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Ciao Andrew, come stai? Esordisco, banalmente, con il chiederti come sta andando questa quarantena forzata. So che vivi a New York, a Brooklyn per la precisione, e da quello che stiamo vedendo, si tratta della città più martoriata dal Coronavirus e quindi di quella dove le regole sono più astringenti: come stai vivendo la situazione, a livello pratico e anche psicologico?

Ciao, Alessandra! Spero che tutti voi stiate bene. Sì, in effetti l’atmosfera a New York è drammatica. Per certi versi, sembra una città fantasma: i luoghi fisici sono ancora al loro posto, ma le attività aperte e le persone in giro sono talmente poche… È surreale vedere le strade vuote in pieno giorno. A livello pratico, personalmente me la sto cavando bene: vivo con mia moglie, i nostri due figli adolescenti e due cani in una tipica casa a schiera nella zona di Greenwood Heights, a Brooklyn. Per fortuna, abbiamo molto spazio e aree esterne da poter sfruttare. Il quartiere è tranquillo e facile da raggiungere. A livello psicologico, è stata una sfida, ovviamente, perché sono preoccupato per il ritorno alla normalità della mia amata città e per il destino dei miei amici e dei miei concittadini che sono i più colpiti. Faccio fatica a dormire, questo sì.

In questo preciso momento storico, ho potuto constatare come i creativi – le persone che si dedicano a qualsiasi forma di arte – si siano divisi in due diversi “schieramenti”: chi sta vivendo questa condizione come un intralcio mentale, una preoccupazione che genera mancanza di concentrazione e sconcerto e chi, di contro, si rifugia nella propria passione, in quello spazio che gli permette di sentirsi al sicuro e quindi di isolarsi senza particolare difficoltà. Sono curiosa di sapere in quale di queste due dimensioni, come scrittore, ti ritrovi maggiormente.

Devo dire che sto scrivendo molto, sicuramente. In un certo senso, da giornalista, mi sento in dovere di raccontare storie sui tempi che stiamo vivendo; ho dato il mio contribuito al New York Times con un paio di articoli sul tema del Coronavirus, e ho anche raccontato la bellissima storia di una coppia di ragazzi marchigiani che, proprio qui a New York – solo appena prima del lockdown – sono riusciti ad aprire il ristorante dei loro sogni. Sto componendo anche altri scritti, sugli stessi argomenti di cui parlerei normalmente: cucina, cultura e via dicendo, solo per fornire ai lettori qualche contenuto che, di questi tempi, viene messo da parte. Come romanziere, sto invece lavorando al seguito di Cucina Tipica: An Italian Adventure (che, questa volta, è per lo più ambientato a Roma), e questo perché amo tanto l'Italia e, in questo frangente, sto pensando tanto al vostro Belpaese.

Parlando ancora di quarantena e isolamento domestico, pare che il passatempo preferito dagli italiani sia stato cucinare, cucinare e cucinare. Qualcosa mi dice che sia avvenuto lo stesso per te, dato che so che ti piace stare ai fornelli. Dire che si tratti di una passione è addirittura riduttivo, forse, e questo lo dico perché sia da lettrice dei tuoi romanzi che da traduttrice del tuo Outerborough Blues: a Brooklyn Mystery (n.d.r. Brooklyn Mystery nella versione italiana) ho notato da subito come il tuo rapporto con il cibo, il modo di parlarne, di descriverlo e di affrontare tutto quello che è legato alle ricette e alla loro origine geografica, fosse qualcosa di estremamente prezioso da trattare. Nei passaggi del romanzo dedicati alla preparazione di un pasto o ad altri dettagli culinari, la descrizione quasi si sospende e assume la forma di un rituale sacro: puoi raccontarci da cosa, e quando, nasce la tua passione per la cucina?

Grande osservazione! Il cibo è sempre stato una parte importante della mia vita, da nipote di immigrati siciliani e da figlio di una buongustaia e abilissima cuoca. Associo sia la preparazione di un piatto, sia il momento in cui viene gustato a uno dei più grandi piaceri della vita, in particolare per gli aspetti sensoriali e per quelli conviviali. Uso il cibo in tutti i miei romanzi come strumento di caratterizzazione, di sviluppo della trama, o semplicemente come mezzo per coinvolgere i lettori con dettagli che possano apprezzare, comprendere, e nei quali possano ritrovarsi. Quando mi si dice che la mia scrittura stimola l’appetito, allora sì, sono molto felice.

A proposito di ciò, raccontaci qualcosa anche del tuo ultimo romanzo “Cucina Tipica: an Italian Adventure”, ancora inedito in Italia: qui hai deciso di dedicare al tema ancor più spazio, se non addirittura di affidargli il ruolo da protagonista. Di che cosa tratta, in particolare?

Sì, in effetti il tema culinario all’interno di Cucina Tipica è una parte molto importante della trama. Il protagonista, un americano demoralizzato e scoraggiato, si innamora a prima vista dell'Italia, e molto di questo ha a che fare non solo con la qualità del cibo (e del vino) ma anche con la varietà e la disponibilità. E non lo dico né in tono scherzoso né ruffiano: quello che mangiamo e quanto lo apprezziamo, l'esperienza in sé, ha un impatto enorme sul corpo e sulla nostra qualità della vita, sia fisica che mentale. Questo è qualcosa con cui gli americani stanno, in un certo senso, facendo i conti solamente ora, ma che a gran parte del mondo appartiene già da tempo.

