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Mercoledì, 19 Dicembre 2018 21:54

Selene Capodarca - La diagnosi

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La diagnosi

“Ambasciator non porta pena” si ripeteva senza alcuna convinzione Enrico. Era un mantra che gli risonava dentro ormai da venticinque anni, venticinque anni e tre mesi esattamente, dal giorno in cui consegnò la sua prima diagnosi.

Quella mattina di marzo, dietro allo scudo del suo camice bianco, guardò la paziente negli occhi e pronunciò quelle parole con simulata calma.

La sua voce aveva il tono distaccato con cui le aveva pronunciate tutte di un fiato la mattina stessa, davanti allo specchio del bagno: “midispiacenonsonobuonenotizieepatocarcinoma”. Era sicuro che anche l’espressione del suo viso in quel momento era quella che aveva studiato nel minimo dettaglio nelle sue prove mattutine. Le sopracciglia non l’avevano certo tradito: con una lieve contrattura muscolare avevano obbedito e si erano arcuate leggermente, quel tanto che basta a trasmettere l’empatia di cui a cui i pazienti si aggrappano quando il medico toglie loro la terra da sotto i piedi. Si chiedeva se fosse questo il motivo per cui le sue sopracciglia si erano appesantite in tutti questi anni, come i fili di un vecchio stendino, piegate sotto quei pesanti appelli di aiuto da parte dei suoi pazienti.

Eppure qualcosa andò storto quella mattina, o meglio, andò come sarebbe poi andato negli anni a venire, però questo Enrico non poteva saperlo.

Si era preparato bene, come nei film, ripetendo la scena più e più volte davanti allo specchio, cambiando tono, parole, espressioni e ritmo di respirazione: una pausa ed un respiro profondo dopo la parola “notizie” era una concessione che ci si poteva permettere, ma solo a patto di non tenere la paziente troppo in sospeso, passando subito ad elencare rapidamente le varie opzioni terapeutiche - ben poche in questo caso – senza indugi, una volta arrivati alla parola “epatocarcinoma”. E così, Fellini di sé stesso, fece entrare la paziente ed iniziò la scena. “Buongiorno dottore” sarebbe stato il suo ciak negli anni a venire, fino a che non arrivò a capire che non vi era alcuna differenza tra un copione studiato alla perfezione ed un atto di improvvisazione. A quel punto smise semplicemente di allenarsi allo specchio.

Quella mattina di marzo, a restituirgli l’immagine non c’era più uno specchio appannato, ma il viso smarrito di una ragazza di trentadue anni a cui aveva appena comunicato una sentenza di morte. Espulse con tutta la calma e l’indifferenza che era stato capace di raccogliere, le parole di Enrico avevano acquistato una forza inaspettata, come se avessero assunto vita propria, sette proiettili sparati a raffica da un fucile automatico. Dopo aver colpito con violenza la paziente facendola sussultare, gli rimbalzarono indietro come un boomerang. Il suo camice bianco si rivelò un inutile scudo di carta, trattenne con a fatica le lacrime ed infine si ricompose. “Mi dispiace” disse alla paziente, con un tono mortificato, quasi ad addossarsi le colpe di un fegato ribelle che non era il suo.

“Ci si abitua Enrico, non ti preoccupare” gli aveva detto il Prof. Corselli stringendogli una spalla, “Le prime volte è così per molti ma poi ti ci abitui”. Fu una delle poche volte in cui il Prof. Corselli si sbagliò, e il tempo lo confermò.

Mai detto fu più sbagliato, ci sono ambasciatori che portano pena ed Enrico era uno di quelli, suo malgrado. Era normale per lui che i pazienti gli riversassero addosso il proprio dolore, come un travaso obbligatorio. Per poterli alleviare delle loro pene, avrebbe dovuto farsene carico lui. Una prima legge di conservazione della massa applicata al dolore: “nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. E lui in quegli anni aveva preso il dolore degli altri, e lo aveva trasformato in lacrime, in rughe, in gastrite perforante, in disfunzione erettile, in una pesante insostenibilità che si era ormai cronicizzata, in frustrazione e in divorzio. Era inevitabile, il boomerang delle sue parole nefaste colpiva il paziente e tornava sempre a colpirlo.

