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Le scimmiette

La scimmietta non dice.

Il silenzio di un placido pomeriggio d’inizio settembre pervade la villa dei coniugi Taddei. Il pendolo dell’orologio a parete scandisce i secondi e a ogni movimento un fruscio accompagna il tintinnare delle tazze di porcellana finissima, decorate a mano, ricordo di un viaggio all’altro capo del mondo. Dalle grandi porte finestra che danno sul giardino, ben curato, entrano raggi di sole soffici e aranciati, dello stesso colore delle foglie dell’autunno che fra poco verrà. La luce fa brillare i pianali di marmo della cucina, talmente lucidi da far dubitare che siano mai stati usati per cucinare, le bomboniere e i gingilli in bella vista sugli scaffali, i fiori freschi nei vasi di cristallo sparsi per il salone, ma, soprattutto, fa brillare le molte cornici che rinchiudono foto di momenti di svago e di ricorrenze. Con una sola occhiata si può vedere lo scorrere della vita: una giovane donna sorridente in sala parto, un uomo fiero di fronte a un grande capannone, i primi passi di due bambini biondi, i viaggi al mare, i molti sorrisi scintillanti, gli abiti da sera, le recite scolastiche, gli anniversari… In quasi tutte le foto ci sono le figure di una donna bellissima e di un uomo di qualche anno in più, che con occhi orgogliosi sempre la cinge.

«Sara, correggimi se sbaglio, tu prendi il caffè amaro, vero?».

«Sì, grazie Masia».

La voce di Sara arriva ovattata dal salone. Masia alza il vassoio con un leggero slancio, impaziente di andare dalle amiche, ma il movimento le provoca un dolore al fianco. Le mani perdono la presa e solo la presenza del lavabo salva due di tre tazzine. Il trambusto attira in cucina Sara, che si affaccia alla porta.

«Tutto bene?». Un sopracciglio inarcato, e l’aria interrogativa.

Dentro la sua testa Masia sente la voce della suocera: “Ricordati che certe cose non si dicono. Gli altri godrebbero di questa tua sconfitta. Se succede non serve parlarne. I panni sporchi si lavano in famiglia”. Le labbra della donna si incurvano automaticamente in un sorriso.

«Oggi ho proprio le mani di burro! Non preoccuparti… Cos’hai trovato?». Le mani curate e ingioiellate di Masia non sembrano salde mentre raccolgono veloci i cocci della tazzina e li fanno sparire. Sara intanto abbassa lo sguardo sulla foto che ha in mano.

«È la foto del fidanzamento tuo e di Renato». Nel dirlo la appoggia sul tavolo della cucina, Masia distoglie lo sguardo.

«Non mi è mai piaciuta quella foto, si vedono solo lui e la sua famiglia, io sembro minuscola nell’angolino che mi hanno concesso».

«Fagocitata dai tuoi suoceri?». Anche se sta mettendo su una nuova moka di caffè, e le dà le spalle, Masia riesce a vedere il sorriso di Sara.

«Esattamente». Il borbottio della padrona di casa viene quasi coperto dal rumore dell’accendigas.

«Forse non erano granché contenti della situazione, si può comprendere… Ma ora ti vogliono bene, ne sono sicura».

Masia evita lo sguardo di Sara. Difficile dimenticare di essersi sposata appena maggiorenne e di essere diventata mamma un anno dopo. Ancora le brucia lo sguardo dei suoi suoceri: la detestavano. All’epoca non capiva perché tenessero tanto a quel matrimonio se in maniera così evidente non la sopportavano. Non aveva altro che la sua bellezza, da portare in dote. Il campanello la esonera dal dover rispondere all’amica.

Valentina fa il suo ingresso nel salone mentre in cucina la foto del fidanzamento è stata rovesciata.

«Scusate il ritardo, il giudice di oggi era un vecchio razzista e l’ha tirata per le lunghe… Ho anche dovuto saltare la palestra». Sbuffa tirandosi indietro la coda di capelli biondi e sostituendo quella frase agli entusiastici saluti di rito.

Finalmente il caffè arriva e tutte e tre si sistemano sui morbidi divani, chiacchierando del più e del meno. Insieme formano ancora un bel gruppo: Sara, piccola e morbida, con gli occhi grandi da cerbiatto e lunghe striature grigie tra i capelli castani; Masia, alta e formosa, con i capelli ricci color mogano e i lineamenti cesellati prima dalla natura e ora dal chirurgo; e infine Valentina, con i muscoli scattanti sotto la pelle sottile e lo smunto viso cavallino.

«Sembri più pallida Vale, va tutto bene?».

«Oh … Sono solo stanca, gli impegni con i gruppi di Francesco occupano tutto il mio tempo libero».

Prese dalle chiacchiere, né Sara, né Valentina sembrano notare Masia spostarsi scomodamente sul divano e tastarsi con discrezione il fianco dolorante. La porta d’ingresso si apre all’improvviso portando con sé una brezza fresca. Sono i figli di Masia che tornano da scuola, accompagnati dalla tata.

«Non ci credo… Sono i tuoi figli?». Domanda stupita Valentina.

«Crescono di mese in mese… Com’è andata a scuola, tesori?». Interviene dolcemente Sara.

I bambini rispondono da copione, sorridenti. Sembrano due statuine, tanto sono perfetti: biondi, belli, con addosso la scintillante divisa di una altrettanto scintillante scuola privata. Nell’insieme fanno a pugni con il maglioncino infeltrito e i jeans sdruciti della ragazza che li accompagna. Masia rivolge alla giovane tata uno sguardo di rimprovero, che non passa inosservato, e poi li congeda con un gesto frettoloso.

«Forza, andate a fare i compiti. Aurora sta qui solo fino alle sette e se non li avete finiti per quell’ora non ci sarà più nessuno ad aiutarvi».

Non appena i bambini spariscono nelle loro camere, Valentina prende la parola.

«Quella ragazza li aiuta anche con i compiti? Per tutte queste ore avrete un contratto regolare…».

«Come va il locale di Massimo? Spero meglio rispetto al nostro ultimo incontro!». Masia interrompe Valentina e si rivolge a Sara continuando a sorridere e tenendosi dritta sul divano, posizione che le provoca molto dolore al fianco e su tutta la schiena, dove i lividi di due sere prima sono ancora freschi. Sara rimane interdetta dall’essere tirata in ballo in maniera così violenta.

«Insomma… Massimo è molto giù, dopo la fine del turno in fabbrica vado a dargli una mano tutte le sere e…».

«Però, Sara, non offenderti, ma il tuo “amico” Massimo non aiuta,» esordisce Valentina, ancora indispettita per essere stata interrotta, virgolettando con le dita la parola “amico”. «Francesco ha sentito che molta gente è scontenta perché lui tratta male i clienti. E dice che mentre tu giri come una trottola e lavori al posto suo, lui se ne sta in panciolle».

«Oh, per fortuna lo dice anche il tuo compagno, Vale! Pensavo che fossimo solo io e Renato a pensarlo. È stato proprio lui a farmelo notare e da allora non riesco a non pensarci, Sara, ogni volta che vi vedo». Masia rincara la dose, sollevata per essere riuscita a cambiare argomento, e si rende conto di quanto sia stata insensibile solo quando vede l’amica sorseggiare silenziosamente il caffè, il viso da bambina in parte nascosto dalla cortina dei capelli. È difficile non pensare, guardandola, a come la vita si sia accanita su di lei. Quando si sono conosciute era lei la più promettente, la più benestante, tanto che è stata proprio Sara a presentare Renato a Masia, e ora si ritrova a vivere in un piccolo appartamento popolare e a lavorare nella sua fabbrica di scarpe, di Renato.

«Ehi, tesoro, non prendertela… Parliamo per dare aria alla bocca, lo sai. Vuoi dell’altro caffè?».

La scimmietta non vede.

È solo dopo aver guardato Masia per qualche secondo che Sara annuisce.

«Lo prenderei anch’io, se ce n’è ,» le fa seguito Valentina porgendo la tazza vuota. Le tazze vengono rapidamente riempite e Valentina domanda di che tipo di caffè si tratti.

«Dovrebbe essere etiope, Renato lo compra direttamente da un rappresentante locale. Una volta ne ha portato a casa uno prodotto dopo essere stato digerito da una specie di scimmia e me lo ha detto solo dopo che l’ho bevuto…Ero disgustata, ma avevano ragione a proclamarlo il migliore al mondo, è davvero buono». Masia fa una risatina stiracchiata mentre racconta l’episodio, Sara si unisce, imbarazzata, mentre Valentina lancia uno sguardo assassino.

«Come puoi ridacchiare di essere stata complice dello sfruttamento di quei poveri animali?».

«Sfruttamento mica tanto, viene raccolto a mano da animali liberi … Si paga a peso d’oro anche per questo». Risponde Maria cercando di mantenere la stessa leggerezza, ma facendo capire che non accetterà altre critiche alle scelte di suo marito.

«È il concetto stesso a essere sbagliato. Gli animali vengono tramutati in macchine da soldi senza poterlo scegliere, né capire. Gli umani li sfruttano e si fanno ricchi. Situazioni come queste mostrano come il sistema capitalistico sia sbagliato per sua essenza…». Valentina non finisce la frase perché intercetta lo sguardo che si scambiano le sue amiche da sopra la tazzina di caffè, tra il divertito e lo stufo, e si interrompe, imbronciata. La coda di cavallo dondola impazzita dietro la sua testa mentre si appoggia allo schienale del divano, le braccia incrociate e lo sguardo perfido. È da quella posizione che, pochi istanti, dopo sferra il suo secondo attacco.

«Ma certo che Masia non è d’accordo con quello che dico, è sposata con uno dei peggiori capitalisti sulla faccia della terra… Dimmi, quanto frutta di nero la vostra fabbrica di scarpe? Abbastanza, presumo, per riuscire a pagare una tata che si occupi dei figli per conto vostro, e chissà quante altre persone: domestici, giardinieri, dipendenti…».

«Avevo dimenticato che sei così permalosa. Le tue sono solo illazioni». Taglia corto Masia, con un sorriso freddo, spolverandosi la gonna con una mano per togliere della polvere invisibile.

«Al contrario, lo so per certo,» la voce è un ringhio «Francesco me lo dice sempre: quando andavano a scuola insieme tuo marito raccontava di quanto si riuscisse a frodare allo Stato con i contabili giusti».

«Peccato che Renato ricordi altrettanto bene di come Francesco sfruttasse la sua famiglia. Cene, pranzi, passaggi in macchina… E non si lamentava quando Renato gli regalava qualcosa di costoso per il compleanno. Il tuo fidanzato è sempre stato geloso del successo di mio marito e il fatto che racconti queste menzogne dimostra molto del suo carattere. Renato mi racconta della sua doppia faccia ogni volta che vi citiamo!».

«Renato non si è guadagnato niente di quello che ha, l’ha solo ereditato, e per avidità ha scelto di cambiare. Francesco ha rinunciato a possibilità molto grosse per non intaccare la propria onestà. Con il sindacato combatte ogni giorno contro gente come tuo marito!».

«Smettetela adesso!». Sara si è alzata. Ha cercato di ignorare quello squallido scambio di battute, ma quando la discussione è degenerata non ce l’ha più fatta. «Io lavoro nella fabbrica di Renato e, per quanto non sia il mio campo, posso assicurarti di non aver mai visto giri di soldi strani… Probabilmente Francesco ha il dente avvelenato per non essere stato richiesto come commercialista e travisa ricordi di quando Renato faceva il gradasso, come tutti i ragazzini».

Poi torna a sedere e Masia sorride.

«Vi ricordavate com’era quando eravamo a scuola? I compiti, il professor Moratti…».

«Quel rompiballe! Non ho mai recuperato quella versione di latino!». Fa seguito Valentina con una risata sincera.

«Eri la migliore a falsificare le firme dei genitori e passavamo giornate intere al mare, noi tre da sole». Lo sguardo di Sara vaga oltre le finestre, sul giardino assolato.

«Ci dicevamo tutto. Eravamo così amiche». Quella frase formulata al passato lascia tutte senza parole e prive di reazione, come se la presa di coscienza dei rapporti cambiati richiedesse per forza il silenzio.

«Scusatemi ragazze, è un periodo un po’ così…». Cerca di riprendersi Valentina.. Un periodo che dura da mesi ormai. Da quando Francesco le ha detto cosa pensava del matrimonio e della monogamia. “Noi non siamo fatti per stare con una persona sola. Il nostro istinto ci porta ad avere più compagne e più compagni. Noi siamo di tutti e tutti sono nostri”. Quelle parole le rimbombano in testa insieme all’immagine di lui con un’altra donna, nel loro letto. Valentina le comprende anche quelle parole, le motivazioni dietro il suo comportamento, ma ogni volta che lo sa con un’altra lo stomaco le si chiude e può solo andare a correre, o in palestra a distruggersi muscoli e articolazioni.

«Dai, che passerà! I brutti periodi passano sempre. Io e Sara non vediamo l’ora di venire al tuo matrimonio, quando sarà!». Masia, all’oscuro di quanto successo, è sincera nel suo intento consolatorio, ma non ottiene che un maggior pallore della sua amica.

«Non ci sposeremo mai, Francesco non crede nel matrimonio». E con questo Valentina vorrebbe chiudere l’argomento, ma le sue amiche la guardano, con tutte le loro domande scritte negli occhi, e lei si ritrova a mentire, prima ancora di rendersene conto.

«Poi, sapete, sono un avvocato che si occupa di libero patrocinio. I miei clienti non possono pagarmi e dovrebbe farlo lo Stato, ma gli assegni arrivano quando arrivano. Senza una buona stabilità economica non me la sentirei neppure di mettere su famiglia».

Sara annuisce con aria triste, mentre Masia si torce le mani, in silenzio.

La scimmietta non sente.

«Oh mio Dio scusami Sara! Sono un’insensibile… Sto qua a parlare di matrimonio quando Massimo con te…». Sara la interrompe con un gesto, poi le sorride, anche se il sorriso non si allunga fino ai suoi occhi che rimangono malinconici. Si vede riflessa nei vetri di una delle credenze del salone. Il viso tondo, struccato, sfumato. “La malinconia è la felicità di essere triste”. Chi l’aveva scritto? Victor Hugo? Sara non riesce a ricordarlo.

