Davide Gaetano Paciello - Adius

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Che ci faccio qui?
Domanda esistenziale complessa, ma, intendo, che ci faccio qui, ad Amsterdam?
Incominciamo da quello che so. Mi chiamo Daniele Tenagli, ho passato i trenta e lavoro in una fabbrica di scatole, in Italia. Sono stato famoso un tempo. Vi ricordate quando c’erano i grandi movimenti di piazza da occupy stocazzo a “giù le mani dalla scuola pubblica”?, beh è passato un po’, non troppo per dimenticarsene, ma abbastanza per dimenticarsi di me; ero stato definito da qualche giornale straniero, non ricordo neanche quale, il “poeta di una generazione”. Quindi so che ho scritto poesie, so che hanno avuto successo, so che sono state tradotte in varie lingue e decantate in piazza. Deduco che di poesia non si mangi, ma per fortuna la gente ha bisogno di scatole per metterci dentro cose di cui non hanno bisogno per riempire un vuoto che due righe in versi rischiano solo di ampliare.
Questo background non mi dice che ci faccio qui, in questa città, che è esattamente come la ricordavo: un fottutissimo labirinto di strade dai nomi impronunziabili con sbirri in ogni dove e una noia che ti si mangia. Qua ci si viene da ragazzetti, per farsi le canne, e da vecchi, per spendere 15 minuti e 50€ con una maggiorata neo-maggiorenne.
Squilla il telefono.
—Pronto?!—, dico.
—Oi, allora? Sei arrivato?— voce di donna; affabile, vecchia amica; non è cambiata, è Ilaria.
—Sì, sì, ci sono, sto cercando il mio ostello.—
—Ottimo, fammi sapere quando ti sistemi, ci sentiamo più tardi.—
—Ok.—
—Ciao!—
—Ciao Ilà!—, mettiamo giù.
Ilaria, vive e lavora qui, è una vecchia amica, si è laureata in economia, ha fatto in Olanda prima l’erasmus e poi il dottorato; so che pensate, ma lei non fuma. Ci conoscemmo a scuola, sedicenni, può essere?, ma sì, tempi antichi, tempi di cotte adolescenziali in cui ti sbucci il cuore per una che “non voglio rovinare questa amicizia”.
Percorro tanteparoleinsiemestraat, svolto a sinistra, trovo un canale, attraverso il ponte, poi prendo paroleacasostraat e mi ritrovo in una strada uguale a quella di prima. Case storte, il canale, ponti, gente anonima che cammina. Insisto a seguire google maps finché non mi rendo conto che affidarmi ad esso è come lasciarsi guidare da un George Staub cieco.
Mi ritrovo a nomiacasostraat, in tutto uguale alle altre, ma noto che i coffe-shop hanno nomi diversi. Fiducioso continuo a camminare, accetto la monotonia come se fosse naturale e affronto il dedalo come nulla fosse. Male che vada becco il Minotauro che con una “clavata" pone fine a sta vita del cazzo.
Guidato dall’ispirazione mi ritrovo a Piazza Dam, “ok, da qui è facile” mi dico ottimista come un Icaro lanciato in aria.
Ridendo e scherzando sono all’orto botanico e sulla Plantage Middenlaan. L’ostello è da queste parti.
Arrivato a destinazione, mi libero dei convenevoli con l’ospite e vado a disfare lo zaino e a lavarmi.
Guardo l’orario, c’è tempo, per cosa non lo so, ma c’è tempo. Mi butto sul letto.
“Che ci faccio qui?”, mi chiedo.
La tromba del giudizio suona attraverso il nulla “sono pronto, Satana; finiamola qua e trascinami all’inferno, niente è peggio del castigo inferto da Dio: vivere!”, ma non è la tromba del giudizio, è il cellulare. Mi sveglio e mezzo rincoglionito apro la chiamata.
—Danié, allora? A che stai?—
—Sto.—
—Sì vabbé senti, io stacco tra un’oretta, ci vediamo a Piazza Dam? Sai arrivarci?—
—Sì, tutte le strade portano lì.—
—Allora tra un’oretta lì.—, dice perentoria.
—Va bene a dopo.—
—A dopo.—
Ormai sono sveglio, vale la pena farsi un giro. Mi affaccio alla finestra per assaporare il clima e decidere come vestirmi. L’imbrunire colora il parco di freddo, di grigio; è come un’alba invernale.
Si accendono i primi lampioni e un’immensa tristezza mi pervade. TICK-TACK, è il passo del Minotauro, arriva, ma io non sono pronto. TOCK-TOCK, bussa, ma io non sono vestito.
