Infinite Jest - David Foster Wallace - (parte terza)

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Parte 8: Il re paranoico

Buonasera cari amici, mi sarebbe piaciuto aggiornare i miei appunti di lettura ma mi sono resa conto di non avere abbastanza ispirazione per scrivere un commento elaborato.

Mi limito allora a dedicarvi un brevissimo passo, che strapperà una risata amara a chiunque si sia mai sentito ridicolo per i suoi problemi d'ansia e pensiero catastrofico (non ha senso nasconderci, compagni, piuttosto uniamoci come gli Alcolisti Anonimi di Boston e combattiamo le ingiustizie del Commonwealth). La nota 211 si sofferma su un particolare della camera di Michael Pemulis, geniale matematico-tennista della classe operaia: un regalo goliardico e filosofico, che rivela le conseguenze della pressione sociale sulla psiche di un ragazzo nel quale non è difficile identificarsi.

"Come con la cosa neurogastrica, solo Ted Schacht e Hal sanno che il più grande timore di Pemulis è di subire un provvedimento di espulsione per motivi disciplinari o accademici, e di essere costretto a scendere giù per la Comm. Avenue e prendere un diploma a Allston come i figli degli operai, e ora, durante il suo ultimo anno all'Eta, la paura si è ingigantita, e questa è una delle ragioni per cui Pemulis prende tutte quelle precauzioni elaborate nelle attività extrascolastiche tipo farsi invitare in modo esplicito da un cliente della Sostanza eccetera - ed è per questo che Hal e Schacht per il suo ultimo compleanno gli hanno regalato un poster che hanno messo sopra una mensola della stanza di Pemulis, e nel poster c'è un re divorato dalle preoccupazioni con una grande corona in testa che siede sul trono e si gratta il mento e rimugina, con una didascalia: SÌ, SONO PARANOICO - MA SONO ABBASTANZA PARANOICO?”

Parte 9: Cosa ti manca, Orin Incandenza?

Buonasera carissimi, mi trovo più o meno a due terzi di questa poderosa lettura. Se vi può consolare non ho sfinito soltanto voi, ma anche la maggior parte dei miei amici e dei miei parenti Perché la mole di Infinite Jest contribuisce al suo fascino, ci si potrebbe chiedere? Per come la vedo io, la lunghezza di Infinite Jest non è frutto di un esasperato esercizio di stile o di uno sfoggio di bravura postmoderno. Dave Wallace non era mosso dall'intenzione originaria di scrivere "L'opera struggente di un formidabile genio", la definizione che Dave Eggers utilizzerà per la propria brillante opera parodistica. Prima di essere un oggetto di culto, una chicca consigliata da ogni adorabile librario hipster, Infinite Jest è un diario di vita vissuta: una vita stroncata troppo presto, ma vissuta pienamente tra le biblioteche e i campi da tennis, tra le aule universitarie e i reparti psichiatrici, destreggiandosi tra le passioni più disparate, dalla filosofia moderna alla cultura pop, dalla letteratura russa al cinema neorealista. Una parabola moderna che non racchiude solo un grande e metaforico racconto, ma anche un'intera visione della vita: lucida ed enciclopedica ma allo stesso tempo folle ed onirica, cinica ma così profondamente compassionevole.

In questo indimenticabile passo, Orin Incandenza interrompe una scappatella amorosa per un sondaggio porta a porta: le sue riposte, che si portano dietro una realizzazione agrodolce, parlano a ogni membro più o meno consapevole della società di massa.

«Cosa le manca, per favore?»

Orin sorrise distaccato. «Mi piace pensare che mi manca molto». «Un passo indietro. È cittadino Usa?»

«Sì».

«Lei quanti anni ha?»

«La mia età?»

«Che età ha?»

«La mia età è ventisei anni».

«Più di venticinque allora?»

«Così sembra». Orin stava aspettando il trucchetto con la penna per farlo firmare da qualche parte così che

i timidi del suo fan club avrebbero avuto il loro autografo. Cercò di ricordare dall'infanzia di Mario quanto riuscivano a stare sotto le coperte prima che diventasse insopportabilmente caldo e loro cominciassero a soffocare e a scalciare per uscire fuori.

