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La poesia può vestire abiti assai diversi tra loro, può essere bene e male allineata, essere bianca o sporca, può essere vivida o indeterminata, però una proprietà, per essere definita tale, deve avere a prescindere: irriverenza. Deve, necessariamente, non essere omologazione. E in questo periodo fatto di comunicazione racchiusa in schemi e social, che siano facebook, youtube, instagram, o solo abbreviazioni da messaggio frettoloso, gergo giovanile, o moda dimenticabile, la poesia è, unica e sola, in opposizione a questa perdita quasi totale di identificazione dell’unicità.
Il libro di cui parliamo è una raccolta di Elena Zuccaccia, il suo primo pubblicato, edito da Pietre Vive Editore.
La prima cosa che colpisce nei suoi versi è la capacità di indicare la metrica attraverso la punteggiatura. Sono piccoli frammenti amorosi senza inizio e senza fine, sono incontri di pelle, di dita, a volte di occhi, a volte di niente, per perdersi, poi, in assoli quasi indifferenti a se stessi. Sono stanze dalla porta socchiusa e con un filo di luce che arriva dalla finestra. Quel piccolo filo di luce è la connessione, il corridoio poetico della Zuccaccia.

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