Tornando al tuo precedente Brooklyn Mystery, e parlando ancora di ruoli principali e immagini fondamentali all’interno dei tuoi romanzi, credo che chi lo abbia già letto possa essere concorde con me sul fatto che la grande protagonista di questa avvincente storia noir non sia in realtà una persona in carne e ossa. Oserei infatti dire che, se il personaggio di Caesar Styles è centrale – è il nostro sguardo sulla storia, il meccanismo motore della trama – e se il tema culinario è la colonna sonora che lo accompagna lungo la sua avventura, sia proprio Brooklyn a distaccarsi come protagonista indiscussa, così che il romanzo tutto, finisce per apparire come una sorta di dichiarazione d’amore tormentato per questo distretto di New York City. Se così è, da cosa è nata questa volontà?

Il poeta John Ashbery una volta dichiarò che il personaggio più importante di una storia è la sua ambientazione, e devo dire che si tratta di un pensiero che tendo a condividere. Brooklyn è certamente in primissimo piano all’interno di questo romanzo, con i suoi diversi quartieri e gli altrettanto diversi personaggi. Mi piaceva l'idea di rappresentare quanta complessità si possa annidare tra confini di una stessa zona – che, più in grande, è proprio quello che rende la città di New York City così unica – e come questa varietà possa dare vita agli avvenimenti e agli incontri più bizzarri e disparati. Mi piaceva anche l’idea di mettermi alla prova con un outsider – più precisamente, con un personaggio dal passato complesso e instabile, come Caesar – che all’interno di questo scenario cerca di muoversi come una sorta di improbabile detective. Naturalmente, di conseguenza, il quartiere gioca un ruolo fondamentale, anche se ciò avviene attraverso gli occhi del nostro protagonista.

Oltre a quello che ho già menzionato sopra, di questo romanzo ho amato particolarmente la caratterizzazione dei personaggi, le descrizioni a tratti liriche degli spazi, sia gli ambienti interni che i paesaggi esterni, e il fatto peculiare che possa essere considerato un noir – una storia del mistero – seppur senza contenere al suo interno un omicidio o un detective come protagonista. Senza svelare altro a chi ancora non ha avuto modo di leggerlo, puoi dirci da dove è nata la tua idea di cimentarti in questo genere letterario e, anche, se sei un amante dello stile Hard-Boiled americano più classico alla Raymond Chandler?

Non sono proprio un affezionato del genere, come sai, ma la definizione di "noir" mi piace, perché ad essa viene associata una certa sensibilità letteraria. Ho una predilezione per i romanzi più complessi che si avvalgono di questo stile per esplorare quelle comunità - urbane o rurali – che si trovano ai margini della società, così come le persone spesso dimenticate o ignorate che abitano quei luoghi. Mi piace anche il fatto che nei romanzi noir, prima o poi, qualcosa va a finire male, anche se tutto sembra procedere in maniera tranquilla. Infondo, non si deve mica parlare di un professore che soffre di crisi di mezza età!? Non mi dice nulla, al contrario, quel tipo di mistero da classico romanzo giallo “ad enigma”, con gli stereotipi e i cliché associati al genere. Insomma, amo servirmi dell’atmosfera tipica di un noir per riuscire a scrivere in un certo modo – con una buona dose sia di lirismo che di grinta – e a raccontare personaggi di cui altrimenti non parlerei. Il Publisher Weekly ha definito Outerborough Blues (il Vostro Brooklyn Mystery) una storia che potrebbe benissimo “essere stata scritta da Raymond Chandler sotto dettatura di Walt Whitman”. Inutile dire che sia stato, per ovvie ragioni, il più bel complimento che abbia mai ricevuto e che – probabilmente – mai più mi capiterà di ricevere.

Il filo conduttore dell’avventura e delle vicissitudini del nostro Caesar Stiles è la sua eterna ricerca di un luogo nel mondo, di un posto da poter chiamare “casa” e – al tempo stesso – la sua continua sensazione di disagio, di smania, come un vago senso di non appartenenza, ovunque egli si trovi. In modi molto diversi, questo aspetto può essere considerato un terreno comune su cui si muove gran parte della letteratura dell’esodo, che tocca in qualche modo il tema dello sradicamento. Ci tenevi a trasferire su pagina questa condizione in maniera esplicita o pensi semplicemente si tratti di un atteggiamento naturale e necessario per uno scrittore che, come te, nasce da una famiglia con una storia di emigrazione alle spalle?

Immagino che l’ascendente che ha su di me il tema del movimento provenga da un’adolescenza piuttosto itinerante. Tra i dodici e i ventidue anni ho vissuto infatti in ben sei stati diversi, tutti negli Stati Uniti continentali. È proprio in questi periodi che mi sono ritrovato a trascorrere molto tempo nella dimensione della mia immaginazione, riflettendo spesso sul concetto di casa: naturalmente apprezzavo quanto fosse rassicurante, potente, provare un senso di dimora e quanto fosse, invece, avvilente l’eterno vagare. Questo è un po’ il filo conduttore, la forza trainante, di tutti i miei romanzi, nonostante venga trattato o approcciato da diverse prospettive; il personaggio di Caesar Stiles è, su tutti, quello che senz’altro subisce maggiormente questo effetto.