L'uomo fingeva di prendere nota. «Ha un lavoro dipendente, è un libero professionista, è disoccupato?» Orin sorrise. «Il primo».

«La prego di fare una lista delle cose che le mancano».

Il mormorio dei ventilatori, la calma del corridoio color vino, il mormorio più vago del fruscio delle

lenzuola di dietro, immaginarsi la bolla sempre più grossa di COz sotto le lenzuola.

«La prego di elencare gli elementi della sua vita Usa che Lei si ricorda e/o non ha in questo momento, e le

mancano».

«Non sono sicuro di riuscire a seguirla».

L'uomo girò una pagina per controllare. «Struggimento, desiderio, seduzione, nostalgia. Nodo alla gola».

Rigirando un'altra pagina. «Anche la malinconia».

«Vuol dire le memorie d'infanzia. Vuol dire il cacao con dentro un marshmallow mezzo sciolto in una

cucina con le piastrelle a scacchi e i fornelli a gas smaltati, quel genere di cose. Oppure le porte onniscenti agli aeroporti e gli Star Market che in qualche modo sapevano che eri lì e si aprivano. Prima di scomparire. Dove sono andate a finire quelle porte?»

«Smalto con la s?» «E poi qualcos'altro».

Lo sguardo di Orin ora era rivolto verso il rivestimento antiacustico del soffitto, il cerchietto lampeggiante dell'allarme antifumo, come se i ricordi fossero sempre più leggeri dell'aria. L'uomo seduto fissava in modo vacuo la pulsazione della vena giugulare interna di Orin. La faccia di Orin cambiò leggermente. Dietro di lui, sotto le coperte, la donna non-svizzera stava sdraiata su un fianco con molta calma e pazienza, e respirava silenziosa nella maschera portatile di O2 con filtro che aveva preso dalla sua borsetta, con una mano nella borsetta che stringeva la pistola in miniatura Gbf della Schmeisser.

«Mi manca la Tv», disse Orin, guardando di nuovo in basso. Non sorrideva più con distacco.

«La vecchia televisione delle trasmissioni commerciali». «Sì».

«La ragione in diverse parole, per favore, per lo spazio RAGIONE che segue».

«Oh, Dio». Orin guardò in su di nuovo e distolse lo sguardo da dove sembrava non esserci niente, e si carezzò la mascella intorno al punto retromandibolare in cui la pulsazione era più leggera e vulnerabile. «Può sembrare stupido. Mi mancano le pubblicità a volume più alto dei programmi. Mi mancano le frasi "Ordinalo subito prima di mezzanotte" e "Risparmia più del 50 per cento". Mi manca quando dicevano che i programmi erano stati filmati in studio davanti a un pubblico vero. Mi mancano gli inni a tarda notte e le riprese della bandiera e i jet da combattimento e i capi indiani con la pelle color del cuoio che piangevano davanti ai rifiuti. Mi mancano Sermonette e Evensong e le videate di prova e quando ti dicevano a quanti megahertz il trasmettitore stava trasmettendo». Si toccò la faccia. «Mi manca di prendere in giro le cose che amavo. Come quando ci riunivamo nella cucina con le piastrelle a scacchi di fronte al vecchio scatolone Sony a raggio catodico la cui ricezione era sensibile agli aeroplani e prendevamo in giro l'insulsaggine commerciale della roba trasmessa».

«Le canzoncine insulse», fingeva di prendere nota.

«Mi manca quella roba con un denominatore così basso che potevi guardarla e sapevi in anticipo quello che avrebbero detto gli attori».

«Emozioni di predominio e controllo e superiorità. E piacere».

«Puoi dirlo forte, amico. Mi mancano le repliche estive. Mi mancano le repliche infilate in fretta nei programmi per riempire gli intervalli degli scioperi degli scrittori o degli attori. Mi mancano Jeannie, Samantha, Sam e Diane, Gilligan, Hawkeye, Hazel, Jed e tutti gli altri onnipresenti mostri della televisione. Capito? Mi manca vedere e rivedere sempre le stesse cose».