«Nessun problema cara, io sono felice che tua sia felice. Con Massimo ormai ho rinunciato, lo amo, ma se non si è accorto di me fino ad adesso e forse non se ne accorgerà più». Dice senza cambiare espressione, con lo stesso sorriso finto. Le sue amiche non sanno che Sara ha sentito Massimo prenderla in giro al locale. “Cane di corte”, “servetta”, “illusa”, “stupida”, così l’hanno definita, ridendone, mentre a Sara, separata da loro solamente da un muro, si spezzava il cuore. «Poi sono molto preoccupata per il locale, Massimo ci ha messo l’anima e non sta andando bene… Io cerco di aiutarlo più che posso». Il caffè si è ormai raffreddato, ma tutte e tre lo bevono pur di riempire l’ennesimo imbarazzante silenzio.

«Sara ti devo dire una cosa, ma ti prego di non rimanerci male». Mentre parla, Masia si china verso Sara e nel farlo le sfugge una smorfia e si porta una mano sul fianco, cui nessuna presta attenzione. «Sei sempre stata la più buona tra noi e non voglio ferirti, ma credo che tu meriti di meglio. Renato ha sempre creduto che Massimo fosse un buono a nulla e, se glielo chiedessi, potrebbe darmi il permesso di presentarti a qualche suo amico. Sei ancora molto bella, con un abito lungo e del trucco potresti accalappiare qualsiasi uomo». Gli occhi di Sara si stanno già annebbiando per le lacrime.

«Mi dispiace cara, ma concordo con Masia». Interviene Valentina, scandendo lentamente le parole, come se Sara fosse un animale selvatico finito per sbaglio in un giardino. «Francesco ti ha conosciuto insieme a lui e vi ha subito accomunato, e siccome anche lui pensa che Massimo sia uno sbandato, uno che non ha mai fatto qualcosa in vita sua, ci ho messo parecchio a fargli cambiare idea su di te. Potresti scoprire che stare insieme a lui ti danneggia…».

Sara piange silenziosamente, seduta composta, a capo chino. Nella sua mente si affaccia un’idea che in poco tempo prende più spazio. Lascia scivolare lo sguardo sul viso delle amiche, familiari quanto il suo stesso viso. Si conoscono da sempre, e fino a quando le loro vite non si sono intrecciate con altri il loro rapporto è sempre stato solido e speciale. I loro uomini le hanno incitate a costruire muri di abbracci non dati, confidenze non fatte, verità non dette. La mancanza di coraggio delle frasi di cortesia e delle chiacchiere facili ha minato la loro amicizia sostituendola con qualcosa senza valore. Si confondono dietro le parole e le idee dei loro uomini senza rendersene conto. La mano di Valentina le accarezza la spalla, mentre Masia si allunga ancora, vincendo il dolore, per richiudere le proprie mani sulle sue.

«Voi non capite! Non volete capire!». Adesso è Sara a urlare contro le sue amiche. «Massimo avrà pure tanti difetti, ma io so che è un uomo profondamente buono! Con che diritto parlate? Potete dire lo stesso di Renato o di Francesco? Davvero i vostri uomini sono nella posizione di poter dare giudizi? Non fatemi ridere!». La rabbia e lo scherno grondano dalla sua voce mentre si tira indietro i capelli castani e poi si asciuga le guance con i palmi delle mani, furiosa come mai le sue amiche l’avevano vista. Sara la buona, in quel momento, non sembra mai essere esistita.

Né Masia, né Valentina proferiscono parola, così rimangono tutte e tre immobili, ancora una volta assorbite dal silenzio. Masia si tiene il fianco, Valentina guarda le lancette dell’orologio a pendolo; non manca molto allo scadere dell’ora e quando finalmente il pendolo suona Masia si ravviva. «Scusatemi ragazze, ma ormai i miei figli dovrebbero aver finito i compiti e devo controllarli… Ma voi restate quanto volete. Poi trovate da sole l’uscita, vero?». Basta un attimo e sparisce su per le scale, con un sorriso frettoloso e formale.

«Tranquilla, io vado già ora. Domani ho una causa impegnativa, devo prepararmi… Buona serata!». Anche Valentina si congeda, il viso serio mentre lascia sbattere la porta d’ingresso.

Gli ultimi raggi del pomeriggio fanno ancora brillare le chincaglierie della casa. Tutto intorno non sembra essere cambiato nulla da quando si sono incontrate poco più di un’ora prima, forse ora è solo un po’ più scuro. Sara si porta la tazzina alle labbra e beve l’ultimo sorso di caffè, freddo. Un presentimento le cresce nel torace ed è sicura che Masia e Valentina provino la stessa cosa: oggi la loro amicizia è definitivamente cessata. Incontri annullati, inviti cortesemente rimandati, si troveranno per dei frettolosi auguri le prossime feste e poi passeranno direttamente ai messaggini, per poi scomparire. Ne sarà valsa la pena?

Sara lancia un ultimo sguardo alla casa di Masia, poi si alza e raccoglie le sue poche cose. Esce piano, chiudendo delicatamente la porta, e spinta dalla brezza fresca di settembre si dirige verso la macchina. Chiederà a Massimo una spiegazione per il suo comportamento e una decisione sulla loro relazione, è risoluta, ma appena si appresta ad avviare l’auto ricomincia a versare calde lacrime, per sé e per le sue amiche, per il tempo passato, per la solitudine del futuro… Poi la suoneria del cellulare riempie l’abitacolo.

«Buonasera, dolcissima Sara! Sei sopravvissuta all’incontro con quelle arpie che tu chiami amiche?». La voce di Massimo, in quel momento, è come acqua per l’assetato. Sara asciuga le lacrime dal viso, come se Massimo potesse vederla e biasimarla anche attraverso il telefono, e in un istante tutta la sua volontà di affrontarlo è stata spazzata via.

«Sai che hai ragione? Sono delle arpie…». Ridacchia nella maniera isterica delle persone tristi.

«Oh-là-là! Finalmente te ne sei accorta anche tu! Mi raggiungi al locale, dolcezza? Non so come farei senza di te…».

«Arrivo subito, Massi!».

Poi sorride al parabrezza e mette in moto.

Pubblicato in concorso

La Radio Nudista

Sì, capisco! L'esigenza, assolutamente, il gusto, la passione per la Gastronomia nostrana, orgoglio, mediterraneo, meridionale, la famiglia, l'Amore... A proposito sto seduto al mio posto assegnato sul treno proprio affianco a questa signora alla quale è rivolto un tizio. dirimpetto a noi, che le fa gesti teneri specchiandosi nel vetro blindato della alta velocità e resta lì, dolcissimo, fino a che il treno non parte, con i suoi movimenti muti e il labiale sorridente. Un uomo di mezza età, brillante, che saluta una donna di mezz'età, brillante, solo che lui è dall'altro lato del corridoio, e lei è a fianco a me, lato interno, e quindi tra loro ci sono io e un’altra coppia giovane che siede sulle poltroncine vicino al vetro e al mandrillone impegnato a fare il suo romanticissimo saluto da mimo, tanto che la lei della coppia giovane si rivolge al giovane e grasso lui per chiedergli: - Ma questo che vuole?

E comunque il treno parte, e io sto ancora con l'affanno per questa grossa borsa che ho dovuto trascinare lungo i corridoi lerci della stazione, attraverso questo treno lungo quanto la muraglia cinese, e appena ci muoviamo mi trovo a tirare la testa indietro, e diciamo pure che ho l'affanno perché ho appena sgozzato uno spinello, sì, fuori dalla libreria FeltriCazzi, si uno spino mi serviva, e anche un libro, il più cinico e farabutto scritto che abbia mai acquistato mi occorreva, il prima possibile, per fuggire da questa anomala (e neanche tanto) ondata di mediocre miele qualunquista nel quale ero stato recentemente travolto, e soprattutto per dimenticare quella sciagurata fiaba che mi ha consigliato una specie di secchiona con le lenti a culo di bottiglia, la classica tipa da love story di quarta categoria, da voltastomaco, la tipa ipersensibile, crocerossina, sesto, settimo, e ottavo senso, me lo sento!, l'amore!, il romanticismo!, la famiglia!

Eh sì mi sto pure ammorbidendo, ho pensato, conosciamola, vediamo cosa mi consiglia, diamo una chance nonostante già mi ammorbi con questa storia che lei non è una troia (a me piacciono le troie) e che se lavogliosoloscopareleinonèiltipo, che poi non ci penso neanche dato che quelle lenti a culo di bottiglia a me ammosciano anche il cazzo, e in tutti i modi mi consiglia sto fottuto romanzo di un’altra secchiona come lei (che magari avrà anch'ella le lenti a culo di bottiglia?) professoressa di Filosofia all'Università francese, e come un megacoglione sgancio quattordici euro per questa sfilza di luoghi comuni con una scrittura che compiace se stessa e la sua filosofia del cazzo, che non esime dallo spiattellare a ogni inizio dei piccolissimi capitoli furbi per allungare il brodo, un guazzetto edulcorato che mi ha fatto schizzare il diabete a cinquemila e dire che i presupposti magari c'erano anche, c'era un omaggio al mio essere operaio che si vergogna di farsi vedere con un libro in mano, insomma c'è questa donna portiere di un nobile palazzo parisienne grassa sciatta proletaria ma con una cultura mostruosa(che la scrittrice approfitta per esternare in noiosissimi paragrafi nei quali ostenta la sua filosofia trita da docente di Università), talmente charmant da voler nascondere questo suo acume con l'eleganza di una farfalla (anzi di un riccio) per non inquietare i nobili condomini del nobile e antico fabbricato finge invece di essere una buzzurra e l'aspetto fisico l'aiuta pure parecchio non destando sospetti (anche perché chi cazzo se ne frega!?), fino a quando non arriva un principe azzurro giapponese anziano miliardario con tutti i cliché sulla meravigliosa cultura nipponica che la tirerà fuori dall'isolamento della portineria e s'innamorerà di questo cesso trascurato. Il finale era la parte migliore infatti lei moriva, e mi sono anche un po' commosso pover grassona bella…

Eh, insomma avevo bisogno di tornare nel torbido...

E adesso potevo rilassarmi, con la testa sul poggiatesta anatomico, la borsa infilzata a fatica in un piccolo spazio avanzante nel vano poggia bagagli che era già bello pieno, e uno dei due libri in una presa immotivatamente forte tra le mie calde mani. Ma non era ancora il momento di leggere e non sapevo neanche se fosse mai arrivato. Forse questo è il motivo vero per il quale noi fumatori fumiamo. Insomma, sono seduto nel mio posto esterno di una fila a quattro poltrone e davanti a me è capitata una donna con un bimbo di pochi mesi in grembo; penso la solita fortuna e d'istinto mi volto a destra col nobile intento di scovare qualche figa. Ma niente, solo uomini che sembrano d'affari, coppie, famiglie, bimbi e anziani. Ok, perché alla fine sto bene anche così, a pensare. La coppia chiatta chiaramente non fa altro che spiluccare patatine unte e puzzolenti per ingannare il tempo.

Il treno ad alta velocità fa solo tre fermate. Alla prima, nella capitale del Paese, dopo circa un’ora, arrivo bello fresco e rilassato, per il vero un po' ansioso solo di farmi uno spino. Entra una donna nello stretto corridoio, alta, bionda, notevole, con ogni probabilità dell'est. Ha difficoltà come ogni nuovo passeggero che si appropinqui nello stretto corridoio ma questa è talmente bona che accorrono tre aitanti maschioni ad aiutarla. Dopo nessuno conosce più il proprio posto, ma tutti conoscono benissimo quello di lei e soprattutto quello affianco a lei, che il più audace e furbo dei tre ormonali riesce ad occupare con solerzia.

Mi viene in mente che era meglio se nascevo femmina e poi anche che dovrei controllare la mail, è una cosa che faccio di rado, ma aspetto un conto spesa da Broob e sono curioso su quanto debba sganciare. Ho il cellulare in mano ma già non ricordo cosa dovessi fare. Beh, questa è una cosa abbastanza torbida che mi fa sentire un ribelle un po' punk e posso mettermi l'animo in pace e spadellare qualche bella frase da trascrivere sul taccuino. Dopo circa una decina di minuti buttati al vento mi ricordo di nuovo della mail, e con solerzia, cercando di non perdere troppo tempo come se il treno sarebbe potuto arrivare entro tre minuti, pigio il tasto della mail, e poi quello per caricare le nuove mail, ed escono una sfilza di inutili spot, che riescono a dribblare come Maradona anche i filtri antispam, che mi abbagliano e mi arringano e quasi non mi fanno vedere una mail con la scritta: EDITORE.

Eh, sì! Ci trovo niente poco di meno che una mail della casa editrice che da a tutti gli aspiranti scrittori la chance e senza mai chiedere i soldi, chi merita va, wow sono dei grandi penso subito, gente seria, ah perché mi stavo dimenticando di raccontarvi che dentro la mail c'è scritto: Siamo lieti di comunicarle che lei(io!) è tra i vincitori del contest;!,eh si sono uno tra i vincitori contest ispirato al grande Carver, sono dei grandi, penso subito, poi però mi assalgono i dubbi: ma saranno seri?, forse è solo una pagliacciata, mi vogliono imbrogliare, farmi illudere e poi spillarmi tutti i soldi? Ma no, penso, non ti buttare giù sei un grande, hai finalmente ricevuto l'apprezzamento da parte di gente competente, si perché son gente competente loro, poi non vogliono soldi, è fantastico che esista ancora della gente così, è magnifico che qualcosa che abbia scritto io finalmente piaccia a qualcuno. Il giovanotto robusto che era riuscito a sedersi a fianco alla stangona probabilmente russa sta tentando di attaccar bottone ma lei sembra decisamente infastidita. Penso che ad uno scrittore, voglio dire ammesso che io veramente lo sia e che in qualche modo lei venga a saperlo, non saprebbe resistere, eh, eh, eh sì lo so che sto esagerando...ma cazzo! se non è bello che qualcuno legga un vostro lavoro, seppur striminzito, e poi dica bello! Questo vince!