Oltre che al tuo mestiere di scrittore, vorrei soffermarmi un poco su un’altra tua professione: quella di insegnante. Mi piacerebbe che ci raccontassi delle lezioni di Scrittura Creativa che hai seguito presso la nota New School di Manhattan e di quelle che, invece, tieni come docente in alcuni college di New York. La materia di cui ti occupi è senza dubbio complessa e necessita di tanta passione e abilità (per l’insegnamento) oltre che di metodo, per riuscire a trasferire in pratica un aspetto che forse – sbagliando – considero come tanti, ancora, qualcosa di legato al talento (innato), alla spontaneità; tutte doti – insomma – necessarie per chi sceglie di dedicarsi a qualsiasi disciplina artistica, appunto “creativa”. Ho sempre pensato che solamente in un paese come gli Stati Uniti, che della scienza dell’How do it si è fatto propagatore, potesse nascere un metodo pragmatico per insegnare a scrivere con creatività. Potresti spiegarci brevemente su che approccio si basano i tuoi insegnamenti – sempre che tu ti avvalga di una metodologia specifica (penso per esempio al Gotham Writers’ Workshop nato a NY negli anni Novanta) – e magari convincermi che questa mia idea di contraddizione in termini è obsoleta o errata?

In realtà sono convinto che la scrittura creativa possa essere insegnata, ma non so se la creatività sia qualcosa che si possa imparare. Presumo che ogni studente che decida di seguire un corso di scrittura creativa o – a maggior ragione – di iscriversi a un programma di studio in scrittura creativa (diploma universitario o laurea di primo livello che sia) possieda già una certa capacità di scrivere una storia, così come un profondo desiderio di farlo. Questi diversi tipi di corso possono aiutare gli studenti a comprendere meglio il mestiere, ad essere esposti e a cimentarsi in vari generi e autori, a trovare modi per adottare le abitudini di scrittura e anche come comprendere o dare un riscontro. Per molti aspiranti autori, si tratta di un’ottima occasione per verificare se possiedono tutto quello che serve perché, davvero, c'è molto da fare. E non lo dico solo perché - in parte - è il modo in cui mi guadagno da vivere.

Andrew, con la speranza di poter continuare a tradurre i tuoi lavori per i nostri lettori italiani, ti ringrazio ancora a nome di Jona Editore per questa chiacchierata!

Grazie a te, Alessandra: sono davvero grato di aver conosciuto te e Jona Editore, e spero vivamente che questo soldalizio perduri nel tempo. A proposito: sapete che il sequel di Brooklyn Mystery uscirà per il mercato americano verso la fine di quest’anno?

Per chi se lo fosse perso, ricordiamo che “Brooklyn Mystery” è scaricabile gratuitamente in versione digitale al seguente link

 

 

English version.

 

Hi Andrew, how are you? I will start, trivially, asking you how this forced quarantine is going. I know you live in New York, in Brooklyn to be precise, and from what we are seeing, it is the most hit city by the Coronavirus at the moment, and therefore the one where the rules are more astringent: how are you living this situation, on a practical and psychological level?

Hi, Alessandra! I hope you are well. Yeah, things in NY are grim. It feels like a ghost town in many ways, with the physical environs still in place but so few things open and so few people out and about. It’s surreal to see empty streets in the middle of the day. On a practical level, I’m doing OK. I live with my wife, our two teenage children, and two dogs in a townhouse in the Greenwood Heights section of Brooklyn. Thankfully, we have lots of space and access to outdoor areas. The neighborhood is also quiet and easy to get around. On a psychological level, it’s been challenging, of course, as I’m worried about my beloved city returning to normal and the fate of my friends and fellow citizens who are most affected by this. I’m having a hard time sleeping.

At this precise moment in history, I am noticing how creative people - people who dedicate themselves to any form of art - have split into two different "divisions": those who are experiencing this condition as a mental impediment, a worry that generates lack of concentration and bewilderment and those who, on the other hand, take refuge in their passion, in that space that allows them to feel safe and therefore to isolate themselves without particular difficulty. I am curious to know which of these two dimensions, as a writer, you find yourself in the most.

I’m definitely writing a lot. Partly, I feel, as a journalist, obliged to tell stories about the times in which we are living, so I’ve had a few corona-related contributions to The New York Times, and I also wrote a story about this lovely couple from Le Marche who opened their dream restaurant in NYC just before the shutdown. I’m also writing other stories, those which I normally might, about food, culture, etc., just to contribute some content that is atypical of most everything else these days. As a novelist, I’m working on a sequel to Cucina Tipica: An Italian Adventure (it’s set mostly in Rome!) mostly because I love Italy so much and am thinking about the Bel Paesa so much.

Speaking again of quarantine and domestic isolation, it seems that the favorite pastime of the Italians is cooking, cooking and cooking. Something tells me the same thing is happening to you, since I know you love spending your time in the kitchen. To say it is a passion is even reductive, perhaps, and I’m saying this because both as a reader of your novels and as a translator of your “Outerborough Blues: at Brooklyn Mystery” (editor's note: “Brooklyn Myster” in the Italian version) I immediately noticed how your relationship with food, the way you talk about it, describe it and deal with everything related to recipes and their geographical origin, is something extremely valuable to deal with. In the passages of the novel dedicated to the preparation of a meal or other culinary details, the description almost suspends and takes the form of a sacred ritual: can you tell us what, and when, does your passion for cooking come from?

