concorso

concorso (56)

Ogni oggetto riluceva in quella baia. Deve esser scesa la Shekinah1, pensai. Deve esser buon segno, pensai. Mi accamperò qui, pensai.

Avevo bussato, non avevano risposto. Forzai l’ingresso, la porta si lasciò aprire docile. Chiamai, non ebbi risposto. Ci saremo solo io e Dio in questa piccola casetta di legno, ritenni.

Chiusi la porta sulla tormenta di neve, sulla foresta siberiana, sulla mia sventura. Scaldarmi, dovevo scaldarmi. La neve mi copriva, i movimenti erano lenti. Ai lati degli occhi, dal naso, sulla barba… solo ghiaccio. Tremai.

C’erano coperte e un letto in quella casa, c’era un bagno e una cucina. Solo la polvere tradiva uno stato di lungo abbandono; solo i vetri spaccati dal freddo e la neve per terra suggerivano l’assenza umana.

Accendere il fuoco, dovevo accendere il fuoco; dovevo prendere la neve e farne acqua bollita; dovevo spogliarmi, togliermi le scarpe e sperare di non staccarmi l’intero piede. Avevo perso sensibilità al corpo, da giorni non sentivo la fame né il freddo. Solo al focolare di quella casa riscoprii di esser un figlio di Adamo, per di più allo stremo.

Fuggire dal treno che porta al gulag per morire comunque di stenti nella foresta. Fuggire dall’Egitto per morire di stenti nel deserto. In entrambi i casi si muore liberi e, se posso permettermi, preferisco così.

C’era della legna vicino al camino, buon segno, dovevo aver trovato la manna. Mi avvicinai zoppicante, il piede destro era congelato. Tolsi i guanti, ma avevo scarsa sensibilità alle mani. Mi ci volle forse un’ora per accendere il fuoco, per sciogliermi le ossa. Tentai di spogliarmi, avevo enormi difficoltà, la pelle era attaccata ai vestiti, mi ci volle parecchio per non spellarmi.

Tolsi le scarpe, il piede destro era viola, la pelle aperta, il sangue congelato. Brutto da vedere, bruttissimo da sopportare.

Feci impacchi di acqua calda per scaldarmi, per ridar vita alle ossa.

Presi dalla tasca interna del cappotto la lettera di Adelya, la mia Adelya, la mia speranza, la mia forza, il motivo per cui ero fuggito. Per questa lettera ero corso nella foresta mentre i mitra dei compagni aguzzini tiravano alla cieca nella mia direzione. Non avevo catene, potevo farcela. Ero lontano da casa, ma potevo farcela.

Presi la lettera che avevo salvato dal trasferimento al campo. Una lettera breve: “Ti amo Vania Shlomovich Grossman, ti amerò per sempre. Amo tutto di te, amo anche la tua dedizione a stampare il giornale. Amo la tua ostinazione ad amarmi e ad amare la vita. Torna da me Vania, torna da me. Amore.”

Poche parole, la conosco Adelya, la mia Adelya, poche parole, bastano per dire tutto.

Tornerò da lei, l’abbraccerò, sono tornato, le dirò, ora possiamo anche lasciare la Russia, le dirò. Andremo in Palestina, fa caldo lì, staremo bene, potremo crescere i nostri figli, potremo scrivere quello che ci pare sui giornali. Ma dopo, prima facciamo l’amore. Adelya, la mia Adelya. Le dirò così.

Ero stanco, ero stremato, ero privo di forze. Sollevai il mio corpo da davanti al fuoco e mi trascinai a letto sorreggendomi a fatica.

Un letto matrimoniale, un armadio e una sedia. Era diventato tutto così triste e spento. La sedia era solitudine, era abbandono, era dove mio padre dormiva al capezzale di sua madre morente.

Papà, giovane, seduto sulla sedia di fianco al letto di nonna. Dormicchia, poi lei lo chiama. Non so cosa gli dica. Io ho dieci anni e sbircio la scena dalla porta socchiusa. Un lume sul comodino illumina la stanza. Mio padre fa cenno di entrare. Sorride da sotto i folti baffi. Ha la kippah e le trecce, mi fa cenno di avvicinarmi, nonna mi stringe la mano… ricordo che papà sorrise, poi il ricordo si dileguò.

Chiusi la porta. Mi spogliai. La camera da letto aveva una finestra intatta e ben chiusa. Mi misi sotto le coperte e presi sonno chiedendomi, come fosse la Palestina; come fanno le persone ad attaccarsi alla terra e come si fa ad esser nazionalisti. Pensai che avevo trovato rifugio in una casa che non era mia, mi sentivo accolto lo stesso. Pensai che solo dove c’era Adelya, la mia Adelya, mi sarei potuto sentire a casa.

Recitai le preghiere e mi addormentai.

Al mattino seguente mi tirai giù dal letto e mi vestii. Mi diressi a tentoni verso il bagno e poi mi dedicai ad esplorare la piccola casa: una sala, un bagno, una cucina, una camera da letto. Piccola, funzionale, una baia per cacciatori nella foresta.

Trovai un fucile a doppia canna e un coltello da caccia, trovai del tabacco per pipa, i fiammiferi e una pipa. Trovai un fucile pre-rivoluzione. Trovai munizioni per le armi. Trovai di che vestirmi, un abito da uomo in stile Tolstoj, pellicce, scarponi, guanti.

Usai un fucile per stampella e andai a caccia. Se non avessi trovato nulla da mangiare sarei morto entro pochi giorni.

Il sole illuminava la neve e questa faceva risplendere ogni cosa. Ero debole, affamato, avevo i crampi allo stomaco, avevo un piede quasi in cancrena, ma potevo vedere lo splendere della parola di Ashem2 sul mondo. Anche oggi sono vivo, pensai; anche oggi posso pensare a te, Adelya, la mia Adelya, pensai.

Mi inoltrai nella foresta senza perder di vista la casa e Dio mandò un cervo davanti al mio fucile. Mirai. Sentivo il mio respiro, sentivo il suo; sentivo il mio cuore, sentivo il suo. Non mi piaceva uccidere, ma feci partire un colpo e il cervo cadde. Un silenzio irreale si diffuse per l’aere. Lo sparo mi aveva stordito e tappato le orecchie. Non mangerò kosher3, pensai, ma la contingenza mi scuserà, pensai.

Mi portai alla carcassa dell’animale e lo sgozzai per farne defluire il sangue. Aprii uno squarcio nel ventre e buttai fuori le interiora e gli organi che non avrei mangiato. Con estrema fatica, lo portai vicino casa. Presi fegato, polmoni, cuore. Non avevo forze per scuoiarlo. Sotterrai il resto nella neve. Avrei bollito la carne. Potevo solo accendere il fuoco, mettere una pentola di neve a bollire e buttarci dentro la carne

Pregai. Mangiai. Feci gli impacchi caldi al piede e mi accesi la pipa.

Ho sei anni, mio padre è sulla poltrona davanti al fuoco, fuma la pipa. Zio Josef è in piedi, gli sta parlando. Shlomo, dice, perché non vuoi mandarlo alla scuola chassidica4?, chiede. No, Josef, siamo ebrei, siamo osservanti e siamo cresciuti nel chassidismo, ma non voglio che mio figlio segua la stessa scuola, dice mio padre. E che vuoi?, chiede zio. Che segua una scuola più aperta e più “pratica”, risponde mio padre. Poi papà si alza, tira una boccata di pipa e dice: i tempi stanno cambiando, Josef, bisogna saper essere moderni, bisogna che sappia scender a compromessi, ho paura per lui, dice mio padre. Vania, non origliare, dice mia madre. Ma parlano di me, replico, su, fai il bravo, vieni, aiutami in cucina. Mi giro, mia madre è giovane e bellissima, coi capelli neri, con un sorriso luminoso, con la bocca sottile, con un grembiule da cucina… mia madre, il suo odore.

Mi svegliai sulla sedia vicino al fuoco con la voglia di piangere, la pipa mi era caduta per terra. Mi ero addormentato durante una rimembranza. Fuori era calato il buio, il fuoco era quasi spento. Andai a letto, pregai e mi addormentai.

Durante la notte salì la febbre. Deliravo ed ero in uno stato di dormiveglia. Quando vidi mio padre sulla sedia pensai che fosse la fine. Era vecchio, stanco, piccolo e debole; capelli grigi e lunghi, la barba di qualche giorno. Papà, che ci fai qui?, chiesi. Sono venuto a salutarti. È tempo di andarmene?, chiesi. Non ancora. Sono venuti a casa, hanno fatto un casino, il cuore di padre non ha retto. Dove andrai?, chiesi. Nella casa dei miei avi. Com’è la morte?, chiesi. Una cosa come tante. Come so quando è il momento?, chiesi. Quando la Shekinah scenderà e tu vedrai bene perché ogni cosa sarà illuminata. Sembra una bella cosa, dissi. Vivere, figliolo, è una bella cosa. Spero di rivederti quando Ashem mi avrà svegliato, dissi. Anch’io, figlio mio. Buon viaggio, padre, gli augurai. Buona notte, figliolo.

Dormivo, vegliavo, mi giravo e rigiravo nel letto. Fuori ululavano i lupi. Dovevano aver trovato la carcassa. Addio mosco, pensai. Domani dovrò riandare a caccia, pensai.

Rimasi a letto a lungo anche dopo che il sole illuminò la stanza. Provai a riposare, ma non c’era nulla da fare. Avevo sudato molto durante la notte, ma avevo ancora i brividi di freddo.

Mi chiesi quando sarebbe entrato Shabbath5, pensai che forse era già iniziato la sera prima e quindi potevo restare a letto.

Vania! Vania! Svegliati!, chiama mia madre. Ah, che vuoi?, faccio. È mattina di Shabbath, dice. Il Ya Ribbon Olam mi prescrive di starmene a letto, dico. Mia madre risponde che il Ya Ribbon Olam6 vuole che condivida questo giorno con parenti e amici, vuole che studi la Torah. Non vuole che rimanga a letto a poltrire. Dai che dobbiamo pregare tutti insieme, i tuoi zii e i tuoi cugini sono qui, dice mia madre. Vengo, ma tra un po’, dico. Va bene Vania, ma sbrigati, dice. Mi riaddormento pensando al solito Shabbath in famiglia. Ho ventanni, voglio dormire, venerdì sera sono stato da Adelya, la mia Adelya. Mi riaddormento, ma per poco, mia madre torna alla riscossa bussando forte alla porta.

Mi svegliai di colpo, no, non era mia madre a bussare, era un colpo di fucile. Poi un altro. Poi un guaito. Il cuore prese a pulsare. Mi buttai giù dal letto e mi lanciai sui fucili. Mi affacciai alla finestra con attenzione. Non vidi nulla.