Adesso non si allenava più allo specchio, sapeva che non sarebbe servito. Quantomeno aveva imparato a conoscersi, e se non era ancora riuscito a liberarsi dal senso di colpa per il dolore causato dalle sue parole, si era almeno liberato dalla frustrazione di non riuscire ad essere diverso. Enrico era così, un termovalorizzatore del dolore altrui, un algovalorizzatore: per cercare di incenerire il dolore altrui doveva bruciarsi a sua volta.

L’odore appiccicoso del dolore altrui gli restava addosso, lo sentiva mentre tornava a casa la sera passeggiando sul lungofiume mentre ripensava ai suoi pazienti, un senso di nausea che non lo lasciava mai. E l’avevano sentito anche i suoi amici, che da anni avevano smesso di invitarlo a cene, ricorrrenze e battesimi. Neanche quando la sua prima moglie gli disse chiaramente che nessuno era interessato ai suoi discorsi di morte mentre si era occupati a celebrare la vita, riuscì a non trattenersi. Di hobby o interessi non ne aveva mai avuti e per quanto si sforzasse di parlare di altro, ritornava sempre lì: se non parlava di pazienti morti o in fin di vita, finiva a parlare dei loro figli, di mogli e madri coraggiose o delle ultime parole dei loro pazienti morenti.

“Niente riesce a celebrare la vita più delle ultime parole di qualcuno che sta per perderla”, pensava Enrico, ma nessuno sembrava essere interessato.

Soltanto due cose riuscivano a liberarlo dalle pesanti funi della sua empatia e distrarlo, la sua scatola rossa dei ricordi– vecchie foto sbiadite del suo viaggio in India, le polaroid del picnic sul lago con i genitori, la loro cagnolina Milla, un biglietto per il concerto dei Pink Floyd, reminiscenze di un Enrico che non esisteva più – ed i giovedì con Silvia. Da sette anni, dopo l’ultimo paziente delle otto, quando tutti i medici dell’ambulatorio se erano andati, Silvia sistemava le ultime ricette nel casellario, inseriva la segreteria telefonica e bussava alla sua porta. Seduto sulla sua poltrona, lui l’aspettava, la guardava inginocchiarsi e spostare i suoi lunghi capelli di lato, come in un rituale anticipatorio e ad occhi chiusi, sotto le labbra di Silvia, si dimenticava del mondo.

Ma oggi era lunedì, aveva dormito male ed era il giorno della Signora Giannelli. Enrico si guardava allo specchio e pensava a cosa l’avrebbe aspettato. La nuova segretaria gli avrebbe fatto trovare le cartelle cliniche degli appuntamenti del giorno sulla scrivania, ordinate per ordine di orario delle visite, come farebbe qualsiasi segretaria. Lui, per una sua consuetudinaria abitudine volta, chissà, ad alleviare la tensione o forse per un semplice vezzo, le avrebbe riordinate in ordine decrescente di gravità: gli incurabili in cima, i meno seri in fondo.

Sia in base al il criterio cronologico della segretaria, che a quello di gravità di Enrico, la cartella della signora Giovanna Giannelli, l’appuntamento delle nove e mezza, sarebbe stata la pima della pila.

Enrico si sarebbe seduto alla scrivania, avrebbe preso la cartella e, dopo aver inspirato profondamente, avrebbe guardato la signora Giannelli negli occhi e le avrebbe comunicato la notizia, attendendo da lì a breve quel doloroso crampo allo stomaco che immancabilmente l’accompagnava in queste occasioni. Sarebbe andata così, pensava Enrico mentre si infilava i pantaloni.

“Il caffè è pronto” gli urlò sua moglie dal piano di sotto, risvegliandolo dai pensieri in cui era assorto.

“Il caffè, dice lei. Già! Chissà come si sentirebbe Paola al mio posto?” si chiese scendendo le scale. In tutti quegli anni di matrimonio non gliene aveva mai parlato e del resto sapeva bene che non l’avrebbe capito: Paola era una donna pratica, pigra nei sentimenti e prodiga di parole. Non c’erano sfumature nelle sue emozioni, o forse semplicemente non le conosceva, che comunque è la stessa cosa. Per lei esistevano soltanto due modi di sentire: lo stare bene o lo stare male. Era ben evidente che con la sua modalità “acceso/spento”, le conversazioni sull’animo umano venivano ben presto esaurite. In compenso avrebbe potuto parlare per ore di detersivi, personaggi dello spettacolo, figli e mariti di colleghe e gatti da adottare.