Great observation, Alessandra! Food has always been a big part of my life, as the grandchild of Sicilian immigrants and the son of a woman who was a bon vivant and gourmet cook. I associate the preparation and enjoyment of food with life’s greatest pleasures, particularly the sensory aspects and the communal ones, respectively. I use food in all of my novels as a device for characterization, plot development, and simply as a means of engaging the reader with details of which most can relate and appreciate. When someone tells me that my writing makes them hungry, I am very happy.

Speaking of which, please tell us something about your latest novel “Cucina Tipica: an Italian Adventure”, still unpublished in Italy: in this book you have decided to devote even more space to this theme, giving it the leading role. What is this novel about, in particular?

Yeah, food in Cucina Tipica is a very important part of the plot. The main character, a disheartened American, falls in love with Italy immediately, and much of this has to do with not just the quality of the food (and wine) but also its availability. And I don’t do this in a cheeky or cavalier way: What we put into our bodies and how we appreciate the experience has a huge impact on the quality of our lives, both our physical and mental health. This is something Americans are finally, somewhat, coming to terms with but much of the world already understands.

Going back to your previous “Brooklyn Mystery”, and speaking again about main roles and fundamental images within your novels, I think that those who have already read it can agree with me that the great protagonist of this exciting noir story is not actually a real person. In fact, I dare say that if Caesar Stiles' character is central - it's our view of the story, the driving force behind the plot - and if the culinary theme is the soundtrack that accompanies him on his adventure, it's Brooklyn itself that stands out as the undisputed protagonist, so that the whole novel ends up appearing as a sort of declaration of troubled love for this district of New York City. If that is the case, what gave rise to this will?

There’s a quote from John Ashbery that the most important character in any story is the setting, and this is something I tend to embrace. Brooklyn is certainly on full display in the novel, its distinct neighborhoods and characters. I liked the idea of how much complexity could be found within the confines of a singular borough - it’s what makes New York City as a whole so special - and how such could lend itself to unique events and encounters. I also loved the challenge of an outsider - especially one from Caesar’s complex background and travels - trying to navigate this backdrop as an unlikely “detective” of sorts. Of course, as a result, the borough plays a staring role, albeit through the eyes of our protagonist.

In addition to what I've already mentioned above, of this novel I particularly loved the characterization of the characters, the sometimes lyrical descriptions of the spaces, both the interiors and the outdoor landscapes, and the peculiar fact that it can be considered a noir - a mystery story - even without containing a murder or a detective as the protagonist. Without revealing anything else to those who haven't had the chance to read it yet, can you tell us where your idea to dedicate yourself to this literary genre came from and, even if you are a lover of the more classic American Hard-Boiled style à la Raymond Chandler?

I’m not dedicated to the genre, obviously, but I do like what is referred to as “noir” since there’s a literary sensibility also associated with it. I especially enjoy some of the more complex novels that use the genre to explore communities on the periphery of society, usually urban or rural, and the often ignored people who inhabit those places. I also like that in noir shit has to happen, even if its fairly quiet things. You know, it’s not some novel about a professor having a midlife crisis. I have no real interest in “Mystery” with regard to “Who Dunnit” or too many of the tropes associated with the genre, but I love using the ambiance of noir to write in a certain way, with both poetry and grit, and about certain characters that I otherwise wouldn’t. Publishers Weekly wrote that Outerborough Blues (your Brooklyn Mystery) “reads like Raymond Chandler taking dictation from Walt Whitman.” And that, to me, will be the greatest compliment I’ll (probably) ever get, for obvious reasons.

The thread that runs through the adventure and vicissitudes of our Caesar Stiles is his eternal longing for a place in the world, for a place he can call "home" and - at the same time - his continuous feeling of uneasiness, of eagerness, like a vague sense of not belonging, wherever he is. In very different ways, this aspect can be considered a common ground on which much of the literature of the exodus moves, which somehow touches on the theme of uprooting. Were you interested in transferring this condition explicitly to the page or do you simply think it is a natural and necessary attitude for a writer who, like you, was born into a family with a history of emigration behind him?

My fascination with movement comes, I imagine, from my rather itinerant adolescence. Between the ages of 12-22, I lived in six states, all over the continental US. It was during these times that I spent much time in my own imagination, and what I thought of often was the concept of home while, of course, appreciating how powerful it was was to have a sense of home and how disempowering it was to be displaced. You will see this thread as really the driving force behind all of my novels, even if they approach it from distinct perspectives, though the character of Caesar Stiles is clearly the one most impacted by this for sure!

In addition to your job as a writer, I would like to dwell a little on another profession of yours: that of teacher. I would like you to tell us about the Creative Writing classes you studied at Manhattan's well-known New School and also the classes you teach, both undergraduate and graduate, at colleges in New York City. The subject is undoubtedly complex and requires a lot of passion and skill (for teaching) as well as method, in order to be able to transfer into practice an aspect that perhaps - wrongly - I consider as many, still, something related to (innate) talent, to spontaneity; all qualities - in short - necessary for those who choose to devote themselves to any artistic discipline, precisely "creative". I have always thought that only in a country like the United States, which has become a propagator of the science of How to do it, could a pragmatic method to teach writing with creativity be born. Could you briefly explain us what approach your teachings are based on - if you use a specific methodology (I'm thinking for example of the Gotham Writers' Workshop born in NY in the Nineties) - and maybe convince me that my idea of contradiction in terms is obsolete or wrong?