Con che abiti si schiatta? Che figura ci faccio se muoio in mutande?
Resto in silenzio, il mostro ringhia e se ne va, “ok, l’ho scampata”.
La notte scivola piano dietro le case tipicamente storte, i colori delle stesse vanno spegnendosi mentre i lampioni luccicano sui canali come vibranti coltelli. Farei una foto, ma avrei solo un evanescente ologramma della realtà, buona solo per dire “#Amsterdam” su qualche social.
Squilla il telefono.
—Pronto, Danié? Dove stai?—, è Ilaria, cazzo, sono in ritardo.
—Sono dietro l’angolo, sto arrivando.— dico e chiudo. Sono in nonsodovecazzostostraat. Prendo una via a caso. Mi dice culo, sono a Piazza Dam.
—Ehi!— fa Ilaria vedendomi. Smonto la faccia preoccupata e chiedo al cuore di battere calmo, ormai sono arrivato, ma lui non smette.
—Ciao.— dico con imbarazzo.
Bacio sulla guancia, abbraccio e il solito repertorio di “come stai?” e “tutto bene”.
—Beh allora? Che ci fai qui?—, mi chiede
“Già, che ci faccio qui?”, mi chiedo.
—Pensavo non ti fosse piaciuta granché A’dam.— dice, venendo incontro al mio silenzio.
—No, guarda, avevo dei giorni liberi, nessun impegno e la voglia di fare una vacanza.— dico, padrone di me, quasi.
—Sono contenta… Ma lo sai che qualche giorno fa ti stavo pensando?—
—Come mai?—
—C’era un reading di protesta qui a Piazza Dam, sai, di quelli che organizzano ogni settimana, perché, sì, insomma, qui quasi ogni settimana fanno qualcosa in piazza… vabbé, dicevo, l’altro giorno stavano facendo un reading in inglese e ho riconosciuto una tua poesia, come si chiamava… quella che dice che ogni poesia è una rivolta di massa…
—Ogni poesia è una rivolta dell’animo / l’animo della massa in rivolta è una poesia d’amore.— recito, ma non ricordo come va avanti, né come inizi, francamente.
—Sì, esatto.—
—Beh mi fa piacere che se anche non sia tradotto in dutch con l’inglese mi fanno passare un po’ ovunque.—
—Dai, ti porto in un locale qua vicino con musica dal vivo, così mi aggiorni un po’.—
—Ok.—
Per strada mi aggiorna lei. Vive qui, si trova bene, ha fatto tante cose, non ha una relazione da un bel po’, ma non le pesa perché il lavoro, che non so quale sia, la prende. Cammina veloce le sto dietro, mi guardo intorno e penso che sto per sprecare una serata in chiacchiere.
Finalmente arriviamo al locale. Suonano del rock. Ordiniamo due Amstal.
—Allora?!, dimmi di te.—
“Che cazzo vuoi che ti dica?”, penso
—Insomma, scrivi ancora?—, incalza lei.
—No, ho smesso.—
—Come mai?—
—Non ci tiravo granché.—
—E adesso? Lavori sempre in una fabbrica di scarpe?—
—Di scatole.—
—Sì, giusto. E come ti trovi?—
La musica parte forte e ci urliamo domande e risposte vicino le orecchie. Mi sento a disagio. La guardo negli occhi neri, le guardo i capelli in disordine, il viso struccato, e la riconosco: è proprio lei, la mia Ilaria. Il cuore è un tamburo. Poi, improvvisamente, il TICK-TACK. Il Minotauro annusa nostalgia ed entra nel locale, mi sta cercando.
—Andiamo fuori?—, propongo.
—Ok.—
L’aria è fredda, c’è lo sbalzo termico, chiudo bene il cappotto e la seguo.
Arriviamo in un parco e ci sediamo su una panchina. Siamo solo noi, la panchina e il palo della luce. Tutto intorno è nero, così alzo lo sguardo e vedo le stelle, ma l’universo mi angoscia, così guardo Ilaria, che guarda le stelle, e la cosa mi angoscia di più.
—Mi sei mancato— dice, e, d’improvviso, quelle parole mi arrivano come acqua gelida nel sonno, poi continua: —Non ci vediamo davvero da tanto, né ci sentiamo, ma è come se non ci fossimo mai separati.—
—Anche tu mi manchi.— le dico, ma sento che non sto esprimendo nulla di quello che vorrei dire.
Appoggia la testa sulla mia spalla e un brivido mi percorre. Guarda in alto, guardo lei, impietrito, infastidito dal disagio; una stretta allo stomaco mi fa mancare l’aria.