Cerco di leggere ma sono troppo eccitato e mi installo sul sito di questi grandissimi Editori per vedere in effetti cosa ho vinto, a che posto sono arrivato, e a dare un’occhiata agli altri racconti vincitori. Il bimbo si è addormentato, lo osservo con tenerezza e la madre sembra gradire. Intanto fuori dal finestrino la campagna si srotola come se fossi in un documentario, che poi è anche l'unica poetica oramai rimasta in questi treni ad alta velocità, il resto è un freddo arredamento sintetico disseminato di Brand e partnership varie, ma devo dire che a me fotte poco della poesia in un treno, cioè mi interessa la poesia ma posso anche abbozzare sul treno visto che adesso ci impiega solo tre comode ore rispetto ai viaggi interminabili di una volta, in definitiva se volete un po' di poesia basta leggerla, anche su internet a gratis, si può fare tranquillamente a meno di stare per ore in un carro bestiame! Solitamente gli angeli dell'editoria premiano uno, max due racconti ogni contest ma leggo che per l'occasione, data la grande partecipazione e l'elevata qualità dei manoscritti inviati, straordinariamente ci sono stati otto vincitori. Ciò mi intristisce un po' e penso che dovrei pisciare anche se non ne ho voglia, che è quello che faccio sempre perché ho la vescica che non funziona bene e non mi dà nessun preallarme e cioè quando mi accorgo che devo pisciare e spesso già troppo tardi. Qualcuno dice che è colpa della prostata. Comunque mi alzo e solo in quel momento mi accorgo che dietro a me c'era tutto un mondo inesplorato, cosa che non mi ecciterebbe neanche tanto (anche perché in questo momento poco mi può toccare) se non fosse per una tipa stivaluta occhialuta, visione peraltro sublimata dalla vista di un libro tra le sue mani, e quando passo alza lo sguardo su di me e addirittura accenna un sorrisetto e o forse lo fa solo perché sto fatto e o mi vede fatto, ma io come niente vado a pisciare e anche se il treno non è molto affollato trovo una mini-fila composta da due pisciasotto e io mi accodo in terza posizione. La seconda posizione è occupata da una donna nana che ha l'aria di essere un po' svitata e mi consolo a testa china pensando alla stivaluta occhialuta seduto nel mondo inesplorato alle mie spalle, solo che a un tratto la tizia mi zompetta dinnanzi agli occhi come una svitata e poi si volta di botto e continuando la sua patetica danza mi rivolge la parola.

   - Forte questa Radio!

   - A me non prende.

   - Neanche a me.

   - Allora che senti?

   - Internet.

   - Ah già internet. - Anche se stavo navigando da circa mezz'ora non ci avevo proprio pensato

   - C'è una radio bellissima...

   - Ah, sì, e come si chiama?

   - LRN

   - Comee?

   - La radio nudista

   - Comeee?

   - Non ne hai mai sentito parlare? - E ancora mi zompetta davanti, e ancora il cesso ad alta velocità non si apre, siamo sempre noi tre e il primo sembra una mummia che fissa il cesso senza neanche voltarsi nonostante tutto il baccano che fa la nana

   - La radio nudista! - ripete la nana tra il lieve fruscio del treno ad alta velocità.

   - Cioè trasmette programmi per nudisti? O i deejay sono nudi?

   - No, son loro che son nudi...

   - Ma tu non puoi vederli!

   - Ma vuoi mettere la differenza che c'è tra parlare ad una radio vestiti o completamente nudi!

Ci penso. E la porta si apre come in un film di fantascienza e ne esce un tipo robusto ma non troppo evidentemente imbarazzato evidentemente per il tempo che ci ha impiegato. Penso a questi tipi della radio, chiusi in quello che nel mio immaginario interamente suffragato dalla tv è il classico loculo vetrato dove incastrano tutti i conduttori radiofonici, completamente nudi che si sentono hippie liberi di dire tutte le porcherie che vogliono in quanto svestiti. La trovo una scena ridicola e domando: - Ma ci sono anche donne?

Nel frattempo, il primo è entrato nel cesso e noi facciamo istintivamente un passo in avanti

   - Certo! - Risponde la sciroccata.

   - E stanno insieme agli uomini?

   - Certo! In qualche trasmissione sì! Perché, che c'è di male?

   - Ah, nulla... specialmente se sono belle donne.

Credevo potesse essere una buona battuta, ma lei no perché si volta verso la toilette come se non ci fossimo mai parlati. Cazzo di nana pazza, penso, e allo stesso tempo esce il primo ed entra lei. Adesso sono solo e ho quest'immagine di ‘sti cazzoni nudi chiusi dentro ad uno striminzito stanzino con le pareti vetrate e microfoni e fili ovunque, mi è anche passata di mente la casa editrice Santi Subito. Poi chissà se è vero. Sicuro la nana ha qualche rotella fuori posto, ma lei ballava felice sotto gli input di ‘sti zozzoni radiofonici, e probabilmente lei ha capito tutto ed io niente, come mi accade spesso. Sento dei passi alle mie spalle e non mi faccio pregare prima di voltarmi curioso e vengo premiato e mi sento proprio come ti senti quando dal nulla, o magari dal torbido, nascono così, quando meno te lo aspetti queste giornate speciali, piene di sorprese, premi e soddisfazioni che ti illuminano di una luce nuove che fa sì che tu piaccia a tutti e in special modo alla occhialuta stivaluta che prende la seconda posizione rivolgendomi un altro sorriso che spalanca una bella dentatura bianca tutta allineata, ma richiude la bocca e non parla e qualche secondo dopo mi trovo in quella spiacevole situazione nella quale credi che lei stia pensando ma questo cosa aspetta! e diciamo pure che si è alzata subito dopo me e magari questo è un segno del destino o addirittura l'ha fatto apposta attratta da un oscuro magnetismo che solo gli scrittori possono emanare, allo stesso tempo combatti contro la tua timidezza o magari pensi che è stata tutta un illusione e che ti abbia sorriso solo perché è gentile - alla fine che credi di aver di tanto speciale tu?, questa potrebbe scoparsi chiunque in un attimo con un semplice schiocco di dita, figurati se è interessata a te, però poi penso anche che oramai chissenefrega sento ancora un po' di sballo anche se sta svanendo e prendo coraggio anche perché penso che in effetti non ci voglia neanche coraggio perché non ho nulla da perdere e allora mi faccio questo coraggio che non serve e penso finalmente a qualche modo per attaccare bottone - magari parlandogli proprio della Radio Nudista? - secondo me colpirebbe anche lei come ha colpito me questa storia strana di ‘sta nana pazza che però pazza e buona mi ha cambiato la giornata con questa cazzo di storia paradossale, eh si tanto cosa ho da perdere io povero impiegato anonimo che sogna di fare lo scrittore ma per il momento ha solo vinto un contest inviando un racconto di millecinquecento parole circa, però potrei parlargli proprio di questo! Aveva anche un libro in mano e noto di sottecchi che ha anche un paio di tette non troppo grandi ma sode di quelle classiche che vanno in una coppa di champagne, allora si il gioco vale la candela, mi decido e prendo fiato sto per proferire la prima parola e forse la proferisco pure ma non la sento né io né lei né nessun altro, che forse abbia perso la voce? Lei tra l'altro, qualche secondo dopo essere arrivata a raggiungere la sua seconda posizione, ha calato la testa sul proprio smartphone e questo proprio non è incoraggiante, ma cerco di non pensarci e prendo di nuovo fiato con un forte rinnovato nervosismo derivante dal primo fallimento che mi fa perdere altro tempo prezioso, davvero prezioso perché la porta del bagno si apre ed esce la folle nana sempre zompettando e prima di andarsene via mi saluta

   - Arrivederla Signore!

Resto di sasso al punto che la ragazza occhialuta stivaluta rivolge la parola, lei a me: - Signore potete entrare, il bagno adesso è libero!

Riprendo il mio posto, davanti alla signora con il bimbo che adesso dorme beato, mentre lei mi sorride che non faccio a tempo a sedermi, anche rallentato da un dolore articolare al ginocchio destro che mi è appena soggiunto e finalmente serena, si può rilassare e mi chiede:

   -  Si vede che le piacciono i bambini, magari ha anche qualche nipotino piccolo?

Mi limito a rispondere no, poi scambiamo qualche altra battuta convenzionale ma il discorso non decolla soprattutto per colpa mia. Poi finalmente mi decido a prendere uno dei due libri che ho intensamente preteso qualche ora prima e comincio a sfogliarlo. La mamma ci inserisce su un’altra domanda, magari per non concludere la nostra conoscenza così banalmente:

   - Ah, le piace leggere! Ho appena terminato un bellissimo libro di fantascienza, mi è piaciuto tanto!

Molto meglio del film! Vabbè è quasi sempre così....

   - Eliminerei il quasi… - Dico subito d'istinto, quasi quasi un po' infastidito.

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Fece tre grossi respiri e uscì dal bagno. Finse di non aver trovato nulla, che fosse tutto normale. Lo baciò sulle labbra, come ogni mattina, un bacio rapido, di cortesia. "Buon lavoro". Lo guardò allontanarsi col passo lento, quasi trascinato, e sparire dietro al portone nero. Attese, senza respirare, il motore dell’auto che si allontanava lasciandola sola e al sicuro. Fino a una settimana prima la presenza di suo marito la faceva sentire protetta, adesso la spaventava. Matteo andava a caccia, amava il senso di potere che trovava nell’imbracciare e usare un fucile, scovare una preda e decidere della sua vita. Diceva che lo avvicinava a Dio. Gliela aveva trasmessa il padre di Alice quella passione, prima che legasse con lui ne era addirittura disgustato. Ma quello che Alice aveva trovato tra i suoi trofei era uno scalpo, non erano peli di animali. Ciò nonostante, dopo la sorpresa e prima della paura, quello che aveva sentito più di tutto era delusione. Credeva che tra loro non ci fossero segreti.

Si erano conosciuti alle elementari, durante la ricreazione. Frequentavano due classi differenti perché lui era più grande di due anni. La loro scuola era molto piccola, aveva in tutto cinque classi e una sola sezione, quindi i bambini si conoscevano tutti. Fu lei a presentarsi. Lo vedeva ogni giorno starsene seduto in un angolo del giardino a guardare gli altri che giocavano. Lo chiamavano il pappagallo. Gli si avvicinò presentandosi.

"Ciao, io sono Alice".

Lui continuava a guardarsi i piedi.

"Io sono Alice, tu come ti chiami?".

"Mm-m-matteo".

"Vieni a giocare con me?". Lo prese per mano e se lo trascinò dietro, e se gli altri ridevano di lei perché giocava col balbuziente a lei non interessava.

Iniziò così la loro amicizia, e cominciarono a frequentarsi anche fuori dalla scuola. Matteo fu il primo e l'unico che Alice invitò a casa, perché si vergognava di quella piccola costruzione di mattoni con l'intonaco scrostato che cadeva a pezzi, e l'esterno era nulla in confronto alla desolazione che trovavi dentro. C'era la poltrona sformata dal culo di suo padre, con a fianco il posacenere rosa a forma di reggiseno pieno di tabacco masticato. C’era la vecchia televisione tutta scocciata e di fianco il tiro a segno, alcune freccette attaccate, altre a terra. C’era il fucile da caccia sempre poggiato sul tavolo di legno, distante qualche passo dalla poltrona. Era l’unico tavolo della casa, sul quale mangiavano a pranzo e cena, ma non importava, suo padre doveva avere sempre vicino il proprio fucile. E poi c’erano i suoi vestiti sporchi, ovunque, buttati a terra come capitava. La cameretta di Alice era uno sgabuzzino con incastrati solo il letto e un armadio a due ante. Nel piccolo spazio che rimaneva a terra lei e Matteo passavano i pomeriggi a fantasticare.

Seduto alla cattedra Matteo si godeva quegli attimi di silenzio. I suoi alunni stavano svolgendo un compito in classe. Odiava il proprio lavoro. Ripensò a come fosse finito lì. Lui e Alice stavano insieme da quindici anni e convivevano da cinque. Quella sera tornò a casa e si accorse che lei era diversa. Una vita trascorsa a osservare gli altri, in disparte, gli aveva permesso di sviluppare un'eccezionale capacità visiva: solo guardando una persona, anche pochi secondi, percepiva le sue emozioni, ne scorgeva i tratti del volto mutati; e quella sera Alice era spaventata. Aveva le sopracciglia lievemente alzate e le labbra in fuori. Proprio come stamani, rifletté. Che fosse di nuovo incinta? Ci avevano dato dentro quel mese, era possibile, ma strano che non gli avesse detto niente. Forse voleva aspettare. Aveva sofferto molto l’altra volta, quando poi aveva perso il bambino. Raccontare a tutti di un aborto spontaneo l'aveva straziata. E anche a lui era dispiaciuto, ma non poteva condividerla con nessuno. Finse gioia alla notizia di quella nascita. Su richiesta di Alice lasciò il suo lavoro precario come redattore e accettò l'incarico di docente nell’Istituto privato. Avrebbe guadagnato di più, era per il bambino, lei ripeteva. E lui l'aveva accontentata. Ma accettare quell’incarico era stato solo un diversivo, un gioco di prestigio: mentre lei gioiva per la sua accondiscendenza, lui scioglieva del veleno nella tisana, e senza macchiarsi di nulla si era disfatto del feto. Lei non lo aveva mai scoperto. Tornare a scuola, poi, dopo quel lutto così atroce, era stata una prova di coraggio e di profondo amore, ma il gioco di prestigio non si era concluso e quello che Matteo aveva creduto, che sedere su una cattedra gli avrebbe dato potere, che avrebbe stretto fra le mani le testoline di quei ragazzetti come faceva con i suoi trofei di caccia, non si era mai avverato. Entrare ogni mattina in quell'Istituto era come tornare indietro nel tempo e ridiventare il pappagallo, perché tra i colleghi professori c'era Alessandro, l'aguzzino della sua giovinezza. Era arrivato lì perché ce lo aveva piazzato il padre, ed era rimasto il solito sbruffone. Lo aveva incontrato il primo giorno del suo nuovo lavoro. Si erano incrociati nel corridoio. Matteo, il cuore che spaccava il petto, aveva finto di non riconoscerlo. Alessandro, invece, si era girato verso di lui e a voce alta aveva gridato:

"Non ci posso credere...sei davvero tu? Pappagallo? Dai, e che ci fai qui? Non mi dirai mica che sei un insegnante adesso??? T-ti cc-ci vorrà tutto il g-gg-giorno a ff-f-finire una l-lezione!". E gli diede una pacca sulla spalla. Poi ebbe la premura di presentarlo a tutti i colleghi raccontando come si erano conosciuti, lui e pappagallo.