I do think creative writing can be taught, though I don’t know if “creativity” is something that can be learned. I assume that any student who signs up for a creative writing class or - more significantly - enrolls in a creative writing (graduate or undergraduate) program has some sort of ability to create narratives along with a profound desire to do so. Such courses/programs can help students understand the craft better, to be exposed to various genres and authors, to find ways to embrace the practices of the writing life, and also how to incorporate and offer feedback. It’s a great way for many aspiring authors to also test if they have what it takes because there’s a lot to it. And I’m not just saying this because it’s, partly, how I make my living!

Andrew, hoping to continue translating your work for our Italian readers, I thank you again on behalf of Jona Editore for this chat!

Thank you, Alessandra! I’m so happy to have made this relationship with you and Jona Editore. And I hope to continue our relationship, as well. You know, there’s a sequel to Brooklyn Mystery coming out in English later this year…

 

 

 

Pubblicato in redazione

A_ Ciao John, come stai? Intanto, grazie per concederci un po’ del tuo tempo che, grazie al cielo, in questo momento storico pare sia dilatato, dandoci la possibilità di fare tutto quello che lasciavamo da parte. Anche negli Stati Uniti state attuando la quarantena simile a quella in vigore in Italia?

J_ Ciao, Alessandra. Qui negli Stati Uniti la rigidità della quarantena varia da stato a stato e, in certi casi, persino di città in città. Qui a Des Moines, in Lowa, una città che sorge nel bel bezzo della campagna, il numero dei casi è relativamente basso. Sono state chiuse le scuole, i locali, i teatri e altro; insomma, quasi tutto, ma ci è ancora permesso uscire per una passeggiata a piedi o per un giro in bici. Stanno facendo vari lavori stradali e roba del genere. Naturalmente, New York – che proprio come l’Italia è in un certo senso aperta al mondo e a qualsiasi tipo di virus – è stato il luogo più duramente colpito. A NY ho parte della mia famiglia che si trova letteralmente confinata in casa, fatta eccezione per qualche commissione considerata essenziale, che è ancora concessa. A volte capita che un amico o un cugino posti su Facebook l’immagine fugace di un parco, ma sinceramente non so come riescano ad organizzare questo genere di fughe; a ogni modo, quel che sembra preoccupare maggiormente tutti è la ripercussione economica. Mio fratello ha la possibilità di lavorare da casa, ma il suo figlio maggiore, che è impiegato nel settore dello spettacolo, ha visto la sua busta paga volatilizzarsi. Ce ne sono tante, tantissime, di storie simili in ogni angolo di tutto il paese. Il Sud, la vecchia Dixie (n.d.t. soprannome che si riferisce agli stati e alle persone del sud degli U.S.A.) pare stia patendo incredibilmente la situazione, considerando le condizioni di maggiore povertà, scarsa istruzione e mancanza di servizi.

A_ In questa singolare circostanza, come trascorri le tue giornate? Nell’ambito delle varie discipline artistiche, ho avuto modo di constatare come molti scrittori, poeti, musicisti, pittori o altro, stiano vivendo un inceppamento del processo creativo. Capita anche a te la stessa cosa, o stai approfittando del maggior tempo che abbiamo a disposizione per scrivere? Pensi che questo drammatico momento ci stia donando una maggiore o minore lucidità di osservazione?

J_ Ci sarà anche qualche eccezione, ma la maggior parte degli scrittori che mi viene in mente, in un modo o nell’altro lavora da casa. Alcuni di noi hanno l’esigenza di rimanere incollati alla scrivania e sintonizzarsi sulle voci interiori che ci frullano nella testa. Proprio questa settimana, nemmeno a farlo apposta, avevo una scadenza da parte di una rivista di Brooklyn: io e l’editore ci abbiamo lavorato via mail, come al solito. Per quanto riguarda invece il mio processo creativo, sì, sono perennemente distratto dalle notizie: chi non lo sarebbe? Ma ci sono anche le giornate buone. Di sicuro non sono un Boccaccio, ma direi che – in generale – sto riuscendo a cogliere, nonostante questa peste, un impulso alla narrazione. Parlando di incontri alternativi, per esempio, ho partecipato a un paio di letture di gruppo su Zoom e persino a una fantastica tavola rotonda internazionale su Elena Ferrante, in diretta da New York. Durante questo evento mi sono fatto una bella chiacchierata con un altro scrittore proprio in italiano. Devo ammettere che sento la mancanza di quel “dare e ricevere”, del rapporto reciproco: per essere uno scrittore, sono molto socievole e non me la posso ancora prendere che un gran numero di eventi sia stato cancellato. Uno dei miei sarebbe dovuto avvenire proprio a New York, e Dio solo sa a quando sarà posticipato, sempre che il locale non si trovi costretto a chiudere i battenti. Le risorse economiche stanno esaurendo un po’ per tutti, inclusi i posti in cui mi sono esibito come la City Lights di San Francisco o il KGB di New York.

A_ Stavamo parlando di processo creativo: come scrittore, di cosa hai bisogno (se di qualcosa hai bisogno) per riuscire a scrivere? Agio, tranquillità, serenità, inquietudine? E, infine, la scrittura in sé (intesa come atto mentale e fisico) la vivi come qualcosa di liberatorio e benevolo o piuttosto come una procedura faticosa e dolorosa? La percepisci, insomma, come un incontro o come uno scontro con il John Domini scrittore?