Si sentirono due starnuti smorzati dal letto dietro di lui che l'handicappato non notò nemmeno mentre faceva finta di scrivere e continuava a spostarsi la cravatta che gli ciondolava mentre scriveva. Orin cercò di non pensare alla topografia delle lenzuola in cui il Soggetto aveva starnutito. Non gli importava più del trucchetto. Si sentiva tenero, in qualche modo, verso quell'uomo.

L'uomo guardò in alto verso di lui come fanno le persone con le gambe quando guardano i palazzi e gli aeroplani. «Naturalmente può rivedere gli intrattenimenti tante volte, senza sosta, sui dischi TelEntertainment di memoria e recupero».

Il modo in cui Orin guardava in su non aveva niente a che fare con il modo di guardare in su del tipo seduto. «Ma non è la stessa cosa. La scelta, capisci. In un certo senso rovina tutto. Con la televisione eri obbligato alla ripetizione. La familiarità ti veniva inflitta. Ora è diverso».

«Inflitta».

«Non lo so neanch'io», disse Orin, improvvisamente stordito e triste dentro. Quella sensazione terribile come nei sogni di qualcosa di vitale che hai dimenticato di fare. La parte calva della testa inclinata era piena di lentiggini e abbronzata. «C'è un'altra domanda?»

«Mi dica le cose che non le mancano». «Per simmetria».

«Per un certo equilibrio dell'opinione». Orin sorrise. «Più o meno».

«Proprio così», disse l'uomo.

Orin resistette al desiderio di appoggiare la mano sull'arco del cranio del disabile. «Bene, quanto tempo abbiamo?»

Parte 10: Una fiaba infinita

Salve amici, oggi stranamente ho scelto un orario pomeridiano per aggiornare i miei appunti di lettura. Avvicinandomi lentamente alla conclusione di questo incredibile viaggio, ho pensato a quanto quest’opera sia “fiabesca” in un senso tutto particolare del termine: prima di darmi della pazza fatemi spiegare. Michel Houellebecq, uno degli autori che più mi hanno svoltato la vita negli ultimi anni e che più mi hanno spinta a studiare letteratura francese, è stato definito da Dominique Noguez "il Baudelaire dei supermercati". Ecco, se io volessi seguire questo stesso modello comparatistico (probabilmente a sproposito, perdonatemi, non ho nemmeno ancora seguito il corso di Letterature Comparate), mi verrebbe da definire il caro Dave Wallace come una sorta di "Hans Christian Andersen delle case di recupero". Infinite Jest potrebbe essere letto, in questo senso, come una raccolta di infinite fiabe parallele: fiabe contemporanee, nichilistiche, morbose e spaventosamente realistiche nella loro assurdità. Ma dopotutto anche le fiabe tradizionali erano spesso prive di lieto fine, nelle loro versioni originali.

Pensateci... Abbiamo la fiaba di Marathe, un eroe senza gambe che cercava la pellicola di un film così divertente da essere letale: nel frattempo si innamorò della fanciulla senza cranio alla quale aveva salvato la vita. La fiaba di un ragazzo chiamato Hal Incandenza che vedeva il mondo sotto forma di voci enciclopediche, linee continue e astrazioni filosofiche: a causa di ciò si sentiva molto solo, ma non voleva parlarne perché parlare del proprio disagio non è semplice, bambini. La fiaba di Randy Lenz, un vero Rumpelstiltskin del Commonwealth, che era un maestro dei travestimenti (nel senso più pirandelliano del termine), doveva sempre stare al Nord di ogni cosa e girava con "Principi di psicologia e le lezioni di Gifford sulla religione della natura"sottobraccio. La fiaba di una ragazza chiamata Joelle Van Dyne, una Raperonzolo della società di massa, che dalla sua torre declamava incantesimi radiofonici e cinematografici in grado di stregare tutti gli underdog di Boston. Non vi preoccupate, non ho intenzione di leggere queste storie ai bambini (Avril Incandenza magari sì, ce la vedo benissimo a fare una cosa del genere). Certo però sono fiabe che un professore di Letteratura Inglese potrebbe leggere ai suoi studenti annoiati e disincantati per aiutarli a capire meglio l’Amleto, ad esempio. Vi propongo allora un passo che mi è parso rappresentativo di questo aspetto fiabesco di cui vi ho parlato: Don Gately, durante l’ennesimo sogno allucinato, incontra il suo personale fantasma del Natale Passato.

