Visualizza articoli per tag: vasco

Oggi sono in pace col mondo. Se tutto finisse qui sarebbe perfetto. Ma non finisce, il mondo va avanti e nel suo andare avanti mi srotola addosso la solita carta moschicida e le giornate come questa, giornate in cui sono in pace col mondo, sono sempre più rare. Come un Penny Black. Ma la maggior parte del mondo neanche ha idea di cosa sia un Penny Black. E in tutte le altre giornate mi sento uno scarto, un rifiuto, lo stampo di prova di un ragazzino venuto male. Quanti come me devono averne sbagliati prima di arrivare a fare un Giacomelli, fenomeno con le scarpette ai piedi e in odore delle giovanili del Cesena; oppure una Rubini, che riesce a far ridere i compagni e i professori anche per chiedere i compiti da scrivere sul diario; per non parlare di un Zambelli, Riccardo Zambelli, di quarta E, che nel dizionario sotto la voce popolarità ci potrebbero mettere la sua foto, talmente figo da non sembrare vero. E allora aveva voglia mio padre a dire che dovevo smetterla di stare attaccato al computer, che dovevo vivere nel mondo reale, che tutti quei contatti – perché, signori, avevo esaurito l'account facebook, tradotto: avevo la bellezza di cinquemila contatti – non erano vere amicizie, ma disperati come me che rifiutavano di affrontare la vita reale! I primi bozzetti di Big Jim non erano mica passati alla storia come i giocattoli del secolo. Gli stampi dei primi Goldrake venuti male – perché mio padre, così perfetto e calato nel mondo reale, era un appassionato di Goldrake Ufo Robot, tradotto: antidiluviano cartone animato giapponese, anni ottanta, non so se mi spiego – mica erano conservati al Moma di New York! Ma di cosa parliamo, che mio padre neanche aveva idea di cosa fosse il Moma di New York. Però che Big Jim io lo spogliavo per guardarlo sotto, anziché fargli fare i lavori da macho e fargli trattare Barbie come lui trattava mia madre, questo lo sapeva. Che non avevo amici perché mi chiamavano Jenny la checca, anche questo lo sapeva e non ce lo poteva perdonare. Né a me, né a mia madre.

Quando sei il prototipo dello sfigato, la brutta copia del compagno che nessuno vuole avere come vicino di banco, lo stampo di plastica dell'antisport disciolto sotto la luce di una vecchia lampadina a incandescenza, è ben difficile trovare nel mondo un posto che ti calzi a pennello, un posto che non sia un angolo buio o il fondo di una pattumiera, e sentircisi bene. E allora per fortuna che c'era la rete e che potevo socializzare anche senza essere un Giacomelli, una Rubini o uno Zambelli: sia lodato Zuckerberg, sempre sia lodato.

Se i miei genitori avessero mai provato a capire cosa mi passava davvero per la testa forse sarebbero stati più sereni e avrebbero smesso di stressarmi e di stressarsi. Ché non ero mai stata malata, anche se ogni tanto parlavo di me al femminile. E mia madre - perché sapevo che era stata lei a lasciare nella cronologia del tablet le ricerche sulla dipendenza da internet – non sarebbe andata a dormire a forza di pillole, con le rughe triplicate dai pensieri, ché questo figlio in fondo non era poi così anormale. Conoscevo anche io i sintomi della dipendenza dalla rete e non ne avevo neanche uno: non stavo male se non c'era connessione, non passavo la notte davanti alla tastiera, non avevo sbalzi di umore, non soffrivo di insonnia o del tunnel carpale – sì, pare che la dipendenza da internet e l'abuso del computer diano tutti questi disturbi, o almeno è questo che diceva la guida cui era arrivata la regina della casa – semplicemente era in rete che avevo tutte le mie amicizie. E se fuori dalla rete non parlavo con nessuno, di certo non con i miei genitori, forse avrebbero dovuto capire che sì, qualche cosa non andava, ma che era in loro, in loro e nei loro maledetti e maldestri e continui tentativi di farmi cambiare. Era mio padre che non andava. Il fatto che dannasse se stesso per avermi chiamato Gennaro, come se il mio essere Jenny la checca dipendesse solo da quello stupido nome. Si dannava anche per altre cose, ad esempio per non avermi preso a ceffoni quando aveva beccato me e Pietro che perlustravamo i nostri reciproci corpi giù in cantina. Mia madre gli aveva detto che era solo curiosità da ragazzini, che era meglio se scoprivamo tra noi come funzionava “quella cosa” piuttosto che tramite quelle schifezze che lui teneva nascoste nel comodino. “Quella cosa”, nel bigotto codice verbale di mia madre, era la masturbazione. Mio padre ogni sera si masturbava a letto sbirciando riviste pornografiche, a lume di abatjour, mentre lei fingeva di dormire e, quando avevano beccato me e il mio amico che ci facevamo una sega a vicenda, le era sembrato più facile definirlo “quella cosa” e lasciare che lui demonizzasse il nostro comportamento e le nostre giovani e inesperte voglie anziché parlare di masturbazione e affrontare con mio padre il motivo delle sue voglie di vecchio represso.

Oggi sono in pace col mondo perché nessuno mi è venuto a trovare. Ho potuto leggere e riposare. Dopo aver letto per un paio d’ore ho tenuto la finestra aperta e la serranda abbassata con i buchi, e la musica che arriva dalla spiaggia mi ha fatto compagnia. Ho immaginato corpi di ragazzi accaldati che ballavano in riva al mare.

Mi rendevo conto che non potevo considerare amici tutti i miei cinquemila contatti; forse neanche cinquecento, magari cinquanta; fossero stati anche solo cinquanta mi sarei dovuto preoccupare? Andavo bene a scuola. Non frequentavo cattive compagnie. Ok questa non vale perché non frequentavo nessun tipo di compagnia. Non avevo neanche mai chiesto il motorino. E anche questa non vale, perché questa per i miei era stato un problema. Per mia madre, perché lei voleva che io approfittassi della libertà che mi concedeva - probabilmente quella che lei alla mia età non aveva avuto - voleva che andassi in giro, che mi divertissi, che facessi tardi, che stessi tra la gente. Immagino che sarebbe stata contenta anche se col motorino fossi andato in cerca di ragazzi, tutto purché ne avessi approfittato, io che potevo. Per mio padre, perché lui sulla moto ci andava in giro, lui era un centauro, con la sua maledetta Harley nera. Un figlio maschio che non voleva il motorino era giusto che lo chiamassero Jenny la checca, ché solo i froci non avevano voglia di fare le corse col motorino.

Pubblicato in concorso
Etichettato sotto