J_ È una bella domanda, suggerisce una riflessione profonda e, ahimè, nessuna risposta certa! Immagino che molti scrittori percepiscano l’ispirazione talvolta come un’amante provocante e talvolta come una micidiale febbre. Personalmente, so quello che mi serve per tenere allenato il muscolo della creatività in modo regolare. Se non lo utilizzo per troppi giorni, ne soffro la mancanza, si atrofizza. Anche quando sono venuto in Italia per promuovere Movieola!, tra una presentazione e l’altra e in mezzo agli spostamenti in treno, ho cercato di infilare un paio di momenti da dedicare al mio diario e al computer. Per quanto riguarda, invece, il tipo di vita di cui ho bisogno per scrivere, temo di dover ripiegare sulla risposta più ovvia e ammettere che si tratti di tranquillità e solitudine. Chiaro, ognuno ha bisogno di una certa dose di sofferenza e colpi duri per fare della buona arte - ogni canzone è, in fondo, un blues - ma mi viene in mente la fredda citazione di Hemingway, che diceva: da una piccola ferita può nascere una buona storia, ma se la ferita è profonda, non è un bene né per uno scrittore né per nessun altro.

A_ A proposito di case, di reclusioni imposte e più o meno apprezzate da chi le vive, mi sono rimaste impresse nella memoria delle immagini di casa tua – a Des Moines, in Iowa – semplicemente di scorci fugaci di quando ci sentivamo in videochiamata durante la traduzione di MOVIEOLA!: la tua libreria affollata, i dipinti che mi hai raccontato aver comprato a Napoli, la fotografia in bianco e nero di Bob Dylan e Allen Ginsberg, incorniciata e appesa al muro e, infine, la finestra che dava su uno di quei cortili sul retro tipico delle cittadine rurali americane (a quel tempo innevato). Vorrei che raccontassi ai nostri lettori cosa vedi, in questo istante, da quella finestra. È un’immagine che ti da conforto o vorresti – magari – in un momento come questo poter vedere altro e trovarti altrove?

J_ Lo dico dal profondo del cuore: mi manca l’Italia. Ero stato invitato a parlare a un simposio a fine maggio a Lucca, quindi avevo programmato di trascorrere una settimana a Napoli. Ora è saltato tutto, che peccato. Grazie a Whatsapp, però, sono riuscito a vedere i miei amici e familiari di Napoli e a chiacchierarci un po’. Un mio cugino è medico, e qualche volta l’ho trovato davvero esausto, ma per lo meno ci fornisce notizie dalla prima linea e, a quanto pare, non riuscirò a venire in Italia per niente quest’anno. Insomma, è chiaro che mi piaccia guardare fuori dalla finestra del mio ufficio che dà sul cortile: è primavera, i fiori stanno sbocciando e dal terreno spuntano i grossi e verdi getti delle radici di rabarbaro. Ma, in verità, da qui mi piacerebbe ammirare il Vesuvio e il Golfo.

A_ Torniamo alla fotografia che ritrae Michael McClure, Bob Dylan e Allen Ginsberg; immagino che tu l’abbia appesa perché, in un certo senso – simbolicamente – racconti due dei tuoi grandi interessi e punti saldi della tua cultura: quella musicale e quella letteraria. Quali sono i tuoi maggiori riferimenti e cosa hanno apportato alla tua figura di artista e scrittore?

J_ Ogni forma d’arte che ho in casa è una sorta di fonte di sostegno e di gioia. E, questa in particolare, di Dylan, Ginsberg e McClure dietro la City Lights Bookstore – guarda caso! – è una foto speciale. È un regalo che mi fece mia moglie prima di essere mia moglie, Lettie Prell: una scrittrice di fantascienza ben pubblicata, tra l'altro. Il che da un significato ancora più importante a questa fotografia. Ho assistito a performance indimenticabili sia di Ginsberg che di Dylan. Certamente sono figure che hanno contribuito a plasmare la mia idea di artista nel mondo. Quello che mi arriva, tuttavia, è qualcosa di mio, è idiosincratico. A me sembrano sempre personaggi leggeri, pieni di sorprese, ma un altro scrittore potrebbe percepirli come qualcosa di solido e confortante. Penso che sia ricorrente ritrovare queste differenze di percezione, quando gli artisti parlano dei loro personaggi di riferimento. Si ha in mente una figura, una fantasia, anche mitica. Quando dico che Italo Calvino mi ha aiutato a formarmi, mi riferisco solo a una fetta di tutto l’insieme che riguarda Calvino: il modo in cui ha trattato il racconto come un parco giochi, pur rimanendo un fuoriclasse per gli scrittori che gli stavano a cuore.

A_ Vorrei ora passare a un altro argomento, un'altra dimensione culturale che non può essere estranea a chiunque sia venuto al mondo, come noi, nella seconda metà del ventesimo secolo: il cinema. E, parlando di cinema, ne vorrei approfittare per tirare in ballo il tuo Movieola!, la raccolta di racconti attraverso la quale noi e i nostri lettori ti abbiamo conosciuto. Come è nata l’idea di questo libro e per quale motivo hai deciso di mettere il cinema (e l’ambiente di Hollywood) al centro della narrazione?