"Poi, un paio d'ore prima della sinfonia del cambio di parcheggio di mezzanotte su Washington Street, c'è un altro sogno spiacevolmente particolareggiato in cui la sagoma spettrale che è apparsa e scomparsa in vari punti della stanza finalmente si ferma in un punto per un po' di tempo e così Gately può guardarla bene. Nel sogno è la sagoma di un uomo molto alto con il petto incavato, gli occhiali con la montatura nera, una felpa sopra

un paio di vecchi pantaloni di cotone tutti macchiati, e sta disinvoltamente appoggiato con l'osso sacro alla griglia del ventilatore che fischia sotto il davanzale della finestra, le lunghe braccia penzoloni sui fianchi e le caviglie incrociate, e Gately può notare che i pantaloni di tela spettrali sono corti, di quelli che i ragazzini dell'infanzia di Gately chiamavano «Acqua in Casa» - un paio degli amici più cattivi di Bimmy Gately si divertivano a chiudere in un angolo del cortile qualche ragazzino con il collo sottile come una matita che aveva quel tipo di pantaloni troppo corti e gli dicevano: «Ehi, fratello, dov'è l'inondazione del cazzo?» e poi gli tiravano uno scappellotto o un colpo sul petto per sentire il violino, perché c'era sempre un violino, sbattere e capovolgersi dentro la custodia nera. Certe volte il braccio della figura spettrale sembrava sparire e poi riapparire all'altezza del naso, a spingersi indietro gli occhiali con uno stanco gesto annoiato e involontario proprio come facevano sempre quei ragazzini con i pantaloni con l'acqua in casa, con quella stessa aria stanca che faceva venire voglia anche a Gately di mollargli uno spintone furibondo sul petto. Nel sogno Gately sentì un'improvvisa fitta dolorosa adrenalinica di rimorso e intravide la possibilità che la figura rappresentasse uno di quei ragazzini-violinisti della North Shore che lui non aveva mai salvato dagli spintoni dei suoi compagni, e ora tornava in uno stato adulto mentre Gately era vulnerabile e muto, per saldare i conti in qualche modo. La figura spettrale scosse le spalle sottili e disse che No, assolutamente, era solo un normalissimo vecchio spettro, non aveva nessun rancore e nessun piano particolare, era solo un generico spettro da giardino. Nel sogno Gately pensò sarcasticamente Oh, bene, allora se era solo uno spettro da giardino, cazzo, che sollievo. La figura-spettro sorrise come per scusarsi e si strinse nelle spalle spostando leggermente l'osso sacro dalla griglia sibilante. Nel sogno i suoi movimenti possedevano una strana qualità: erano di velocità normale, questi movimenti, ma sembravano segmentati e voluti, come se per farli ci volesse un grande sforzo. Poi Gately pensò che in effetti nessuno sapeva che cosa era necessario o normale per uno spettro autoproclamatosi generico in un sogno delirante. Poi pensò che questo era anche l'unico sogno che avesse mai fatto in cui anche nel sogno sapeva di essere in un sogno, e addirittura si metteva a speculare sulla qualità del sogno che stava sognando. In un attimo tutto diventò così multistratificato e confuso che gli occhi gli si rovesciarono all'indietro. Lo spettro fece un gesto stanco e indispettito come se non volesse entrare in una di quelle confuse controversie sogno-contro-realtà. Il fantasma disse che Gately avrebbe fatto meglio a smettere di cercare di capire e semplicemente trarre profitto dalla sua presenza, dalla presenza del fantasma nella stanza o nel sogno, in entrambi i casi, perché Gately, nel caso se ne fosse accorto, per lo meno non doveva parlare a voce alta per interfacciarsi con la figuraspettro; e la figuraspettro disse anche che gli ci voleva una pazienza incredibile e una grande forza d'animo (al fantasma) per rimanere fermo in una stessa posizione abbastanza a lungo perché Gately potesse vederlo e interfacciare con lui, e lo spettro non poteva promettere niente perché non sapeva quanti altri mesi avrebbe resistito dato che la fermezza d'animo non era mai stata una delle sue doti migliori. Dalla finestra vedeva le luci notturne della città tingere il cielo della stessa tonalità di rosa scuro che si vede quando si chiudono gli occhi, aggiungendo così ambiguità al sogno- dentro-il-sogno.”