Sentii movimento nell’altra stanza, doveva essere entrato qualcuno. Mi avvicinai alla porta per origliare.

Sì, ci deve essere qualcuno! In guardia ragazzi, potrebbe essere uno schifoso comunista giudeo, sentii.

Controrivoluzionari, pensai, non credevo ce ne fossero ancora. Questi sono più stupidi dei soviet, più cattivi, pensai. Qualche vecchio nobile antisemita deve aver convinto qualche ragazzino a combattere contro i bolscevichi. Schifosi relitti del passato, pensai.

Tu!, guarda quella stanza, facciamo pulizia, da qui sarà facile nascondersi.

Grassatori, pensai, solo dei miseri grassatori con velleità reazionarie.

La porta venne aperta con un calcio. Mi spostai restando attaccato al muro. Entrò un ragazzo col fucile puntato. Non c’è nessuno, disse. È giovane, ma dovrò violare la legge di Moseh comunque, pensai. Si girò, mi vide, stava per puntarmi il fucile. Troppo tardi. Aprii il fuoco. Venne schiantato a terra con lo sterno bucato.

Esci, fottuto giudeo!, urlarono. Come fate a sapere che sono giudeo?, chiesi, caricando il proiettile. Tutti i comunisti sono degli schifosi giudei!, disse. Mi affacciai puntando l’arma e aprii il fuoco. Mi faceva male la testa, mi faceva male il piede, mi facevano male le braccia per il rinculo, ma un altro ragazzo era morto per mano mia.

Ero grato ad Ashem per avermi dato un fucile pre-rivoluzionario che non si inceppasse, ma non perdetti tempo in meditazioni, tornai all’attacco. Il terzo camerata si era abbassato per proteggersi, io avevo già impugnato il fucile da caccia. Il camerata guardava il compare morto ed io pregavo, recitavo il salmo di David… Lo freddai con un colpo alla testa. Tutto accadde in pochi secondi.

Non uccidere, il Signore è il mio pastore, non uccidere. Mi pulsava la testa, ma sulla porta d’ingresso spuntò un altro ragazzo. Fece fuoco, prese la coscia destra, persi l’equilibrio, ma feci partire un colpo. Colpito all’inguine si piegò tra i cadaveri dei lupi. Dovevano averli freddati prima.

Ricorda Vania, prima di essere Russi siamo comunisti, ma prima di essere comunisti siamo Ebrei, dice Moseh Buber. Il mio miglior amico. Ho ventidue anni, siamo andati all’assemblea dei lavoratori. Avevamo letto il libretto distribuito dai socialisti, era uno scritto di Marx ed Engels, sapevamo che Marx era uno di noi, ebreo. Ci piacevano quelle idee. Odiavamo lo zar e i nuovi progrom. Secondo i boeri eravamo noi Ebrei ad incitare la rivolta al solo scopo di avere uno stato nostro. Idioti antisemiti! Eravamo solo stanchi della guerra, come tutti.

Ricorda Vania, noi restiamo sempre e comunque Ebrei, anche se non portiamo più le peoth e la kippah, mi diceva Moseh. Che intendi?, chiedo. Che ci sarà sempre qualcuno che ci odierà, mi risponde. Sta per continuare, ma un cane nero grande e grosso si mette ad abbaiare verso di noi e ci interrompe. Cagnaccio!, dice Moseh. Sembra Rasputin, dico, è vero, fa lui. Taci Rasputin!, sei solo un infame!, urla Moseh mettendo a tacere il cane.

Guardavo un lupo morto, pensavo a Rasputin, il cane, pensavo a quella camminata con Moseh Buber e all’assemblea dei lavoratori. Appoggiato al fucile presi a camminare verso la porta come in trance.

Bum. Colpo di pistola secco. Foro sul fianco destro. Mi girai e vidi un uomo con folta barba grigia vestito da ussaro, il capo dei briganti. Lo guardai, mi guardò puntando la pistola. Lasciai il fucile portando una mano alla ferita. Caddi schiena a terra.

Ahi mamma, dico. Sono appena caduto, ho sette anni. Forza rialzati, dice mia madre. No, mamma, non voglio andare alla scuola ebraica, le dico. Non dire sciocchezze, dice, ora alzati e andiamo. Ma perché?, chiedo. Perché siamo Ebrei e andiamo alla scuola ebraica, risponde. E perché siamo Ebrei?, chiedo. Perché Ashem ci ha affidato la sua Legge per la gloria di tutti gli uomini, dice. E non poteva darla qualcun altro?, insisto. Lo ha fatto, ma solo noi abbiamo accettato, quando conoscerai bene la Torah potrai sottrarti al compito di Ashem, ma se non la conosci che razza di scelta vuoi fare?, dice mia madre.

L’ussaro si avvicinò, spada sguainata, lo sentivo, stava per finirmi, tutto stava diventando buio, mi piego su un fianco.

Ho tredici anni, sono in Sinagoga, sto leggendo la Torah, è il mio bar mitzvah7. Alzo gli occhi dal rotolo, ho finito, applausi e “Mazel Tov”8. Mio padre mi guarda, mi sorride, è commosso, sono felice, gli sorrido.

L’ussaro mi diede un calcio, restai immobile. Strinsi il coltello da caccia, mi girò col piede. Con un gesto rapido gli tagliai la coscia. Ringhiò e cercò di trafiggermi. Mi mancò cadendomi addosso. Lo accoltellai, non uccidere, lo accoltellai ripetutamente, il Signore è il mio pastore, girai la lama nella pancia, non uccidere, non manco di nulla. Non si muoveva più, mi girai verso la porta, dandogli le spalle.

Bum. Colpo di pistola secco. Sentii il sangue gelare. Ero di nuovo schiena a terra. Guardai in alto, lui si trascinava su di me. Aveva la Sitra Achra9 negli occhi, aveva mille Satanim10 dentro. Mi era addosso, mi puntava la pistola alla tempia. Sputava sangue, aveva di nuovo il mio pugnale in corpo.

Ho ventiquattro anni, è il mio matrimonio. Ho ventiquattro anni e ballo con Adelya Yakovna Tulowski-Grossman, la mia Adelya. Sono tra le sue braccia e lei è tra le mie ed ogni cosa è illuminata.

Bum. Colpo di pistola secco.

1 Lett. “Dimorare”, nell’ebraismo rappresenta la presenza fisica di Dio.

2 Lett. “il Nome”, è uno dei nomi di Dio nell’ebraismo.

3 Lett. “adeguatezza”, indica nell’ebraismo il regime alimentare e di macellazione che stabilisce i cibi puri.

4 Chassidismo, movimento di rinnovamento dell’ebraismo ortodosso incentrato su soclarizzazione, spiritualità e mistica interiore.

5 Lett. “smettere”, è giorni di riposo ebraico, va dal tramonto del venerdì a quello del sabato.

6 Lett. “Signore dell’Universo”, uno dei nomi di Dio, usato anche per la preghiera di Shabat.

7 Lett. “Figlio del comandamento”, indica il momento in cui un ragazzo diventa spiritualmente responsabili dei suoi atti. Il rito rappresenta l’ingresso del giovane nella comunità.

8 Lett. “Buona fortuna”, un tipico augurio ebraico.

9 Lett. “L’altra parte”, indica il lato oscuro e demoniaco dell’universo.

10 Lett. “avversari”, indica degli spiriti maligni.

C’è stato un periodo della mia vita, un lungo periodo della mia ancora breve vita, durante il quale il mio sguardo sul mondo, diciamo, non ha goduto di una buona messa a fuoco. Riconosco che crescere in una famiglia nella quale la frase più cordiale era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito; e lo scambio di battute più lungo era: - Il polpettone oggi fa meno schifo del solito - Perché il macinato era in offerta - Era ora, in quella merda di supermercato non c’è mai uno sconto buono; possa rendere difficile a chiunque trovare equilibrio e mettere a fuoco un obiettivo, ma anche io facevo la mia parte e a quei dialoghi costruttivi replicavo che se pure loro avessero fatto qualche saldo e si fossero scavati un buon cinquanta per cento dai maroni, forse anche la mia vita avrebbe fatto meno schifo. Fine delle discussioni, fertile scambio di idee dopo che in famiglia non ci si era visti per tuta la giornata. Consumato il resto della cena in silenzio, mia madre rassettava la cucina, mio padre sprofondava sul divano e io e mia sorella scomparivamo ognuno all’ombra della propria stanza, lei incontro all’ennesima serata a parlare al telefono con un’amica, che tanto non c’era nessun ragazzo che le filava, e io incontro al solipsismo e alla ricerca di qualche canale tv proibito sulle reti d’oltre mare. Durante quel lungo periodo oscuro ho assolto ai miei doveri di figlio con la devozione di un frate trappista astemio, e la forte convinzione decubertiana per cui l’importante non era vincere, ma partecipare. La scuola era un obbligo e come tale l’affrontavo, ben attento a evitare le luci della ribalta. Serviva almeno un sei in ogni materia per non essere rimandato, e io sei prendevo, salvo un sette in ginnastica, dove non riuscivo ad arginare il mio piacere per il calcetto. Mai una nota, mai una convocazione dei genitori, tutto nell’ordine del minimo sindacale per non attirare attenzione e concludere il percorso il prima possibile, evitando penalità ed errori. Che all’assenza di infamia corrispondesse anche assenza di lode poco interessava, sia a me che ai miei famigliari. Qualche organismo del corpo docente, cellula impazzita nella mediocrità degli insegnanti, aveva provato a manifestare il proprio disappunto.

- Hai delle potenzialità. Diceva Tommassoni alle medie, il professore di tecnica. - Perché le vuoi sprecare?

- Parietti, tu non sei del tutto una capra. Diceva Zaccherani, il professore di diritto privato a ragioneria. - Eppure stai nel gregge, nascosto e allineato. Non vuoi prendere un po’ di luce, combinare qualcosa di buono nella vita?

Io lo volevo combinare qualcosa di buono nella vita, ma non ero convinto che per farlo servisse un maggiore impegno a scuola. Mio padre aveva un’attività in proprio, faceva il barbiere, e mia madre era impiegata al supermercato vicino a casa. Entrambi mi sembravano tutto fuorché dei geni, e per quanto ne sapessi avevano finito la scuola media, ma non erano andati oltre al terzo anno di superiori. Allora a cosa serviva andare bene a scuola? Se bastava non essere del tutto scemo per trovare lavoro io già ero a posto, per il resto, il buono che volevo combinare nella mia vita non riguardava ottenere chissà quale occupazione. Non sapevo neanche io cosa riguardava, ma col tempo l’avrei capito, e intanto macinavo giorni, mesi e stagioni, lasciando che il buio rendesse sempre più opaca la mia visuale.