J_ Prima di tutto, grazie infinite a Jona Editore per l'ottimo lavoro svolto con la pubblicazione italiana di Movieola!: il libro ha un aspetto meraviglioso, e so anche le attenzioni che hai dedicato alla traduzione. Grazie di cuore. Detto questo, queste storie mi sembrano una sorta di omaggio agli eroi defunti. Voglio dire che le immagini hollywoodiane con cui siamo cresciuti sono ormai sepolte e scomposte nei video di YouTube. Non c’era bisogno del COVID-19 per impedire alla gente di riunirsi nei vecchi templi del cinema, le sale che un tempo erano il fulcro di ogni città. Erano già stati convertiti a negozi e locali, e l'arte che presentavano si è trasformata in qualcosa di grottesco, la cosiddetta “Industrial Hollywood”, fatta di spettacoli interamente dedicati al profitto e sempre incredibilmente prevedibili e scontati. Non sono l'unico a notarlo, naturalmente; Steve Erickson ha ritratto questo tracollo nel suo grande romanzo Zeroville. Lo ha fatto, però, attraverso il genere drammatico; io, invece, non appena ho iniziato a comporre il primo dei racconti - "Making the Trailer" - ho capito di avere uno sguardo più comico.

A_ Sempre in riferimento a Movieola!, puoi dirci se c’è un motivo particolare per cui hai optato per il racconto, come forma narrativa, piuttosto che per il romanzo? È stata una decisione a priori o gli hai dato questa struttura durante la stesura? Te lo domando, perché in un certo senso, i racconti non sono tracce a sé stanti: l’argomento principale è unico, anche se poi si ramifica e articola in diverse sottoclassi.

J_ In realtà, ora vedo il libro più come un'eruzione dell'identità. Quando ho messo insieme le prime storie, stavo concentrando le energie sul mio "grande progetto", una trilogia di romanzi ambientata a Napoli. Quei romanzi sono ora in stampa, e sono orgoglioso del lavoro svolto, ma in fin dei conti seguono semplicemente i Dieci Comandamenti della letteratura del mistero messi a punto da Raymond Chandler: sono realistici, fondamentalmente; fanno attenzione alla fonte del guadagno e all’organizzazione dei tempi e del luogo. Queste preoccupazioni sono legittime, fanno parte del lavoro, certo, ma a un certo punto il Domini dionisiaco non ce la faceva più. Il ragazzo ribelle dentro di sé è esploso in qualcosa di ultraterreno, in queste storie in cui il denaro non è un oggetto e qualsiasi personaggio può essere di fantasia. Chiunque, inciampando nel paesaggio devastato del tardo capitalismo malato, può divenire uno zombie. Una deviazione del genere va contro la buona abitudine romanzesca, non c'è dubbio. D'altra parte, questa deviazione forse ha contribuito a dare una boccata d’ossigeno anche al mio progetto più lungo, e a evitare che i suoi passaggi finali sembrassero forzati e troppo poco spontanei.

A_ Vorrei approfittare per dire a te, e a tutti i lettori, che tradurre Movieola! è stata per me un’avventura surreale, come penso lo sia per chi lo abbia già letto o lo farà a breve. È stata impresa ardua e faticosa, destabilizzante, da un lato per la tua unicità e ricchezza espressiva (sia a livello di vocabolario, di uso del linguaggio, sia a livello di riferimenti culturali e sociali al mondo di Hollywood e degli Stati Uniti tutti). Questi racconti sono molto vivaci, ironici, sfiorano al tempo stesso il surreale e l’iperrealismo, tanto da chiederci spesso durante la lettura se sia più giusto ridere a crepapelle o rattristarci. Questa doppia dimensione è forse, a mio parere, lo spirito stesso e il fine ultimo di questi racconti: durante la stesura (o prima, o dopo) ti sei trovato a chiederti se tutto quello di cui stavi parlando era in un certo senso troppo strano per essere vero o troppo vero per essere strano?

J_ Devo sottolineare che hai fatto un lavoro meraviglioso con la traduzione, e te ne sono molto grato. Complimenti, davvero! A parte questo, ribadisco quanto ho già detto sopra riguardo all’ingresso nella zona dei morti viventi, dove anche i supereroi decidono di fare a pezzi i loro costumi e la lingua diventa una sfida fatta di scrittura sbalorditiva e di quell’uso fitto di acronimi tipico dei pezzi grossi di Hollywood. Anche qui, non ho potuto fare a meno di riconoscere la mia America sopra le righe, spinta dall'avidità di commettere sempre gli stessi errori. Almeno, come ci ha insegnato Karl Marx, quando si parla di storia, la seconda ripetizione è una farsa.

A_ Ti è capitato che attribuissero l’etichetta di “Postmoderno” a questo tuo prodotto letterario? Pensi abbia un senso, viste le caratteristiche di Movieola! parlare di racconti che hanno tanti aspetti tipici di questa corrente letteraria e non solo? Se è successo, lo ritieni una forzatura e una smania da parte della critica o pensi sia un risultato naturale, quindi una tappa obbligata per chi ha prodotto arte, cinema, letteratura o architettura nel mondo occidentale da circa trent’anni a questa parte?

