Una giornata in collina - Ratti e piccoli roditori del centro di recupero di Torino

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fotografia di Rachele Totaro fotografia di Rachele Totaro

“E quanti ne arriveranno mercoledì?” chiesi a Federico; “pochissimi.” – mi rispose lui – “solo settantanove”.
Probabilmente feci un’espressione strana, espressione del tipo: “come fa a dire ciò? settantanove vite salvate sono tantissime!” ma Federico non si scompose, perché di lì a poco mi diede in mano un foglio stampato dal sito del Ministero della Sanità con le stime dei topi (Mus musculus) utilizzati nei laboratori italiani nel solo anno 2014: quattrocentottantacinquemilaottocentoventi. Mezzo milione.

La Collina dei Conigli Onlus nasce a Monza nell’ottobre del 2010 con l’intento di fare uscire quanti più animali possibile dai laboratori di ricerca e sperimentazione. Secondo la legge italiana, infatti, (ddl 116/92) i laboratori possono cedere alle strutture competenti tutti quegli animali che, per il tipo di sperimentazione subita, non costituiscono un pericolo per gli esseri umani e gli altri animali e possono avere ancora una normale aspettativa di vita. Ed è grazie a questa piccola frase: L'animale mantenuto in vita, al termine di un esperimento, può essere tenuto presso lo stabilimento utilizzatore o altro stabilimento di custodia o rifugio, purché siano assicurate le condizioni di cui all'art.5 inserita in un lunghissimo documento scritto che gli animali utilizzati negli esperimenti possono lasciare quelle mura orribili; mura che sanno di paura, dolore e, purtroppo, per la maggior parte di loro, morte.
In realtà, prima del 2010 e prima che Stefano Martinelli (presidente dell’associazione) ci pensasse, gli animali morivano tutti in quei laboratori, poiché fuori da quelle mura, nessuno aveva mai pensato, voluto o provato a occuparsene. Invece, dieci anni fa, il registro cambiò e si iniziarono a gettare le basi legali e concrete per quello che divenne il primo centro di recupero e riabilitazione per conigli e piccoli roditori da laboratorio in Italia.
Tra i volontari che si adoperavano per i piccoli roditori c’era anche Federico Gallo, un ragazzo di Torino particolarmente appassionato e innamorato di quegli esserini, che ogni settimana si faceva centocinquanta chilometri per andare a prestare il suo tempo e le sue energie al centro. I primi anni passarono e ormai il centro accoglieva centinaia di animali tra conigli bianchi, cavie, topi e ratti. Tutti i ratti, le cavie e i conigli venivano sterilizzati e chippati. Il problema più grande era costituito dai topolini, per i quali, essendo impraticabili sterilizzazione e castrazione, si rendeva necessario dividere i maschi dalle femmine e anche i singoli maschi tra loro.
Fu così, che un po’ per spazio, un po’ per tenere sott’occhio gli animali bisognosi di cure, Federico iniziò a portarsi a casa alcuni ratti. I casi particolarmente delicati crebbero al punto tale che un anno fa venne inaugurato a Torino il secondo centro di recupero per animali da laboratorio - guarda caso - non lontano da casa di Federico.
E oggi, con questo articolo, è proprio lì che vi porterò.


Sono stata al centro due volte ed entrambe è stato come entrare a casa di amici indaffarati, ma molto contenti di ricevere visite.
Il lavoro da fare infatti è sempre molto, mentre le braccia che aiutano, poche. Così capitava che mentre mi parlavano, le loro mani fossero intente a raccogliere segatura, scopare il pavimento o riempire ciotole di cibo.
Non sapevo bene come immaginarmi un “centro di recupero per ratti”, ma quello di cui ero certa è che, per il quieto vivere e per evitare lamentele infondate, non avrei trovato un’insegna luminosa ad indicarlo. La mia intuizione si rivelò corretta e infatti fui introdotta in quello che sembrava un normalissimo portone, oltrepassai il cortile e, solo dopo una porta tagliafuoco, capii di essere arrivata: decine e decine di gabbiette colorate mi si presentarono davanti agli occhi.

