Genoveffa Settembrini aveva uno strano modo di risolvere i problemi.

Se l’acqua le arrivava alle caviglie, lei non chiudeva il rubinetto fino a quando non sentiva di annegare. Non agiva così solo per pigrizia, il fatto era che i problemi proprio non le interessavano da oltre cinquant’anni, praticamente da quando era nata.

Nel condominio di Via dei Gelsi 12 era la sola a non partecipare alle consuete riunioni del tè a casa di zia Valeria.

Quegli incontri avevano la solennità di un evento a palazzo e la zia, vedova e senza figli, confezionava per l’occasione degli inviti decorati.

La zia Nella, Mina la parrucchiera, Dorotea e la figlia Ludovica erano le ospiti fisse, poi c’ero io.

Io vivevo con le zie da quando avevo tre anni. Mangiavo a casa della zia Valeria e dormivo a casa della zia Nella. Per me non faceva molta differenza, loro abitavano sullo stesso pianerottolo e le porte d’ingresso erano sempre aperte.

Prima degli attesi avvenimenti di ciance e biscottini, andavano tutte al piano terra a farsi belle nel salone di Mina, che applicava il trenta per cento di sconto al gruppo delle fedelissime amiche.

I racconti del tè, così li definivo, iniziavano dalla parrucchiera e proseguivano a casa della zia.

Mentre loro ciarlavano, io giocavo sul terrazzo e sentivo gli ultimi aggiornamenti del mese. La più discussa era proprio Genoveffa, per questo motivo destava tanto la mia curiosità.

Talvolta, quando la sentivo uscire dalla porta, mi precipitavo al portone di ingresso per incontrarla, mentre arrivava con la sua busta piena di libri. Dove andasse con tutti volumi, le chiacchierone non lo sapevano. Qualcuno sosteneva che li donasse alla biblioteca comunale o all’orfanatrofio.

Benché le zie la considerassero burbera e poco loquace, con me si comportava in maniera cortese. Mi rivolgeva spesso la parola e, in un paio di occasioni, mi aveva regalato alcuni di quei testi: I misteri della giungla nera di Emilio Salgari e Il barone rampante di Italo Calvino.

Più di una volta era stata avvicinata dalle zie e invitata nel salone di Mina, ma senza alcun apprezzabile risultato. Con molta probabilità era convinta che il loro interesse nei suoi confronti fosse dovuto all’avidità di pettegolezzi e curiosità, di cui non erano mai sazie. Del resto come darle torto?

Un pomeriggio piovoso, inaspettatamente, Genoveffa apparve stravolta e allarmata sull’uscio del salone.

Atterrò in ciabatte, avvolta in un grembiule color lavanda e un asciugamano giallo paglia ancorato con una molletta, per fasciarle la testa.

Il silenzio piombò nella sala e Mina, sconcertata e allietata dalla visione, si affrettò ad accoglierla, avanzando verso di lei con uno slancio emozionale proporzionato a quella balzante novità.

«Mia cara, cosa ti è successo?» disse con le unghie laccate di rosso, un pennello da tinta in una mano e la sigaretta nell’altra.

Genoveffa, dietro le spesse lenti degli occhiali, puntellate da goccioline d’acqua, si accasciò sull’unica sedia libera e aprì sgomenta l’asciugamano.

«Pensavo ad un tinta nera con riflessi blu, ma il risultato è stato questo!» rispose.

Era blu ogni singolo capello, compresa la pelle intorno all’attaccatura della fronte e il cuoio capelluto che si intravedeva nella riga centrale!

A quella vista, decisi che avrei allontanato da me il più possibile l’idea di tingermi i capelli, un giorno.

«Cara, hai provato a fare la tinta da sola in casa? Lo vedi che c’è sempre bisogno di una parrucchiera? Anche per una semplice pettinata! Oh… ma aggiusteremo tutto, vedrai!».

Detto questo, posò il pennello sul carrello e si diresse verso la macchinetta del caffè.

«Leda, tesoro. Conduci Genoveffa al lavatoio» disse alla sua aiutante, inserendo la cialda nella macchina

«Intanto ci vuole un bel caffè! Genoveffa, hai bisogno di qualcosa che ti tiri su. Avrai preso un bello spavento. Quanto zucchero?» le chiese.

La verità era che Genoveffa si stava facendo bella per il signor Alvisi. Lo sapevo solo io, perché li avevo sentiti concordare il loro primo appuntamento, mentre li osservavo dal terrazzo. Da quel balcone ogni cosa mi pareva illuminata e batteva il sole per tutto il pomeriggio.

Quello di Genoveffa Settembrini e del signor Alvisi era un amore platonico e impacciato, che andava avanti da molti anni.

Alvisi viveva con la mamma al primo piano e, come Genoveffa, non si era mai sposato.

Era un uomo di mezza età, posato e scaramantico, e lavorava in banca.

Non percorreva mai il cortile in diagonale e accendeva la sigaretta sempre un attimo prima di aprire il cancelletto dell’uscita.

Al mattino si incamminava con la sua valigetta nera contenente poche cose: un piccolo ombrello, una penna stilografica, un pacco di sigarette e una banana.

Lo sapevo perché avevo aperto il suo curioso bagaglio, mentre lui, ignaro, consultava la cassetta della posta.

Fu in quell’occasione che ebbi l’idea.