J_ Non si può infatti negare che sia il libro MOVIEOLA! sia il suo scrittore John Domini siano "Postmoderni". Gioco in questa squadra, e ho scritto saggi su altri che indossano la stessa divisa, come W.G. Sebald. D'altra parte - sempre cercando di evitare qualsiasi sovrapposizione con quanto ho detto sopra - vorrei sottolineare che una caratteristica unica e distintiva del Postmode rno è proprio l'appropriarsi delle forme precedenti, prendendole e capovolgendole per creare qualcosa di nuovo. Ecco perché il rap originale, uscito dal devastato South Bronx, era incredibilmente postmoderno: qualcuno come Grandmaster Flash ha spezzato le vecchie melodie e ce le ha sbattute di fronte a tempo di beat, le ha rimesse insieme usando solo due giradischi e un microfono. Così, ha inventato una nuova hit.

A_ Adesso ti dico una cosa che penso ti riempirà di gioia: sappi, però, che questo complimento non è fine a sé stesso, ma utile a capire se questo parallelo sia motivato, e il perché lo sia: sempre traducendo la tua raccolta di racconti, non ho potuto fare a meno di ritrovarmi in una dimensione molto simile a quella in cui Italo Calvino ci ha trasportati con le sue Cosmicomiche, non solo per la tua scrittura ironica e intelligente (di cui ho già parlato prima) ma pure per l’espediente letterario utilizzato: un’ambientazione reale che nel tuo caso è il mondo di Hollywood, del cinema, con i suoi processi di produzione (in Calvino è l’universo con le sue fasi evolutive e le nozioni scientifiche) per i costruirci sopra delle storie immaginarie e paradossali, dunque in un processo che è in un certo senso opposto e speculare a quello della letteratura o del cinema di fantascienza, dove da un’ambientazione immaginaria e futura siamo portati a ragionare su quella presente e reale. Se questo parallelo tra MOVIEOLA! e Le Cosmicomiche non è azzardato, ma sensato, pensi sia attribuibile a qualche ragione?

J_ Giustissimo: niente mi lusinga di più del paragone con Calvino, e suppongo che ora dovrò andare a flagellarmi da solo per compensare. È Pasqua, dopotutto. Seriamente, però, Le Cosmicomiche di Calvino sono state uno dei testi che ha reso possibile Movieola!. Ce ne sono altri che potrei citare, come 60 Stories di Donald Barthelme, poco conosciuto in Italia ma che rivive, inconsapevolmente, nell’ironia e nell’inventiva tipicamente italiane. Anche Howl di Allen Ginsberg, magari. Ma il motivo per cui ho trovato il Calvino degli anni Sessanta così condivisibile, così stimolante, be’, rimarrà sempre un mistero. Penso che nessuna delle mie chiacchierate nel corso delle interviste come questa chiariranno l'enigma insito in ogni impulso a creare. Tra le intricate radici di Movieola!, o di qualsiasi libro di narrativa che ho scritto, si annidano gli imperscrutabili colpi di scena del mio DNA e del mio mondo onirico. L'unica cosa che posso dire con certezza è che le storie di Calvino sono state tra le prime scoperte letterarie che ho fatto interamente da solo. Verso il 1970, ho cominciato a trovarlo nelle traduzioni, nelle riviste e nelle librerie di Boston, dove vivevo, e le ho lette - letteralmente divorate - al di là di quelli che erano i miei incarichi universitari o le richieste dei professori.

 

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A_ Abbiamo parlato di Calvino e dell’influenza che, più o meno indirettamente, può avere avuto sulla tua produzione di scrittore. Quanto, allo stesso modo, le tue radici italiane (culturali ma anche genealogiche) hanno influito sulla percezione della tua identità? Per rendere la mia domanda più diretta: cosa significa per te essere italoamericano? È un qualcosa che ti ha reso, in senso figurato, più completo o più diviso?

J_ Penso che sia giunto il momento di tirare in ballo Frank Zappa. Sbaglio? È uno degli artisti che ancora non ho menzionato, eppure lo vedo seduto tra il pubblico di tutti gli incontri e i sui palcoscenici del mio Movieola!. Zappa, dopotutto, si è sempre preso gioco delle stravaganze tipicamente americane; inoltre è sempre stato entusiasta nello sfruttare le avanguardie tecnologiche, rendendosi conto – al tempo stesso – meglio di chiunque altro, che nessun nuovo aggeggio avrebbe mai potuto cambiare l'animale umano. Ed era – c’è bisogno che lo dica? – italoamericano. Il padre era emigrato dalla Sicilia e la famiglia della madre era napoletana. Mentre ascolto l'opera di Zappa, le sue sovrapposizioni strumentali barocche, la sua chitarra lirica, il suo umorismo nero ma sapiente, sento una delle ultime e più belle trasformazioni dello spirito italiano. Che io percepisca questo elemento nel suo lavoro prima della maggior parte degli altri, riflette sicuramente il modo di sentire me stesso e la mia vocazione. Anche in questo caso, c'è qualcosa di misterioso. Né mio fratello né mia sorella si definiscono particolarmente "italiani", anche se hanno visitato Napoli e sentito come me la lingua che si parlava a casa. Per me, però, l'etnia rimane centrale in quello che sono, per come interagisco e per qualsiasi tipo di arte che sono riuscito a creare. Sapete, c'è un critico e studioso italoamericano di nome Fred Gardaphé che ha partorito una bella citazione su questo libro, che mi sembra la perfetta nota conclusiva: "Se Pirandello fosse ancora in vita, oggi scriverebbe qualcosa come Movieola!”.

 

 

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