A scuola non avevo amici, ma non ero neanche impopolare. Nei primi anni di ragioneria, l’aria del dannato, che io rinnegavo, ma che a quell’età si autoalimenta se solo parli poco, sorridi poco e non fai comunella con nessuno, mi rendeva anche attraente agli occhi delle ragazze - e nella mia classe ce ne erano venti, su venticinque che eravamo in tutto - peccato che loro non fossero attraenti per me. Su venti anime femminili, venti cessi, una cosa da non credere, dovevano aver fatto una selezione: ‘Siete gli scarti di Madre Natura? Su con la vita, venite da noi. Sotto la seconda di tette: il sei è assicurato. Denti storti: sei e mezzo. Capelli unti e stopposi: sette meno. Culo basso: otto. Brufoli e alitosi: diploma ad honorem e abbraccio accademico!’ Se l’avessi saputo prima avrei fatto l’Alberghiero.

Degli altri quattro sventurati conoscevo il cognome per assuefazione all’appello, e a quello avevo associato un nome per mero spirito enigmistico: ‘Colora gli spazi bianchi con il puntino e scopri cosa apparirà’, ma anche associando nome e cognome gli sparuti colleghi maschi rimanevano quattro emarginati. Carletti Matteo, un metro e settanta di ossa e occhiali, propensione allo sport zero meno. Ersili Ersilio, un metro e ottanta, buon difensore centrale, ma troppo incline alla rissa. Galimberti Fabio, un metro e settantacinque, normale fino alle caviglie, da lì in giù due ferri da stiro. Sariotti Tommaso, un metro e ottantadue di boria, figlio di un grosso commercialista: un predestinato. Dalla prima superiore per fare ginnastica si cambiava le scarpe e si metteva calzoncini e polo con le iniziali ricamate. Ho scoperto solo in quarta che non erano le sue di inziali, ma quelle di un certo Tacchini Sergio, e Sariotti mi sembrava ancora più sfigato.

Fuori dalla scuola andava meglio. Erano anni nei quali si giocava in strada. Non abitavo in un quartiere di bande, ma si creavano alleanze tra i ragazzi della stessa via e io ero uno dei leader di Via Medusa, gemellata con Via Andromeda e un tratto di Via Vega. Per noi, cresciuti con Goldrake Ufo Robot, confinare con Via Vega era una figata assurda, ma oggi nessuno lo può capire. In ogni caso, anche in strada non riuscivo a trovare il bandolo della matassa. Facevamo di tutto: truccavamo i motorini, ci lanciavamo con lo skateboard o le caratelle, andavamo a pescare al vicino lago della Cava, rientravamo a casa solo quando faceva buio e le madri strillavano affacciate ai balconi, o attraverso gli infissi aperti delle cucine. Eravamo liberi, ero libero, eppure mi mancava qualcosa, non riuscivo a trovare la mia luce.

Verso la fine della quinta, Mirco detto Lillo, un ragazzo di Via Andromeda sempre aggiornato su impianti stereo e videogiochi, se ne era uscito fuori con la fissa per la fotografia. Erano arrivate le prime macchine digitali e all’improvviso si potevano scattare foto su foto senza preoccuparsi di comprare rullini, centellinare gli scatti, sviluppare e poi stampare, che di trentasei foto che aveva un rullino la metà erano sempre mosse o col soggetto tagliato. Io non ero un patito del settore, ma, per quanto la mia fosse una famiglia disgraziata, andavamo tutti gli anni in vacanza e anche mio padre, come la maggior parte dei padri, in vacanza teneva al collo una compatta con rullino a colori. Le fotografie che si ammucchiavano nella scatola di legno, dove venivano assiepati i raccoglitori a libretto di plastica trasparente con il logo del fotografo sul fronte, erano sempre le stesse: orizzonti, campeggi, la neve d’inverno sulle colline limitrofe e il mare d’estate, qualche scatto ai monumenti, le pose stanche, le pance sfasciate. Ma il digitale era una vera e propria rivoluzione.

- Puoi scattare quante foto vuoi, le rivedi subito e quelle brutte le puoi cancellare. Anzi, non ti devi neanche preoccupare di cancellarle, perché su una scheda come questa, da centoventotto mega, ci stanno più di cento foto, e se le salvi sul computer la scheda la resetti e torna come nuova. Non è una figata?

Era una figata, non me ne fregava niente, ma dovevo riconoscere che era una figata.

- Ma la fotografia vera resta quella con la reflex. Aveva ripreso Lillo una volta raccolto il mio entusiasmo. – Gli apparecchi digitali sono divertenti, ma non potranno mai sostituire l’ottica di una buona macchina fotografica: il gioco dell’esposizione, la messa a fuoco, la luce.

Lillo sosteneva che la fotografia era un’arte. Gli avrei anche potuto credere, quello che non capivo era perché lo stava confidando a me. Diceva che una fotografia fatta bene sapeva cogliere sia l’anima del soggetto che del fotografo. Io restavo smarrito tra le ombre della mia ignoranza, ma il tema iniziava a catturare la mia attenzione.

- Per fare davvero una bella foto non si tratta solo di inquadrare un bel soggetto, ma di cogliere l’attimo, immortalare quello che c’è dietro l’immagine. Se parliamo di paesaggi bisogna giocare con la luce, beccare una nuvola in un momento particolare, l’inclinazione del sole, ma il bello, per me, è se parliamo di soggetti animati: la fatica di un muratore, il salto di un cane, il momento esatto in cui il piede impatta sul pallone. Per fare queste foto non c’è macchina digitale che tenga, non ancora, e forse mai ci sarà.

Tutte queste cose dietro una fotografia? Non ci avevo mai pensato, di certo non l’avevo colto dagli scatti sempre uguali delle nostre vacanze, ma qualcosa si era aperto dentro il mio animo inquieto. Su indicazione di Mirco detto Lillo ero andato a parlare con Luciano Gioia, quello di Foto Gioia. Teneva corsi di fotografia gratuiti per il primo mese e per quel mese ti prestava pure l’attrezzatura. Se fosse tornato a non fregarmene niente, niente avevo speso.

Quando Luciano Gioia mi parlava di fotografia sembrava facesse catechesi. Tra le altre cose, io non ero esattamente un estimatore degli enti religiosi - per dirla con un giro di parole - non lo ero mai stato.

- Parietti, non sei del tutto una capra.

- Questo me l’hanno già detto.

- Sì, però stai zitto. Quello che voglio dire è che sembri un cinghiale e forse ti piace dare questa immagine di te, ma hai qualcosa di umano dentro che è più solido di quel che pensi.

- Scusa Luciano, ma cosa c’entra con la fotografia?

- C’entra, perché tu fino a oggi è come se avessi vissuto sottoesposto. Se dai poca esposizione alla pellicola questa non prende i colori, resta sciapa. E tu sei sciapo, ma non capra.

- Se andassimo avanti e questo concetto sottile lo dessimo per assodato?

- Hai sempre guardato le cose con poca attenzione, e non ti sei accorto che dove c’è ombra, c’è anche luce.

- Perdonami Luciano, ma fino a qui ci arrivavo.

- Voglio sperare. Ma dove c’è ombra e buio, tu vedi solo quello, buio.

- In mancanza di occhi felini…

- Vuoi stare zitto accidenti? Anche nel buio, invece, ci può essere un cambio di luce. Più buio e meno buio, sono una variazione. Se spegni la luce e chiudi le imposte di una stanza in un primo momento vedi solo buio, ma dopo un poco abitui i tuoi occhi e inizi a scorgere il profilo delle cose.

Insomma, sembrava che Luciano Gioia di foto Gioia, tra un consiglio sull’uso dell’otturatore e un altro sulla duttilità della fotografia digitale, si fosse messo a impartirmi lezioni di vita. Diceva che ogni individuo è illuminato, in ognuno c’è un talento, e diceva che questo talento non va sprecato. Questo - ho scoperto in seguito - lo diceva già Matteo in un passo del suo vangelo, mentre Luciano, dalla sua, continuava aggiungendo che con una buona macchina fotografica e tanta pazienza si possono fare fotografie anche in quasi assenza di luce.

- Non ci sono scatti impossibili, solo scatti difficili. La differenza la fa la macchina, ma soprattutto l’operatore. Dove la maggior parte della gente vede immondizia un fotografo può vedere un’opera d’arte, e se riesce a coglierla, a immortalarla, la rende fruibile all’umanità, e questo è un dono.

Sarà stato vero, se c’erano esseri umani che campavano di fotografia voleva dire che tanti altri apprezzavano quel dono e lo pagavano bene, ma io, concluso il mese di prova, avevo ringraziato Luciano Gioia di Foto Gioia e riconsegnato tutta l’attrezzatura. La sua passione, e Mirco di Via Andromeda detto Lillo, avevano iniziato a farmi vedere sotto una nuova luce l’arte della fotografia, ma questa non era diventata né il mio lavoro, né il mio grande amore. Nel frattempo, però, avevo terminato ragioneria, seppure con il minimo dei voti, e per tirare su due soldi in attesa di una vera occupazione ero andato un paio di mesi in negozio da mio padre. Tempo qualche anno e ho rilevato l’attività, e ancora adesso, il mio bel diploma in tasca, con soddisfazione faccio il barbiere. Non me l’ha imposto nessuno, l’ho fatto per scelta. Ero, e sono, contento, e posso dire che finalmente mi sento a fuoco, anche se non credo di essere un soggetto illuminato.

Mirco di Via Andromeda, detto Lillo, ha aperto un negozio di generi alimentari. Gli altri ragazzi della strada non li ho più visti. I quattro emarginati della scuola ancora meno. Ogni tanto faccio ancora un salto da Foto Gioia, dove Luciano dispensa la sua saggezza lenticolare. Continua a dire che il bravo fotografo non deve mai perdere la fiducia nella propria ispirazione anche quando sembra che non ci sia nulla da fotografare, quando per una giornata intera non gli è riuscito un solo scatto degno di nota, quando vede solo buio e ombre e contorni sfumati. - In quel buio. Dice, - il bravo fotografo sa trovare la propria luce e cogliere il momento, l’opera d’arte, l’animo pulsante del genere umano.

Continuo a non capire cosa vuole dire, ma sono sicuro che può aver ragione.

Non potrò mai dimenticare quella notte di maggio del 1945.

Eravamo seduti sulla collina, su una distesa di fieno sottile. Ci guardavamo, riconoscendoci, ritrovandoci.

Intorno al fuoco il paese intero aspettava che il gruppo di musicisti improvvisato iniziasse a infondere nella notte estiva le tipiche melodie di una conviviale festa agreste.

I bambini saltavano nei mucchi di fieno, ridendo di gioia. Da troppo tempo quel suono era rimasto muto.

Eravamo tutti lì. Aspettavamo la musica.

Con le ferite ancora incrostate, i volti scavati, le mani tremanti aspettavamo la musica.