Le zie raccontavano che Alvisi e Genoveffa erano talmente imbranati che mai sarebbero riusciti a dichiararsi il loro puro amore pluridecennale.

Risolsi io la questione con l’aiuto di Santina la fioraia: «D’accordo Annetta, mi hai convinta. Speriamo solo di non combinare qualche pasticcio!» mi disse. In fondo il mio intento era quello di fare qualcosa di buono per quei due.

Lei confezionò delle rose bianche per Genoveffa, con un biglietto che recava la scritta:

Quattro candide rose. Una simbolo della tua purezza, una simbolo della tua innocenza ed una simbolo della tua mitezza. La quarta rappresenta il mio segreto, da rivelare con delicatezza.

Con affetto, Tullio Alvisi”.

Santina, che viveva di fiori e poesia, appose questo messaggio in bella grafia all’interno di una busta chiusa e spillata. Io mi sentivo illuminata dalla viva fede nell’amore.

Il caso volle che, al momento della consegna, il signor Alvisi non fosse a lavoro a causa di un malessere.

Pare infatti che spesso venisse colto da emicrania imputabile ai luoghi chiusi e popolati, ragion per cui si vedeva costretto a rimanere presso la sua dimora e fare lunghe passeggiate nel cortile, per respirare un po’ d’aria.

Il marito di Santina venne col suo furgone a recapitare le rose, ma non trovò Genoveffa, perché era uscita a fare la spesa.

Incontrò, però, Alvisi in cortile. Visto che aveva altri giri da fare, gli affidò la consegna, chiedendo la gentilezza di farli pervenire alla signora Genoveffa.

All’inizio Alvisi, alquanto stizzito oltre che geloso, protestò non poco. Alla fine pensò che non poteva negare quel dolce favore alla cara Genoveffa. Lei, in fondo, avrebbe apprezzato quel gesto signorile e di pura cortesia, superiore al becero istinto di competizione.

E così, ignaro e cortese, si decise a consegnarle i fiori.

Appena Genoveffa rientrò, lui la vide dalla sua finestra. Indossava un abito a quadri e una paglietta antica. Anche lei lo vide, alzò lo sguardo e subito lo abbassò timidamente.

Alvisi si deodorò la bocca e si pettinò, dopodiché salì al terzo piano con le rose. Suonò.

Genoveffa gli aprì e per poco non svenne. Tullio ci tenne a precisare che si trattava di una sorpresa e che lui portava le rose di persona, al posto del fioraio. Poi, sudato e rosso per l’imbarazzo, abbozzò un timido sorriso con un mezzo inchino e andò via per le scale.

Il giorno dopo attesi di vedere qualche movimento. Quando Alvisi andò a lavoro, attraversando il cortile in lungo, mai in obliquo, lei scostò lievemente la tenda e lui accese la sigaretta poco prima di aprire il cancelletto, uno sguardo rivolto alla cara finestra e poi fuori dal cortile.

Per tutta la giornata Genoveffa non uscì neanche per andare a fare la spesa. Dopo due giorni la vidi in cortile. La paglietta non l’aveva, anche se era una bella giornata e la luce del sole le illuminava il volto. Incrociò Alvisi, per caso.

Sorrisero timidamente, si salutarono con un cenno della testa e proseguirono ognuno verso la propria direzione.

Improvvisamente Genoveffa si fermò: «Tullio...».

Lui si girò verso di lei con la lentezza di un bradipo, la spessa montatura sosteneva il suo sguardo chiuso.

«Mio…ecco... grazie per…per quello che hai fatto» disse esitante Genoveffa. Poi, bordeaux più di una rapa, attese qualche secondo per avere una risposta e dopo che lui ebbe fatto un delicato inchino, si incamminò senza sapere neanche dove.

Tullio si diresse verso il cancelletto ed era talmente imbambolato che attraversò il cortile leggermente in obliquo. L’inconsueto percorso gli procurò un tale panico che dovette rientrare a casa dal lavoro per malattia.

Orgoglioso per l’amabile gratitudine di Genoveffa, sperò vivamente che l’amante incognito si facesse nuovamente vivo con qualche dono inatteso, a tal punto da non trovarla in casa per il ritiro. In quel caso lo avrebbe ricevuto e portato lui.

Così, prese una pillola di magnesio, si deodorò la bocca e quel pomeriggio andò a suonare alla porta dell’amata.

Genoveffa aprì: «Oh…oh…» furono gli unici suoni che emise quando lo vide.

«Soave signora» esordì Alvisi. Lei chiuse gli occhi e già immaginò il finale da favola.

Lui proseguì: «Se dovesse trovarsi in difficoltà a ricevere fiori e doni, me lo dica, io non serbo rancore e non amo competizioni».

Poi con il classico delicato inchino: «Servo fedele, qui per servirla come l’altro giorno!».

Quanta eleganza e quanta nobiltà in quelle parole!

Con tutto il coraggio che aveva e al culmine dell’entusiasmo, Genoveffa rispose: «Ma caro…caro Tullio!». Poi, prendendogli le mani « No, certo che no! Mi fa piacere ciò che fai! Accetto! Oh si, accetto!».

Tullio Alvisi quasi non credeva a ciò che sentiva e al successo del suo nobile sacrificio.