Fu proprio di questo suo modo di leggere il mondo in colori a tinta unita, che si innamorò Enrico. Per uno come lui che non poteva esimersi dallo scomporre fino all’ultimo atomo, le proprie emozioni, per poi affannosamente ricomporle e catalogarle in giuste e sbagliate secondo un proprio giudizio morale, aiutare a risolvere i dilemmi di Paola sul modello delle tende di casa era per lui una ventata di aria fresca.

Cosa avrebbe provato Paola a dover comunicare alla signora Giannelli quella diagnosi? Il suo modello dicotomico si applicava male a queste situazioni. Enrico non lo sapeva e comunque non valeva la pena pensarci, certe questioni non la riguardavano.

Sapeva invece cosa avrebbe provato Ishtar della neurologia: nulla, o al più irritazione. Ne avevano discusso innumerevoli volte ed era stata proprio lei a inviargli la signora Giannelli, dopo che la TC aveva evidenziato una massa importante nella regione frontale.

“Il mio lavoro qui è finito, non è niente di neurologico. Te la passo volentieri” gli aveva comunicato in quello che gli era sembrato più un frettoloso ordine che una richiesta.

“Comunque la paziente è stata avvertita chiaramente delle diverse possibilità. Una massa di quel tipo alla TC non è mai niente di buono”.

Ishtar lo disprezzava per l’empatia che provava nei confronti dei suoi pazienti, da lei considerata una patetica debolezza “da un uomo, prima di tutto, e poi da un medico del tuo livello” gli aveva chiaramente detto una volta nei corridoi dell’ospedale.

“E come darle torto?” pensava Paolo. Non aveva forse ragione nel sostenere che loro non avevano colpa se le cellule dei pazienti ad un tratto impazzivano, rifiutandosi di seguire le regole che i medici cercavano invano di imporre?

“Se anche le mie cellule dovessero diventare più ribelli dell’anarchico Pinelli, non me la prenderei certamente con il medico” aveva ribadito Ishtar mentre Enrico cercava di spiegarle il significato della parola empatia, “EM-PA-TI-A”. Lei gli aveva ribadito per l’ennesima volta che conosceva benissimo il significato, ma da anni aveva scelto di farne senza. “Ti consiglio fare altrettanto”, aveva aggiunto.

“Farne senza! Come se fosse una questione di scelte” aveva obiettato con frustrazione Enrico.

Lei lo guardo stupita e troncò la conversazione in modo lapidario: “Non capisco davvero cosa voglia dire, Enrico”, ed era sincera.

Nonostante queste differenze di vedute, Enrico aveva voluto informarla dei risultati della risonanza della signora Giannelli: “Glioblastoma, come sospettavo. Vedrò la paziente lunedì”.

“Almeno potrà dare la colpa al tumore per aver messo le corna al marito a destra e a manca negli ultimi tempi” commentò ridendo Ishtar “È il suo lobo frontale, non è lei, dille di non sentirsi in colpa”.

Erano già le nove, l’ospedale era vicino ma doveva sbrigarsi ed era anche scoppiato un diluvio. Dette un bacio a sua moglie ed aprendo la porta le chiese: “Come ti sentiresti se dovessi dire ad una ragazza di quarant’anni che sta per morire?”.

“Non saprei, ma che domande mi fai? Eviterei di doverlo fare. Ricordati le crocchette per il gatto quando torni”.

***

Non aveva voglia di interrogare la classe quella mattina, né di spiegare ai suoi studenti le formule di conversione da coordinate polari a cartesiane, a loro non importava di impararlo e Fabio stesso era consapevole che non sarebbe mai servito a nessuno. Non aveva voglia di ascoltarli, né di essere lì con loro in quella classe illuminata dalle luci a neon che dava a tutti una patina ambrata, come in alcuni quadri del seicento. Un compito a sorpresa avrebbe ridotto al minimo l’interazione con i suoi studenti per la prossima ora.

Negli ultimi tempi aveva la testa altrove, a casa qualcosa era cambiato eppure ma non riusciva a capire esattamente cosa. Giovanna era strana, e a parte quei fastidiosi mal di testa sempre più intensi c’era qualcosa di profondamente diverso. Cosa l’aveva portata a spingerlo nell’androne di un palazzo del centro l’altra sera e tirargli giù i pantaloni nel sottoscala? Poteva passare chiunque, cosa le era preso? Neanche da fidanzati era mai successo, non era da lei, non dalla Giovanna che conosceva.