Nella prima stanza ci sono i “monolocali” per i topi maschi. Essendo animali territoriali, mai mettere due topi nella stessa stanza, se ne darebbero di santa ragione. Dentro ogni gabbia c’è una ruota (adorano correrci sopra!), un piccolo tunnel di cartone (un rotolo vuoto della carta igienica), un beverino con l’acqua e una ciotolina sempre colma di semi colorati. A ogni pulizia della gabbietta viene dato loro qualche strappo di carta igienica o scottex con cui provvedono subito a rifarsi il nido (questa cosa delle pulizie giornaliere li scoccia molto!).
Più si rimane lì e più quella stanza inizia a prendere colore e personalità con l’aiuto di Federico che inizia a raccontarmi aneddoti e a elencarmi nomi e attitudini. E così vengo a scoprire che sono trecentoventitrè, che ognuno di loro ha un nome e che davanti alla porta d’entrata ci sono i topini più impavidi, quelli che amano giocare con le dita dei visitatori. Nascosto c’è il girone dei timidi. Una delle cose che personalmente mi ha colpita di più è stata la pulizia in cui vivono quegli animaletti: ogni gabbia, infatti, viene pulita e controllata quotidianamente. Ognuno di loro è conosciuto e amato come se fosse unico e, il fatto di conoscerli uno a uno, li fa passare da essere un numero, a, quindi, essere un soggetto libero e con una propria personalità.
Nella stanza a fianco invece vivono liberi i ratti, maschi e femmine insieme, perché sono tutti sterilizzati e microchippati cosicché si possa risalire alla loro storia clinica, in caso di cure.
Entro e mi immagino già un brulicare di zampette che corrono e invece niente: silenzio. Sembrerebbe che - a prima vista - non ci sia nessuno e mi stupisco: dovrebbero essere tantissimi! Aspetto un po’, guardo con più attenzione e inizio a intravedere delle code che escono dai buchi delle varie cassette di cartone. Federico ne alza una e di colpo mi ritrovo decine di occhietti sonnacchiosi che ci guardano e sembrano dire: “rimetti giù sta scatola! Non vedi che stiamo dormendo?!?”
I ratti: vengo a sapere che non possono fare a meno del contatto tra loro, che vivono in colonie e che ogni colonia ha un capo; mentre i topolini maschi, se lasciati insieme, si ridurrebbero a brandelli, i pacifici ratti invece, non possono proprio fare a meno della compagnia dei loro simili, indipendentemente dal sesso. Ed è per questo motivo che il numero minimo per poter adottarli è tre. Noemi mi racconta che tra ratti nascono vere e proprie amicizie, e che talvolta, in una coppia, se uno dei due amici si ammala, l’altro gli sta vicino; mi parlano anche di Endira ed Elio e di come si siano fatti compagnia per una vita e di come poi, siano morti praticamente insieme.
Passo il tempo chiacchierando con i ragazzi che fanno i volontari e intanto si avvicina l’ora di cena e lo si capisce perché quella stessa stanza, che prima sembrava vuota, inizia come a muoversi tutta. L’arrivo delle ciotole con la pappa sembra la Grande Sveglia: iniziano le danze. Il menù prevede fusilli al ragù vegetale, tofu, crocchette, pane, grissini, insalata e pere. Il cibo dura più o meno il tempo di augurarsi buon appetito: arrivano, prendono con le loro manine, mettono in bocca e portano nella loro tana. Sono affascinata.
Il cibo vien donato da alcune gastronomie vegan della città, regalato dagli avventori, cucinato dai volontari oppure comprato con i soldi dell’associazione. La Collina dei Conigli non riceve sovvenzioni statali né altri aiuti esterni: tutto è mantenuto in piedi da donazioni di privati e aiuto gratuito dei volontari che, tra l’altro, sono pochissimi rispetto alle altre associazioni.
Che esistano quindi, anche nel mondo vegan, animali di serie A e animali di serie B? O magari che sia “piùffigo” farsi i selfie con i cani al canile o le mucche dei rifugi rispetto al pulire le gabbie dei topi? Il dubbio mi assale.

La seconda volta che feci loro visita si respirava un clima di attesa perché quel pomeriggio, sarebbero arrivate nuove code a rinforzare i ranghi. Nuove gabbiette, ciotole piene e scatoloni tagliati a mo’ di casette: tutto era pronto per accoglierli.
Arrivarono trasportati da alcuni volontari di Monza e non ci era dato sapere quale laboratorio li avesse “rilasciati”. I ratti erano bianchi come lenzuola, giovani e appena sterilizzati: probabilmente loro non erano che un sovrappiù a cui - di grazia - non era toccato nessun esperimento. I topini invece, erano dentro scatoloni con la scritta “laboratory animals”. Sbam: marchiati. Ma quella stessa sorte che non aveva arriso a loro pochi anni prima, volle comunque aiutarli adesso, facendoli arrivare al centro abbastanza in tempo per capire che le mani dell’uomo non portano solo sventure e dolore. Questo però non valse per tutti: avrebbero dovuto essere in settantanove, ma uno di loro, questa cosa delle mani non la saprà mai, perché morì la notte precedente. Gli altri invece arrivarono sì, ma magri e con strane escoriazioni addosso. Uno di loro in particolare - non lo dimenticherò mai - aveva all’orecchio una marca di riconoscimento in metallo così grande, da far piegare la cartilagine al suo peso. Alcuni avevano il pelo rado, altri - i più fortunati - erano “solo” terribilmente spaventati dalle nostre mani e saltavano letteralmente via con il cuoricino che batteva a mille. Chissà che paura in quegli stabulari. Chissà che clima orribile si respira in quei laboratori.
Fatto sta che loro ora non sono più un numero: sono Milo Cotogno, Principe Giglio, Geordy, Elvis, Semola, Ciappetta, Martin Luther King. Adesso sono animali.