Parte 11: Hal, Sylvia e l’orizzontalità

Salve carissimi, ci stiamo avvicinando davvero alla fine di questo viaggio. Se vogliamo dare per assodato che ogni viaggio si cominci con inquietudine e si porti a termine con malinconia, allora è anche vero che la malinconia rende impossibile fare analisi sensate o perlomeno intellegibili per l’interlocutore: ho deciso di provarci ancora una volta. Nel brano che vi propongo troviamo il nostro Hal Incandenza perso in un flusso di coscienza sul pavimento della Sala Proiezioni 5 , intento a meditare sui concetti di passione e ambizione, sull'Amleto e sulla lingua tedesca, ma anche ad apprezzare la propria condizione di orizzontalità. Le sue parole mi hanno riportata alla poesia I am Vertical della grande Sylvia Plath, una poetessa che alla fine anche io ho imparato ad apprezzare.

Si può certamente immaginare che il caro Dave conoscesse bene questa famosa autrice, anche lei portata via dallo stesso misterioso male che entrambi hanno saputo rappresentare così efficacemente: in un passo tratto dalla parte iniziale del libro, abbiamo una Kate Gompert che corre in camera a leggere le opere di una certa “Sylvia Plate” (in questo frangente Kate Gompert è rappresentata come lo stereotipo della ragazza emotivamente instabile e un po’ bohémien che oggi si riconosce in autrici come Sylvia Plath).

Per farla breve entrambi i brani attribuiscono un significato metaforico ai concetti di "verticalità" e "orizzontalità"... Quale sia questo valore, ognuno di noi dovrà stabilirlo per sé.

"A volte negli ultimi tempi mi sembrava quasi una specie di miracolo nero che qualcuno potesse tenere tanto a un argomento o a un'impresa, e potesse continuare a tenerci tanto per anni. Che potesse dedicarvi tutta la vita. Mi sembrava ammirevole e patetico allo stesso tempo. Forse non vediamo l'ora, tutti, di dedicare la nostra vita a qualcosa. Dio o Satana, politica o grammatica, topologia o filatelia – l'oggetto sembrava puramente incidentale rispetto a questo desiderio di dedicarsi completamente a qualcosa. Ai giochi o agli aghi, o a qualche altra persona. C'era qualcosa di patetico. Una fuga-da sotto forma di un tuffarsi-in. Ma esattamente una fuga da cosa? Queste stanze piene zeppe di escrementi e carne? A che scopo? Ecco perché qui ci facevano iniziare da piccolissimi: perché ci dedicassimo completamente a qualcosa prima dell'età in cui spuntano becchi e artigli alle domande perché e a cosa. Ci facevano una gentilezza, in un certo senso. Il tedesco moderno è meglio equipaggiato per combinare gerundivi e preposizioni del suo cugino bastardo. Il significato originario del termine addiction implicava avere degli obblighi, essere fedele, legalmente e spiritualmente. Dedicare la propria vita a qualcosa, tuffarvisi dentro. Avevo fatto delle ricerche, su questa cosa. Stice mi aveva chiesto se credevo ai fantasmi. Mi era sempre sembrato un po' assurdo che Amleto, con tutti i suoi dubbi paralizzanti su tutto, non avesse mai messo in dubbio la realtà del fantasma. Non si fosse mai domandato se la sua pazzia in realtà non fosse non-fittizia. Stice aveva promesso di farmi vedere una cosa terrificante. Cioè, se Amleto facesse solo finta di fingere. Continuavo a pensare al soliloquio finale del professore di Film e Cartucce nell'opera incompiuta di Lui in Persona "Begli uomini in piccole stanze che usano ogni centimetro di spazio disponibile con efficienza impressionante", l'acida parodia degli accademici che la Mami aveva preso come un'offesa personale. Continuavo a pensare che sarei dovuto andare al piano di sopra a vedere come stava Il Tenebra. Sembravano esserci così tante implicazioni al solo pensiero di mettersi a sedere e alzarsi e uscirè dalla Sp 5 e compiere un numero variabile di passi dipendente dall'ampiezza della falcata per arrivare alla porta delle scale, che il solo pensiero di alzarmi mi rendeva felice di essere sdraiato sul pavimento.