Alice aveva veramente compreso il suo amico Matteo solo quando era entrata in quell'abitazione di via Pontichelli. Di per sé era una normale casa popolare, molti suoi compagni vivevano in luoghi simili, ciò che la turbò furono i suoi inquilini. Matteo viveva con la madre, Barbara, e una sua amica, Elena. Le stanze delle due donne erano grandi e luminose, con alte finestre. Erano arredate in maniera simile: avevano entrambe un letto matrimoniale, un grande armadio a sei ante con specchio centrale, due comodini con abat iour e uno specchio sul soffitto. La cameretta di Matteo, invece, era piccola e sembrava ricavata in quello che in origine aveva dovuto essere un ripostiglio. Aveva un letto, un armadio a tre ante e una scrivania, ma nessuna finestra. Le prime volte che vi entrò ad Alice sembrò di essere un criceto in una scatola di cartone, uno di quei contenitori angusti nei quali vengono messi quando li compri alle fiere di paese. Poi si abituò. Con il passare del tempo non fece neppure più caso ai molti uomini che si aggiravano per l'appartamento. Arrivavano, si sedevano sul divano e poi si intrufolavano nella camera di una delle due amiche. Dalla stanza di Matteo si sentiva tutto: rumori, colpi ritmici che crescevano di intensità e poi le urla, sempre uguali. A volte era la voce di Barbara a emettere un gemito, a volte quella di Elena, seguivano sempre i grugniti maschili.

Il giorno in cui Matteo conobbe la morte aveva quattordici anni. Era il compleanno di Elena, la bella amica di sua madre. Aveva passato le due settimane precedenti a intagliare nel legno il manico di un coltello, assemblandovi poi una lama. Lo aveva incartato in un foglio di quaderno e si era seduto ad aspettare che l'ultimo cliente del giorno uscisse da camera della donna. Poi si era fatto avanti.

"T-tieni questo è per te...".

"Grazie...Cos'è? Un regalo...che carino che sei...". Lo scartò.

Lui si avvicinò e le dette un bacio sulle labbra. Elena ricambiò quel bacio e infilò la sua lingua morbida nella bocca del ragazzo. Poi lo avvolse con le sue prosperose forme iniziandolo a un mondo di piacere. Lui, una volta distesi nudi nel letto, le confessò il suo amore.

"Era solo sesso...piccolo...ti ho fatto un favore, nessuna sarebbe mai venuta con uno come te...che dolce!". E iniziò a ridere fragorosamente. Quella risata acuta penetrò nelle orecchie di Matteo e arrivò fino al cervello innescando una reazione, un istinto primordiale. Afferrò il coltello e trafisse il corpo di lei più volte fino a che l'adrenalina non si affievolì e lui ritornò ad essere il quieto Matteo, il pappagallo. Elena non venne più nominata. E qualche tempo dopo una certa Gina prese il suo posto.

Alice si mise a cercare indizi nella camera da letto. Il pulsare del sangue era così forte che le rimbombava nel cervello, ma doveva concentrarsi e rimettere tutto nell'esatto modo in cui lui l'aveva trovato. Col cellulare fotografava ogni cosa prima di spostarla e poi ricomponeva il puzzle con attenzione. Le mani le tremavano, ma doveva sapere. Stava frugando nel cassetto dei calzini quando trovò una foto, ma era solo il ritratto di sua suocera: Barbara che sorrideva abbracciata a Matteo. L’aveva già vista mille volte e si domandava sempre in quale occasione avesse dato prova di tanta maternità, lei che lo aveva sempre considerato un ritardato. Quando ancora erano ragazzini l’aveva vista sputargli in faccia e urlargli che era un buono a nulla, come suo padre. “Almeno lui ha avuto il buon gusto di andarsene, tu invece stai qui con quell'aria da fesso a farti mantenere!". Solo perché aveva sbagliato a prepararle il caffè. Veniva picchiato o insultato almeno una volta al giorno, quando sua madre era di buon umore. Alice ripensò a quante volte Matteo avesse provato a fare colpo su quella donna, ad avere un legame con lei, senza mai riuscirci, tranne, evidentemente, in occasione di quella foto.

Si sedette sul letto e scrutò l’immagine da vicino cercando di carpire dove fosse stata scattata e quando. Riconobbe la casetta in legno alle loro spalle, gliela aveva lasciata sua madre. Si alzò di scatto e con ancora le mani tremanti rimise la foto quasi al proprio posto.

Alice era sempre stata una ragazzina socievole che coltivava molte amicizie, ma quando aveva incontrato Matteo, che si era insinuato nella sua vita come un piccolo corso d'acqua, e giorno dopo aveva scavato il proprio percorso spazzando via tutto ciò che lo intralciava, aveva lasciato che lui la allontanasse dai propri amici. Lo aveva fatto con apparente dolcezza, brandendo come lama il suo apparente amore. Anche più tardi, quando c'erano stati i primi episodi di violenza, aveva sempre usato quella scusa: non riusciva a controllarsi da quanto la amava. E lei ci aveva creduto, lo aveva giustificato, all'uomo poteva scappare qualche ceffone, lo aveva già vissuto in casa da bambina, ciò che contava era il resto del tempo, quando lui era calmo e la trattava come una signora.

Era una rosa sotto un vetro, non poteva lavorare né uscire da sola, ma era il prezzo dell'amore.

Alice, quella sera, lo aveva pregato di fare una gita nel bosco, l'indomani. Voleva andare alla piccola dimora di montagna, quella che gli aveva lasciato sua madre. Era una donna determinata la sua Alice, aveva già preparato tutto, e lui non aveva potuto negarle quella piccola fuga. Prima di coricarsi, però, aveva notato dentro il cassetto la foto fuori posto. Niente di strano se lei avesse aggiunto dei calzini, ma erano gli stessi dodici che c'erano la mattina quando si era vestito. Quell'istantanea gli ricordava un evento speciale. Lui e sua madre, di notte, avevano camminato per ore nel bosco, sulle spalle un lungo e pesante sacco, sui sessanta chili, nella sua mano una torcia, in quella della donna una pala. Avevano poi scavato, arrivati al posto giusto, e sotterrato quel segreto di nome Elena. Si erano poi coricati nella baracca di montagna, di loro proprietà da varie generazioni, e l'indomani Barbara aveva voluto scattare una foto, orgogliosa. Matteo controllò sua moglie, era ancora sul divano a guardare un programma in televisione, e andò ad aprire il suo nascondiglio. C'era qualcosa di strano in lei, che avesse scoperto tutto? Ne ebbe la conferma nell'istante in cui guardò i suoi trofei di caccia: i capelli erano stati spostati.

Alice seguiva Matteo lungo il sentiero cercando di memorizzare il percorso, ma non era facile: non aveva mai avuto un buon orientamento. La paura del giorno precedente aveva lasciato il posto alla curiosità, molte domande le risuonavano nella testa. Era tutto frutto della sua fantasia? No, i capelli erano veri, li aveva toccati con le sue stesse mani. Vagarono per quasi venti minuti nel bosco, in un tratto non segnalato, per raggiungere la casa. Non sapeva neanche lei cosa si aspettava di trovarvi, ma sentiva che quel posto nascondeva qualche segreto. Quando varcarono la soglia un forte odore di chiuso e muffa le penetrò nelle narici. Salì al piano superiore, quello della camera, e aprì le finestre, qualche minuto, giusto per far circolare l'aria. Matteo la aiutò a scoprire il letto dal telo di plastica e a prendere le lenzuola pulite. Poi uscirono fuori a godersi il panorama. Matteo si mise al suo fianco e le cinse la vita, si baciarono. Alice poi, con la scusa di dover cucinare, rientrò in casa. Aprì il frigo e vi trovò della carne. La prese, ma suo marito la fermò subito: era il cibo per i cani. Strano, a casa non mangiavano mai carne, lui non voleva, gli rifilava sempre quelle crocchette del supermercato dicendo che era quello il loro cibo. Forse era carne scaduta. Più tardi, mentre Matteo dormiva, si alzò dal letto, tornò in cucina, si avvicinò al frigo e aprì il contenitore. Notò, tra quei pezzi di carne, quello che era di sicuro un dito umano. Si precipitò fuori, al freddo, e iniziò a vomitare, prima di svenire. Quando riprese conoscenza era di nuovo in casa e Matteo la stava legando alle sponde del letto. Per un istante i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di sorpresa, poi ricordò tutto.

"Volevi sapere...ecco ti mostro cosa facevo a quelle donne...avrai lo stesso trattamento...".

"Ma...perché? Chi erano? Quando è iniziata questa storia? È colpa mia?".

E mentre le tagliava via i vestiti di dosso, iniziò a raccontare: "Non è colpa tua, non lo è mai stato. Tu mi hai salvato, però non dovevi intrometterti, non dovevi curiosare...vuoi sapere come è iniziato tutto questo? La prima è stata Elena. Te la ricordi? Mi aveva preso per il culo con i suoi modi affettuosi, ma l'ha pagata. Poi, circa un anno fa, giravo di sera per il centro e mi vidi passare accanto una donna molto simile a lei. Sul momento pensai di avere di fronte proprio Elena. Incuriosito la seguii fino al locale ed entrai. Dopo poco mi accorsi che era un'altra persona, ma qualcosa dentro di me si era riacceso, avevo provato nuovamente il senso di potere che si sperimenta rubando una vita, e mi piaceva. A lavoro ero divenuto lo zimbello di tutti, i miei alunni non mi ascoltavano, lanciavano le sedie in aula durante le mie lezioni, mi deridevano. Avevo bisogno di amplificare il potere che mi dava la caccia. Alla fine anche noi siamo animali, giusto?". La violentò selvaggiamente, proprio come aveva fatto con le altre, niente sconti. E di nuovo svenne.

Al secondo risveglio era libera, ma nuda e in mezzo al bosco. Avrebbe voluto piangere e chiamare aiuto, ma non c'era nessuno. Prese a correre cercando di non sentire i tagli che le si stavano formando sotto i piedi, di non tremare per il freddo, cercò di sopravvivere. Aveva paura, ma combatté fino alla fine.

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UNO

C’è qualcosa che non va. Anzi, non c’è niente che torna. Mi deve essere sfuggito il filo che teneva insieme cuore e cervello e adesso ciao, non riesco più né a riprenderlo, né a districarlo, né tanto meno a buttar via l’intero groviglio. Ho quella dannata sensazione di essermi introdotta in una stanza rotonda con il preciso intento di mettermi a sedere in un angolo. Che idiota, come ho potuto cascarci di nuovo? Mi faccio quasi compassione, qui appallottolata sulla poltrona a guardare un film che sembra raccontare la storia della mia vita. Possibile che ci si riveda tanto spesso nei film? Siamo davvero così banalmente tutti uguali? Forse sì. Eppure Ramiro no, lui non è uguale a nessuno. Anzi, è talmente fuori dal comune - o fuori di testa - che non saprei nemmeno bene come descriverlo. Un malandrino, ecco cos’è, che si sta prendendo tutto lo spazio nelle mie giornate senza lasciare impronte del suo passaggio, come se non esistesse. Bell’affare davvero, brava Tessa, la tua vita è quasi più patetica di questo film strappalacrime.

Meno male che ogni tanto c’è lo stacco pubblicitario a sdrammatizzare: merendine sane, creme miracolose e automobili superveloci da pagare in comode rate; l’occasione perfetta per andarmene in cucina ad arraffare un po’ di biscotti al cioccolato. No, decisamente così non si può andare avanti; ma non si può nemmeno tornare indietro. Dannazione.

Mollalo. Sprechi il tuo tempo. Esci con qualcun altro. Tutti saggi i miei amici: facile giocare al buon consigliere coi miei di problemi. La verità è che una volta che abbiamo attraversato di corsa un prato ricoperto di neve fresca non possiamo ripensarci tornare indietro e sperare di ritrovare il prato immacolato: le impronte di noi tutti restano lì a ricordarci la precisa traiettoria della corsa, fa eccezione solo Ramiro? Non siamo cassette musicali, non si può riavvolgere il nastro e aspettarsi di riascoltare la stessa canzone. Nella vita il tasto rewind non è previsto. C’è una sola opzione obbligata: l’effetto palla di neve, che rotola sempre più giù tirandosi dietro sbagli, dolori, fili ingarbugliati e molto altro. Alla fine della discesa ciò che potremo ascoltare sarà talmente diverso dalla maledetta canzoncina iniziale, che faremo quasi fatica a riconoscerla.

DUE

Alle 21.45 Edo saltò giù dal treno con l’agilità di un’otaria e trotterellò rapidamente verso l’uscita della stazione, il cappuccio della giacca bordato di pelo a coprirgli la faccia facendolo somigliare a un eschimese. Pioveva, faceva freddo e non aveva ancora avuto nemmeno tempo di mangiare qualcosa. Scese le scale della metro e il cellulare iniziò a suonare. Tentò di rispondere senza smettere di camminare e senza posare né l’ombrello, né i tre libri che stringeva sottobraccio. Lo zaino gli s’impigliò nel corrimano e gli fece perdere l’equilibrio, ma riuscì a non cadere.

“Pronto. Sì sono io. Mh. Va bene non si preoccupi, contatto il professore domani in mattinata. No, nei prossimi giorni sarò all’estero, potremmo organizzare un incontro verso metà della settimana prossima. Perfetto. La ringrazio. Ci sentiamo domani per definire il tutto. Buona serata”.

