Il gatto del cimitero

Splat.

Morto per il freddo e riverso a terra, viene travolto dalla mia zampina e tramutato in frittella. Che delusione scoprire che queste belle faville svolazzanti altro non sono che miseri insettini.

Splat.

Eccone un altro. Fino a poche sere fa la notte brillava, grazie alle lucciole che danzavano tra i fili d’erba e rendevano fatato e un po’ surreale il margine della superstrada. Ora, invece, soltanto i fari delle auto e dei grandi camion che sfrecciano sull’asfalto, o che si fermano nello spiazzo per riposare, inondano le ore notturne, rendendole meno nere.

Splat.

Sono tutti morti. Che amarezza scoprire che si tratta solo di bestioline! Qualche giorno fa, quando la mia amica Lucciola mi ha indicato gli scintillii lampeggianti, ho pensato di non essere il solo a vedere le luci colorate che danzano nell’aria! Ho pensato persino di non essere il solo a vedere il velo di colore che circonda le persone! Mi sento uno sciocco, ho così tanto bisogno di ottenere risposte sull’origine dei bagliori variopinti da non riuscire a filtrare neppure la realtà, separandola dalle mie speranze: è evidente che nessun altro può vedere questi colori.

Splat.

Schiaccio l’ultima lucciola morta a causa del freddo e poi me la mangio. Dopo giorni passati in questa valle di cemento a bordo della superstrada la fame si è fatta più crudele: sebbene qualche camionista di passaggio lasci casualmente cadere qualche avanzo di cibo, non ho avuto molte occasioni di fare un vero pasto, così anche i cadaveri di questi insettini mi sembrano briciole di pandoro succulente.

 

Devo capire cosa fare della mia vita, ora. Sono davvero troppo amareggiato per essere soltanto un gattino di pochi mesi! Dovrei correre, saltare, farmi leccare dalla mia mamma, fammi abbracciare dalla mia umana, Maria.

Il disegno di quello che poteva, anzi, che doveva essere, si delinea chiaro nella mia mente. Maledetto l’Uomo Grigio che puzza di alcool, maledetto il giorno in cui mi ha afferrato, insieme ai miei fratellini, e ci ha abbandonati, prima ancora che potessero darmi un nome! Se solo avessi avuto gli artigli che ho ora gli avrei fatto vedere io!

Una fitta lancinante mi stritola il pancino: fame? O dolore? È la prima volta che mi lascio andare a questa rabbia e questo senso di ingiustizia, e al pensiero di tutte le sfortune che in queste settimane ho cercato di lasciarmi scivolare addosso: la ragazza che ha pensato di potermi portare con sé, lontano dall’Italia; l’uomo ubriaco che ha avuto paura di non poter amare né se stesso, né un gatto, né un altro essere vivente; una rana troppo grossa per poter essere la mia preda; un autobus vuoto; luci che sono insetti e luci che non sono insetti, grossi camion che sfrecciano, a volte si fermano e poi ripartono.

Questo turbinio di ricordi si avviluppa al mio stomaco affamato, acuendo i crampi della fame. Nel pieno di questa crisi di panico che mi ha lambito, un bisonte della strada posteggia accanto agli altri: sui parabrezza dei tir, tutti dipinti con colori differenti, sfavillano insegne colorate che riportano i nomi degli autisti. Ogni nome ha un suono e talvolta un alfabeto diverso, perché queste persone viaggiano molto, vengono da lontano, portando con sé le misteriose luci arcobaleno così simili alle lucciole: le vedo galleggiare dentro gli abitacoli degli autotreni, insieme alle insegne e ai pupazzetti appesi agli specchietti retrovisori. Stanno lì, a galleggiare sull’aria, placidamente, ma non escono mai.

Cosa siete, stupide luci? Non siete insetti, non vi può vedere nessuno oltre a me, non siete vincolate alle persone come invece sono le loro auree. Cosa siete?

Il conducente del camion che ha appena posteggiato e che ha approfittato del bagno pubblico sale a bordo. L’enorme camion rosso riparte, portando con sé la cabina piena di bagliori arcobaleno.

La consapevolezza mi travolge: no, non posso più restare qui! Questo è solo un punto di snodo, un crocevia dove la gente passa e non si ferma, porta con sé i suoi colori e la propria anima, per poi andarsene. Che risposte potrò mai trovare qui?

Un altro camion, giallo questa volta, posteggia. L’autista, un uomo del Nord simile a quello che ha portato via la ragazza, Lucciola, e la sua amica, apre lo sportello. Il camion vomita una valanga di riverberi colorati e finalmente capisco cos’è il malessere che mi sta divorando con questa forza: il disgusto. Non è vero che voglio andarmene da qui perché non posso trovare risposte, io voglio scappare da questo luogo perché qui le domande crescono, aumentano, i dubbi mi vengono riproposti ogni qual volta un tir decide di fermarsi o passare davanti a questo posteggio. E io, invece, ora non voglio pensieri! Voglio trovare un posto dove non pensare, dove non interrogarmi sulla natura dei colori, dove non chiedermi se essi sono legati alle persone oppure no. Voglio trovare un luogo dove piangermi addosso, perché ho fame, perché non ho più la mia mamma né i miei fratelli, voglio trovare un posto dove dimenticare che nessuno mi ha mai dato un nome e dove scordare che coloro che ho incontrato sulla mia strada mi hanno abbandonato. Ma soprattutto voglio dimenticare i colori, voglio dimenticare che non ho mai più visto un umano con lo stesso colore rosa pastello, dolce e mite come quello della mia mamma umana, Maria.