Ero sul pavimento. Sentivo la moquette verde Nilo con il dorso delle mani. Ero completamente orizzontale. Ero a mio agio sdraiato, perfettamente immobile, a guardare il soffitto. Mi piaceva il fatto di essere un oggetto orizzontale in una stanza piena di roba orizzontale. (…) Improvvisamente l'attacco di panico e l'ultimo spasmo del fuoco profilattico mi assalirono con l'intensa orizzontalità che era tutto intorno a me nella Sala Proiezioni - il soffitto, il pavimento, la moquette, il piano dei tavoli, la seduta delle sedie e le mensole subito sopra gli schienali delle sedie. E ancora - le tremule righe orizzontali nel tessuto di Kevlon alle pareti, la lunghissima parte superiore del visore, i margini della porta, i cuscini, la parte inferiore del visore, la base e la parte superiore del basso lettore di cartucce nero e i piccoli controlli che ne sporgevano come lingue mozzate. L'orizzontalità apparentemente senza fine del divano, delle sedie e della sdraio, ogni linea delle mensole alle pareti, la mensolatura orizzontale di lunghezza variabile della libreria ovoide, due dei quattro lati di ogni contenitore di cartucce, e così via. Stavo sdraiato nel mio piccolo stretto sarcofago di spazio. L'orizzontalità si accumulava tutt'intorno a me.Ero il prosciutto nel panino della stanza. Mi sentii come risvegliato a una dimensione fondamentale che avevo ignorato in tutti quegli anni di movimento in posizione eretta, di stare in piedi e correre e fermarsi e saltare, di camminare continuamente da una parte all'altra del campo. Per anni mi ero sentito fondamentalmente verticale, uno strano stelo forcuto di ciccia e sangue. Ora mi sentivo più denso; mi sentivo composto di materia più solida, ora che ero orizzontale. Atterrarmi era impossibile."

I am Vertical

"But I would rather be horizontal.

I am not a tree with my root in the soil

Sucking up minerals and motherly love

So that each March I may gleam into leaf,

Nor am I the beauty of a garden bed

Attracting my share of Ahs and spectacularly painted,

Unknowing I must soon unpetal.

Compared with me, a tree is immortal

And a flower-head not tall, but more startling,

And I want the one's longevity and the other's daring.

Tonight, in the infinitesimal light of the stars,

The trees and the flowers have been strewing their cool odors.

I walk among them, but none of them are noticing.

Sometimes I think that when I am sleeping

I must most perfectly resemble them --

Thoughts gone dim.

It is more natural to me, lying down.

Then the sky and I are in open conversation,

And I shall be useful when I lie down finally:

Then the trees may touch me for once, and the flowers have time for me."

Sylvia Plath

Parte 12: La fine di uno scherzo infinito

Salve carissimi, il momento è arrivato: siamo giunti alla conclusione di questa epopea contemporanea. Ho impiegato più di due mesi per terminare questa lettura ma penso sia normale, perché è un'opera che si concede i tempi della vita.

Fin dall'inizio sapevo che scrivere una recensione conclusiva sarebbe stato pressoché impossibile, per questo avevo in mente diverse idee. Volevo scrivere qualcosa di vagamente spiritoso, magari inserendo qualche altra citazione musicale o qualche altro goffo esperimento di comparatistica letteraria. Volevo fare un altro paragone con la mia esperienza quotidiana, tentare ancora di farvi ridere parlandovi della studentessa ansiosa e disadattata che sono.

Ma la verità è che fare battute è difficile, di fronte a questo finale. Dave ci è riuscito, signori: ha scritto un capolavoro davvero molto, molto triste. E così è triste leggere l'ultima frase alle due di notte, ripensando alle meraviglie incontrate come fa ogni buon viaggiatore solitario e nostalgico.