Pensò che un cuore puro come quello di Genoveffa, sapeva riconoscere la nobiltà del suo spirito, che prima di allora mai nessuno aveva capito. E così, stavolta osò baciarle le mani che tanto impunemente avvinghiavano le sue.

A quel punto non sapevo più cosa architettare. Se procedere con quella pantomima e inventarmi altri regali o lasciare che i due amanti, già bene avviati, proseguissero per la loro strada.

Prima o poi, però, sarebbe saltata fuori la malfatta circostanza.

Per giorni non accadde nulla e infine sentii Genoveffa nel cortile invitare Tullio ad assaggiare un pezzo di torta a casa sua, in occasione di non sapevo bene cosa.

Così lei si tinse i capelli per l’avvenimento, che divennero blu.

Quando Mina salvò la testa di Genoveffa eravamo tutte lì. Smaniose di sapere perché. Eccetto la sottoscritta, si intende. Io un po’ me la ridevo, un po’ mi compiacevo.

L’indomani era sabato e Alvisi si presentò nel pomeriggio a casa di Genoveffa, con un mazzo di margherite e un papillon a righe. Lei raccolse i fiori e lo baciò tirandolo in casa per il papillon.

Non seppi bene cosa accadde quel pomeriggio, comunque Genoveffa non volle più vedere Tullio.

«Un uomo riesce sempre a far soffrire una donna! Anche quell’imbranato del signor Alvisi!» commentò risentita e indignata la zia Nella.

Genoveffa, sebbene da sempre molto restia alle confidenze, era venuta dalle zie in lacrime ad infamare Tullio.

Fiduciosa di una complicità tutta femminile, si era affidata alle amorevoli cure verbali delle due.

Io volevo sapere cosa fosse successo, ma la zia Valeria fu categorica: «Lascia stare Annetta, ci sarà tempo per conoscere di che pasta sono fatti gli uomini!» così dicendo la stanza risucchiò le tre donne ed io potei solo origliare.

Insomma: pare che durante le dolcezze del risveglio, Genoveffa avesse chiesto a Tullio di leggerle ad alta voce il tenero messaggio d’amore, che accompagnava le quattro rose bianche.

Lui aveva negato di averlo scritto e lei si era sentita ingannata, sedotta e abbandonata.

Lo aveva cacciato fuori di casa ancora in mutande.

Fu da allora, che la ritrosa inquilina del terzo piano, entrò nel gruppo delle fedelissime amiche.

L’amore tra Tullio e Genoveffa tornò all’impaccio platonico di sempre, ancora più impacciato.

Quanto a me, che nel mio piccolo avevo cercato di illuminare le vite di quei due maldestri, ottenni comunque l’effetto di allietare la vita della goffa Genoveffa, con le chiacchiere e i racconti del tè.

Nessuno tuttavia, fece mai luce sulla strampalata vicenda.

Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1

Luogo Firenze.

Anno: intorno al 1290.

Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.

Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.

“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.

“Ciò che non è falso” risponde il secondo.

“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.

”Ciò che non è vero.”

“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.

“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.

“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.

“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.

“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.

I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.

“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.

“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.

“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.

“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.

“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.

“Chiunque decida di tendere verso il vero.”

“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti

“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.

“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.

“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.

“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.

Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.

“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.

“Intendete dire le nostre anime?”

“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”

“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.

“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.

“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.

“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.

“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.

“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.

“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”

“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.

“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.

“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante

Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.

“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.

“Ditemi.” rispose Dante.

“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.

“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”

“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.

“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.

Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.

“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“

Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.

LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI

“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”

“Giusto.” confermò Dante

“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”

“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.

“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.

“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”

“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”

“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.

“E perché allora costoro non sono più in cielo?”

“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.

“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”

“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”

“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.

“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”

“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.

“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”

“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti

“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”

“E Dio?” chiese Cavalcanti.

“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.

“Ma allora chi siamo noi?”

“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.

“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.

“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.

E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.

1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.

2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.

3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.

4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.

5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)

6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..

Capita che i pensieri siano come fumo che si dissipa nell'aria: così denso appena esce dalla bocca ma disperso e invisibile poco dopo. Chiari e lucidi un solo istante nella mente ma subito dopo confusi e dimenticati. Spesso anche i sogni si comportano così. Sarà forse per colpa degli occhi, che assimilano e processano ogni sfumatura e sovrastano l'immaginazione, che tanti si fermano alla mera superficie senza approfondire?

Così pensava Antonio, cieco da un occhio, mentre fumava la prima sigaretta della mattinata.

Ho il cervello pieno zeppo di parole che però non vogliono uscire, non perché io sia timido o muto, ma perché appena cerco di incollarle insieme per creare un discorso logico si sciolgono e frammentano come se non sapessero più come tenersi mano nella mano. Mi basta tenere il mio occhio buono chiuso per sollevarmi da terra e, attraverso i suoni della città, volare lontano... il problema è che, tornato alla realtà, non posseggo i mezzi per tramutare quel volo in emozioni comprensibili. É allora inutile la mia sofferenza? Quindi si combatte in quel che si pensa credere, senza secondi fini o assurdità, con una luce fioca ma accesa. Si, una lucina accesa. Basta vivere nel completo buio, non ne posso più e spero che qualcuno mi capisca anche se la mia "luce accesa" è il mio occhio spento; è la mia personalissima possibilità di far danzare la mente con se stessa senza farla vedere a nessuno. Qual è il problema dunque? Il male, la sofferenza, il triste sanguinare di una realtà che non sempre mi appartiene? Ma cos'altro potrei fare se non sognare? Devo andare avanti dritto, non ci sono alternative. Solo quando è troppo tardi si cerca una soluzione per poi lamentarsi del dolore... ma è meglio così: conoscendo il dolore diventeremo più forti dicono.