Ultimamente era come impazzita, libera, quando non era distrutta da uno dei suoi mal di testa violenti, era ossessionata dal sesso. E che sesso poi! Fabio mise distrattamente la mano in tasca ed accolse con contentezza quell’erezione intervenuta a spezzare quell’ora di noia. Protetto dal piano di legno della scrivania si sistemò i pantaloni ed alzò lo sguardo sulla classe.

Continuò a pensare a Giovanna. Anche il suo modo di parlare era più libero, quasi sboccato a volte, ma non gli dispiaceva. In aspro contrasto con la Giovanna con cui aveva condiviso gli ultimi cinque anni della sua vita, sempre moderata in tutto e mai una parola inopportuna, questa Giovanna 2.0 era sicuramente un miglioramento.

Si chiedeva da dove avesse imparato certe cose, si era anche chiesto per un breve istante se per caso avesse un amante, ma aveva ricacciato indietro l’idea. La sua Giovanna non sarebbe mai stata in grado di tradirlo. Sarà stata la sua amica Cristiana, da quando aveva divorziato non faceva altro che passare da un uomo a un altro, come un’adolescente assatanata. Chissà che idee le aveva messo in mente, eppure l’altra sera quando era passata da casa a prendere Giovanna non era riuscito a trattenere un sorriso di gratitudine. Aveva visto bene come lei aveva ricambiato lo sguardo, quasi a dire “goditela bene questa nuova Giovanna”, sì sicuramente era merito di Silvia si ripeteva Fabio.

Era sicuramente un bel periodo: l’arrivo di questo bambino cercato da anni, l’assunzione a tempo indeterminato, un lavoro che tutto sommato non gli dispiaceva, la nuova casa, insomma, era l’immagine evidente di un italiano medio, mediamente felice. Se solo non fosse stato per quei forti mal di testa di Giovanna, niente sarebbe potuto andare meglio.

“E se fosse un tumore?” gli aveva detto una sera Giovanna. Stava scherzando e Fabio lo sapeva, ne avevano anche riso, ma da quel momento un senso di angoscia sorda non l’aveva lasciato. Era intrappolato in un rimando continuo di echi di dolore: dolore per Giovanna che stava male, per il bambino che, se veramente fosse stato un tumore, non sarebbe forse sopravvissuto, dolore per il dolore che Giovanna avrebbe provato di fronte alla malattia e per il doversi trovare di fronte alla scelta più difficile della sua vita: scegliere se salvarsi lei o il bambino. Un gioco infinito di specchi che soltanto la morale ferma di Giovanna avrebbe potuto spezzare, avrebbe scelto il bambino, senza indugio.

Guardò ancora la classe, mancava ancora mezz’ora, spazzò via quei pensieri tornò a pensare al seno di Giovanna. In fondo era un grande ottimista, sarebbe andato tutto bene.

“Sarà sicuramente la gravidanza, a farla comportare così” pensò “Gli ormoni, si sa. Eppure al terzo mese non dovrebbe essere così, presto finirà andranno via i mal di testa e con loro anche la mia piccola adorata porcella”.

Gli venne da sorridere, controllò ancora una volta l’erezione e penso che era felice. Non vedeva l’ora di tornare a casa, stringerla forte e dirle che il meglio doveva ancora venire.

***

“Il peggio deve ancora venire” pensò Giovanna, appoggiando la testa al finestrino. Il freddo del vetro le dette un po’ di sollievo, anche quella mattina si era svegliata con il solito mal di testa che ancora adesso la accompagnava. Tutto era doloroso, il rumore del treno, le luci dello scompartimento, la voce che annunciava le stazioni, qualsiasi cosa le scavava in testa e le ricordava come una canzonetta fastidiosa, che quell’ammasso di cellule era sempre lì.

Del resto, la dottoressa Boeri glielo aveva detto senza mezzi termini, all’ultima visita osservando la TC: “una massa così estesa non può mai esser una buona notizia”.

Ripresasi dallo stordimento, aveva cercato di capire dall’espressione della dottoressa quanto cattiva potesse essere la notizia. Con un tono simile a quello della voce che adesso annunciava l’ingresso nella stazione di Sesto San Giovanni, la dottoressa aveva elencato una serie di possibili diagnosi, svariate delle quali terminanti in “oma”, la migliore delle quali poteva essere asportabile chirurgicamente. Nessuna inflessione nella voce, nessuna esitazione, un tremore, un sorriso di conforto, un inarcarsi di sopracciglia, niente di tutto questo, per la dottoressa Boeri il messaggio era chiaro e non necessitava di alcun fronzolo emotivo: Giovanna aveva una massa di natura da definire sul lobo frontale.  