Le lacrime silenziose scendevano e ci bruciavano la pelle sotto una volta celeste rinata, ricucita come i nostri cuori smarriti e ritrovati.

A ogni stella fissa corrispondeva una lucciola intermittente nell’oscurità, una minuscola e rapida scintilla accesa e subito spenta. Poi accesa, ancora per un attimo.

Eravamo tutti lì, i vivi e le anime dei morti, uniti come non mai.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

Ogni cosa, in quella notte di stelle testimoni, era illuminata.

Avevo diciannove anni.

Fino a pochi giorni prima avevo rischiato tutto per i miei ideali di libertà e democrazia e indossato i pantaloni come manifestazione di aperta ribellione.

Ero andata volutamente contro ai miei genitori, scappando di casa per seguire sulle montagne l’uomo di cui ero innamorata. Pietro. Era un partigiano.

Ci nascondemmo per mesi in una chiesa sconsacrata adagiata in una radura nel fitto di un bosco di castagni e faggi. Quel luogo era diventato il nostro avamposto di resistenza.

Eravamo un gruppo di quindici ragazzi e ragazze: il più giovane di noi, Lucio, aveva diciassette anni e due occhi grandi pieni di insonne attesa di una pace che tardava ad arrivare; il più anziano, invece, era proprio lui, Pietro: spirito libero, occhi voraci di vita e libertà che di anni ne aveva ventisette. Gli ardeva nell’animo la scintilla di una passione innata che mai si era affievolita.

‒ Ci sono cose peggiori della morte, ragazzi. Presto saremo liberi, lo sento.

Ci disse una sera con le lacrime agli occhi per cercare di riaccendere i nostri cuori anestetizzati dagli spaventi, dalle atrocità viste e sentite nell’ ultimo scontro a fuoco.

Poche ore prima mi era morto tra le braccia Ludovico, il nostro gigante buono, ferito da una scheggia di ferro grossa quanto la mia mano. Nonostante i miei sforzi nel rassicurarlo, lui aveva capito che non ce l’avrebbe fatta ed era in preda a spasmi che lo scuotevano tutto.

L’emorragia non si arrestava e noi non potevamo allontanarci dal nostro rifugio per cercare aiuto. Loro erano ancora là fuori, pronti a sparare.

Ero terrorizzata.

Con la mano destra premuta sul suo petto ricordo di aver chiuso gli occhi. Giurai a me stessa che se fossi sopravvissuta a tanta violenza avrei dedicato la mia vita a salvare la gente.

Arrivò la fine per Ludovico: nei suoi occhi morti un guizzo scintillò, come se non volesse arrendersi, ma provare a tenere testa a Colei che lo stava portando via nell’estremo e fatale attimo.

La piccola orchestra era pronta a iniziare.

Dopo mesi e mesi di bisbigli sottovoce tra boati di esplosioni e scariche di proiettili, aspettavamo la musica. Ne avevamo bisogno per ritemprarci, per realizzare che non si trattava di un sogno.

Eravamo tutti lì, finalmente liberi dalla guerra.

C’era una solenne attesa che nessuno osava interrompere.

Ogni cosa, in quella notte di lucciole tremanti, era illuminata.

Ero una staffetta all’epoca: facevo la spola tra il nostro avamposto e il paese con nuove informazioni e munizioni.

Uccisi anch’io. Due volte.

La prima per salvare Anna, non solo un’amica e una compagna nella lotta, ma soprattutto la sorella più grande che non avevo mai avuto.

Un pomeriggio, nell’ora del tramonto, un soldato tedesco l’aveva sorpresa nel bosco, di ritorno dal paese con alcune provviste di cibo e di proiettili.

L’aveva avvicinata senza che lei se ne accorgesse. Le era sopraggiunto alle spalle e sotto la minaccia di una pistola l’aveva trascinata a terra e stuprata senza pietà.

Insospettita dal suo tardare, mi incamminai sul sentiero per andarle incontro. Arrivai troppo tardi perché potessi impedire la violenza, ma non abbastanza da permettere a quel bastardo di spararle in fronte e, poi, scappare via impunito.

Fui più veloce di lui.

Non ebbe nemmeno il tempo di rialzarsi e tirarsi su i pantaloni logori.

Un solo colpo sparato dritto in mezzo alle scapole lo fece accasciare in una pozza di sangue scura, sempre più ampia. A lungo ne restò la traccia sul terreno.

La mano iniziò a tremarmi. Lasciai cadere la pistola in un impeto di ribrezzo. Guardai Anna.

Era immobile, sdraiata nella stessa posizione in cui era stata violata, con lo sguardo fisso tra le chiome dei castagni. Non piangeva, non urlava e questo mi spaventò ancora di più.

Le mani fredde posate su un grembo profanato, ridotto a uno squallido porcile.

Mi accovacciai accanto a lei, prendendole il viso tra le mani e carezzandole i lunghi capelli corvini. Li ripulii con cura dalle foglie e dalla terra di cui si erano sporcati, come se bastasse a cancellare tutto.

Anna riemerse dal silenzio per pronunciare con voce assente tre parole:

‒ Era meglio morire.

La mia cara Anna, la mia guerriera senza paura, pronunciò solo queste tre parole. Furono sufficienti per lacerarmi dentro come schegge aguzze.

Non c’era più alcuna luce nei suoi grandi occhi azzurri.

Le avevo salvato la vita, eppure era più morta lei del nemico che avevo appena ammazzato.

Il ragazzo con il violino disegnò nell’aria movimenti precisi e sinuosi, stringendo l’archetto con delicata fermezza.

Le note si espansero tutto intorno, fluide, feconde. Si innalzarono sopra di noi, come a voler toccare gli astri con melodiosa disinvoltura e si posarono tra l’erba fluttuando leggermente, sulla paglia sottile, ai nostri piedi, frementi.

Ascoltavo, perdendomi tra le silenziose lacrime che mi si scioglievano sulle guance e sul collo. Solchi salati sulla pelle.

Gocce di luce nuova.

C’erano ancora tracce di neve sul sentiero quando per la seconda volta le mie mani rubarono la vita a un altro essere umano.

Era un soldato tedesco, poco più che un ragazzino. Ancora oggi mi appare in sogno e il suo sguardo mi tormenta. Due occhi chiari e provati incastonati in un volto smunto, deperito dalla fame e dallo scempio di una guerra disumana.

Aveva tentato di rubare da uno dei nostri metati un sacco di castagne destinate alla macinatura. Era la nostra unica fonte di sostentamento in quelle settimane di fame atroce.

Ricordo che ero un tutt’uno con la fame: ero ridotta a un brandello di donna, un corpo aguzzo, scarno e sciupato, che vagava per il bosco in cerca di qualsiasi cosa potesse risultare anche solo lontanamente commestibile.

Dovevamo razionare tutto e bere continuamente l’acqua gelata del ruscello per riempirci lo stomaco con qualcosa.

Non appena vidi il nemico allontanarsi con il nostro sacco di castagne sulle spalle, la mia fame cieca e sorda fu più forte della sua.

Lo seguii per qualche decina di metri per averlo meglio sotto tiro.

Sentendo i miei passi, lui si voltò.

Sogno ancora quegli occhi chiari che mi fissano dal regno dei morti.

Gli intimai di lasciare il sacco se voleva avere salva la vita.

Non capiva. Mise mano alla sua pistola, ma lo anticipai.

Era soltanto un ragazzo che aveva fame e voleva sopravvivere, ma io vidi solo il nemico scappare con il nostro sacco di castagne. Quel cibo ci serviva.

Lo uccisi senza esitazioni.

Non sapevo ancora che avrei sentito per sempre le mani sporche di sangue.

Avevo fame, fame da morire.

Fame da uccidere.

Al violino si aggiunsero i flauti e i clarinetti. La piccola orchestra scaldava la sera odorosa di menta selvatica e felci umide.

Il buio sulla collina era rischiarato soltanto dalle lampade a olio appese fuori dalle finestre delle umili abitazioni del paese poco distante.

Luci e musica, dopo tanto, troppo tempo.

Stavo pensando a cosa ne sarebbe stato del futuro, cosa avrei fatto della mia vita quando la domanda improvvisa di Pietro mi fece scuotere.

‒ Sposiamoci, Marta. Voglio un figlio da te. Voglio una famiglia. Tutto.

Mi guardava come se non esistesse altro al mondo.

Avevamo passato mesi di paura e di coraggio insieme. Avevamo visto la morte in faccia più volte. Avevamo seppellito amici e parenti. Eravamo molto più vecchi della nostra età e quella grinzosità dell’animo trapelava anche dagli occhi.

Eppure avevamo ancora sogni semplici e normali, quelli di due persone innamorate: sposarsi, avere dei figli, una casa.

Era tutto così a portata di mano.

Una felicità da costruire insieme giorno per giorno.

Una vita libera, onesta e dignitosa da ricostruire dalle fondamenta.

Era tutto lì, a portata di mano, come la musica invisibile che danzava nell’aria frizzante. Come le lucciole scintillanti tra l’erba.

Era tutto semplice.

‒ Non posso.

Fu la mia risposta.

Lo amavo, l’ho sempre amato, ma rinunciai a lui. Piansi a lungo per quella scelta sofferta, ma, se potessi tornare indietro, la rifarei.

Mi negai qualsiasi possibilità di essere felice con lui perché sentivo che la mia vita doveva essere rivolta altrove. Non mi concessi nemmeno del tempo per pensarci su.

La mia scelta era cresciuta spontaneamente nel mio intimo e non avrei mai potuto ignorarla.

Avevo bisogno di redimermi attraverso il sacrificio.

Ebbi la vocazione proprio quella notte: ogni cosa era illuminata anche dentro di me.

Avevo appena compiuto vent’anni quando partii per l’Africa occidentale come missionaria insieme alle mie consorelle.

Dedicare ogni giorno della mia vita ad aiutare i più bisognosi è stata la scelta più giusta e nobile che potessi prendere.

Non è bastato a cancellare il sangue dalle mie mani, né a dimenticare, ma ogni volta che prendo tra le braccia uno dei miei piccoli orfani e lo sollevo in alto per farlo sorridere, sento che ogni cosa, fuori e dentro di me, è illuminata da quel sorriso.

Aprì gli occhi.

Buio.

Li richiuse.

Aveva male alla testa, caldo soffocante, distesa su qualcosa di rigido.

Aprì ancora gli occhi, niente. Li richiuse.

Provò a muovere le gambe lateralmente, lo spazio era poco, angusto, provò a flettere le ginocchia, che toccarono subito sulla superficie di legno.

Fece lo stesso, con le mani.

Spazio stretto, ridotte possibilità di movimento, aveva dolore alla testa, il caldo insopportabile.

Con le mani annaspò sulla superficie che la circondava.

Tigliosa, fibrosa, non levigata.

Era legno, era una cazzo di cassa di legno.