Una mente disturbata o lucidissimi pensieri di un uomo di mondo? Sappiamo davvero distinguere la differenza tra giusto e sbagliato? Tra bene e male? Non è forse vero che ogni anima legge il proprio presente in modi diversi, con occhi diversi, con sguardi diversi, con parole diverse, con sentimenti ed emozioni diverse? "Ci si può considerare liberi finché la nostra libertà non lede quella altrui". Liberi dunque non lo saremo mai, perché ogni azione, che sia essa attiva o passiva, lede o modifica l'azione altrui; in pratica siamo destinati a rompere i coglioni alla gente con il solo respirare.

Spense la sigaretta e si diresse a prepararsi il secondo caffè, strascicando i piedi a fatica nel suo pigiama ancora tiepido, per trovare una scusa con se stesso e fumarsene un'altra. Aspettando lo scatarrare della moka si sedette e ancora una volta, chiudendo l'occhio buono, preferì allontanarsi dalla realtà.

Sarò il solo ad avere questi pensieri o ci sarà altra gente come me? Altri che si rifugiano attraverso una finzione da un mondo surreale? Magari altre persone mascherano meglio il loro sentirsi inadatti, io non ci riesco, dovrei incontrare qualcuno come me e chiedergli come si fa... ma così vivrei la sua finta realtà, così indosserei la sua pelle. Anche quello sarebbe inutile, come vincere a videogames con codici e trucchi: arrivi alla fine ma perdi il gusto della vittoria. Devo per forza arrivare da solo ad una soluzione e capire perché le giornate mi sfuggono di mano. Devo per forza trovare il modo di tramutare l'imbarazzo in esplosività e smettere di sottostare alle mie inadeguatezze. Devo per forza alzare la testa e capire il mio posto nel mondo delle ombre, per evitare di diventare cieco del tutto alla realtà. Devo, per forza. Dentro di me è tutto così chiaro ma là fuori... là fuori è diverso. Tutto cambia quando mostro alla mia pupilla i colori di una verità che non è apparente ma sin troppo solida.

Tornò alla realtà per pochi istanti: bevette il caffè bollente e subito andò sul terrazzo. Seduto sulla seggiolina da campeggio si accese l'ennesima Marlboro.

Però pensandoci bene la mia vita non fa troppo schifo, ho una donna, una casa, qualche lavoretto... e allora cos'è? La paura di un futuro sempre più incerto? Il terrore di trasformarmi in ciò che ho spesso ripudiato? Perché non riesco a dare un senso alla vita che inesorabilmente mi passa davanti come la pellicola di un vecchio film? I trucchi di magia che ho imparato da bambino non bastano più, è ormai inutile nascondersi dietro ad un fazzoletto magico, c'è bisogno di più energia, più potenza, più coraggio. Già, coraggio, il coraggio di affrontarmi tutte le mattine e combattere contro il mio occhio cieco, che altro non fa che sognare e distillare dubbi dalle immagini che l'occhio buono gli manda. Forse il problema è solo quello, la visione che ho del mondo, sempre a metà. Sento le mezze verità, le mezze parole, le mezze bugie, fumo mezza sigaretta, bevo mezza bottiglia, faccio mezzo pieno alla macchina, sto in mezzo alla strada, mi lavo a metà, vivo a metà. Potrei magari trasformarla in qualcosa di positivo... potrei trovare in questa esistenza a metà la pienezza dell'assimilare solo la parte interessante ed elaborare, risolvere ed espellere l'altra parte. Prendere i mezzi sorrisi come gesto d'affetto e non come sorriso di circostanza, prendere una pacca sulla spalla come un mezzo incoraggiamento e non come un "Povero sfigato, ci hai provato"; potrei prendere un "Ciao, come stai?" come un genuino interesse verso di me e non un semplice saluto.

Sarà difficile vedere la parte bella delle cose, mi sono allenato così tanto ad ignorarla che inizialmente sarà quasi impossibile anche solo da scorgere. Passato qualche tempo però può darsi che io riesca a sentire in corpo solo quella, così da non dovermi rifugiare nella rabbia del buio ma finalmente vedere la tanto pubblicizzata bellezza del mondo. É deciso.

Aprì l'occhio e fece appena in tempo ad abituarsi alla luce e guardare il sole che un merlo, per chissà quale assurdo destino, gli si schiantò addosso centrando con il suo becco arancione la nera pupilla buona, rendendolo completamente cieco.

E allora vaffanculo.

Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.

Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.

Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.

«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.

La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.

«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».

Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.

Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.

A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.

Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.

A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.

Sesto contest

titolo: La schiuma dei giorni
scadenza:  31 agosto 2016
 
Il titolo, al solito, è uno spunto. l'interpretazione è libera.
 
I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "la schiuma dei giorni".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trentuno agosto 2016.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.
 
Cosa si vince?
 
I due o più vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it
 
A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.