Io e loro

Fui catapultata nel mondo dei topi circa quattro anni fa: una sera ricevetti un messaggio che mi chiedeva se volessi adottare dei topini liberati dallo stabulario della facoltà di farmacologia di Milano grazie a un blitz. Ovviamente dissi sì e arrivarono a casa mia due nanetti neri dalla coda lunga; avevano circa sei mesi e un pelo lucidissimo. Li chiamai Pitagora e Gianduja. Non avevo mai avuto topi e la prima cosa che imparai è che, come visto alla Collina dei conigli, due maschi nella stessa gabbia, sono come due galli nello stesso pollaio: proprio non ci possono rimanere. E infatti l’indomani andai a comprare una seconda gabbia. A dirla tutta non erano gabbie, ma regge. Erano piccine, ma gli arricchimenti ambientali non mancavano e Pitagora e Gianduja sembravano, a parer mio, felici. Pitagora era schivo e non amava essere preso in mano, Giandu invece mi riconosceva e non appena passavo davanti alla sua casetta, iniziava a saltellare davanti alla porticina, facendomi capire di aprirgliela. La sua ambizione era camminare sopra la gabbia; oltre non osò mai avventurarsi. La sera mi facevo la tisana e ne davo anche a loro, usando come tazza i tappi delle bottiglie: adoravano la camomilla. La bevevano un po’e poi iniziavano a camminarci dentro, rovesciandola. Il galateo a tavola, diciamolo, non fu mai il loro forte. Gianduja aveva un bel caratterino e “soffiava” alla mia beagle Mariù ogni qualvolta se ne presentasse l’occasione. Adoravano le nocciole, i biscotti, gli spaghetti e il pane secco. La frutta era invece sempre la seconda scelta. Non capitò mai che mi mordessero neanche durante le visite dal veterinario.
Ci facemmo compagnia per quasi tre anni: tantissimi per un topolino, pochissimi per me, che piansi molto quando mi lasciarono. Il tempo aveva portato loro dei pelini bianchi sul muso e le orecchie divennero spelacchiate. Pitagora morì nella ciotola del cibo presumibilmente d’infarto (era un ciccione!) e Gianduja invece si addormentò per sempre accoccolato in un mio vecchio fazzolettino di stoffa con i fiori. A pensarci, mi vengono ancora le lacrime e mi mancano incredibilmente.

Quel giorno (dopo i miei ricordi siamo tornati alla Collina dei conigli) quando arrivarono quegli esserini così spaventati e spaesati qualche lacrima mi rigò nuovamente il volto, perché ancora oggi vederli mi emoziona e mi smuove una tenerezza che forse è riconducibile solo al fatto che siano così indifesi.

Il centro di recupero di Torino ad oggi accoglie duecentouno ratti (maschi e femmine) e quattrocentottantotto topi maschi. È visitabile tutti i giorni previo appuntamento.
Penso che la diffidenza verso questi roditori sia dovuta soprattutto al terrorismo psicologico che si fa verso i topi selvatici-che-portano-malattie. Ma, oltre a non essere vero, riferito agli animali da laboratorio non ha alcuna logica. Non fossero sani, non li prenderebbero neanche come cavie e probabilmente, venendo a contatto con l’uomo, sono loro quelli che rischiano di ammalarsi. L’impegno che richiedono poi, è praticamente inesistente se rapportato alle emozioni che regalano e che si possono capire solo conoscendoli e osservandoli. Il centro di recupero, per accogliere nuovi animali in difficoltà, ha bisogno di trovare famiglie consapevoli che adottino gli esserini che lì già vivono, perché per quanto possano fare del loro meglio, i volontari sono pochi e lo spazio limitato. Qualsiasi animale merita di conoscere l’amore e la serenità di una famiglia e vi sarei davvero grata se deste questa possibilità anche ai topi e ai ratti, abbattendo i muri di bugie che la società ha eretto nei loro confronti e provando almeno ad andare a conoscerli.
Questa è la loro pagina Facebook, questo invece il numero di Federico: 3313747132 (responsabile del centro di recupero di Torino).
Un altro modo per potere aiutare chi tanto aiuta questi animali è far loro una donazione.

*Tengo molto a precisare che nessun volontario né tantomeno Stefano Martinelli o Federico Gallo hanno mai espresso giudizi riguardanti i laboratori che decidono di lasciare i roditori alla Collina dei Conigli. Tutto ciò che ho scritto è frutto di quel che ho visto con i miei occhi.