Mi guardo intorno aspettandomi che il Minotauro sbuchi da un momento all’altro. “Scappa”, le urlerei, “ci penso io”. Il mostro mi assalirebbe e SDONG, colpo secco; si stacca la colonna dal cranio e ogni mio disagio si spegne. SDONG, magari.
Mi sveglio nel mio letto, sudato. Non so cosa e se ho sognato. Io e Ilaria ci siamo dati appuntamento oggi al museo di Van Gogh, inizia il weekend. Io, Ilaria, Van Gogh… questa settimana può finire solo con una fucilata in pancia in un campo di grano.
Ci vediamo alla scritta “I’Amsterdam”, tutto procede tranquillo, non sa che tremo.
Passiamo di stanza in stanza, ci fermiamo ad ogni singolo quadro per ammirarlo, non servono parole, solo ammirazione. Percepisco la rabbia, la depressione, la paura, la speranza. Ha disegnato il suo mostro intrappolandolo per sempre. Quelle scarpe da lavoro che raccontano la fatica di vivere, la solitudine delle sedie, l’immensità dei paesaggi notturni, l’orrore del campo di grano. “Quanto ti capisco, fottuto pazzo”, penso.
Guardo Ilaria e mi viene un brivido. Siamo vicini, sembriamo una coppia sposata. Sentimenti che mi sembravano morti per sempre tornano più forti di qualsiasi mostro.
Guardo il quadro dei mangiatori di patate, sento l’odore della povertà, il ruvido delle mani levigate, la stanchezza del corpo. Osservo i volti uno ad uno e sono lì con loro, poi d’improvviso dico: — Da quando tempo ci conosciamo?—
—Sedici anni e 4 mesi.— dice prontamente lei, con la stessa maestria con cui ricorda tutte le date di compleanno di ogni individuo del mondo.
—E per quanto tempo non ci siamo visti o sentiti?— chiedo e la guardo.
— Tre anni e ventitré giorni.— mi dice come se fosse una risposta scontata. Non voglio sapere come fa ad essere così precisa, so che è una sua caratteristica, mi piace per questo.
La guardo, mi sta guardando. Così vicini, così lontani.
—Perché?— mi chiede.
—È tanto tempo.— rispondo sorridente. “La tua assenza mi ha trasformato in un mostro di Beksinski”, penso e mi chiedo se riesce a sentirmi.
Guarda il quadro e dice: —Sono contenta che siamo insieme, solo noi umanisti siamo in grado di capirlo.—
Mi limito a dire un semplice: —Già.— che suona come un “non so che stai dicendo, ma non m’interessa saperlo, quindi ti do ragione”, dannazione.
Sopravviviamo a Vincent e lei mi lascia per un impegno.
Cammino un po’ perso per la strada, non so dove andare né che fare.
Mi ricordo di un coffe-shop davvero bello, l’Hill Street Blues. Mi metto sulle sue tracce.
I pensieri mi ronzano in testa come pugni nello stomaco.
Tutto sommato questo labirinto non era poi così complesso, è il dedalo dentro di me che non trova ordine. Il filo di Arianna dei miei pensieri è Ilaria, ma sento che non è un filo ordinato, ma una matassa ingarbugliata che non mi guida da nessuna parte.
Arrivo in qualche modo al locale, non so quanto tempo ci abbia messo, certo non poco. Ordino un thé e prendo da fumare. Non ci capisco granché e chiedo l’erba più rilassante. Vado nella sala giù ed è come la ricordavo: graffiti, murales, scritte, ricordi e segni del passaggio di altre persone su tutte le superfici. Trovo i divani vicini al finestrone che dà sul canale e mi butto lì. Sorseggio il thé, fumo, guardo il sole giocare con le onde del canale e penso che tutto sia meraviglioso. Il tramonto, che portento!
Mi viene da ridere senza motivo. Sono assolutamente rilassato, l’acqua del canale scorre, la terra gira e l’universo esiste, mancano solo tutte le parole che avrei voluto dire a Ilaria e tutte le azioni che avrei potuto compiere per porre fine al limbo che ci divide.
TICK-TACK, eccolo, il mostro. Le voci si spengono, tutti scompaiono, siamo solo io e lui in un silenzio irreale. Sta all’inizio della scala, lo so. Guardo davanti a me, il canale. Sa che io so che è qui, sa che lo ignoro. TOCK-TOCK, colpisce il muro per dirmi che sta per scendere. “Lo so, scendi pure”, penso. TICK-TACK, ecco i suoi passi. Lenti, inesorabili. Lo zoccolo pesta il pavimento. Cammina, si fa sempre più vicino, il suono è sempre più forte. Il cuore mi sta per esplodere. Ormai è dietro di me, con la sua clava, pronto a finirmi.