-”La Collina dei Conigli Onlus” sta aprendo a Torino una nuova struttura e lancia una raccolta fondi per finanziare il progetto di un nuovo centro di recupero per animali provenienti dai laboratori.
La Collina dei Conigli ONLUS è una associazione di volontariato che ci sta molto a cuore perché si occupa degli “ultimi”, vale a dire a quegli animali che alla maggior parte della gente non piacciono e di certo non bada. Loro invece si dedicano corpo e mente al recupero ed alla successiva ricollocazione in ambienti famigliari di animali provenienti da laboratori di sperimentazione.
Loro salvano conigli, porcellini d' india, ratti, topi ed altri piccoli roditori.
Qusto il loro sito, questa la pagina facebook.
Per aiutarli potete fare una donazione tramite Paypal.

oppure un bonifico intestato a:
La Collina dei conigli ONLUS
CC Banca Popolare di Milano
AG.0121 Monza
Conto corrente 32048
IBAN IT84 V 05584 20400 000000032048

oppure ancora sceglierli come destinatari del vostro 5per mille.


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Giovedì 21 luglio, dalle ore 20,15, il circolo “Naturalmente Veg” di Torino (Corso Casale 204/L) ci porterà in viaggio per l’Italia con delle ricette tradizionali rivisitate in chiave vegana.
Il costo è di 25 euro, bevande escluse.
La prenotazione è obbligatoria e va effettuata chiamando lo 0117631763 o scrivendo a naturalmenteveg@libero.it
L’ ingresso riservato ai soci ACSI (in questa occasione, possibilità di tesserarsi in loco senza costi aggiuntivi).

-Sabato 23 luglio, dalle ore 20, la Gastronomia vegana “Sale in zucca”(Via Santa Chiara 45h, Torino), ci proporrà una cena con specialità da tutto il mondo.
La cena verrà servita e costerà 25 euro con inclusi acqua e coperto.
La prenotazione è obbligatoria entro il 21 luglio a info@saleinzucca.to.it o telefonando allo 0115794968.

Maria svignarsela, bisogna svignarsela ti dico! Adesso! Subito! Prima che questa terra ci risucchi e ci seppellisca vive, che questa angoscia ci tolga l’ultimo soffio di essenza vitale che ci è rimasta in corpo! Vuoi che diventiamo degli zombies ambulanti come la maggior parte della gente che ci circonda? Che vive per inerzia, solo perché non ha avuto il coraggio di scappare, di provare a cambiare e migliorare la propria vita? Io no! Ascoltami per favore!”.

Carmela, primogenita di 4 figlie, parlava con sua sorella Maria, la più piccola di tutte, tra di loro c’era un abisso, non solo dovuto ai dieci anni che le separavano, quanto piuttosto alle loro storie personali: la più grande aveva deciso presto di sposarsi, quando ancora frequentava l’università e adesso era reduce dalla fine del suo matrimonio, con una figlia a carico e disoccupata; Maria invece era stata una bimba viziata, con nessuna voglia di studiare né di impegnarsi nella vita, ma ora si trovava ai ferri corti, i genitori le avevano chiaramente detto che non l’avrebbero più mantenuta e se non avesse trovato un lavoro l’avrebbero buttata fuori di casa, ma le minacce su di lei sembravano non sortire alcun effetto, tutto le scivolava addosso, imperturbabile dalla nascita.

Carmela, invece, era irritata, nervosa, ansiosa ed arrabbiata come sempre; aveva quel maledetto carattere spigoloso, duro ed inavvicinabile come la terra dove era nata, l’entroterra Siciliano, fatto di rocce e terreni scoscesi, invivibile, come se volesse restare disabitato per sempre.

I suoi abitanti lo sapevano bene che nascendo lì erano destinati alla sofferenza, alla lotta continua e costante, perciò venivano al mondo con il carattere già plasmato, forgiato su misura per poter affrontare quei luoghi.

Chi poteva andava via, ormai le campagne erano abbandonate a se stesse, completamente disabitate; il turismo a poco a poco anziché svilupparsi andava scomparendo, merito del carattere chiuso e poco affabile degli abitanti e delle strade che ormai erano diventate inagibili ed impercorribili.

Lo Stato sembrava essersi dimenticato che la Sicilia fosse una regione che gli apparteneva e non un’isola indipendente, inoltre il fatto che fosse a statuto speciale non l’aiutava, perché anche quando il governo avesse voluto intervenire, non avrebbe potuto, la mafia non glielo avrebbe permesso, la Sicilia era “cosa sua, cosa nostra” e ci si doveva adeguare al potere vigente, oppure soccombere, nessun’altra alternativa.

Carmela in quel periodo era più irrequieta che mai, si sentiva come l’Etna che ogni giorno riusciva a vedere da casa sua, pronta a scoppiare in ogni momento e a soffocare chiunque e ogni cosa con la lava e la cenere nera che imbruttiva tutto ed anche quando non eruttava, quando sembrava tranquilla o essersi addormentata, era comunque arrabbiata, continuava ininterrottamente a uscire fumo dalla sua cima.

Aveva un bisogno impellente e vitale: lavorare, lo doveva a se stessa e alla sua piccola Stella, di appena 5 anni.

Ormai però non era più necessità, per lei era diventata un’ossessione, che la torturava giorno e notte.

