Simone Censi - Di cosa parliamo quando parliamo d'amore

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Automat

- Permette signorina? - .                                         

All’interno della tavola calda il silenzio è assordante. La luce al neon del locale permea ogni cosa e lo starter difettoso emette un ronzio basso e costante che tende ad ovattare l’ambiente.

L’effetto acustico è lievemente lisergico, l’aria viziata e stagnante del luogo fa capire che durante la serata c’è stata ressa ma che ora, con il protrarsi delle ore, la folla si sia dileguata altrove.

Fazzoletti sporchi, briciole e aloni di boccali che non hanno centrato i sottobicchieri, testimoniano che su quei tavoli si sono consumati pasti, chiacchiere, vite.

Vicino alla porta d’ingresso un ombrello è abbandonato a terra, nero con il manico rosso, qualche stecca ha una brutta piega, probabilmente avrà lottato con qualche acquazzone in passato. Ora sono mesi che non piove. Qualcuno l’avrà certo dimenticato.

I caloriferi, le maniglie, una striscia che corre lungo tutto il battiscopa e un'altra nella parte alta vicino al soffitto, sono di uno strano colore giallo. Voluto a quanto sembra.

Sopra un mobile, vicino la vetrata, una ciotola ospita delle ridicole riproduzioni di frutta in plastica. Potremmo stare qui delle ore a disquisire sulle problematiche psichiche di chi ha avuto quella pensata.

Il caldo è soffocante, i vetri si appannano lasciando risaltare le impronte di chi ci ha appoggiato le mani sporche.

Qualcuno sembra anche averci disegnato qualcosa ma non si capisce bene dalla forma.

Guardo l’ingresso nella speranza che qualcuno entri a cambiare aria in questo posto, ma vista l’ora non credo che venga più nessuno.

Notte fonda, non c’è appeso nemmeno un orologio, potrebbe essere qualsiasi ora.

Le pareti sono spoglie, qualche quadro appeso ogni tanto senza troppa fantasia, qualche pubblicità e qualche specchio che non fa altro che rimandare quello che vede. Probabilmente l’avventore tipico di questo posto è abituato a guardare nel piatto, nel fondoschiena della cameriera dopo che glielo ha portato e nel portafoglio per pagare prima di andare via. Nessuna pretesa.

La sala si è quasi completamente svuotata, fatta eccezione per un barbone che con la complicità del buon cuore della cassiera, sta scaldando le sue quattro ossa dal freddo e l’umidità della notte.

Il vecchio è seduto sul bordo della sedia, ginocchia piegate e divaricate che puntano sulle gambe del tavolo che gli sta di fronte, proteso in avanti, poggiando la fronte sullo spigolo. Una posizione innaturale, in precaria stabilità, il respiro è pesante e l’aria arranca a fatica in quella laringe strozzata, sbava, forse sta dormendo.

Davanti a lui un bicchiere di qualcosa di scuro, forse ha scroccato un drink a qualche cliente, forse ha riversato in quel lurido bicchiere tutti i fondi che era riuscito a trovare sugli altri tavoli e avanzi, avanzi di altri avventori, tutto quello che la donna al bancone aveva avuto premura di non gettare nella spazzatura.

Il cappello liso come i suoi indumenti rimane ancorato inspiegabilmente al cranio, sembra che glielo abbiamo appuntato con una sparachiodi e non ne vuole sapere di scivolare via, la giacca a quadri che indossa è di qualche taglia più grande e probabilmente ha visto tempi migliori e sicuramente anche proprietari migliori.

L’odore di alcool e sudore quando gli si passa accanto è importante, tanto che la puzza di aceto utilizzato per lavare le posate e i piani di preparazione è una liberazione.

Se non fosse stato per quel rantolo strozzato che emette quando espira, se fosse dipeso solamente dal fetore, si sarebbe potuto chiamare direttamente un becchino.

Qualcuno di la in cucina sta pulendo, probabilmente è a fine servizio perché è in quel momento che si passano le posate.

Hanno appena iniziato e si sentono, forchette, cucchiai e coltelli, una volta passati con uno strofinaccio che finiscono in una cassetta.