Nel frattempo era riuscito a salire sul metrò senza sbagliare direzione, aveva trovato un posto a sedere, e già si apprestava a fare una nuova telefonata per risolvere quella nuova questione. Si chiese come mai il suo cellulare funzionasse anche lì, nelle viscere della terra, mentre sua sorella ovunque si trovasse non riusciva mai a fare una chiamata senza che cadesse la comunicazione. Da quando si era trasferito a Roma si vedevano di rado e la cosa pesava a entrambi. Lei era petulante e polemica, ma gli parlava di ogni cosa e vedeva in lui un punto fisso nella sua vita traballante. Lui la adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per supportarla nelle sue volubili e folli iniziative. Il loro rapporto poteva riassumersi con un “mi appoggio a te così intanto ti sorreggo” e la lontananza geografica era chiaramente un ostacolo molesto. Edo, il cellulare all’orecchio, si rosicchiò un’unghia nervosamente mentre pensava che stava perdendo il controllo della situazione: non sapeva nemmeno più con chi stesse uscendo sua sorella. La frenata brusca e il rumoroso aprirsi delle porte della metropolitana scacciarono il moto di gelosia, che già stava affiorando, e ritornato quello di prima uscì spedito dal convoglio, sbadigliando sia per la fame sia per il sonno. E dimenticando l’ombrello sul sedile. Quando riuscì a ricordarsi la strada e imboccò il vialetto che conduceva al portone erano quasi le 23.00. Speriamo bene, pensò mentre suonava il campanello.

TRE

Quando Ramiro spense il computer e guardò l’orologio gli venne un colpo: non aveva cenato, non era andato a giocare a tennis, non aveva chiamato Tessa per il loro rituale aperitivo sul fiume - estate e inverno, tanto il fiume è sempre bello, e guarda come siamo fortunati ad avere questa bella vista gratis - insomma il tempo era volato. Almeno era riuscito a rimettere a posto le foto dell’ultimo viaggio e aveva quasi ultimato la presentazione per la promozione del suo prossimo tour-avventura, doveva solo rivedere il discorso. Si grattò la testa già spettinata peggiorando l’effetto scienziato pazzo e si alzò dalla scrivania.

Potrei mangiare qui in ufficio già che ci sono, devo avere qualcosa nel frigo. No, magari chiamo Simon e passo da lui per qualche dolcetto di quelli che fa sua mamma, buonissimi. Chissà se Tessa è rimasta a casa visto che non l’ho chiamata? Domani ho il volo per andare a discutere il nuovo progetto e non l’ho nemmeno avvertita.

Non si chiedeva spesso cosa facesse quella ragazza, così aperta e chiusa allo stesso tempo, quella strana ragazza capace di non fare domande quando urge una risposta e con il singolare potere di ottenere risposte senza domandare nulla. Non se lo chiedeva perché non ne aveva il diritto, se ne rendeva conto da solo, ma in fondo avrebbe voluto saperlo. Lei sembrava non arrabbiarsi mai, ma soffriva parecchio a causa sua. Forse non era ancora andata a dormire, avrebbe potuto passare per un saluto, le avrebbe di certo fatto piacere. Uscì dall’edificio, sorrise, e si incamminò a piedi per prendere il treno che portava in città.

QUATTRO

Ma chi diavolo suona alla porta, a quest’ora, senza avvertire? Il principe azzurro non credo, anche se dopo quel film ci starebbe bene. Che tanto, Tessa, a te i principi azzurri non piacciono, a cosa ti serve aspettarli  se poi li mandi via? Un cavaliere nero magari, ma già non se ne trovano di cavalieri, figuriamoci neri. Tutti di un grigio topo sbiadito che fanno passare la voglia ancor prima che ti venga.

Brava Tessa, brava, alla larga i principi azzurri, via i cavalieri grigi, non ti resta che lanciarti tra le braccia degli squilibrati, ottima scelta. Ma chi sarà alle undici di sera? Ramiro non si presenta mai all’improvviso, più propriamente non si presenta e basta, bisogna andare a recuperarlo chissà dove se si vuole avere il piacere di vederlo. Magari mi ha fatto una sorpresa, magari gli è successo qualcosa - ma avrebbe telefonato, no, non può essere lui, stasera sarà uscito con un’altra. Forse è solo lo scherzo di qualche ragazzino, lo facevo anch’io da piccola.

Fammi vedere che faccia ho, ecco i soliti capelli da strega, dannazione c’è un motivo se odio le visite a sorpresa, spero solo che non sia di nuovo il vicino con la scusa che ha perso il gatto perché stasera non sono proprio in vena. Ma dove diavolo sono le chiavi? Questo posto si mangia le cose, le fa sparire e poi le risputa quando ormai non servono più. O peggio, quando le ho già rimpiazzate. Ah eccole, giuro che se è il vicino … EDO! E TU COSA CI FAI QUI?

“Ah, meno male che sei a casa, mi si è cancellata un’altra volta la rubrica del cellulare, non ricordo il tuo numero a memoria e non sapevo come avvertirti. Ho fatto scalo all’aeroporto, ma ho perso la coincidenza, cerco di partire con il primo volo di domani perché devo essere in università in mattinata a tutti i costi, poi c’è il benedetto articolo che sto scrivendo con il professore della mia tesi, ti ricordi che te ne ho parlato no? Ho la scadenza tra due giorni e mi mancano ancora tutte le conclusioni. Fa un freddo cane e mi sono pure bagnato i piedi, uffa mi vien già da starnutire, meno male che ci sei, ma dove ho lasciato il mio ombrello?”

CINQUE

A metà strada tra l’ufficio e la stazione Ramiro si ricordò di avere lasciato gli appunti e la documentazione del nuovo progetto a casa del suo collega e amico Lucio. Doveva assolutamente recuperare quel materiale. Ma dove aveva la testa? Certi errori non li commetteva nemmeno da giovane; forse era proprio perché stava invecchiando che succedevano cose del genere, la troppa sicurezza non aiuta. Sorpresa a Tessa rimandata. Girò sui tacchi e si diresse spedito a casa di Lucio, in cima alla collina, circondata da un bosco dove non arrivava neppure la strada asfaltata.

Lassù c’era una vista spettacolare: le luci della città brillavano tremolanti e lontane, con la montagna alle spalle. Spesso si trovavano lì quando avevano scadenze che li costringevano a fare gli straordinari. Lucio era un tipo silenzioso, gentile e intelligente, privo di difetti, ma non affascinante. Anche Tessa lo conosceva e pensava che fosse il fidanzato ideale per qualsiasi ragazza - quindi anche per lei - poi però tornava a casa con Ramiro, che ascoltava poco, parlava tanto, assomigliava a un selvaggio ed era sfuggente.

Arrivato da Lucio, Ramiro ne approfittò per stampare il biglietto elettronico e fare il check-in on line, così da evitare la fila il giorno dopo, e tra una chiacchiera e l’altra tornò a casa a mezzanotte passata. Si dispiacque per non avere visto Tessa, ma non si può sempre fare tutto.

SEI

“Tu rifiuti di vedere le cose dal mio punto di vista, ovvio che non ci capiamo”.

“C’è poco da capire Tessa, a me dispiace solo vedere che stai male e che ti racconti una storia assurda per dimostrare a te stessa che sei contenta”.

“Forse hai ragione, sono patetica. Però penso veramente che dobbiamo imparare a prendere dalle persone quello che possono offrirci senza tentare di ottenere ciò che non sanno, o non vogliono darci!”

Ogni volta la stessa storia, mio fratello è tanto caro ma certe cose non c’è verso di fargliele capire; lui deve sempre pensare male, che nervoso. Per me invece è il contrario, ogni brandello di positività che si possa scovare nella gente va apprezzato per ciò che è, e bisognerebbe anche farselo bastare. Certo, poi spesso va a finire che sì, cogli una nota positiva da uno, una nota positiva dall’altro, e anche un bel concertone di note negative da tutti quanti, ma ne vale comunque la pena, o no? Insomma se uno è bravo in matematica ma è una schiappa in italiano, storia e geografia, probabilmente verrà bocciato e tutti penseranno che è un asino, ma se era bravo in matematica, perché dimenticarsene?

Forse però dovrei essere un po’ meno indulgente, questo devo ammetterlo. Diciamo pure un po’ meno stupida, dai. Se mi fossi lasciata scoraggiare di più da tutte le bassezze di Ramiro probabilmente la mia vita sentimentale sarebbe stata più semplice.

Ho sempre creduto che essendo esigenti e selettivi si rischiasse di rinchiudersi nella propria intransigenza, fermi a guardare il mondo da una finestrella che ci restringe inesorabilmente la visuale, e così mi ostino a giustificare qualsiasi cosa le persone mi facciano, con una tolleranza che nemmeno io so bene da dove venga. Ramiro è solo l’ultimo gradino di una lunga scala che si ricongiunge con se stessa come un otto volante. Con persone come lui si può resistere solo se capaci di apprezzare il viaggio, o una tratta di esso, senza pensare alla meta, e soprattutto senza pensare a cosa fare una volta arrivati.

“Capisci Edo? Lui è così, ma non è cattivo. Cioè, sono sicura che è convinto di volermi bene, ci tiene a me, solo che è impossibile pensare di costruirci qualcosa insieme e allora tutti ne deducono che sia uno stronzo e basta. Non è vero, ha un sacco di qualità positive, mi devi credere, altrimenti non ci uscirei, non sono proprio così cretina. Hai capito cosa intendo dire?”

Lo so che non capisce e non ha nessuna intenzione di sforzarsi. Ramiro a lui non piace anche se non l’ha mai visto, e il fatto che io gli corra dietro come un cocker scodinzolante, leccandogli pure le mani quando si degna di portarmi a fare una passeggiata, lo manda su tutte le furie.

“Sì, sì Tessa, come no. Hai una capacità strabiliante di indorarti la pillola. A me sembra tutto molto più semplice, e cioè che hai tra le mani un maschilista, egoista, infantile e playboy che approfitta del fatto che al mondo esistano ancora delle rimbambite come te, che si raccontano le favole da sole, e mentre lui ti usa, tu gli faciliti pure il compito facendogli credere che per te vada tutto bene”.

SETTE

Il primo aereo della mattina era alle 6.30, presto, prestissimo, soprattutto per uno come Edo che sembrava avere dei ghiri tra i suoi lontani discendenti. Quella mattina riuscì ad alzarsi, vestirsi e farsi trasportare all’aeroporto senza nemmeno svegliarsi del tutto. Lo faceva da quando era piccolo, apriva gli occhi a metà e si trascinava come un automa, neanche fosse in sonnambula. Tessa mal sopportava quel comportamento, ma le sue frecciate non erano mai riuscite a cambiare la situazione. Così alle sei in punto Tessa, sveglissima, scaricò all’aeroporto il fratello addormentato e se ne tornò alla lunga giornata frenetica che l’avrebbe attesa.

L’imbarco iniziò in orario, Edo mostrò la sua carta senza aprire la seconda metà degli occhi, trovò il suo posto accanto al finestrino e in pochi secondi dormiva di nuovo come se non si fosse mai mosso dal letto.

Poco dopo il decollo il suo sonno fu disturbato dalla voce gracchiante del capitano che dava il benvenuto a bordo e pubblicizzava i prodotti in vendita durante il volo. Maledette low cost, sembrava di stare al mercato. Sbadigliò con la bocca spalancata e pensò che sua sorella l’avrebbe sgridato. Per fortuna non era lì. Il suo vicino di posto stava leggendo una rivista scientifica, ma continuava a passare da un articolo all’altro senza concentrarsi su niente in particolare. Magari ha paura di volare, pensò con aria già meno assonnata. Se un minuto prima avrebbe potuto essere scambiato per una specie di panda in letargo, ora l’opportunità di intavolare un qualsiasi discorso con un perfetto sconosciuto l’aveva svegliato.

“Scusi, ha per caso sentito quanto durerà il volo? Ho un appuntamento alle 11.00 e non vorrei arrivare in ritardo, già ho perso l’aereo di ieri sera, meno male che mia sorella mi ha ospitato per stanotte…”

“No non ho sentito, ma di solito questo volo dura circa un’ora e mezza, lo prendo spesso per lavoro. Tu sei in viaggio di lavoro o di piacere?”

No, non sembrava aver paura di volare, ma era comunque amichevole. Edo aveva la tendenza a intrattenere discorsi con chiunque e appena ne aveva l’occasione non esitava a lanciarsi in lunghi monologhi, durante i quali a volte era davvero difficile non perdere il filo. Lo sconosciuto, però, ascoltò la storia dei suoi viaggi per un minuto scarso e poi lo interruppe con una domanda che non aveva alcun nesso con l’argomento: “Tu credi esistano altre forme di vita nell’universo? Stavo leggendo qui le varie ipotesi che negano la presenza di extraterrestri, ma io non sono tanto convinto”.

“Ehm, a essere sincero non ci ho mai pensato”. Balbettò Edo a disagio. Odiava addentrarsi in conversazioni in cui non si sentisse il più ferrato in materia, ma ricorrendo alla sua capacità di cadere sempre in piedi aggiunse: “Non so se gli extraterrestri esistano, ma spero proprio di sì. Magari tra le ragazze marziane potrei incontrare una fidanzata adatta a me, visto che le terrestri sembrano non apprezzarmi abbastanza”.

Non credeva minimamente a quell’idiozia, ma era soddisfatto per aver riportato il discorso su un terreno più neutrale. L’altro lo guardò serio, fissandolo con due occhi così scuri che era impossibile distinguere la pupilla dall’iride. Un’espressione indefinita, a metà tra la curiosità e la rassegnazione, un’espressione estremamente vivace ma in fondo triste. E poi, inaspettatamente, cominciò a parlare.