Chi è costretto a fare le mattinate o le nottate per lavoro ambisce sempre al riposo e al sonno, lo sapeva bene anche lei, che aveva lavorato per qualche anno in un bar; invece adesso sapeva anche cosa voleva dire avere tutto il tempo a disposizione e non riuscire a riposare né a dormire, l’angoscia per il futuro era troppo assillante, da toglierle persino il respiro e le forze.

Aveva lasciato suo marito, dopo aver vissuto per tanti anni nella completa solitudine e nell’abbandono totale e stava facendo tutto il possibile per riprendere la vita in mano, ma le sembrava che il mondo le remasse contro.

Per lei trovare un lavoro non era necessario per poter sopravvivere, era un modo per affermarsi, per dimostrare finalmente quanto valeva; perciò seguendo questa logica, migliore sarebbe stato il lavoro trovato, più la sua persona avrebbe acquisito valore.

Lei che aveva sempre lottato contro il consumismo, ormai era stata travolta completamente dalla sua logica: più guadagni, più vali.

Anche se poi non avrebbe speso un centesimo, no, lei avrebbe accumulato, accumulato, accumulato, come le formiche, avida solo per paura; perché da quando si era trovata a dover fare da mamma e da papà per la sua Stellina, sapeva bene che era l’unica persona al mondo che le poteva garantire un futuro sereno, dignitoso e senza troppi problemi, almeno non quelli economici.

Aveva ricominciato a studiare, lei che aveva dovuto abbandonare quella che era la sua passione, lo studio, perché le era venuta meno la speranza e la paura l’aveva sopraffatta, impossessandosi della sua mente, quando non poteva più permettersi di pagare le tasse universitarie né il biglietto dell’autobus per arrivare in facoltà e sapendo che la piaga della disoccupazione si stava spargendo a macchia d’olio in quel territorio che da sempre era abituato a conviverci.

Era convinta che questa volta le soddisfazioni sarebbero arrivate, invece dopo aver inviato migliaia di curricula, aveva ricevuto risposte solo per lavori a percentuale, part time, a progetto, collaborazioni varie in ogni angolo d’Italia.

Aveva 30 anni compiuti e si sentiva terribilmente vecchia, non per l’aspetto, di quello non gliene era mai importato un fico secco, ma troppo grande per poter trovare un lavoro decente che l’avrebbe soddisfatta, che avrebbe esaudito la sua voglia di ascesa personale e professionale.

Ormai non lavorava più da due anni ed il suo conto era più in rosso dell’inferno; tutti richiedevano esperienza, che lei non aveva e una conoscenza ottima delle lingue, cosa che per chi ha frequentato le scuole italiane senza aver mai varcato il confine è un’utopia.

Così pensò ciò che fino ad allora non le era mai balenato nella mente, sfruttare l’unica esperienza che aveva, quella al bar e finalmente trovare il coraggio di attraversare le Alpi, andare in qualche posto in Europa, dove forse sarebbe stato più facile vivere.

La differenza con l’Italia l’aveva avvertita immediatamente, perché le avevano risposto tutti coloro ai quali aveva inviato il curriculum e qualcuno le aveva anche proposto un lavoro immediato ed a tempo indeterminato.

Qualsiasi essere sano di mente avrebbe fatto i salti di gioia, ma non lei, non Carmela, che non era mai riuscita a gioire per nessuna cosa. Aveva un “dono” naturale, distruggere ogni momento piacevole, lei riusciva sempre a trovare qualcosa di negativo, i difetti nella gente, gli errori anche in un’opera d’arte!

Così quando un datore di lavoro le aveva detto: “per me può venire domani con il primo aereo!”, per andare a lavorare in una gelateria sul Danubio, lei era entrata nel panico.

Adesso il terrore non era più la mancanza di lavoro e di denaro, ma ciò che le metteva paura era lasciare la sua Stellina.

Quando aveva deciso di separarsi dal marito, il suo unico pensiero era andato alla serenità di sua figlia e le era parso di essere riuscita a non turbare la tranquillità di Stella, nonostante il padre si fosse dissolto nel nulla, scomparendo quasi totalmente dalla sua vita.

Ma adesso che era riuscita a fare sia da padre che madre, a colmare quel vuoto nella vita della figlia, dove avrebbe trovato il coraggio di abbandonarla?

Sapeva bene che qualsiasi sacrificio avesse fatto, era necessario per entrambe, ma non credeva che Stella riuscisse a capirlo o forse era solo una giustificazione perché non trovava il coraggio per fare un altro, l’ennesimo, salto nel vuoto, barcollando ancora un volta nel buio.

Ad un tratto cominciò a pensare che la figlia non avesse bisogno del denaro, ma aveva necessità della sua presenza, del suo amore, del suo sostegno, anche se in questo periodo sembrava non esserne più capace, era come se i troppi pensieri negativi non le dessero modo di essere la mamma buona, amorevole e completamente dedita alla figlia, come invece era sempre stata.

Ad un tratto non le importava niente del consumismo, dei soldi, né del dover dimostrare alla gente quanto valeva; adesso capiva che il senso della sua vita era dare pace e amore a quella creatura che aveva deciso di mettere al mondo.

Anche un trasferimento della figlia insieme a lei le era sembrato impensabile, stravolgerle la vita proprio non le andava giù, sapeva che le avrebbe fatto troppo male, le avrebbe scombussolato ancora una volta tutti gli equilibri, avrebbe perso tutti gli amichetti e non conoscendo nessuna lingua straniera sarebbe stato davvero difficile trovarne altri.