Uno spasmo, un sussulto e subito urtò le sponde che rimandarono un suono pieno.

Maggiore il movimento, maggiore il caldo e maggiore il senso di soffocamento.

Provò a calmarsi e respirare, ma l’aria già iniziava a essere viziata.

Iniziò a cercarsi addosso, non aveva la borsa con sé, provò a sentirsi i jeans, aveva qualcosa in tasca.

Portachiavi con piccola pila al led per centrare la serratura anche di notte.

Per l’angusto spazio era sufficiente.

Adesso aprire gli occhi aveva un senso, un terribile senso che avvalorava quello che le sensazioni tattili avevano già trasmesso al cervello.

Era una fottuta cassa di legno.

Un gran mal di testa era l’unica possibile risposta a qualsiasi domanda potesse vertere sul com’era finita in quel feretro, cosa aveva fatto per meritarselo e dove si trovava in quel momento.

Perse la pazienza e diede un pugno contro la parete di legno che aveva a poco più di un palmo dagli occhi, senza nemmeno poter caricare troppo il colpo, viste le ridotte distanze.

Un colpo pieno al quale rispose un rumore altrettanto carico, con la luce del led riuscì a vedere solamente un po’ di terra scorrere tra le assi e cadere sopra di lei.

Almeno aveva preso coscienza del fatto di essere stata seppellita viva.

Magra consolazione sapere qual era la verità, soprattutto sapere che la verità era quella.

Iniziò con foga e rabbia a colpire le sponde che la circondavano, prima lateralmente poi dinanzi a lei, con le mani, con i piedi e perfino con la testa che continuava a dolergli.

Niente.

Perse anche la presa sulla lampadina e ripiombò nel più completo buio.

Singhiozzò, sommessa, sentiva le calde lacrime scendergli lungo gli zigomi fino a finirgli dentro le orecchie.

Iniziò a respirare più forte, se doveva finire soffocata in quel modo, allora tanto valeva la pena affrettare i tempi, a che serviva tirarla tanto per le lunghe.

Però non voleva morire.

Urlò forte, più forte ancora, un urlo sgraziato e prolungato tanto da fargli male alle orecchie e sentirsi bruciare la gola.

Lo avrebbero dovuto sentire in capo al mondo.

Riprese fiato e poi lo trattenne.

In silenzio, in attesa, cercando di carpire anche il più piccolo rumore, il più piccolo movimento, un qualcosa cui aggrappare la sua voglia di non finire in quel modo.

Niente.

Riaccese la luce.

Nel rivedersi lunga in quella bara le salì il sangue al cervello, il piccolo portachiavi le fuggì di mano, ancora buio, perdendo la calma diede una testata sul pannello che aveva di fronte.

Sentì, o almeno le sembrò, per un attimo quel legno scricchiolare.

Sentì, allo stesso tempo, scenderle dalla fronte una scia calda, lenta e vischiosa.

Un sapore ferroso le aveva pervaso la bocca quando il rivolo di sangue le raggiunse le labbra.

A fatica si passò una mano sulla faccia, ma le orecchie avevano percepito quello scricchiolare e il cervello era concentrato solamente su quello.

Aveva trovato qualcosa alla quale appendere la sua speranza di sopravvivenza.

Brancolavano spasmodiche le mani alla ricerca del portachiavi, lo trovarono, accese la lampadina e la puntò dinanzi i suoi occhi.

Il legno sembrava pressoché intatto ma lei comunque quel rumore lo aveva percepito.

Tenendo la luce accesa con una mano, iniziò a riprendere a pugni la parete con l’altra, fino a farsi male, fino a risentire nuovamente quel rumore.

Non poteva essere un caso, non poteva essere una farneticazione del suo cervello, magari era un’asse difettosa, crepata, male ancorata al resto della struttura, non sarebbe stato il suo biglietto per uscire da quella situazione ma avrebbe potuto, anzi no, avrebbe dovuto continuare a tentare.

Era seppellita viva è vero ma riuscendo a togliere quell’asse la terra si sarebbe smossa, avrebbe lottato come una leonessa per riuscire a emergere dalla terra.

Poteva essere stata seppellita troppo in profondità, d’altra parte non riusciva a percepire alcun rumore all’esterno, eppure perché non provare? Quale alternativa valida poteva esserci?

Nessuno in quella bara poteva risponderle se non lei e lei non aveva altra speranza cui aggrapparsi.

Perse la presa sull’interruttore della pila, la riaccese, guardò il suo corpo allungato in quello spazio angusto.

Ogni cosa era illuminata in quella cassa da morto e ogni cosa era solo e soltanto lei.

Vedeva il suo petto riempirsi d’aria e svuotarsi, sollevando e abbassando quella maglietta sporca e sudata, le prudeva una gamba ma non arrivava a grattarsi, così iniziò a strofinarsi lungo il legno.

Iniziò con una chiave a incidere il legno davanti al suo viso, in maniera sempre più vigorosa, frenetica, disperata.

Una piccola scheggia si staccò.

Un segnale, una rivelazione, la riprova che una via di fuga era possibile.

Bastava quello per rianimarla, per rimetterla in rotta, per farla sospirare che forse la partita non era ancora terminata, che aveva ancora un’ultima mano da giocare e lei era disposta a tentare il tutto per tutto.

Ancora, ancora, sputando i trucioli che le arrivano in bocca.

Era rimasta un po’ contratta, non si era accorta che quella maledetta cassa era oltretutto più piccola della sua statura e non poteva stendere completamente le gambe.

Anche ora che era uscita da lì, le gambe le erano rimaste un po’ piegate.

Non aveva più quella sensazione di claustrofobia, intorno a lei non c’erano quelle anguste assi di legno che la tenevano prigioniera.

Su quelle tavole stavano tutti quanti i segni del suo dolore, della sua disperazione. I segni delle chiavi che cercavano di abbattere quell’ostacolo che la opprimeva e dopo le chiavi aveva lottato letteralmente con le unghie.

Erano spezzate, il sangue era raggrumato e sembrava uno strato di smalto messo grossolanamente.

Avevano trovato anche le chiavi, la pila attaccata aveva esaurito completamente la sua carica.

Ora era lì, nuda, non indossava più quella maglietta sporca e sudata che copriva quel petto che affannoso si gonfiava e si ritraeva alla ricerca di aria pulita, salubre, per far affluire ossigeno al cervello, per rimanere lucida, per rimanere vigile.

Distesa, immobile, con le braccia lungo i fianchi su quel tavolino gelido.

Palpebre alzate.

Una luce accecante puntata dritta in faccia.

Le bianche pareti, le sponde dei lettini in metallo, i ferri del dottore che esegue l’autopsia.

Ora ogni cosa è illuminata in quella stanza, ogni cosa oltre a lei.

La casa era piena di oggetti ricevuti in dono dai genitori quando si era sposata.

Con la scusa di non spendere e che bisognava risparmiare, l’avevano riempita di cose delle zie, delle nonne, della mamma.

Lei in realtà voleva dimenticare il passato, troppo pesante per esserne fiera e contenta.

Litigi, insulti, rifiuti. Voleva dimenticare, anzi, non avrebbe mai voluto appartenere a quella famiglia e non voleva più nessuno di loro tra i piedi. Voleva ricominciare, sposarsi per chiudere un capitolo e aprirne un altro.

- Possiamo permetterci tutto quello che vogliamo, Cathy, mio padre pagherà ogni spesa.

- Tutto, tutto quello che serve?

- Quello che serve e anche quello che non serve.

- Stai scherzando, vero?

- Dico sul serio. Non hai ancora ben capito che gente siamo noi, eh?

Dopo una vita passata a contare e conservare anche gli spiccioli nei salvadanai, trovava il fatto di non doverlo più fare un progresso non da poco. Poi David le voleva molto bene.

Sì, quindi poteva permettersi di dimenticare un passato molto, molto faticoso.

E quei cimeli ricevuti in regalo davano quel tocco vintage che andava di moda, spezzavano lo stile troppo moderno che piaceva tanto a lui: per donare una piccola dose di personalità alla casa andavano bene.

Il tempo passava senza pensieri, aveva tutto quel che ogni giovane donna avrebbe desiderato. Le monete erano tenute sparse sui mobili, né contate, né conservate.

Una sera David disse: -Sai, Cathy, stasera andiamo a parlare con tuo padre, vieni?

- Certo, David, per quale motivo?

- Lo saprai quando saremo là.

Si preparò, fiduciosa ma perplessa. ‘Che strano, cosa dovrà mai chiedere David a mio padre?’, si disse.

Non avrebbe mai voluto rivederlo né avere bisogno di lui: era sempre stato burbero, scostante. Fuggiva dalla famiglia eppure restava un despota incontrastato. Era sicura di averlo reso felice sposandosi. Felice di essersi liberato della figlia. E anche lei lo era, di essersi liberata del padre.

Arrivati alla vecchia casa paterna, rividero il suocero dopo diverso tempo. Era invecchiato. Si accomodarono intorno al tavolo in cucina e David gli disse: - Ecco, le volevo chiedere se poteva darmi del denaro per un’auto nuova. Sa… in fondo noi abbiamo sostenuto le spese della casa e so che lei ha dei risparmi in banca per cui, be’… se non le dispiace, noi a causa del costo della ristrutturazione ci siamo indebitati, mentre voi… Be’, per contraccambiare un’auto a me ci verrebbe, no?

Cathy non credeva alle sue orecchie. Rimase ammutolita a lungo, non sapendo come reagire; avvertiva una lunga serie di brividi di sconcerto che non le permettevano di avere alcuna reazione. Le ci volle molto tempo per elaborare.

Tutta la sua famiglia, suo padre, lei stessa avevano lavorato sodo una vita intera per quei risparmi.

David aveva passato quegli stessi anni a scialacquare a piene mani perché diceva di avere denaro in abbondanza. Diceva che lo aveva suo padre.

Diceva. Non era così, allora. Non era chi aveva fatto credere di essere.

Cathy rimase in silenzio. La fiducia era diventata una cosa non scontata.

Si accarezzò il ventre. Ninna nanna, ninna o, questa bimba a chi a do? La darò alla sua mamma, che la tiene a far la nanna. Ricordò.

Giunta a casa, si diresse verso il cassettone: lo guardò con occhi nuovi. Era della nonna. Le sembrò di rivederlo nel punto esatto della stanza in cui lo teneva.

Ne aprì un cassetto ed estrasse la copertina che la zia le fece ai ferri quando nacque e che sua madre aveva conservato. Cominciò a passarvi dei nastri rosa intorno al bordo, facendo dei fiocchi agli angoli. E benedisse il luogo, le persone, la cultura, le esperienze dalle quali veniva.

Genoveffa Settembrini aveva uno strano modo di risolvere i problemi.