—Pardon, do you wan’t anything else, sir?— mi chiede la cameriera. Sobbalzo un po’. Le dico di no. Non mi serve niente. Mi alzo e vado verso un altro locale. Ho i nervi a pezzi.
Brucio un bei soldi in alcolici, ma ottengo l’effetto desiderato. Il cervello è andato in pausa. Tutto è lontano, distaccato.
Esco dal locale e percorro ubriacocomeunostronzostraat. Penso a Ilaria, un chiodo fisso.
Trovo un pisciatoio e mi libero. I miei passi vanno da soli non so verso dove.
Il giorno passa con un dopo sbronza che mi ricorda che non ho più vent’anni. Non so come sia arrivato a casa, né come non sia caduto in un canale. Sono ancora qui, evidentemente il Dio degli ubriachi e degli innamorati esiste.
Cagotto, doccia gelata e colazione nordica. Ora posso anche accendere il cellulare e leggere il messaggio di Ilaria per stasera. Appuntamento a cena, a casa sua. “Dovrò comprare il vino”, penso.
La giornata trascorre tra entusiasmi e timori e mi sento Peter Walsh che va a trovare Clarissa Dalloway. In testa una sola domanda “che cazzo di vino bevono qui?”.
Alla fine sono davanti l’appartamento di Ilaria, come d’accordo. Fremo come un ciccione all’apertura del buffet. TOCK-TOCK, busso, stavolta sono io, a bussare.
Mi apre la porta una vecchia amica, un lontano ricordo di molte vite fa.
—Ehi!—, mi fa sorridendo.
—Ho portato del whisky.— già, niente vino.
—Ah… non avresti dovuto…—
In effetti non avrei dovuto. Ricordavo che non fosse un asso della cucina e infatti aveva già ordinato da mangiare e dovevamo dividere la spesa.
Parliamo, mangiamo, ricordiamo vecchie storie, vecchi segreti. Intere vite che avevo dimenticato tornano a pulsare nelle sue parole.
Non so dire quando ci siamo spostati sul divano, saremmo dovuti uscire, ma mentre lei parlava io versavo whisky. Non volevo farla ubriacare, volevo ubriacarmi io, ma è finita che eravamo entrambi brilli.
Non capisco più cosa stia dicendo. Qualcosa sulle poesie.
Sono sul divano con un bicchiere mezzo pieno di alcool. Lei ha un libro in mano, si stende sul divano, poggia la testa sulle mie gambe.
—La mia poesia preferita è questa: fiori in grembo.— sta parlando di una mia poesia, molto vecchia, una delle prime andate in stampa.
—Perché?— chiedo quasi ingenuamente.
—Perché parla di me.— dice come fosse ovvio.
Inopinatamente tutto mi diventa chiaro. La poesia, Ilaria, Amsterdam, il Minotauro, la “penna al chiodo”.
—Tutte le mie poesie parlano di te. Al di là di tutto ho sempre e solo voluto parlare di te, la mia rivoluzione, la mia camionetta in fiamme, la mia forza.—
Si mette seduta, mi guarda, mi trema la mano.
Mi cade il bicchiere e la guardo. L’afferro per le braccia.
—Sei tutte le mie rivolte, sei l’energia di una folla lanciata contro la celere, sei il cuore di un milione di persone che batte all’unisono.—
Mi guarda un po’ sbigottita e mi chiede: —Perché non me lo hai mai detto?—
—Perché avevo paura, così ho scritto, ti ho nascosto in una caterva di fogli...— abbasso lo sguardo— La poesia è il rifugio dei vigliacchi.— dico a me stesso.
Mi abbraccia, la bacio sulla guancia. Non si volta, non ricambia. Non c'è nulla da fare, nessun lieto fine. È sempre Ilaria e questa è sempre la stessa storia. Ci siamo detti “ti voglio bene” mille volte, ma abbiamo sempre inteso cose diverse.
Mi sento esausto dopo la confessione. Restiamo in silenzio, alla fine mi aiuta a stendermi sul divano. Tutto gira, ma non so se dentro o fuori di me.
Al mattino lei è nel suo letto, dorme. Le lascio un “Grazie” su un bigliettino e le do un bacio sulla fronte.

Tornato in Italia ripresi a scrivere. Realizzai una raccolta di poesie che decisi di chiamare “Adius, Amsterdam”. Inviai a Ilaria una copia autografa con la scritta “solo poesie che non parlano di te”.