D’altronde mamma e figlia, dopo la separazione, erano andate a vivere nella casa natale di Carmela, dove Stella godeva dell’amore dei nonni e le zie, quindi una sua partenza e assenza, sarebbe stata ammortizzata dall’affetto della famiglia.

Un secondo pensava che avrebbe dovuto accettare e partire subito, il secondo dopo che non doveva lasciare la sua terra, che tutto si sarebbe sistemato.

Le sembrava che la testa stesse per scoppiarle e non riusciva più a ragionare in maniera obiettiva.

Forse ciò che le faceva più paura era la solitudine che avrebbe dovuto affrontare, lasciarsi tutto alle spalle e partire, senza nessun appoggio, nemmeno morale, lei che era abituata al caos, alla confusione, alle urla, alle risate di una famiglia numerosa e chiassosa, avrebbe dovuto prepararsi al silenzio, alla noia e ciò la terrificava.

Così pensò di portarsi un pezzo di casa, ecco perché stava cercando di convincere a tutti i costi Maria, l’unica che poteva spostarsi, non aveva legami, niente la tratteneva lì, ma lei sembrava proprio non volerne sentire, continuava a giocherellare con il cellulare e Carmela avvertiva che non la stava più ascoltando già da un bel po’.

Ok, ok, mi hai convinta sorellona! Adesso però mi aiuti a scegliere il vestito da indossare stasera? Con i miei amici andiamo in un disco pub, perché non vieni pure tu? Così ti svaghi e la smetti di pensare sempre alle stesse cose, stai diventando più pallosa che mai, mi sembri la nonna!”.

Carmela capì allora che parlare con Maria era del tutto inutile, non le rimaneva che aspettare che i genitori l’avessero buttata fuori di casa, magari a quel punto avrebbe ascoltato!

-Anche se l'inverno è ancora lontano, è importante iniziare a riempire i fienili con il cibo per gli animali. Questa volta a chiederci aiuto sono gli ospiti dei due rifugi gestiti dai volontari di "Porcikomodi".
Il progetto Porcikomodi nasce più di dieci anni fa nell'associazione "Vita da cani" per dare una nuova vita a quegli individui che, per un motivo o per un altro, riuscivano a sfuggire allo sfruttamento, agli allevamenti e ai macelli e oggi nei loro due santuari danno ospitalità a oltre 200 animali.
Ogni mese consumano 25 balle di fieno per provvedere all’alimentazione di oltre 120 capre e pecore, 8 bovini, 4 asini  e 2 pony !
Ciascuna balla costa circa 50 EURO,
che non è poi molto, ma moltiplicato per 25 balle e per 12 mesi, e se aggiungi il mantenimento mensile di 32 maiali e di ogni singolo dei 200 cani, diventa una spesa consistente.
Come possiamo aiutarli?
Comprando loro delle balle di fieno a questo link: http://www.vitadacani.org/1-balla-1-amico/

-Il circolo "Naturalmente Veg" di Torino (Corso casale 204/L
10132) ha deciso di portarci in viaggio facendoci assaggiare piatti tipici da tutto il mondo. Lunedì 11 luglio alle ore 20,30 approderemo in Spagna con una cena servita a 25,00 euro, bevande escluse.
Prenotazione obbligatoria allo 011.7631763 o su naturalmenteveg@libero.it

(ingresso riservato ai soci ACSI. possibilità di tesseramento in loco.)

-sempre al circolo "Naturalmente Veg" il 12 luglio, come ogni martedì,  dalle ore 19 alle ore 20 si terrà la LEZIONE DI YOGA DINAMICO - CON SARA MORELLO -

la lezione verrà accompagnata dal sitar suonato dal vivo da Dino Curzi.

Al termine: il tempo del tè.
Costa sei euro e la prima lezione è gratuita con prenotazione obbligatoria.
Contatti email: naturalmenteveg@libero.it, tel:  011.7631763

- Mercoledì 13 luglio invece, sempre a Torino, presso il Cortile del Maglio (Via Vittorio Andreis 18 int 16), è la volta della "Notte bestiale delle associazioni animaliste". A partire dalle 19,30 ci sarà un apericena benefico al costo di 15€ a sostegno delle varie associazioni animaliste presenti sul territorio. Durante la serata sarà possibile sbirciare tra i banchetti della LEAL, Oipa, Anima Bestiale, La collina dei conigli, Animalisti italiani, In punta di coda, Anpav ed essere aggiornati sulle loro campagne ed eventi.

È necessario prenotarsi al numero 3333866334 oppure tramite email puccia_sm@libero.it

- Se siete più fighetti e vivete a Milano, Giovedì 14 luglio, per il terzo anno, ritorna l’aperibenefit più fresco dell’estate!
Gli amici del Tongs, in via Vigevano 19,(una vera e propria istituzione tra i cocktail bars dei navigli milanesi) hanno deciso di ospitare l'associazione "Essere Animali", per unire impegno e svago e sostenere le loro attività in difesa di tutti gli animali. Lo faranno con un aperitivo 100% vegetale ed una serie di gustosissimi cocktails, alcolici ed analcolici che vi stupiranno per estetica, gusto e preparazione eccellente!
A seconda della scelta si va da 6 a 8 euro per: primo drink, mangiata a volontà e quota benefit.
Non è necessaria la prenotazione, ma è consigliabile arrivare presto.