Se l’acqua le arrivava alle caviglie, lei non chiudeva il rubinetto fino a quando non sentiva di annegare. Non agiva così solo per pigrizia, il fatto era che i problemi proprio non le interessavano da oltre cinquant’anni, praticamente da quando era nata.

Nel condominio di Via dei Gelsi 12 era la sola a non partecipare alle consuete riunioni del tè a casa di zia Valeria.

Quegli incontri avevano la solennità di un evento a palazzo e la zia, vedova e senza figli, confezionava per l’occasione degli inviti decorati.

La zia Nella, Mina la parrucchiera, Dorotea e la figlia Ludovica erano le ospiti fisse, poi c’ero io.

Io vivevo con le zie da quando avevo tre anni. Mangiavo a casa della zia Valeria e dormivo a casa della zia Nella. Per me non faceva molta differenza, loro abitavano sullo stesso pianerottolo e le porte d’ingresso erano sempre aperte.

Prima degli attesi avvenimenti di ciance e biscottini, andavano tutte al piano terra a farsi belle nel salone di Mina, che applicava il trenta per cento di sconto al gruppo delle fedelissime amiche.

I racconti del tè, così li definivo, iniziavano dalla parrucchiera e proseguivano a casa della zia.

Mentre loro ciarlavano, io giocavo sul terrazzo e sentivo gli ultimi aggiornamenti del mese. La più discussa era proprio Genoveffa, per questo motivo destava tanto la mia curiosità.

Talvolta, quando la sentivo uscire dalla porta, mi precipitavo al portone di ingresso per incontrarla, mentre arrivava con la sua busta piena di libri. Dove andasse con tutti volumi, le chiacchierone non lo sapevano. Qualcuno sosteneva che li donasse alla biblioteca comunale o all’orfanatrofio.

Benché le zie la considerassero burbera e poco loquace, con me si comportava in maniera cortese. Mi rivolgeva spesso la parola e, in un paio di occasioni, mi aveva regalato alcuni di quei testi: I misteri della giungla nera di Emilio Salgari e Il barone rampante di Italo Calvino.

Più di una volta era stata avvicinata dalle zie e invitata nel salone di Mina, ma senza alcun apprezzabile risultato. Con molta probabilità era convinta che il loro interesse nei suoi confronti fosse dovuto all’avidità di pettegolezzi e curiosità, di cui non erano mai sazie. Del resto come darle torto?

Un pomeriggio piovoso, inaspettatamente, Genoveffa apparve stravolta e allarmata sull’uscio del salone.

Atterrò in ciabatte, avvolta in un grembiule color lavanda e un asciugamano giallo paglia ancorato con una molletta, per fasciarle la testa.

Il silenzio piombò nella sala e Mina, sconcertata e allietata dalla visione, si affrettò ad accoglierla, avanzando verso di lei con uno slancio emozionale proporzionato a quella balzante novità.

«Mia cara, cosa ti è successo?» disse con le unghie laccate di rosso, un pennello da tinta in una mano e la sigaretta nell’altra.

Genoveffa, dietro le spesse lenti degli occhiali, puntellate da goccioline d’acqua, si accasciò sull’unica sedia libera e aprì sgomenta l’asciugamano.

«Pensavo ad un tinta nera con riflessi blu, ma il risultato è stato questo!» rispose.

Era blu ogni singolo capello, compresa la pelle intorno all’attaccatura della fronte e il cuoio capelluto che si intravedeva nella riga centrale!

A quella vista, decisi che avrei allontanato da me il più possibile l’idea di tingermi i capelli, un giorno.

«Cara, hai provato a fare la tinta da sola in casa? Lo vedi che c’è sempre bisogno di una parrucchiera? Anche per una semplice pettinata! Oh… ma aggiusteremo tutto, vedrai!».

Detto questo, posò il pennello sul carrello e si diresse verso la macchinetta del caffè.

«Leda, tesoro. Conduci Genoveffa al lavatoio» disse alla sua aiutante, inserendo la cialda nella macchina

«Intanto ci vuole un bel caffè! Genoveffa, hai bisogno di qualcosa che ti tiri su. Avrai preso un bello spavento. Quanto zucchero?» le chiese.

La verità era che Genoveffa si stava facendo bella per il signor Alvisi. Lo sapevo solo io, perché li avevo sentiti concordare il loro primo appuntamento, mentre li osservavo dal terrazzo. Da quel balcone ogni cosa mi pareva illuminata e batteva il sole per tutto il pomeriggio.

Quello di Genoveffa Settembrini e del signor Alvisi era un amore platonico e impacciato, che andava avanti da molti anni.

Alvisi viveva con la mamma al primo piano e, come Genoveffa, non si era mai sposato.

Era un uomo di mezza età, posato e scaramantico, e lavorava in banca.

Non percorreva mai il cortile in diagonale e accendeva la sigaretta sempre un attimo prima di aprire il cancelletto dell’uscita.

Al mattino si incamminava con la sua valigetta nera contenente poche cose: un piccolo ombrello, una penna stilografica, un pacco di sigarette e una banana.

Lo sapevo perché avevo aperto il suo curioso bagaglio, mentre lui, ignaro, consultava la cassetta della posta.

Fu in quell’occasione che ebbi l’idea.

Le zie raccontavano che Alvisi e Genoveffa erano talmente imbranati che mai sarebbero riusciti a dichiararsi il loro puro amore pluridecennale.

Risolsi io la questione con l’aiuto di Santina la fioraia: «D’accordo Annetta, mi hai convinta. Speriamo solo di non combinare qualche pasticcio!» mi disse. In fondo il mio intento era quello di fare qualcosa di buono per quei due.

Lei confezionò delle rose bianche per Genoveffa, con un biglietto che recava la scritta:

Quattro candide rose. Una simbolo della tua purezza, una simbolo della tua innocenza ed una simbolo della tua mitezza. La quarta rappresenta il mio segreto, da rivelare con delicatezza.

Con affetto, Tullio Alvisi”.

Santina, che viveva di fiori e poesia, appose questo messaggio in bella grafia all’interno di una busta chiusa e spillata. Io mi sentivo illuminata dalla viva fede nell’amore.

Il caso volle che, al momento della consegna, il signor Alvisi non fosse a lavoro a causa di un malessere.

Pare infatti che spesso venisse colto da emicrania imputabile ai luoghi chiusi e popolati, ragion per cui si vedeva costretto a rimanere presso la sua dimora e fare lunghe passeggiate nel cortile, per respirare un po’ d’aria.

Il marito di Santina venne col suo furgone a recapitare le rose, ma non trovò Genoveffa, perché era uscita a fare la spesa.

Incontrò, però, Alvisi in cortile. Visto che aveva altri giri da fare, gli affidò la consegna, chiedendo la gentilezza di farli pervenire alla signora Genoveffa.

All’inizio Alvisi, alquanto stizzito oltre che geloso, protestò non poco. Alla fine pensò che non poteva negare quel dolce favore alla cara Genoveffa. Lei, in fondo, avrebbe apprezzato quel gesto signorile e di pura cortesia, superiore al becero istinto di competizione.

E così, ignaro e cortese, si decise a consegnarle i fiori.

Appena Genoveffa rientrò, lui la vide dalla sua finestra. Indossava un abito a quadri e una paglietta antica. Anche lei lo vide, alzò lo sguardo e subito lo abbassò timidamente.

Alvisi si deodorò la bocca e si pettinò, dopodiché salì al terzo piano con le rose. Suonò.

Genoveffa gli aprì e per poco non svenne. Tullio ci tenne a precisare che si trattava di una sorpresa e che lui portava le rose di persona, al posto del fioraio. Poi, sudato e rosso per l’imbarazzo, abbozzò un timido sorriso con un mezzo inchino e andò via per le scale.

Il giorno dopo attesi di vedere qualche movimento. Quando Alvisi andò a lavoro, attraversando il cortile in lungo, mai in obliquo, lei scostò lievemente la tenda e lui accese la sigaretta poco prima di aprire il cancelletto, uno sguardo rivolto alla cara finestra e poi fuori dal cortile.

Per tutta la giornata Genoveffa non uscì neanche per andare a fare la spesa. Dopo due giorni la vidi in cortile. La paglietta non l’aveva, anche se era una bella giornata e la luce del sole le illuminava il volto. Incrociò Alvisi, per caso.

Sorrisero timidamente, si salutarono con un cenno della testa e proseguirono ognuno verso la propria direzione.

Improvvisamente Genoveffa si fermò: «Tullio...».

Lui si girò verso di lei con la lentezza di un bradipo, la spessa montatura sosteneva il suo sguardo chiuso.

«Mio…ecco... grazie per…per quello che hai fatto» disse esitante Genoveffa. Poi, bordeaux più di una rapa, attese qualche secondo per avere una risposta e dopo che lui ebbe fatto un delicato inchino, si incamminò senza sapere neanche dove.

Tullio si diresse verso il cancelletto ed era talmente imbambolato che attraversò il cortile leggermente in obliquo. L’inconsueto percorso gli procurò un tale panico che dovette rientrare a casa dal lavoro per malattia.

Orgoglioso per l’amabile gratitudine di Genoveffa, sperò vivamente che l’amante incognito si facesse nuovamente vivo con qualche dono inatteso, a tal punto da non trovarla in casa per il ritiro. In quel caso lo avrebbe ricevuto e portato lui.

Così, prese una pillola di magnesio, si deodorò la bocca e quel pomeriggio andò a suonare alla porta dell’amata.

Genoveffa aprì: «Oh…oh…» furono gli unici suoni che emise quando lo vide.

«Soave signora» esordì Alvisi. Lei chiuse gli occhi e già immaginò il finale da favola.

Lui proseguì: «Se dovesse trovarsi in difficoltà a ricevere fiori e doni, me lo dica, io non serbo rancore e non amo competizioni».

Poi con il classico delicato inchino: «Servo fedele, qui per servirla come l’altro giorno!».

Quanta eleganza e quanta nobiltà in quelle parole!

Con tutto il coraggio che aveva e al culmine dell’entusiasmo, Genoveffa rispose: «Ma caro…caro Tullio!». Poi, prendendogli le mani « No, certo che no! Mi fa piacere ciò che fai! Accetto! Oh si, accetto!».

Tullio Alvisi quasi non credeva a ciò che sentiva e al successo del suo nobile sacrificio.

Pensò che un cuore puro come quello di Genoveffa, sapeva riconoscere la nobiltà del suo spirito, che prima di allora mai nessuno aveva capito. E così, stavolta osò baciarle le mani che tanto impunemente avvinghiavano le sue.

A quel punto non sapevo più cosa architettare. Se procedere con quella pantomima e inventarmi altri regali o lasciare che i due amanti, già bene avviati, proseguissero per la loro strada.

Prima o poi, però, sarebbe saltata fuori la malfatta circostanza.