*

L’erba finalmente è più pulita: non devo più schivare pezzi di vetro, bottigliette di plastica e mozziconi di sigaretta. Questo mi aiuta a calmare il respiro e il battito del cuore. Sono lontano da quel posteggio privo di storia e di identità, lontano dallo smog della strada e lontano dai rifiuti che la gente butta a terra, soprattutto in posti anonimi come quello. Ho imparato che è più facile sporcare quando non ci si sente a casa propria, e magari nemmeno a casa di altri. Chi ci pensa che anche in un posto come quello spiazzo grigio potrebbero vivere dei gattini come me?

Mastico un po’ di erba umida, pensando a che cosa fare. Ho ancora molta fame, miagolo forte, consapevole che in mezzo a questo prato e a quest’ora della notte nessuno mi sentirà.

Dove posso andare? Qui di colori non ce ne sono, è vero, ma non ci sono nemmeno ripari, né possibilità di cercare del cibo. Mi rassegno ben presto all’idea di dover vagare senza meta, cercando una sistemazione quieta.

Una leggera foschia copre il cielo, per fortuna i miei occhi sanno come muoversi nell’oscurità. Una zampa dopo l’altra attraverso i prati, mangiando erba pur di riempire lo stomaco. Attraverso qualche strada sterrata e qualche stradina di campagna, chissà dove sto andando?

Finalmente ecco davanti a me una meravigliosa visione: un ristorante 5 stelle, ossia un bidone che sembra contenere soltanto raccolta di rifiuti organici. Sarà più facile trovare qualcosa di commestibile senza masticare carta, plastica e alluminio!

Non resto deluso e riesco a sgranocchiare una testa di pesce e un osso di pollo. Mi manca così tanto il sapore del latte della mamma! Ma devo abituarmi a questi sapori rustici, per non dire putrescenti. L’alternativa sarebbe quella di morire di fame ed unirmi a questi rifiuti pronti per la decomposizione.

Con lo stomaco placato è più facile rimettersi a camminare: devo trovare un posto dove dormire. Ormai so che dove ci sono bidoni ci sono case, ma so anche che dove ci sono case ci sono luci e colori, e non ne voglio vedere mai più.

Con la coda dell’occhio riesco a individuare ciò che mi dà la conferma di quanto ho appena pensato: ecco i bagliori maledetti! Li vedo vibrare in lontananza, dentro il casolare perso nei prati a cui credo appartenga il bidone sul bordo strada in cui ho appena frugato.

Sono deciso, non andrò in quella direzione, e vorrei affermare di non voler andare mai più nella direzione di nessuna casa o centro abitato, ma una strana visione paralizza le mie certezze: proprio dall’altra parte della strada si staglia davanti a me una enorme muraglia, intervallata da metri di inferriate. Non ho mai visto una struttura simile a quella, ma ciò che mi stupisce di più sono le luci che brillano timidamente in lontananza. Sembrano rosse, ma da questa distanza è difficile capirlo. Ciò che è palese è la loro staticità: non ballano come le solite luci che galleggiano nelle case o negli abitacoli delle auto e dei mezzi di trasporto, né come lucciole infreddolite pronte alla morte. Sono immobili.

La coerenza mi suggerisce di non dirigermi da quella parte, ma la curiosità di capire se si tratta di un miraggio dettato dalla stanchezza e, appunto, la stanchezza, mettono a tacere il mio orgoglio di piccola tigre.

Mi incammino cautamente e stancamente da quella parte e in pochi minuti eccomi arrivato davanti all’entrata. Sì, è pieno di luci, ma non è nulla di quello che ho visto sinora. Sono candele, candele e lumini rossi, che vibrano davanti a lapidi commemorative su cui sono stampate delle fotografie.

Varco l’entrata e il silenzio mi avvolge. Le immagini mi scrutano quiete dalle loro postazioni e capisco di essere capitato in un cimitero.

Sono frastornato dal silenzio che circonda questo posto buio. Valuto se davvero voglio restare in questo luogo, chiedendomi se non sia troppo spettrale. La risposta arriva immediata e certa, mentre mi accoccolo dentro una tomba di famiglia, sotto un piccolo cespuglio in vaso, illuminato dalla luce rossiccia delle candele e avvolto dal profumo dei mazzi di fiori freschi. Non c’è nulla di spettrale in questo luogo: in tutto il resto del mondo sono stato travolto da luci e colori di cui non conosco la provenienza.

Qui, invece, in un luogo di morte, ecco che finalmente ho trovato ciò che cerco, un luogo quieto, senza il turbinio dei bagliori che mi hanno dato il tormento: ho trovato la pace.

Disegno di Silvana Sala