“Extraterrestri…di solito intendiamo omini verdi che viaggiano su dischi volanti, per forza ci riesce difficile credere alla loro esistenza. Prendi invece una formica, che vive nel tuo giardino e non andrà mai molto più lontano: per lei l’universo è il giardino, i fili d’erba saranno i paesi, le foglie  le città e gli alberi che ne so, forse i grandi raccordi anulari. La formica non si pone certo il problema che vi possa essere un mondo al di là del suo. Per noi umani però il giardino è solo una minuscola parte di tutto ciò che chiamiamo universo. Per la piccola formica noi siamo gli extraterrestri, enormi e venuti da chissà dove. Eppure il nostro mondo è lo stesso della formica, solo che lei non lo sa e ne esplora solo una minima parte. E allora non potrebbero esistere degli altri esseri in giro, diversi da noi, che non potremmo riconoscere come appartenenti al nostro mondo per lo stesso motivo per il quale la formica non può riconoscere noi?

Pensa alle bamboline Matrioske: la bambola più grande ha percezione di tutte le altre, mentre la più piccola ha percezione solo di se stessa. E non parlo unicamente in termini di dimensioni; parlo anche dell’incapacità di riconoscere l’essenza dell’altro, confondendolo con qualcosa che ci fa più comodo vedere. I così detti extraterrestri potrebbero essere il vicino di casa, il collega, il barista, chiunque. Alieno non è necessariamente qualcuno che viene da fuori, può essere benissimo qualcuno che non si trova tanto bene dentro. Come me. Io mi sento extraterrestre, non perché vengo da un altro pianeta, ma perché vivo questo pianeta in un modo diverso. Ho cercato di spiegarlo alle persone, ma tutti invece di capire hanno cominciato a pensare che ero matto; ovvio eh, per la gente è più comodo trovare una spiegazione come la follia piuttosto che mettere in discussione le proprie convinzioni. 

E’ raro che qualcuno resista alla tentazione di provare a farmi tornare “normale”. Si avvicinano in tanti, curiosi. E poi si allontanano poco dopo, frastornati dalle mie strane abitudini e incapaci di conciliare le reciproche differenze. Chissà perché, fanno tutti fatica ad avere un rapporto continuativo con me e poco a poco mi sono convinto che nemmeno io desidero nulla di più. Alieno anche ai rapporti soffocanti dunque, meglio avere più alternative. Se non mi vedo con una persona ne contatto un’altra, difficilmente resto solo. E’ comodo questo metodo, funziona. La fregatura però c’è, il rapporto con gli altri non è mai vero del tutto. Extraterrestre, già me ne stavo dimenticando.

La ragazza marziana che cerchi io credo di averla trovata sai? E’ un po’ aliena anche lei, ha i piedi per terra ma la testa no, quella ce l’ha tra le nuvole. La conosco da parecchio tempo e all’inizio avrei giurato che avrebbe seguito lo stesso percorso di tutti, curiosità-novità-insofferenza-allontanamento. Invece no, ha deciso da sola se poteva o meno sopportare certe cose, spesso si fa delle domande ma trova le sue risposte senza coinvolgermi. Mi ha visto, mi ha seguito un po’ da lontano in modo da poter sempre scappare, e non ha mai cercato di farmi diventare altro. Qualche volta mi sgrida, ma se lo fa è perché ha già deciso di passarci sopra e lo fa con il sorriso. Quando è davvero arrabbiata nemmeno mi vuole vedere, perché sa che non si può cancellare quello che l’ha ferita e sa che io non sono abituato a chiedere scusa. Vedi? Non è una tipica terrestre, anche se lei come me non viene da nessun’altra galassia.

Quando un alieno incontra un altro alieno accadono cose strane. Mi sono accorto che mi stavo perdendo tante cose, della marziana e anche di tutti i terrestri. Forse potrei essere migliore, ma non riesco a lasciare la sicurezza delle vie di mezzo. Viaggiare su un treno è rassicurante, incontri tanta gente che sale e che poi scende e infine sparisce. Io in genere viaggio così, anche se so che salire su un taxi con un solo compagno di viaggio e arrivare esattamente dove si vuole sarebbe molto diverso.  A volte mi sorprendo a comportarmi come una persona comune, ma dura sempre poco. Per fortuna la marziana non mi fa mai vedere la delusione nei suoi occhi, così continuo a fare male un po’ a me e un po’ a lei. E intanto aspetto che si stanchi e sparisca. Per lei sarebbe decisamente meglio se si stancasse, ma io non riuscirei mai a mandarla via prima del tempo.

Mi piacerebbe presentartela, ti troverebbe simpatico. Si chiama Tessa e guardandoti bene addirittura un pochino vi somigliate”.

 

Debora Gatelli – La vita segreta delle parole

UNO

C’è qualcosa che non va. Anzi, non c’è niente che torna. Mi deve essere sfuggito il filo che teneva insieme cuore e cervello e adesso ciao, non riesco più né a riprenderlo, né a districarlo, né tanto meno a buttar via l’intero groviglio. Ho quella dannata sensazione di essermi introdotta in una stanza rotonda con il preciso intento di mettermi a sedere in un angolo. Che idiota, come ho potuto cascarci di nuovo? Mi faccio quasi compassione, qui appallottolata sulla poltrona a guardare un film che sembra raccontare la storia della mia vita. Possibile che ci si riveda tanto spesso nei film? Siamo davvero così banalmente tutti uguali? Forse sì. Eppure Ramiro no, lui non è uguale a nessuno. Anzi, è talmente fuori dal comune - o fuori di testa - che non saprei nemmeno bene come descriverlo. Un malandrino, ecco cos’è, che si sta prendendo tutto lo spazio nelle mie giornate senza lasciare impronte del suo passaggio, come se non esistesse. Bell’affare davvero, brava Tessa, la tua vita è quasi più patetica di questo film strappalacrime.

Meno male che ogni tanto c’è lo stacco pubblicitario a sdrammatizzare: merendine sane, creme miracolose e automobili superveloci da pagare in comode rate; l’occasione perfetta per andarmene in cucina ad arraffare un po’ di biscotti al cioccolato. No, decisamente così non si può andare avanti; ma non si può nemmeno tornare indietro. Dannazione.

Mollalo. Sprechi il tuo tempo. Esci con qualcun altro. Tutti saggi i miei amici: facile giocare al buon consigliere coi miei di problemi. La verità è che una volta che abbiamo attraversato di corsa un prato ricoperto di neve fresca non possiamo ripensarci tornare indietro e sperare di ritrovare il prato immacolato: le impronte di noi tutti restano lì a ricordarci la precisa traiettoria della corsa, fa eccezione solo Ramiro? Non siamo cassette musicali, non si può riavvolgere il nastro e aspettarsi di riascoltare la stessa canzone. Nella vita il tasto rewind non è previsto. C’è una sola opzione obbligata: l’effetto palla di neve, che rotola sempre più giù tirandosi dietro sbagli, dolori, fili ingarbugliati e molto altro. Alla fine della discesa ciò che potremo ascoltare sarà talmente diverso dalla maledetta canzoncina iniziale, che faremo quasi fatica a riconoscerla.

DUE

Alle 21.45 Edo saltò giù dal treno con l’agilità di un’otaria e trotterellò rapidamente verso l’uscita della stazione, il cappuccio della giacca bordato di pelo a coprirgli la faccia facendolo somigliare a un eschimese. Pioveva, faceva freddo e non aveva ancora avuto nemmeno tempo di mangiare qualcosa. Scese le scale della metro e il cellulare iniziò a suonare. Tentò di rispondere senza smettere di camminare e senza posare né l’ombrello, né i tre libri che stringeva sottobraccio. Lo zaino gli s’impigliò nel corrimano e gli fece perdere l’equilibrio, ma riuscì a non cadere.

“Pronto. Sì sono io. Mh. Va bene non si preoccupi, contatto il professore domani in mattinata. No, nei prossimi giorni sarò all’estero, potremmo organizzare un incontro verso metà della settimana prossima. Perfetto. La ringrazio. Ci sentiamo domani per definire il tutto. Buona serata”.

Nel frattempo era riuscito a salire sul metrò senza sbagliare direzione, aveva trovato un posto a sedere, e già si apprestava a fare una nuova telefonata per risolvere quella nuova questione. Si chiese come mai il suo cellulare funzionasse anche lì, nelle viscere della terra, mentre sua sorella ovunque si trovasse non riusciva mai a fare una chiamata senza che cadesse la comunicazione. Da quando si era trasferito a Roma si vedevano di rado e la cosa pesava a entrambi. Lei era petulante e polemica, ma gli parlava di ogni cosa e vedeva in lui un punto fisso nella sua vita traballante. Lui la adorava e avrebbe fatto qualsiasi cosa per supportarla nelle sue volubili e folli iniziative. Il loro rapporto poteva riassumersi con un “mi appoggio a te così intanto ti sorreggo” e la lontananza geografica era chiaramente un ostacolo molesto. Edo, il cellulare all’orecchio, si rosicchiò un’unghia nervosamente mentre pensava che stava perdendo il controllo della situazione: non sapeva nemmeno più con chi stesse uscendo sua sorella. La frenata brusca e il rumoroso aprirsi delle porte della metropolitana scacciarono il moto di gelosia, che già stava affiorando, e ritornato quello di prima uscì spedito dal convoglio, sbadigliando sia per la fame sia per il sonno. E dimenticando l’ombrello sul sedile. Quando riuscì a ricordarsi la strada e imboccò il vialetto che conduceva al portone erano quasi le 23.00. Speriamo bene, pensò mentre suonava il campanello.

TRE

Quando Ramiro spense il computer e guardò l’orologio gli venne un colpo: non aveva cenato, non era andato a giocare a tennis, non aveva chiamato Tessa per il loro rituale aperitivo sul fiume - estate e inverno, tanto il fiume è sempre bello, e guarda come siamo fortunati ad avere questa bella vista gratis - insomma il tempo era volato. Almeno era riuscito a rimettere a posto le foto dell’ultimo viaggio e aveva quasi ultimato la presentazione per la promozione del suo prossimo tour-avventura, doveva solo rivedere il discorso. Si grattò la testa già spettinata peggiorando l’effetto scienziato pazzo e si alzò dalla scrivania.

Potrei mangiare qui in ufficio già che ci sono, devo avere qualcosa nel frigo. No, magari chiamo Simon e passo da lui per qualche dolcetto di quelli che fa sua mamma, buonissimi. Chissà se Tessa è rimasta a casa visto che non l’ho chiamata? Domani ho il volo per andare a discutere il nuovo progetto e non l’ho nemmeno avvertita.

Non si chiedeva spesso cosa facesse quella ragazza, così aperta e chiusa allo stesso tempo, quella strana ragazza capace di non fare domande quando urge una risposta e con il singolare potere di ottenere risposte senza domandare nulla. Non se lo chiedeva perché non ne aveva il diritto, se ne rendeva conto da solo, ma in fondo avrebbe voluto saperlo. Lei sembrava non arrabbiarsi mai, ma soffriva parecchio a causa sua. Forse non era ancora andata a dormire, avrebbe potuto passare per un saluto, le avrebbe di certo fatto piacere. Uscì dall’edificio, sorrise, e si incamminò a piedi per prendere il treno che portava in città.

QUATTRO

Ma chi diavolo suona alla porta, a quest’ora, senza avvertire? Il principe azzurro non credo, anche se dopo quel film ci starebbe bene. Che tanto, Tessa, a te i principi azzurri non piacciono, a cosa ti serve aspettarli  se poi li mandi via? Un cavaliere nero magari, ma già non se ne trovano di cavalieri, figuriamoci neri. Tutti di un grigio topo sbiadito che fanno passare la voglia ancor prima che ti venga.

Brava Tessa, brava, alla larga i principi azzurri, via i cavalieri grigi, non ti resta che lanciarti tra le braccia degli squilibrati, ottima scelta. Ma chi sarà alle undici di sera? Ramiro non si presenta mai all’improvviso, più propriamente non si presenta e basta, bisogna andare a recuperarlo chissà dove se si vuole avere il piacere di vederlo. Magari mi ha fatto una sorpresa, magari gli è successo qualcosa - ma avrebbe telefonato, no, non può essere lui, stasera sarà uscito con un’altra. Forse è solo lo scherzo di qualche ragazzino, lo facevo anch’io da piccola.

Fammi vedere che faccia ho, ecco i soliti capelli da strega, dannazione c’è un motivo se odio le visite a sorpresa, spero solo che non sia di nuovo il vicino con la scusa che ha perso il gatto perché stasera non sono proprio in vena. Ma dove diavolo sono le chiavi? Questo posto si mangia le cose, le fa sparire e poi le risputa quando ormai non servono più. O peggio, quando le ho già rimpiazzate. Ah eccole, giuro che se è il vicino … EDO! E TU COSA CI FAI QUI?

“Ah, meno male che sei a casa, mi si è cancellata un’altra volta la rubrica del cellulare, non ricordo il tuo numero a memoria e non sapevo come avvertirti. Ho fatto scalo all’aeroporto, ma ho perso la coincidenza, cerco di partire con il primo volo di domani perché devo essere in università in mattinata a tutti i costi, poi c’è il benedetto articolo che sto scrivendo con il professore della mia tesi, ti ricordi che te ne ho parlato no? Ho la scadenza tra due giorni e mi mancano ancora tutte le conclusioni. Fa un freddo cane e mi sono pure bagnato i piedi, uffa mi vien già da starnutire, meno male che ci sei, ma dove ho lasciato il mio ombrello?”

CINQUE

A metà strada tra l’ufficio e la stazione Ramiro si ricordò di avere lasciato gli appunti e la documentazione del nuovo progetto a casa del suo collega e amico Lucio. Doveva assolutamente recuperare quel materiale. Ma dove aveva la testa? Certi errori non li commetteva nemmeno da giovane; forse era proprio perché stava invecchiando che succedevano cose del genere, la troppa sicurezza non aiuta. Sorpresa a Tessa rimandata. Girò sui tacchi e si diresse spedito a casa di Lucio, in cima alla collina, circondata da un bosco dove non arrivava neppure la strada asfaltata.