Per giorni non accadde nulla e infine sentii Genoveffa nel cortile invitare Tullio ad assaggiare un pezzo di torta a casa sua, in occasione di non sapevo bene cosa.

Così lei si tinse i capelli per l’avvenimento, che divennero blu.

Quando Mina salvò la testa di Genoveffa eravamo tutte lì. Smaniose di sapere perché. Eccetto la sottoscritta, si intende. Io un po’ me la ridevo, un po’ mi compiacevo.

L’indomani era sabato e Alvisi si presentò nel pomeriggio a casa di Genoveffa, con un mazzo di margherite e un papillon a righe. Lei raccolse i fiori e lo baciò tirandolo in casa per il papillon.

Non seppi bene cosa accadde quel pomeriggio, comunque Genoveffa non volle più vedere Tullio.

«Un uomo riesce sempre a far soffrire una donna! Anche quell’imbranato del signor Alvisi!» commentò risentita e indignata la zia Nella.

Genoveffa, sebbene da sempre molto restia alle confidenze, era venuta dalle zie in lacrime ad infamare Tullio.

Fiduciosa di una complicità tutta femminile, si era affidata alle amorevoli cure verbali delle due.

Io volevo sapere cosa fosse successo, ma la zia Valeria fu categorica: «Lascia stare Annetta, ci sarà tempo per conoscere di che pasta sono fatti gli uomini!» così dicendo la stanza risucchiò le tre donne ed io potei solo origliare.

Insomma: pare che durante le dolcezze del risveglio, Genoveffa avesse chiesto a Tullio di leggerle ad alta voce il tenero messaggio d’amore, che accompagnava le quattro rose bianche.

Lui aveva negato di averlo scritto e lei si era sentita ingannata, sedotta e abbandonata.

Lo aveva cacciato fuori di casa ancora in mutande.

Fu da allora, che la ritrosa inquilina del terzo piano, entrò nel gruppo delle fedelissime amiche.

L’amore tra Tullio e Genoveffa tornò all’impaccio platonico di sempre, ancora più impacciato.

Quanto a me, che nel mio piccolo avevo cercato di illuminare le vite di quei due maldestri, ottenni comunque l’effetto di allietare la vita della goffa Genoveffa, con le chiacchiere e i racconti del tè.

Nessuno tuttavia, fece mai luce sulla strampalata vicenda.

Discussione sulla verità tra Dante e Guido Cavalcanti1

Luogo Firenze.

Anno: intorno al 1290.

Scena: in una stanza di un'accademia poetica fiorentina.

Sono presenti alcuni studenti averroisti che iniziano una disputa e tenzone tra loro.

“Che cos'è la verità?” chiede uno studente ad un altro studente.

“Ciò che non è falso” risponde il secondo.

“E cosa sarebbe allora la falsità?” chiede di nuovo il primo.

”Ciò che non è vero.”

“Bravo per l'eleganza nel fuggir senza rispondere. Una definizione che rincorre l'altra e nessuna delle due veramente definita o spiegata nelle sue funzioni, qualità e substantia.”2 risponde contrariato il primo studente averroista.

“E quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” si difese il secondo studente averroista.

“Potevi rispondere che la verità è luce o allontanarsi dalle tenebre che ricoprono le menzogne, se proprio non avevi nulla di meglio da dire, ma questa è una domanda che ho posto io e non sono io che devo necessariamente rispondere a ciò.” rispose il primo studente averroista.

“E allora risponderò io.” si intromise Dante alzando il dito per inserirsi nella disputa e portarsi al centro della stanza.

“E io controbatterò volentieri su una questione così alta.” rispose Guido Cavalcanti alzando anch'egli il dito e portandosi al centro della stanza.

I due studenti averroisti, visti entrare nella discussione due maestri di punta dell'accademia, si ritirano in silenzio salutando con un cenno del capo ai bordi della stanza come spettatori.

“Quindi quali funzioni, qualità e substantia potrebbe avere una cosa impalpabile ed evanescente come la verità?” chiese Cavalcanti a Dante.

“Le stesse funzioni e qualità che hanno Dio, gli Dei e i suoi prodotti che sono luce e chiarezza.” rispose Dante.

“Sarebbe a dire?” chiede Cavalcanti.

“Che la verità è un prodotto degli Dei o di qualcuno che tende ad avvicinarsi verso di loro.” risponde Dante.

“Qualcuno chi?” chiese Cavalcanti.

“Chiunque decida di tendere verso il vero.”

“”Questo implicherebbe che la menzogna sia un prodotto di Satana e demoni o di qualcuno che tende verso di loro.” controbatte Cavalcanti

“Niente di più vero, ma queste due cose sono i limiti estremi a cui qualcuno tende o può arrivare. In mezzo a questi due limiti, esiste tutta una gradazione e combinazioni di verità e menzogne, che crea il mondo popolato di figure e atteggiamenti veritieri o menzogneri, nel quale viviamo.” risponde Dante.

“Avete dato la definizione di Inferno e Paradiso Ser Dante.” rispose Cavalcanti.

“E anche quella di purgatorio se la guardate bene. Un giorno lo spiegherò meglio da qualche parte.” rispose Dante.

“Vero. Tra Dio e Satana risiede una zona intermedia di menzogne e verità che si potrebbe chiamare benissimo purgatorio come dicono i nuovi teologi3.

Ma il paradiso e inferno dove si troverebbero se la terra per come la percepiamo noi, agisce e si comporta come un immenso purgatorio animato da noi stessi?” chiese Cavalcanti.

“Il paradiso o l'inferno sono i luoghi di destinazione finale che indicano la strada che prenderà ciascuno di noi a secondo che faccia bene o male.” rispose Dante.

“Intendete dire le nostre anime?”

“Intendo dire noi. Noi siamo la nostra anima.”

“E i nostri corpi di carne cosa sarebbero allora?” chiese curioso Cavalcanti.

“Corpi materiali animati da noi stessi, con i quali ci muoviamo e interagiamo nella materia.” rispose Dante.

“E per ora, tornando a Dio e alla verità?” chiese Cavalcanti.

“Per ora si da il caso che per tendere verso Dio occorre essere sinceri e per allontanarsi da lui occorre essere menzogneri, e questo ha molto a che fare con la verità.” risponde Dante.

“Ma come può un uomo che per definizione non è Dio, tendere o avvicinarsi a Dio, che non è per definizione uomo né materia alcuna, ma un'essenza creatrice, che si trova ovunque uno vada?” chiese Cavalcanti.

“Perché essendo l'uomo figlio di Dio, è anch'egli un piccolo Dio che deve crescere, e visto che Dio è verità, anche l'uomo se vuol essere tale a suo padre, deve seguire tale via, se vuol crescere e raggiungere suo padre naturalmente.” risponde Dante.

“State confermando che siamo fatti della stessa essenza di Dio.”

“Vero, la verità viaggia con luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e l'amabile visione di Beatrice.” rispose Dante.

“Beatrice la vostra donna luminosa?” Chiese cavalcanti.

“Beatrice colei che dà e concede beatitudine.” rispose Dante

Appena udite queste parole, interviene interrompendo il dialogo, uno degli studenti averroisti, molto incuriosito e interessato da quanto dante aveva appena detto.

“ISTANZA4, Ser Dante.” intervenne ad alta voce uno studente alzando la mano.

“Ditemi.” rispose Dante.

“Costei è un essere vero e reale o è solo una visione luminosa vostra ser Dante?” chiese lo studente.

“Questi sono fatti confidenziali miei, simili a molti di quelli che capitarono a diversi trovatori provenzali, che ho già spiegato e mostrato al qui presente Guido Cavalcanti e ad altri amici rimatori di quest'accademia, che hanno visto e vissuto fatti simili ai miei, e mi sono qui testimoni in questo momento.”

“Vorreste spiegarli meglio anche a noi Ser Dante?” chiese lo studente.

“No, non intendo spiegare a chi non ha vissuto o provate personalmente queste cose, perché occorrerebbe tentare di spiegare e definire a parole, cose che uno non ha mai visto o sperimentato, oltre a dover definire diversi altri termini come vita, Dio, Dei, spiriti, anime e altro, che richiederebbero discussioni e spiegazioni ben più lunghe di questa.” rispose Dante allo studente averroista fermando sul nascere una digressione troppo ampia che avrebbe portato molto lontano dalla disputa iniziale.

Interviene pure Guido Cavalcanti verso lo studente averroista.

“Vero. Io come molti altri poeti stilnovisti di quest'accademia, sono testimone di quando appena udito, e confermo che Ser Dante ha mostrato e spiegato nei dettagli a me e ad altri cosa sia e come sia fatta Beatrice, e vi posso dire che non è cosa che tutti possano comprendere senza vedere, e vedere senza apprendere in un'istante chi o cosa possa essere costei.“

Lo studente abbassò la mano e fece con un cenno del capo e un invito a continuare la discussione tra loro.

LA DISCUSSIONE SULLA VERITÀ RIPRENDE TRA DANTE E CAVALCANTI

“Avete detto poc'anzi, che la verità viaggia assieme a luce, coraggio, bellezza, grazia, soave beatitudine e amabile visione di Beatrice, ossia colei che da beatitudine. Giusto ser Dante?”

“Giusto.” confermò Dante

“Ora da quanto detto sopra sembra che stiate descrivendo le qualità della luce pura che hanno le pietre filosofali, e degli spiriti superiori che diventano visibili sotto la luce pura di quelle pietre5, come dicono filosofi e alchimisti, Ser Dante.”

“E cos'altro potrebbero essere queste cose, se non prodotti e opera di Dei decaduti e caduti sulla terra?” rispose Dante.

“Dei decaduti e caduti sulla terra per quale motivo?” chiese Cavalcanti.

“Per essersi allontanati dalla verità. Costoro hanno perso potere e sono finiti a vagare sulla terra, dove un dì sperano di tornare potenti come una volta.”

“Ma questo introduce il politeismo di tipo cataro dei perfetti provenzali6.”

“Questo non introduce nulla di nuovo, poiché il Dio unico è sempre quello. Caso mai spiega che gli Dei furono scacciati dal Dio unico, persero potere per essersi allontanati dalla verità e finirono sulla terra come seguaci di Lucifero, dove forse stanno tuttora. Gli Dei esistevano anche prima che il Dio rimanesse unico e solo.” rispose Dante.

“E perché allora costoro non sono più in cielo?”

“Forse perché si allontanarono dalla verità e si misero a tradire la loro missione che era creare ordine nell'universo come un astronomo può ben osservare nei movimenti regolari del cielo, e finirono per creare caos e disordine qui sulla terra, come chiunque veda una guerra tra uomini e il suo campo di battaglia.” rispose Dante.

“Tutto questo è interessante come discussione filosofica, ma dovreste provare a dirlo con l'inquisizione che sta distruggendo i perfetti catari per aver sostenuto cose simili.”