E da quel giorno quella massa era diventata la sua parte più importante, come se non solo la sua persona, ma tutto il suo mondo, si sviluppasse attorno a quell’ammasso di cellule. Il suo lavoro, il suo matrimonio, il suo bambino, le sue azioni, i suoi pensieri, adesso tutto si stringeva attorno a quella pallina.

Per circa due anni lei e Fabio avevano cercato di avere un bambino. Fu un periodo doloroso, fatto di fallimenti, costose cure ormonali, innumerevoli tentativi e dolorose recriminazioni. In quel periodo il mondo attorno a Giovanna si era trasformato in un esercito di pance e neomamme, come se ad un tratto le avessero messo addosso degli occhiali speciali, in grado di filtrare esclusivamente l’oggetto della sua ossessione. Non che le donne incinte e neomamme fossero di colpo aumentate, lo sapeva bene Giovanna, ma in quel periodo vedeva soltanto quello: la vicina del secondo piano era incinta, persino quella signora acida del terzo aveva appena avuto due gemelli, i giardini che si erano trasformati in un ricettacolo di mamme e bambini, il cinema e la televisione sembravano parlarle soltanto di gravidanze e coppie felici. Qualsiasi donna dai venti ai quarant’anni che rifiutasse dell’alcool ad una cena passava sospettosamente dall’altra parte, quella delle donne che ce l’avevano fatta. Un’epidemia di donne incinte, a partire dal suo mondo più prossimo, le sue colleghe, le vicine, fino ad allargarsi alle donne del quartiere, per espandersi con una violenta forza centripeta alla sua città, alla provincia, al suo paese fino ad allargarsi sempre di più.

Da quando aveva saputo del suo ammasso di cellule invece, per un crudele un gioco di zoom all’inverso, il percorso si era compiuto a ritroso, il suo mondo si era stretto adesso attorno a quella massa, Giovanna era diventata il suo tumore.

Il treno frenò bruscamente, si ricordò per un attimo del bambino e si toccò la pancia. Fino a due settimane fa lo amava più della sua stessa vita, ma ora era diverso, adesso doveva fare i conti con un’altra massa che le cresceva dentro. Si toccava la pancia cercando di trovare amore, un po’ come quando aveva pregato un Dio in cui non credeva di donarle la fede. Anche stavolta, come quella volta non aveva funzionato. I sensi di colpa la costringevano ad amarlo- come può una mamma non amare il proprio bambino? - ma la rabbia era più forte.

Che diritto aveva quel bambino di tenere la sua vita in ostaggio? Se era al mondo, lo era solo grazie a lei. Era così che la ringraziava? Costringendola a scegliere tra la propria vita e la sua? Avrebbe dovuto rinunciare a curarsi e morire soltanto per salvarlo? Non solo, ma se lo avesse fatto, avrebbe forse dovuto sentirsi in colpa? In base a quale morale? Ripensò ad un articolo di giornale letto tempo addietro su una donna incinta che aveva rifiutato la chemioterapia, quella donna che allora le era sembrata così eroica, le sembrò adesso soltanto patetica.

Fabio non sapeva niente ancora, sapeva soltanto dei mal di testa. “E se fosse un tumore?” gli aveva detto una volta mentre erano a letto, spezzando la tensione con una risata nervosa. Non ne avevano più parlato.

Fino a tre settimane prima quel bambino, così tanto desiderato era la cosa più importante al mondo, adesso era diveso. Dal giorno dell’ultima visita aveva pensato continuamente a cosa avrebbe scelto, il dolore del pensiero di perdere il bambino così intenso e schiacciante dei primi giorni, era ormai un abito leggero gettato sul pavimento. Non ci sarebbe più tornata sopra, aveva deciso e non si sarebbe sentita in colpa.

Si strinse ancora di più attorno alla sua massa di cellule nella sua testa e pensò con rabbia che non avrebbe ceduto a questi giochetti.

Ripensò alla sua ultima visita: “Vede qui, guardi, sul lobo frontale. Questa massa di tre centrimetri e mezzo, la vede?”, le aveva detto la dottoressa Boeri.