Lassù c’era una vista spettacolare: le luci della città brillavano tremolanti e lontane, con la montagna alle spalle. Spesso si trovavano lì quando avevano scadenze che li costringevano a fare gli straordinari. Lucio era un tipo silenzioso, gentile e intelligente, privo di difetti, ma non affascinante. Anche Tessa lo conosceva e pensava che fosse il fidanzato ideale per qualsiasi ragazza - quindi anche per lei - poi però tornava a casa con Ramiro, che ascoltava poco, parlava tanto, assomigliava a un selvaggio ed era sfuggente.

Arrivato da Lucio, Ramiro ne approfittò per stampare il biglietto elettronico e fare il check-in on line, così da evitare la fila il giorno dopo, e tra una chiacchiera e l’altra tornò a casa a mezzanotte passata. Si dispiacque per non avere visto Tessa, ma non si può sempre fare tutto.

SEI

“Tu rifiuti di vedere le cose dal mio punto di vista, ovvio che non ci capiamo”.

“C’è poco da capire Tessa, a me dispiace solo vedere che stai male e che ti racconti una storia assurda per dimostrare a te stessa che sei contenta”.

“Forse hai ragione, sono patetica. Però penso veramente che dobbiamo imparare a prendere dalle persone quello che possono offrirci senza tentare di ottenere ciò che non sanno, o non vogliono darci!”

Ogni volta la stessa storia, mio fratello è tanto caro ma certe cose non c’è verso di fargliele capire; lui deve sempre pensare male, che nervoso. Per me invece è il contrario, ogni brandello di positività che si possa scovare nella gente va apprezzato per ciò che è, e bisognerebbe anche farselo bastare. Certo, poi spesso va a finire che sì, cogli una nota positiva da uno, una nota positiva dall’altro, e anche un bel concertone di note negative da tutti quanti, ma ne vale comunque la pena, o no? Insomma se uno è bravo in matematica ma è una schiappa in italiano, storia e geografia, probabilmente verrà bocciato e tutti penseranno che è un asino, ma se era bravo in matematica, perché dimenticarsene?

Forse però dovrei essere un po’ meno indulgente, questo devo ammetterlo. Diciamo pure un po’ meno stupida, dai. Se mi fossi lasciata scoraggiare di più da tutte le bassezze di Ramiro probabilmente la mia vita sentimentale sarebbe stata più semplice.

Ho sempre creduto che essendo esigenti e selettivi si rischiasse di rinchiudersi nella propria intransigenza, fermi a guardare il mondo da una finestrella che ci restringe inesorabilmente la visuale, e così mi ostino a giustificare qualsiasi cosa le persone mi facciano, con una tolleranza che nemmeno io so bene da dove venga. Ramiro è solo l’ultimo gradino di una lunga scala che si ricongiunge con se stessa come un otto volante. Con persone come lui si può resistere solo se capaci di apprezzare il viaggio, o una tratta di esso, senza pensare alla meta, e soprattutto senza pensare a cosa fare una volta arrivati.

“Capisci Edo? Lui è così, ma non è cattivo. Cioè, sono sicura che è convinto di volermi bene, ci tiene a me, solo che è impossibile pensare di costruirci qualcosa insieme e allora tutti ne deducono che sia uno stronzo e basta. Non è vero, ha un sacco di qualità positive, mi devi credere, altrimenti non ci uscirei, non sono proprio così cretina. Hai capito cosa intendo dire?”

Lo so che non capisce e non ha nessuna intenzione di sforzarsi. Ramiro a lui non piace anche se non l’ha mai visto, e il fatto che io gli corra dietro come un cocker scodinzolante, leccandogli pure le mani quando si degna di portarmi a fare una passeggiata, lo manda su tutte le furie.

“Sì, sì Tessa, come no. Hai una capacità strabiliante di indorarti la pillola. A me sembra tutto molto più semplice, e cioè che hai tra le mani un maschilista, egoista, infantile e playboy che approfitta del fatto che al mondo esistano ancora delle rimbambite come te, che si raccontano le favole da sole, e mentre lui ti usa, tu gli faciliti pure il compito facendogli credere che per te vada tutto bene”.

SETTE

Il primo aereo della mattina era alle 6.30, presto, prestissimo, soprattutto per uno come Edo che sembrava avere dei ghiri tra i suoi lontani discendenti. Quella mattina riuscì ad alzarsi, vestirsi e farsi trasportare all’aeroporto senza nemmeno svegliarsi del tutto. Lo faceva da quando era piccolo, apriva gli occhi a metà e si trascinava come un automa, neanche fosse in sonnambula. Tessa mal sopportava quel comportamento, ma le sue frecciate non erano mai riuscite a cambiare la situazione. Così alle sei in punto Tessa, sveglissima, scaricò all’aeroporto il fratello addormentato e se ne tornò alla lunga giornata frenetica che l’avrebbe attesa.

L’imbarco iniziò in orario, Edo mostrò la sua carta senza aprire la seconda metà degli occhi, trovò il suo posto accanto al finestrino e in pochi secondi dormiva di nuovo come se non si fosse mai mosso dal letto.

Poco dopo il decollo il suo sonno fu disturbato dalla voce gracchiante del capitano che dava il benvenuto a bordo e pubblicizzava i prodotti in vendita durante il volo. Maledette low cost, sembrava di stare al mercato. Sbadigliò con la bocca spalancata e pensò che sua sorella l’avrebbe sgridato. Per fortuna non era lì. Il suo vicino di posto stava leggendo una rivista scientifica, ma continuava a passare da un articolo all’altro senza concentrarsi su niente in particolare. Magari ha paura di volare, pensò con aria già meno assonnata. Se un minuto prima avrebbe potuto essere scambiato per una specie di panda in letargo, ora l’opportunità di intavolare un qualsiasi discorso con un perfetto sconosciuto l’aveva svegliato.

“Scusi, ha per caso sentito quanto durerà il volo? Ho un appuntamento alle 11.00 e non vorrei arrivare in ritardo, già ho perso l’aereo di ieri sera, meno male che mia sorella mi ha ospitato per stanotte…”

“No non ho sentito, ma di solito questo volo dura circa un’ora e mezza, lo prendo spesso per lavoro. Tu sei in viaggio di lavoro o di piacere?”

No, non sembrava aver paura di volare, ma era comunque amichevole. Edo aveva la tendenza a intrattenere discorsi con chiunque e appena ne aveva l’occasione non esitava a lanciarsi in lunghi monologhi, durante i quali a volte era davvero difficile non perdere il filo. Lo sconosciuto, però, ascoltò la storia dei suoi viaggi per un minuto scarso e poi lo interruppe con una domanda che non aveva alcun nesso con l’argomento: “Tu credi esistano altre forme di vita nell’universo? Stavo leggendo qui le varie ipotesi che negano la presenza di extraterrestri, ma io non sono tanto convinto”.

“Ehm, a essere sincero non ci ho mai pensato”. Balbettò Edo a disagio. Odiava addentrarsi in conversazioni in cui non si sentisse il più ferrato in materia, ma ricorrendo alla sua capacità di cadere sempre in piedi aggiunse: “Non so se gli extraterrestri esistano, ma spero proprio di sì. Magari tra le ragazze marziane potrei incontrare una fidanzata adatta a me, visto che le terrestri sembrano non apprezzarmi abbastanza”.

Non credeva minimamente a quell’idiozia, ma era soddisfatto per aver riportato il discorso su un terreno più neutrale. L’altro lo guardò serio, fissandolo con due occhi così scuri che era impossibile distinguere la pupilla dall’iride. Un’espressione indefinita, a metà tra la curiosità e la rassegnazione, un’espressione estremamente vivace ma in fondo triste. E poi, inaspettatamente, cominciò a parlare.

“Extraterrestri…di solito intendiamo omini verdi che viaggiano su dischi volanti, per forza ci riesce difficile credere alla loro esistenza. Prendi invece una formica, che vive nel tuo giardino e non andrà mai molto più lontano: per lei l’universo è il giardino, i fili d’erba saranno i paesi, le foglie  le città e gli alberi che ne so, forse i grandi raccordi anulari. La formica non si pone certo il problema che vi possa essere un mondo al di là del suo. Per noi umani però il giardino è solo una minuscola parte di tutto ciò che chiamiamo universo. Per la piccola formica noi siamo gli extraterrestri, enormi e venuti da chissà dove. Eppure il nostro mondo è lo stesso della formica, solo che lei non lo sa e ne esplora solo una minima parte. E allora non potrebbero esistere degli altri esseri in giro, diversi da noi, che non potremmo riconoscere come appartenenti al nostro mondo per lo stesso motivo per il quale la formica non può riconoscere noi?

Pensa alle bamboline Matrioske: la bambola più grande ha percezione di tutte le altre, mentre la più piccola ha percezione solo di se stessa. E non parlo unicamente in termini di dimensioni; parlo anche dell’incapacità di riconoscere l’essenza dell’altro, confondendolo con qualcosa che ci fa più comodo vedere. I così detti extraterrestri potrebbero essere il vicino di casa, il collega, il barista, chiunque. Alieno non è necessariamente qualcuno che viene da fuori, può essere benissimo qualcuno che non si trova tanto bene dentro. Come me. Io mi sento extraterrestre, non perché vengo da un altro pianeta, ma perché vivo questo pianeta in un modo diverso. Ho cercato di spiegarlo alle persone, ma tutti invece di capire hanno cominciato a pensare che ero matto; ovvio eh, per la gente è più comodo trovare una spiegazione come la follia piuttosto che mettere in discussione le proprie convinzioni. 

E’ raro che qualcuno resista alla tentazione di provare a farmi tornare “normale”. Si avvicinano in tanti, curiosi. E poi si allontanano poco dopo, frastornati dalle mie strane abitudini e incapaci di conciliare le reciproche differenze. Chissà perché, fanno tutti fatica ad avere un rapporto continuativo con me e poco a poco mi sono convinto che nemmeno io desidero nulla di più. Alieno anche ai rapporti soffocanti dunque, meglio avere più alternative. Se non mi vedo con una persona ne contatto un’altra, difficilmente resto solo. E’ comodo questo metodo, funziona. La fregatura però c’è, il rapporto con gli altri non è mai vero del tutto. Extraterrestre, già me ne stavo dimenticando.

La ragazza marziana che cerchi io credo di averla trovata sai? E’ un po’ aliena anche lei, ha i piedi per terra ma la testa no, quella ce l’ha tra le nuvole. La conosco da parecchio tempo e all’inizio avrei giurato che avrebbe seguito lo stesso percorso di tutti, curiosità-novità-insofferenza-allontanamento. Invece no, ha deciso da sola se poteva o meno sopportare certe cose, spesso si fa delle domande ma trova le sue risposte senza coinvolgermi. Mi ha visto, mi ha seguito un po’ da lontano in modo da poter sempre scappare, e non ha mai cercato di farmi diventare altro. Qualche volta mi sgrida, ma se lo fa è perché ha già deciso di passarci sopra e lo fa con il sorriso. Quando è davvero arrabbiata nemmeno mi vuole vedere, perché sa che non si può cancellare quello che l’ha ferita e sa che io non sono abituato a chiedere scusa. Vedi? Non è una tipica terrestre, anche se lei come me non viene da nessun’altra galassia.

Quando un alieno incontra un altro alieno accadono cose strane. Mi sono accorto che mi stavo perdendo tante cose, della marziana e anche di tutti i terrestri. Forse potrei essere migliore, ma non riesco a lasciare la sicurezza delle vie di mezzo. Viaggiare su un treno è rassicurante, incontri tanta gente che sale e che poi scende e infine sparisce. Io in genere viaggio così, anche se so che salire su un taxi con un solo compagno di viaggio e arrivare esattamente dove si vuole sarebbe molto diverso.  A volte mi sorprendo a comportarmi come una persona comune, ma dura sempre poco. Per fortuna la marziana non mi fa mai vedere la delusione nei suoi occhi, così continuo a fare male un po’ a me e un po’ a lei. E intanto aspetto che si stanchi e sparisca. Per lei sarebbe decisamente meglio se si stancasse, ma io non riuscirei mai a mandarla via prima del tempo.

Mi piacerebbe presentartela, ti troverebbe simpatico. Si chiama Tessa e guardandoti bene addirittura un pochino vi somigliate”.

 

Pubblicato in concorso

Devi fare ciò che ti fa stare bene

La vita dentro una canzone

 

Ormai era diventato il mantra di un eco lontano. “Eppure era così vicino”. Una frase che portava sempre nel cuore e che teneva bene a mente. “Un ordine impartito”. Solo nel corso degli anni aveva compreso, dal timbro caldo e dall’ampiezza del tono della voce di sua madre, che si trattava di un ordine gradito, l’opposto dell’arido imperativo che gli imponeva ogni giorno suo padre. “Studia! Non sognare!” Sì: sognare, ascoltare una favola raccontata da suo padre e cantare una canzone erano nella lunga lista delle cose non contemplate nella sua educazione. Ordinato, diligente, preparato, elegante, in sintesi un concentrato di tutto ciò che prevedevano l’istruzione e il comportamento nell’alta società. “Devi fare ciò che ti fa stare bene”. Ogni volta chiedeva a sua madre: «“cosa” devo fare», senza dare un tono interrogativo alla frase perché in quella casa non si potevano porre domande. Tra quelle mura non potevano essere esposte questioni o idee: bisognava solo eseguire gli ordini, intonati con severità, oppure scritti, come se fossero legge. Lei rispondeva in maniera evasiva, ma lui aveva imparato a comprendere che, all’insaputa di suo padre, al contrario di quelle che erano le sue volontà, nello studio e nella vita avrebbe sempre potuto contare su di lei.

Come se fosse un rito, sfilò con calma il foglio consumato, ma pur sempre intatto, dal taschino posto sotto i documenti del portafoglio, quella che una volta era una semplice tasca dei pantaloni, corti e blu, che indossava assieme alla camicia bianca, per andare a scuola. “Tutte le mattine”. Anche a causa di quell’abbigliamento sempre uguale era stato denigrato e isolato da una parte dei suoi compagni di scuola: “non meritava l’amicizia di nessuno”, così diceva quella banda di bulletti, e lo mettevano nelle condizioni di provare vergogna per se stesso, una vergogna che aveva preso la forma dei pensieri di suo padre e dell’unica cosa che riusciva a provare suo padre in quella casa. “Indifferenza”.

