Vincitrice del primo contest

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La vincitrice del contest "memorie dal sottosuolo" è Claudia Farini, con Ostriche.
Ottimi anche i racconti di Diana Salviati, Ivo Ragazzini e Vito Santore.

Ecco il testo della vincitrice:

L’ostrica

Un tanfo di putredine dovrebbe riempire l’aria, ma da me sarebbe giusto che venisse, non dal terreno che abbraccia i morti.

Afferro questo primo pensiero compiuto, lo valuto con distacco, come osservassi i dettagli di un bel bracciale o i ricami di una sciarpa costosa. Me lo ha portato mia suocera, Alma, insieme al rumore grave dei suoi tacchi mentre mi si avvicina.

Ha telefonato presto questa mattina, chiamandomi al dovere di apparire in questa amara ricorrenza.

Al mio arrivo già un gruppetto di cinque o sei persone armeggia con i vasi e i fiori intorno alla tomba di famiglia ma è lei l’unica persona che c’è veramente. Spaventosa, in un dolore che non ha avuto pietà di nessun millimetro della sua superficie. Se piangesse o gridasse o pendesse ingobbita al braccio di qualcuno si potrebbe anche prevedere, tanto per parlare, il talento del tempo nell’aprirsi un varco. Ma così no. Quello che la copre ha avuto il tempo di mescolarsi col sangue e comunica con l’esterno passando dai muscoli e dalla pelle.

Nella mattina di luglio che ci pesa addosso un sole incerto prova ad avvolgere sotto di noi Roma e la sua campagna e, affacciato tra le nuvole, colpisce dove può lasciando in ombra ampie zone e illuminandone altre. La città ai nostri piedi affiora qua e là come un arcipelago scolorito.

Appena arrivata sono entrata nel viale e contemporaneamente nel’attesa di tutti gli sguardi che

mi hanno frugato addosso in un sincero tentativo di empatia. Ho percorso entrambi, fino alla foto di mio marito che occhieggia dal candore del marmo.

Ho sentito la paura premere per uscire ma l’ho contenuta: espormi ancora, continuare a mostrarmi è rischioso e osceno per mille motivi, senza che ce ne sia uno chiaro.

E brucia dove forse la colpa ha potuto annidarsi, se c’è un posto per questo nel corpo.

Poi improvvisamente ritrovo la sua voce che credevo persa in un discorso di milioni di anni fa:

-Sai cosa fanno le ostriche quando avvertono il pericolo?

Mi ha incontrata mentre galleggiavo parecchio al di sotto del grottesco, elemosinando particine nelle pubblicità, proprio nel momento in cui cominciavo a vergognarmi di definirmi ‘attrice’. E come un dio ha fatto e disfatto. Prima concedendomi mille volte quello che avevo sempre sognato, incoraggiando un talento che nemmeno io vedevo più, poi, incastrato dal rimorso di avermi sposata, negandomi tutto e maledicendo ogni giorno il prezioso cognome che ormai portavo anch’io e che non avrebbe sopportato l’affronto di un divorzio.

Adesso che è trascorso un mese dalla morte, di nuovo circondata da questo pubblico deferente che non si stanca mai e che un pubblico non sa nemmeno di esserlo, vorrei vicino l’uomo dei primi anni. Me lo vedo qui, schierato dalla mia parte, sottratto ai meccanismi della vicenda reale che ha fatto di lui un cadavere e di me qualcosa di molto simile alla sua assassina.

Ripercorro involontariamente la semplicità degli eventi, sprofondando nello spavento del silenzio che mi hanno lanciato addosso.

Quella notte mi sono spinta davanti alla porta del bagno oltre la quale avevo sentito un tonfo.

Ho ascoltato in silenzio un pianto biascicato, interrotto dai conati; cercavo il mio nome ma non ce n’era traccia. Mi sono accucciata contro la parete, in attesa. In attesa di qualcosa, in quel momento l’ho capito, stavo da mesi, otto precisamente. Da quando a lui era preso il primo infarto.

Trovarmi là, nella voragine tra il dolo e la pura inerzia, prima che la ragione me li facesse vedere per quello che erano, cioè la stessa identica cosa, in fondo è stato semplicemente come aspettare di poter controllare le mie carte prima di iniziare a giocare una mano.

Alla fine, quando la pressione esercitata da un odio sconosciuto su ogni muscolo del corpo si è sciolta, è scivolata via lasciandomi solo un formicolio sui piedi e sulle dita delle mani.

Non ho risparmiato neanche il silenzio della casa che ormai custodiva i resti di un uomo morto: l’ho lacerato vomitando e poi gridando al telefono.

Alma mi accarezza i capelli e guarda il figlio, bellissimo, in pieno sole nella foto di tre anni fa. Lei annulla tutti, anche io che sono la moglie svanisco accanto a quel simulacro di sofferenza. Ma non me lo posso permettere e detesto che succeda: la coscienza di essere scalzata da lei mi rianima in un attimo. Allora ritrovo coraggio. Con un gesto lento e dolce e, devo dire, abilissimo a nascondere il fastidio, le prendo la mano e me la porto appena un po’ più su delle guance, dove le lacrime sono arrivate a bagnare la pelle. Poi lei mi guarda e io ricambio, senza più abbassare gli occhi.

Oggi ho realizzato che il preciso, concreto desiderio non era ammazzare mio marito, quanto non fare nulla per salvargli la vita e non per colpa del mio rancore, per colpa del suo. É stato per l’espressione ingrata e sdegnata in un eventuale letto di un eventuale ospedale, quella che avrebbe avuto al risveglio se lo avessi soccorso, se si fosse scoperto in debito con me. É stato per il disgusto che gli rinvigoriva gli occhi ogni volta che avevamo a che fare.

Mi devono vedere. Avanzo appena scostandomi dal gruppo e porto Alma con me. Ho ancora bisogno di lei, e premurandomi che tutti quelli che ci accerchiano possano sentire, chiedo alla madre dell’uomo sepolto poco oltre i nostri piedi se sia stata colpa mia, del mio sonno.

Mi risponde con il mio viso tra le mani.

-Dio santo, no..non ci pensare adesso.

Ha lo sguardo placido di chi ha trovato qualcuno con cui dividere una stessa pena.

Non so se mio marito mi abbia sentita respirare oltre la porta.

So che in realtà la mia perla, la vedova a cui ho prestato la faccia, non la sto offrendo solo a chi avrebbe potuto farmi a pezzi e invece mi compatisce. La indosso anche in memoria dell’uomo che mi è capitato di amare e poi di lasciar morire, nello spazio convulso dei dodici anni che mi hanno insegnato tutto su di me.