbia, e nel senso di colpa, delle ore precedenti. Cercò le chiavi nella tasca dei pantaloni e si preparò a entrare in casa: aveva già fatto fin troppo tardi.   

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