Dalla frequenza delle posate che vengono lanciate saranno probabilmente più sguatteri o uno solo con una tremenda fretta di ritornare a casa.

Forse entrambe le cose, certo è che quelle posate saranno venute uno schifo.

La luce della cucina filtra attraverso una porta a spinta e un piano passavivande, ma non si vede nessuno. Non si sente nessuno a parte questo tintinnare metallico continuo. A quest’ora di notte la cucina di qualunque locale è chiusa e si possono consumare solamente caffè e avanzi. Quindi al barbone non è andata poi così male.

La cassiera è arrampicata su di uno sgabello davanti la cassa, gonna corta, gambe accavallate, tacchi alti che a malapena riesce a mettere sul poggiapiedi.

Provo a guardarla meglio in quella posizione artefatta, cerco mentalmente di farmi due conti sulle proporzioni ma a occhio e croce dovrebbe trattarsi di una nana o poco di più.

Stretta in un abito che la strizza senza pietà, se ne sta con il trucco sfatto e i capelli arruffati, con lo sguardo perso in un romanzetto rosa, seguendo avida tra le righe emozioni altrui che non le appartengono, muovendo le labbra come se non fosse possibile leggere senza quel movimento che richiama una preghiera e che produce un leggero ondeggiare di fumo della sigaretta accesa che le penzola al lato della bocca.

Altre cicche stanno accanto alla cassa, spente e in piedi, consumate fino ai filtri, come tanti soldatini in attesa di essere schierati sul campo di combattimento, mentre sul bordo del tavolo macchie nerastre di sigarette dimenticate accese a consumarsi fino alla fine. Caduti in battaglia.

- Permette signorina? - .

Lei è sola, sguardo basso sulla tazza di caffè che ha smesso di fumare da tanto, probabilmente è lì da parecchio. Sia lei che il suo caffè.

Questa considerazione contrasta il fatto che nonostante sia ancora seduta non si è tolta ancora il cappotto verde bottiglia con i risvolti in pelliccia scuri e nemmeno il cappello.

Incredibilmente giallo. Possibile che quell’accessorio, quel dettaglio sia l’unico ad abbinarsi con l’arredamento della sala?

Indossa ancora un guanto, alla mano sinistra, non credo sia arrivata da poco, probabilmente stava per andare via ma si è fermata per qualche motivo.

- Posso? -.

Mi avvicino alla sedia vuota davanti a lei dall’altra parte del tavolo, di legno scuro e pesante, sembra ancora non avermi notato, sembra assorta nei suoi pensieri e forse la falda del cappello giallo che indossa ancora mi tiene lontano dal suo campo visivo.

Il suo cappotto verde, morbido, copre un vestito rosso, forse da sera visto il taglio, forse quella donna è di ritorno da una festa vista l’ora, forse a quella festa non ci è mai arrivata.

La sedia vuota davanti a lei mi fa pensare ad un appuntamento mancato all’ultimo e il suo sguardo triste me lo confermerebbe.

Alle sue spalle la notte è più buia oltre quella vetrata, i neon si riflettono come ad indicare un corridoio che sembra volgere verso l’esterno e invece sono la proiezione delle luci all’interno del locale.

Solo quella donna non sembra riflessa su quel vetro, sembra quasi che il suo riflesso sia già fuggito via lasciandola, forse al suo riflesso la serata è andata meglio e lei invece è rimasta lì nella più assoluta solitudine.

- Signorina … -

Questa volta mi faccio avanti prendendo la sedia per la spalliera, fermandomi un attimo in attesa di un suo cenno.

Lei, immobile fino a quel momento, piega il delicato collo all’indietro in modo da agevolare lo sguardo da sotto il cappello, un movimento lento e studiato, come se fosse lì da tempo in attesa di compierlo. Mi scruta un attimo con aria interrogativa e poi riabbassa il capo mormorando:

- Prima di parlare domandati se ciò che dirai corrisponde a verità, se non provoca male a qualcuno, se è utile ed infine se vale la pena turbare il silenzio per ciò che vuoi dire –.