La stava veramente invitando a guardare? Perché avrebbe dovuto? Aveva girato la testa dall’altra parte, su un calendario appeso al muro una bionda sorridente sembrava evidentemente contenta della sua sertralina cloridrato. Avrebbe voluto dire qualcosa ma non le erano venute le parole, in ogni caso la dottoressa sembrava quasi infastidita ed aveva fretta di terminare la visita.

Eppure, alla prima visita si era dimostrata così cordiale e disponibile. Giovanna si era sentita così stupida per essersi sfogata in quel modo la prima visita, quasi fossero due amiche. Cosa le era preso?

Dopo averla visitata, occhi, riflessi, equilibrio, la dottoressa le aveva chiesto se avesse notato un cambiamento nel suo comportamento ultimamente. “Di qualsiasi tipo” aveva detto.

Lasciandosi convincere dalla sua gentilezza, aveva confessato, non senza imbarazzo, di come ultimamente si sentisse libera, quasi incontrollabile, le raccontò del suo nuovo collega in ufficio, dell’inquilino del secondo piano e dell’istruttore di palestra, le parlò dei suoi sbalzi di umore e di come talvolta si lasciasse andare nel parlare.

“Un po’ sboccata, per spiegarle. Non capisco cosa mi succeda dottoressa, è come se non riuscissi a controllarmi. E poi questi mal di testa. Sarà forse colpa della gravidanza, degli ormoni?”.

“Non si preoccupi, potrebbe essere qualsiasi cosa, Ne riparliamo quando avrà fatto la TC, stia tranquilla”.

La TC non era andata come avrebbe sperato, ma non era bastata a definire la diagnosi, alla fine della visita la dottoressa le ordinò una risonanza magnetica in urgenza e le dette il numero del dott. Cangemi. “Enrico è un ottimo medico, la saprà aiutare, vedrà”.

Il treno stava entrando in stazione, Milano centrale. Era passata una settimana dalla sua risonanza. “Non è una buona notizia, ma magari neanche una delle peggiori” si diceva adesso Giovanna, “Forse la massa è asportabile chirurgicamente. Anche la dottoressa non l’aveva escluso”

E poi se fosse stato qualcosa di grave l’avrebbero chiamata, non si fa così di solito?

Aveva cercato su internet una foto del dott. Cangemi, e adesso ad occhi chiusi e con la testa appoggiata al finestrino si immaginava la scena. Sarebbe entrata nel suo ufficio, e dopo essersi presentata gli avrebbe raccontato sua storia. Lui avrebbe guardato i suoi esami e sorridendo le avrebbe detto “Nella sfortuna siamo state fortunate signora Giannelli, la massa è circoscritta ed operabile”.

Lei sarebbe tornata a casa ed avrebbe raccontato tutto a Fabio, lui l’avrebbe perdonata per avergli nascosto tutto ed avrebbero guardato al futuro. Perché arrivata a quarant’anni, Giovanna aveva iniziato a dividere il mondo in due categorie: quelli che guardano avanti e quelli che guardano indietro. Lei continuava a rientrare a testa alta nella prima, non sarebbe certo stato quel suo ammasso di cellule a cambiare le cose.

La giovane sposa che aveva visto provarsi il vestito nel negozio da sposa del centro guardava avanti. Il signore di mezza età seduto di fronte a lei con il suo nipotino guardava avanti, era evidente. Sua madre, da venti anni, da quando era morto suo fratello guardava indietro. Stefania, dal giorno del suo divorzio continuava a guardare indietro, Mariella invece da sempre aveva pensato a come sarebbero potute andare le cose, sin da giovane aveva sempre e solo guardato indietro.

Giovanna no, Giovanna continuava a guardare al suo futuro felice.

Il treno entrò in stazione con venti minuti di ritardo. Giovanna scese dal treno e si affrettò verso la metro che l’avrebbe portata all’Istituto Besta, erano già le nove e dieci. Avrebbe doveva affrettarsi ed invece si fermò.

A volte basta poco per cambiare direzione, pensava Giovanna: una pallina di cellule impazzite, il dottor Cangemi che ti dice che non siamo fortunate e ti trovi tutto ad un tratto a fare inversione ad U. E lei non aveva voglia, non oggi. Aveva voglia di continuare a guardare avanti, almeno per un giorno ancora.

A Milano aveva smesso di piovere e non c’era motivo per voltarsi a guardare indietro. “Un biglietto per Venezia Santa Lucia” chiese sorridente al bigliettaio.  

Letto 8825 volte Ultima modifica il Giovedì, 20 Dicembre 2018 16:30