Ricordava ancora l’ansia che aveva provato nel cercare un posto nascosto in cui leggere per la prima volta quel biglietto. Il tremore si era impossessato delle gracili gambe, le mani sudavano. E ricordava anche l’emozione di leggerlo all’oscuro di tutto. “E di tutti”. Era stato scritto su di un semplice foglio, che sua madre aveva estratto con cura da uno dei suoi quaderni, senza che suo padre se ne accorgesse, perché i quaderni dovevano essere integri e perfetti! Si chiese se anche lei scrivendolo avesse provato lo stesso tremore e la stessa contentezza.

Lo custodiva con molta attenzione. Quella frase l’aveva letta almeno un milione di volte e l’aveva trascritta ovunque potesse essere posta di fronte ai suoi occhi, nella sua vita quotidiana, così da fare riaffiorare quelle parole. Continuamente. Nel suo cuore. L’aveva scritta su ogni diario. Compariva su tutte le agende che lo avevano accompagnato in quegli anni, di studio e di lavoro. Con lettere nitide. Precise. Ordinate. Con una grafia ricercata. L’aveva salvata sullo screen saver del computer. L’aveva memorizzata come sfondo nel cellulare. E l’aveva racchiusa in una cornice grigia di grandi dimensioni, che teneva appesa alla parete della sua stanza, disposta perfettamente al centro, davanti al suo letto. In fine l’aveva affissa sullo specchio, di fronte al quale dedicava fin troppo tempo rispetto a quello necessario a radere quel po’ di barba che osava togliere dal viso. Un viso sempre adornato dal pizzetto nero, così come nera e crespa era la montagna di capelli che si portava appresso, da sempre, e per la quale suo padre non aveva mai trovato il tempo di portarlo dal barbiere. “Non gli dedicava mai il proprio tempo”. Un tempo che non era contemplato nella dimensione della famiglia, tanto suo padre era preso dal lavoro. Così non c’era tempo per rispondere alle sue domande, per giocare con lui, per aiutarlo a studiare. “Il tempo è denaro”, diceva, e non ne sprecava neanche per interagire con sua madre - terza protagonista di quell’atto - i cui unici compiti erano quelli di accudire la casa e il giardino, enorme, che si era voluto concedere lui. “Isolandola da tutto e da tutti”. Nell’accudire la casa rientravano anche lavare i vestiti e preparare i suoi piatti preferiti, mai alla stessa ora. Gli orari li comunicava lui di giorno in giorno perché la sua vita da imprenditore non gli concedeva di fare diversamente, diceva. Sua madre gli aveva confidato, solo molti anni più tardi, che considerava quella casa un lager.

Crescere lui non era semplicemente in fondo alle priorità di suo padre, in quella lista non c’era proprio; ciò nonostante doveva essere il primo nello studio e nello sport e per questo lo aveva iscritto ad atletica, senza ammettere repliche. Ma non si era mai degnato di presentarsi a nessuna delle sue gare, anche se il suo corpo sembrava una macchina nata per vincere. Al traguardo gli unici applausi che sentiva erano quelli di sua madre e degli spettatori. “Tutto serve”. L’unica arida risposta che dava suo padre, una volta venuto a conoscenza della vittoria era: “Hai fatto solo il tuo dovere”.  

Per fortuna aveva quel foglio che gli ricordava, ogni volta che voleva, la presenza sicura di sua madre. Aveva passato i suoi anni a nasconderlo nel cuscino, sotto al materasso o dietro a un quadretto, appeso nella propria stanza, che conteneva una foto di suo padre e che lui non amava guardare. “Lì era al sicuro”. Lui non lo doveva trovare, non lo doveva vedere, non lo poteva leggere.

Il fruscio di quel foglio era musica per le sue orecchie. Lo avvicinò alle narici e inspirò, prima di rileggere quelle parole che gli placavano l’anima. Avrebbe voluto ritrovarvi anche il profumo di sua madre, ma suo padre le aveva sempre vietato di comprare fragranze e trucchi, inopportuni per una donna che doveva solo curarsi della casa e delle cose. Fece vibrare le corde vocali per scaldarle, ripetendo quella frase che amava tanto. “Siamo rimasti in venti calmi.” Poi socchiuse le labbra e iniziò a leggere:

Devi fare ciò che ti fa stare bene

anche quando ti dicono che non conviene

perché nel tuo cuore c’è soltanto il bene.

Devi camminare verso la via d’uscita

anche se fosse in salita

dovesse volerci tutta la vita.

Scegli la porta che vuoi varcare

ma non avere mai paura di volare

nel tuo cuore è già scritto dove devi arrivare.

Circondati di persone fidate

sono le uniche che possono essere amate

le uniche compagnie a poter essere considerate.

Stendi le ali e vola come un airone

il vento conosce già la direzione

e ti porterà dritto al tuo futuro senza esitazione.

Verrà il giorno in cui avverrà il cambiamento

lo vedrai dal luogo in cui ti avrà portato quel vento

e a quel punto capirai che è giunto il momento

sarà giunta l’ora di lasciarti andare

il tuo futuro non potrà più aspettare

prendi coraggio e fai ciò che devi fare.

Era una metrica imprecisa, piena di imperfezioni anche grammaticali, ma conteneva tutto quello che avrebbe voluto sentirsi dire.

Premette il foglio con il palmo aperto della mano verso il naso, con le sue dita grandi, quasi accartocciandolo, poi inspirò fino a dilatare i polmoni, portandoli al limiti, e rimase così per pochi secondi. Richiamò alla memoria il profumo della torta di mele appena sfornata, che tanto adorava aspettare seduto in cucina su quello sgabello così alto da non permettere ai suoi piedi di toccare per terra, rimasta impressa nei suoi pensieri, poi lo ripiegò con cura. Prese il portafoglio e lo infilò al suo posto, poi mise via anche quello. Fece incontrare le mani davanti a sé e allargò le dita posandovi le labbra. Ora capiva: quel giorno era arrivato. Indossò la tenuta da corsa e si diresse verso il campo sportivo dove si ritrovavano i lavoratori dell’azienda. Si dispose sulla riga di partenza. Poi contrasse i muscoli e fece leva sui legamenti, il corpo iniziò subito a rispondere alla loro contrazione, accanto a lui altri atleti correvano, ma era sempre stato quello più veloce, quello più forte, il più difficile da battere. Il primo della classe, il primo sul lavoro. “L’ultimo ad essere scelto dalle ragazze”. Fece un ultimo sforzo, poi un altro, mentre la sua mente giungeva al culmine del significato di quella strofa, miscelandosi alla frase sillabata che le ripeteva sempre sua madre quando tornava a casa frustrato per essere stato deriso, ancora una volta, a causa della sua perfezione, della sua impostazione, della sua compostezza. “Vuoi stare bene. Stare bene e ce la farai”. Quella frase sillabata prese ritmo con il suo cuore mentre il sangue gli pulsava nelle orecchie. Era solo davanti a tutti, solo come sempre e come sempre il primo. Fu allora che diede ordine ai suoi muscoli di rallentare mentre un’altra frase prendeva il sopravvento. “Voglio essere superato”. La contrazione sui muscoli si ridusse, gli arti continuarono a rallentare e mentre acquisiva la percezione del suo corpo, il sangue nelle sue orecchie rallentò anch’esso, pulsando con minore intensità. Fu allora che si accorse di essere stato superato e pensò che questo lo facesse “stare bene”. O almeno così gli sembrava. Chiuse gli occhi concentrandosi sui suoi organi di senso. Si accorse solo allora che le sue orecchie avevano un potere enorme. Un potere di cui non era consapevole, teso sempre verso l’obiettivo da raggiungere, l’ordine da rispettare, l’ostacolo da superare. Iniziò a percepire il vociare delle persone che si trovavano attorno a lui, il rumore del piede battuto sopra la gomma rossa che ricopriva la pista, il ringhio di chi stava forzando il proprio corpo per raggiungere più in fretta la meta. Tutti questi suoni e altrettanti rumori colpirono il suo udito, provocando lo stesso dolore di un muscolo indolenzito dalla colpa di non essere mai stato usato. Fu allora che si dedicò all’olfatto e si accorse che gli alberi di magnolie, che circondavano la pista, sovrastavano con il loro profumo il tanfo di sudore, oltre all’odore della terra e della gomma della pista. Le sue gambe rallentarono ancora, finché si accorse di essere stato superato e questo non lo faceva stare bene. Il pensiero andò a sua madre, dopo la morte di suo padre aveva iniziato a vivere: la camminata decisa e cadenzata, resa fluida dall’abito elegante e dalle scarpe all’ultima moda che finalmente si era potuta comprare, il viso truccato in modo leggero ma evidente, come qualche volta le vedeva fare di nascosto, davanti allo specchio, per ammirarsi solo pochi secondi subito prima di cancellare ogni prova. Ora erano gli altri che la ammiravano. “Lei aveva trovato ciò che la faceva stare bene”.

Lasciò il campo da atletica e mentre si dirigeva verso casa sfilò il cellulare dalla tasca e lo aprì sulla rubrica. La maggior parte dei numeri corrispondeva a colleghi di lavoro, persone prive di intelletto e di capacità, ma in grado di ferire con una sola parola detta dietro alle spalle, come un colpo di spada inferto per distruggere l’immagine dello sfortunato soggetto su cui avevano diretto la loro attenzione. Nella totalità delle volte si trattava di lui. Lui che era il responsabile di tutti loro, il direttore di tutti quei pigri succhia stipendi che infestavano l’azienda ricevuta in eredità da suo padre, un’eredità che gli pesava addosso come un macigno. Non avrebbe mai potuto rallentare sul lavoro come aveva fatto sulla pista di atletica, nessun neurone del suo cervello gli avrebbe mai e poi mai permesso di lasciare colare a picco l’azienda e lui con essa, ma qualcosa poteva fare. “Voleva fare”. Una bella ripulita allo staff e ai suoi capelli. Non avrebbe più permesso a nessuno di trattarlo come uno spauracchio, un ridicolo idiota di cui farsi beffa. Era capace. “Pensare a questo lo faceva stare bene”. Lo dimostrava il fatto che a venticinque anni aveva preso in mano le redini di quell’azienda e l’aveva fatta risorgere dalle macerie in cui era finita con suo padre, che, al contrario di lui, si era arreso alla propria incapacità e si era punito con un’arma. Anche lui si era armato, ma di buona volontà e con coraggio aveva messo a frutto la propria formazione e l’aveva trasformata in successo in omaggio a sua madre, che lo aveva sempre fatto stare bene. Così le aveva donato la dignità e l’indipendenza che non aveva mai ricevuto dal marito.

Nel proprio intervento di ristrutturazione aveva mantenuto tutto il personale dell’azienda, ma ora si era accorto che la metà di questo non lavorava e si assentava in orario di lavoro, a scapito dei colleghi che davano il doppio. Tutto questo sarebbe finito. Avrebbe dato una bella ripulita e al loro posto avrebbe assunto personale fresco e motivato, prima di tutti Giulia. L’aveva sempre guardata a distanza, lei che per laurearsi era stata costretta a lavorare tutte le sere poiché nella sua famiglia i soldi erano a malapena sufficienti a garantire il sostentamento. Lei che proveniva da una famiglia troppo povera per essere considerata nei colloqui di lavoro adatti al suo livello di studi. Lei che era guardata con la stessa supponenza con cui era sempre stato guardato anche lui. Si erano sempre osservati a distanza, come due prede che si studiano senza mai fare il primo passo. L’avrebbe assunta come braccio destro e le avrebbe chiesto di uscire con lui. “Anche questo lo faceva stare bene”.

Si diresse nuovamente al campo, come se nuova linfa avesse preso a circolare all’interno del proprio corpo, una linfa che forse faceva parte di lui da sempre, ma che non si era mai accorto di possedere. Arrivato alla pista si mise in linea accanto agli stessi atleti coi quali aveva gareggiato poco prima. Ora la chiave d’accesso del suo “stare bene” gli era nota e cara. La risposta non era il “cosa” ma il “come.” Partì all’unisono con i suoi compagni, guardandoli sghignazzare. Pochi minuti prima lo avevano battuto, erano convinti di essere più forti di lui? Contrasse i muscoli con decisione ma senza forzare, lasciando che l’odore delle magnolie penetrasse nelle sue narici, alle quali arrivavano anche altre fragranze di cui non conosceva le origini, né l’esistenza. Rimase affiancato agli altri. La linfa divenne improvvisamente fresca, come una doccia ristoratrice in un caldo giorno d’estate e allora affondò. Ricambiò il ghigno, superò il traguardo con disinvoltura e si voltò a braccia conserte a guardare i compagni ancora in arrivo. Fermo. In piedi. La loro andatura era scomposta e rabbiosa. “Scomposta, come la loro attività lavorativa, ma soprattutto scostante”. Non erano di nessuna utilità per l’azienda, lavoravano poco e male, mai in collaborazione con i colleghi, sempre in antitesi con lui. S'incamminò nuovamente verso casa. Fece una doccia e si recò dal barbiere. “Devi fare ciò che ti fa stare bene”. Guardò le ciocche cadere per terra formando una montagna. Il pavimento bianco improvvisamente era diventato nero, un nero che fino a pochi minuti prima invadeva la sua mente e oscurava i suoi pensieri. Pensò a come sarebbe stato sedersi su quella sedia di fianco a suo padre, mentre il suo volto emergeva in quello splendido taglio. “Questo mi fa stare bene”. Alzò gli occhi guardando nel vuoto, come se in quella dimensione potessero manifestarsi i suoi ricordi e scorrere sullo schermo come in un film. Un film che al cinema, sul grande schermo, lui non aveva mai visto. Si chiuse in se stesso giusto il tempo per ricomporre i pezzi della propria vita, ma solo per accorgersi che erano stati tenuti insieme da quelle parole. Scritte. Con cura. Su quel foglio. Fece il vuoto nella sua mente, ma il vuoto non c’era. C’era solo una parola che rimbombava, come un eco. “Devi”.

Pubblicato in concorso


"Di cosa parliamo quando parliamo d'amore"
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