Rimango immobile, la mia mano serrata sullo schienale vacilla, intorno a me ridiscende il silenzio con in sottofondo il crescente ronzio dei neon. Sembra essersi fermato anche il rumore di stoviglie proveniente dalla cucina e pure il barbone ha smesso di rantolare. Forse è deceduto?

Sto per rimettere a posto la sedia quando senza alzare lo sguardo, la donna fa un semplice cenno con la mano libera dal guanto, che interpreto come un invito a sedermi. Un gesto delicato e fluido.

Accolgo l’invito nella speranza che lo sia, mi sistemo al tavolo, lei è persa nella sua tazza di caffè nero, tiene il manico con la mano libera ma non accenna a berlo, guarda la superficie scura del liquido come fosse uno specchio, come se dovesse rimandare chissà quale immagine da un momento all’altro.

Fuggire dal rumore del mondo e isolarsi in una tavola calda deserta nel cuore della notte, lei sola con se stessa, io l’intruso.

Entrambi in attesa, lei di non so che cosa, io con lo stato d’animo di chi attende, con il desiderio che un evento accada, che lei alzi lo sguardo verso di me.

Il tempo che entrambi viviamo nello stesso istante, sembra profondamente diverso. Il suo sembra vuoto, annoiato, al contrario il mio è emozionato, il mio corpo è in trazione verso di lei, verso quella donna che vedo ogni notte, ogni volta che passo di lì, vestita con il suo solito cappotto verde e calzando in testa la solita cloche di colore giallo.

Inizialmente non avevo fatto caso a lei, poi ogni notte passando da lì, quella strana figura che a prima vista poteva sembrare così estranea, iniziò a penetrarmi nell’anima.

Ogni volta, di notte, quando passavo, i miei occhi iniziavano indipendentemente dalla mia volontà a ricercarla. In breve tempo, sapere di poterla ritrovare ogni notte era per me conforto.

Fin quando una notte, questa notte, passando dinanzi al quadro sembrò come se una luce filtrasse attraverso la tela, come se quel neon riuscisse a raggiungermi lungo il buio corridoio e in poco tempo mi ritrovai davanti a quella vetrina, guardando di spalle la donna che è entrata nei miei sogni per tante notti.

Finalmente ora lì davanti a lei, l’attesa può implicare anche una cocente delusione ma nonostante questo non possiamo farne a meno, per questo motivo mi sono seduto a questo tavolo, pronto a giocare la mia mano.

Lei alza il volto e i nostri occhi s’incrociano, come se ci fossimo sempre attesi e in quel momento tutto quello che è accaduto e tutto quello che accadrà dopo quel preciso istante, perde improvvisamente di significato.

Ora, in questo momento, siamo solamente noi due, seduti a un tavolo del locale, davanti a una tazza di caffè freddo e con un’immensa vetrata che ci separa dal buio della notte, da quello che sarà.

Ora i suoi occhi sono più vividi di prima, ora sono diventati lo specchio della sua anima.

Ho come un sussulto al cuore, sento la salivazione salire, la voce si fa incerta, deglutisco, mi faccio coraggio.

- Signorina … io sarei il guardiano notturno del museo – indicando più o meno la parte dove in teoria sarei entrato all’interno della tela.

La ragazza, muovendosi lentamente, si sporge dal tavolo e strizza gli occhi come a cercare qualcosa che nessuno riesce a vedere, si volta, verso di me con un’espressione di chi proprio non riesce a capire, poi si rivolta ancora verso la penombra.

Mi volto anch’io, effettivamente non c’è proprio niente da vedere.

Sono nel più profondo imbarazzo, mi trovo completamente spaesato e non saprei dove iniziare a spiegare la mia situazione, quando lei interrompe il turbinare dei miei pensieri.

- Mi hai fatto aspettare fin troppo, sono stanca e non ho voglia di ascoltare le tue scuse. Se sei qui, vuol dire che hai riflettuto su quello che ti ho detto, quindi la questione è chiusa. Paga il conto e andiamo. –

Scosta la tazza di caffè da sé, porta indietro la sedia e alzandosi s’infila il guanto destro.

Mi guarda e accenna un mezzo sorriso, poi mi volta le spalle e si avvia verso l’uscita del locale, oltre quella vetrata.

La decisione è presa. Io vado con lei.