Forse è inutile girarci intorno. Forse Infinite Jest è davvero un capolavoro di misantropia e cinismo, un vero Viaggio al termine della notte nella sofferenza, nell’alienazione e nell'inettitudine, un’avventura urbana costellata di umanità ormai priva di qualsiasi tipo di redeeming qualities che la possano salvare. Forse è davvero un atto d'accusa ufficiale a quella Waste Land rumorosa, luccicante e incredibilmente stronza (perdonate il francesismo) che per convenzione ci ostiniamo a chiamare Occidente. Forse è davvero la rassegnata consapevolezza che nel nostro secolo "La vita è come il tennis: vince chi serve meglio”. Forse dobbiamo tutti sederci e ripensare a quelle massime che prima ti strappano una risata e poi un pianto, "La verità ti renderà libero ma solo quando avrà finito con te” e "Tutti sono identici nella segreta tacita convinzione di essere, in fondo, diversi dagli altri".

Ma se è valido il principio universale secondo il quale la dolcezza più straziante è quella che nasce in mezzo alla ruvidezza e alla sporcizia, allora io non riesco ad accontentarmi di un’interpretazione così pessimistica.

Certo, David Foster Wallace è morto, James Incandenza è morto e anche i suoi figli non stanno troppo bene, però almeno restiamo noi, che probabilmente non siamo altrettanto geniali però almeno ci sforziamo di essere consapevoli.

E certo, Infinite Jest parla della droga, della psicanalisi, del Quebec, del cinema e di tutto quello che volete. Però parla anche della lotta per difendere la propria fragile sensibilità dalla ferocia e dalla mediocrità del mondo. Parla della difficoltà di guardare negli occhi uno come Randy Lenz e vederci una mente piena di terribili e grottesche memorie freudiane, tanto da arrivare a farsi sparare per lui, anziché riservargli lo schiaffo che forse si meriterebbe. Parla della famiglia e delle dinamiche disfunzionali che si tramandano nelle generazioni come spettri apparentemente invisibili e inconoscibili. Parla dell'amore nel senso più carveriano del termine (che prima di capire di cosa stai parlando deve passarne di acqua sotto ai ponti). Parla della partita di tennis contro se stessi, che troppe volte è la più difficile da affrontare, dato che la vittoria e la sconfitta sono ugualmente dolorose. E su tutte queste cose si può lavorare, per quanto a volte ciò sembri impossibile.

In questo devastante explicit, Don Gately esce finalmente dai sogni allucinati e raggiunge la propria spiaggia personale, dove la marea è fin troppo lontana...

"Il tipo aziendale aveva una rosa nel risvolto della giacca e si era messo gli occhiali con le lenti metalliche ed era strafatto e con il contagocce mancava l'occhio di Fax una volta su due, mentre diceva qualcosa a Pointgravé. Un travestito aveva alzato il bordo sdrucito del vestito di P.H.-J. e aveva messo una mano tipo ragno sulla sua coscia color carne. La faccia di P.H.-J. era grigia e blu. Il pavimento si sollevava lentamente. La faccia tozza di Bobby C sembrava quasi bella, tragica, mezza illuminata dalla finestra, infilata sotto la spalla roteante di Gately. A Gately non sembrava di essere fatto, si sentiva più tipo disincarnato. Era oscenamente piacevole. La testa gli si staccò dalle spalle. Gene e Linda urlavano tutti e due. La cartuccia con gli occhi tenuti-aperti a forza e il contagocce era quella sull'ultraviolenza e sul sadismo. Una delle preferite di Kite. Gately crede che sadismo si scriva «saddismo». L'ultima immagine roteante fu quella dei cinesi che rientravano dalla porta, e tenevano in mano dei grossi quadrati splendenti della stanza. Mentre il pavimento si sollevava e la presa di C si allentava, l'ultima cosa che vide Gately fu un orientale che si abbassava verso di lui con un quadrato in mano e lui guardò dentro il quadrato e vide chiaramente il riflesso della sua enorme pallida testa quadrata con gli occhi che si chiudevano mentre il pavimento si avventava su di lui. E quando si riebbe era disteso sulla schiena su una spiaggia di sabbia ghiacciata, e pioveva da un cielo basso, e la marea era molto lontana."

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