-ci spostiamo a Bari, dove sempre "Essere Animali" inaugurerà una nuova sede venerdì 15 luglio con una serata informativa e una cena benefit spagnola a buffet. Dalle 20:30 in poi ci aspettano in via Michele De Napoli 5, per incontrarci e presentare le attività locali.

L'ingresso è libero per tutti (non è richiesta la tessera). Sarà disponibile il materiale informativo e potrete decidere di sostenere le iniziative dell'associazione diventando soci e/o partecipando alla cena.
Per maggiori informazioni potete scrivere a bari@essereanimali.org o chiamare al 329.3355990.

Il contributo minimo per la cena è 7 euro che include buffet ricco di tapas, tortillas, paella, dolce e un bicchiere di sangria. Bicchieri aggiuntivi di sangria: € 1,50.
Prenotazione consigliata, non obbligatoria.

Se volete conoscere l'associazione Essere Animali, questo è il loro sito: www.essereanimali.org

Ci interessano poco il numero di zampe, l’età, la specie.
Ci interessa nulla che abbiano coda o pinnette.
A noi interessa solo che trovino una famiglia in cui si sentano amati e che li riscatti dalla triste vita che hanno conosciuto.
Da sud a nord, dalla campagna alla città ecco i nostri orfanelli:

Il primo è Mambo!


Mambo ha 2 mesi e mezzo.
E’ un maschietto dolcissimo che è stato abbandonato in un paesino del Cilento.
Ora sta in stallo in un piccolo stanzino; cerca quindi adozione o stallo per non finire nuovamente in una colonia.
Adottabile in tutto il centro/nord Italia, si accettano anche richieste in Campania.
Spulciato, sverminato, vaccinato, con libretto sanitario e microchip!
Solo adozione in appartamento, viziato e comodamente sdraiato sul divano...
Si richiede la castrazione entro i 6 mesi di età.
Per info ed adozione: Cristina 3297448149

       

Loro sono due scugnizze di 30 giorni e non hanno ancora un nome. (ADOTTATE!)
Si trovano a Napoli in stallo da una signora che però non potrà tenerle oltre al 14 luglio.
Per una buona adozione possono arrivare anche al nord e siccome ci piace sognare forte, per loro speriamo in una adozione di coppia.
Per informazioni, adozione o offerta di stallo potete contattare Bruna tramite facebook.

Tigro credeva di aver trovato la sua casa e 4 mesi fa, da Palermo era arrivato fino in Piemonte, ad Asti. (ADOTTATO!)
Ora è di nuovo in cerca di una famiglia, questa volta però che lo sappia capire e amare come ogni animale merita.
Lui è molto buono, ha circa un anno e mezzo ed è di taglia medio/grande.
Gli manca una zampotta, è compatibile i gatti ed altri cani femmina.
Per le ultime informazioni riguardo a lui o per la sua adozione, potete contattare tramite Facebook Paolo.

 


      

Blu è una micina di 2 mesi, sorellina di Macchia.
Sono già sverminate e tempo qualche giorno saranno pronte per l’adozione.
Si occupa di loro la L.A.V. di Asti.
Per informazioni o adozione potete scrivere a lav.asti@lav.it



 

Lei è Nuvola.
La sua storia comincia a Salerno 4 mesi fa, quando fu abbandonata insieme ai suoi fratelli vicino ad un cassonetto dell'immondizia.
Ad oggi, lei è l'unica della cucciolata ad essere rimasta senza adozione.
E’ una futura taglia media. E’ ben socializzata con i cani e va d’accordo anche con i gatti.
Nuvola ora si trova a casa della volontaria che l’ha accudita e salvata.
Per una buona adozione può venire anche al nord Italia tramite staffetta.
Per informazioni potete contattare Di Fiore Maria Teresa 338 2575886

 

Sempre dalla provincia di Asti, cercano famiglia il Sig. Capro, la Sig.ra Capra e i loro due capretti. (ADOTTATI!)
Sono rimasti senza casa e l’ideale sarebbe accoglierli in un bel giardino tutti e quattro insieme.
Per informazioni ed adozione potete contattare Mara tramite messaggio su Facebook.

 

 

 
Quinto contest:
titolo: Ogni cosa è illuminata
scadenza:  31 luglio 2016
Il titolo, al solito, è uno spunto. l'interpretazione è libera.
I racconti devono essere inviati a: contest@jonaeditore.it
La lunghezza massima è di duemila parole.
Il documento deve essere in qualsiasi formato office.
Il titolo deve essere composto dal vostro nome e da "ogni cosa è illuminata".
Dovete scrivere consenso a pubblicare online lo scritto, in caso di vittoria.
Scadenza: trentuno luglio 2016.
Precisiamo che con "inedito" si intende non pubblicato né su cartaceo, né online.
Chiediamo, inoltre, ai partecipanti, di iscriversi al sito. Sarà più semplice comunicare.
Cosa si vince?
I due vincitori (se i racconti inviati saranno meno di cinquanta decreteremo solo un vincitore) avranno pubblicazione in www.jonaeditore.it
A dicembre 2016 i migliori tra i vincitori avranno un contratto editoriale e saranno pubblicati in cartaceo e in epub.