“Non so spiegarvi perché i perfetti catari vengano perseguiti, ma la nostra tradizione dice che i demoni furono seguaci di Lucifero che finirono puniti sulla terra, e se vi piace cercare la verità delle cose, anche l'inquisizione potrebbe essere un loro frutto finiti sulla terra.

Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore Dai loro frutti conoscerai il loro Dio. Ricordate questi versi del vangelo?”

“E allora in ultima analisi, che cos'è la verità? chiese Cavalcanti.

“È qualcosa per cui siamo stati fatti, e si trova ovunque tu vada?”

“Come Dio? Anche lui è ovunque tu vada?” chiese Cavalcanti.

“Sì, ma la verità non ti sta guardando, né seguendo. Sei tu.”

“Io?” rispose un po' spiazzato Cavalcanti

“Sì. Tu e chiunque altro sia vivo. Tu sei verità e scacci o attiri menzogne, quando ti allontani o avvicini ad esse.”

“E Dio?” chiese Cavalcanti.

“Anche lui è in te ed è fatto di luce e verità.” rispose Dante.

“Ma allora chi siamo noi?”

“Esseri spirituali decaduti e finiti nella materia.” continuò deciso Dante.

“E di che cosa sono fatti i nostri spiriti?” chiese curioso Cavalcanti.

“Siamo fatti come il cielo e le stelle, della stessa sostanza luminosa degli Dei.

E da qui in poi non mi chiedere altro, perché io non ti dirò più altro.” concluse il discorso e si ritirò in silenzio Dante.

1Guido Cavalcanti, poeta fiorentino del '200 amico di Dante. All'epoca Dante e Cavalcanti erano entrambi esponenti di spicco dello stilnovismo italiano.

2Substantia - Sostanza, letteralmente ciò che sta sotto a qualcosa.

3Il concetto di purgatorio, pochi anni prima di Dante, ancora non esisteva ed era stato appena introdotto da pochi anni come verità teologica.

4Istanza- Letteralmente In-Stantia - Stiamo in questa stanza o luogo.

5Le pietre filosofali erano pietre preziose tagliate a prisma, che scindevano la luce nei colori dell'arcobaleno, e molti alchimisti e filosofi osservando quel fenomeno nuovo per l'epoca, credevano che quelle pietre fossero state lasciate cadere dagli Dei sulla terra, e avessero proprietà superiori tutte ancora da scoprire. (N.d.A.)

6I catari erano fedeli di un'eresia proibita e perseguitata in Provenza nel periodo di Dante, che tramite la conoscenza spirituale, potevano diventare perfetti, e si facevano chiamare con tale nome coloro che raggiungevano tale stato..

Capita che i pensieri siano come fumo che si dissipa nell'aria: così denso appena esce dalla bocca ma disperso e invisibile poco dopo. Chiari e lucidi un solo istante nella mente ma subito dopo confusi e dimenticati. Spesso anche i sogni si comportano così. Sarà forse per colpa degli occhi, che assimilano e processano ogni sfumatura e sovrastano l'immaginazione, che tanti si fermano alla mera superficie senza approfondire?

Così pensava Antonio, cieco da un occhio, mentre fumava la prima sigaretta della mattinata.

Ho il cervello pieno zeppo di parole che però non vogliono uscire, non perché io sia timido o muto, ma perché appena cerco di incollarle insieme per creare un discorso logico si sciolgono e frammentano come se non sapessero più come tenersi mano nella mano. Mi basta tenere il mio occhio buono chiuso per sollevarmi da terra e, attraverso i suoni della città, volare lontano... il problema è che, tornato alla realtà, non posseggo i mezzi per tramutare quel volo in emozioni comprensibili. É allora inutile la mia sofferenza? Quindi si combatte in quel che si pensa credere, senza secondi fini o assurdità, con una luce fioca ma accesa. Si, una lucina accesa. Basta vivere nel completo buio, non ne posso più e spero che qualcuno mi capisca anche se la mia "luce accesa" è il mio occhio spento; è la mia personalissima possibilità di far danzare la mente con se stessa senza farla vedere a nessuno. Qual è il problema dunque? Il male, la sofferenza, il triste sanguinare di una realtà che non sempre mi appartiene? Ma cos'altro potrei fare se non sognare? Devo andare avanti dritto, non ci sono alternative. Solo quando è troppo tardi si cerca una soluzione per poi lamentarsi del dolore... ma è meglio così: conoscendo il dolore diventeremo più forti dicono.

Una mente disturbata o lucidissimi pensieri di un uomo di mondo? Sappiamo davvero distinguere la differenza tra giusto e sbagliato? Tra bene e male? Non è forse vero che ogni anima legge il proprio presente in modi diversi, con occhi diversi, con sguardi diversi, con parole diverse, con sentimenti ed emozioni diverse? "Ci si può considerare liberi finché la nostra libertà non lede quella altrui". Liberi dunque non lo saremo mai, perché ogni azione, che sia essa attiva o passiva, lede o modifica l'azione altrui; in pratica siamo destinati a rompere i coglioni alla gente con il solo respirare.

Spense la sigaretta e si diresse a prepararsi il secondo caffè, strascicando i piedi a fatica nel suo pigiama ancora tiepido, per trovare una scusa con se stesso e fumarsene un'altra. Aspettando lo scatarrare della moka si sedette e ancora una volta, chiudendo l'occhio buono, preferì allontanarsi dalla realtà.

Sarò il solo ad avere questi pensieri o ci sarà altra gente come me? Altri che si rifugiano attraverso una finzione da un mondo surreale? Magari altre persone mascherano meglio il loro sentirsi inadatti, io non ci riesco, dovrei incontrare qualcuno come me e chiedergli come si fa... ma così vivrei la sua finta realtà, così indosserei la sua pelle. Anche quello sarebbe inutile, come vincere a videogames con codici e trucchi: arrivi alla fine ma perdi il gusto della vittoria. Devo per forza arrivare da solo ad una soluzione e capire perché le giornate mi sfuggono di mano. Devo per forza trovare il modo di tramutare l'imbarazzo in esplosività e smettere di sottostare alle mie inadeguatezze. Devo per forza alzare la testa e capire il mio posto nel mondo delle ombre, per evitare di diventare cieco del tutto alla realtà. Devo, per forza. Dentro di me è tutto così chiaro ma là fuori... là fuori è diverso. Tutto cambia quando mostro alla mia pupilla i colori di una verità che non è apparente ma sin troppo solida.

Tornò alla realtà per pochi istanti: bevette il caffè bollente e subito andò sul terrazzo. Seduto sulla seggiolina da campeggio si accese l'ennesima Marlboro.

Però pensandoci bene la mia vita non fa troppo schifo, ho una donna, una casa, qualche lavoretto... e allora cos'è? La paura di un futuro sempre più incerto? Il terrore di trasformarmi in ciò che ho spesso ripudiato? Perché non riesco a dare un senso alla vita che inesorabilmente mi passa davanti come la pellicola di un vecchio film? I trucchi di magia che ho imparato da bambino non bastano più, è ormai inutile nascondersi dietro ad un fazzoletto magico, c'è bisogno di più energia, più potenza, più coraggio. Già, coraggio, il coraggio di affrontarmi tutte le mattine e combattere contro il mio occhio cieco, che altro non fa che sognare e distillare dubbi dalle immagini che l'occhio buono gli manda. Forse il problema è solo quello, la visione che ho del mondo, sempre a metà. Sento le mezze verità, le mezze parole, le mezze bugie, fumo mezza sigaretta, bevo mezza bottiglia, faccio mezzo pieno alla macchina, sto in mezzo alla strada, mi lavo a metà, vivo a metà. Potrei magari trasformarla in qualcosa di positivo... potrei trovare in questa esistenza a metà la pienezza dell'assimilare solo la parte interessante ed elaborare, risolvere ed espellere l'altra parte. Prendere i mezzi sorrisi come gesto d'affetto e non come sorriso di circostanza, prendere una pacca sulla spalla come un mezzo incoraggiamento e non come un "Povero sfigato, ci hai provato"; potrei prendere un "Ciao, come stai?" come un genuino interesse verso di me e non un semplice saluto.

Sarà difficile vedere la parte bella delle cose, mi sono allenato così tanto ad ignorarla che inizialmente sarà quasi impossibile anche solo da scorgere. Passato qualche tempo però può darsi che io riesca a sentire in corpo solo quella, così da non dovermi rifugiare nella rabbia del buio ma finalmente vedere la tanto pubblicizzata bellezza del mondo. É deciso.

Aprì l'occhio e fece appena in tempo ad abituarsi alla luce e guardare il sole che un merlo, per chissà quale assurdo destino, gli si schiantò addosso centrando con il suo becco arancione la nera pupilla buona, rendendolo completamente cieco.

E allora vaffanculo.

Dalla finestra del mio studio intravedo, oltre il giardino, il bosco di querce che si estende dietro la casa, fino alla zona industriale, e nasconde alla vista gli antiestetici capannoni. Quando io e Irene abbiamo comprato la villetta, prima di sposarci, la vicinanza di quelle costruzioni, anonime e un po’ squallide, è stato un problema per lei. Ma io mi sono innamorato subito di questo posto: in origine era un vecchio casale, ristrutturato diversi anni fa, quando i campi hanno iniziato a essere cancellati dall’espansione edilizia e dalle lottizzazioni. Prima di venire ad abitarci abbiamo fatto un ulteriore restauro, adattandola ai nostri gusti e alle nostre esigenze: nel tempo tra noi e questi muri si è stabilita una sorta di simbiosi, uno scambio di energie positive a cui adesso è difficile sottrarsi. Qui si ha la sensazione di essere in campagna, isolati dal resto del mondo, seppure non lontani dal centro: per arrivarci basta percorrere la nostra piccola strada a senso unico fino all’incrocio con la via principale del quartiere, girare a destra e dopo circa una cinquantina metri immettersi nella strada provinciale, che cinge la città come un anello. Quando non si è pressati dal tempo è piacevole anche fare il tragitto a piedi, o in bicicletta. Il giardino circonda la casa: un muretto, sovrastato da una rete, e un cancello ne separano la parte anteriore dalla strada; il retro, che ne è anche la parte più estesa, si allarga per parecchi metri quadrati, quasi trecento e, se non fosse delimitato dalla recinzione, si confonderebbe con uno dei pochi prati rimasti in questa prima periferia, non ancora attaccato dalla cementificazione scriteriata degli ultimi anni. Appena siamo arrivati qua Irene si è anche impegnata nel trasformare un piccolo rettangolo del terreno in un orto minimalista, più per il gusto di mettersi alla prova che per altro. La sua soddisfazione nel portare in tavola i prodotti di quella striscia di terra, che si era ritagliata tra i cespugli di bosso e di forsizia, è sempre stata motivo d’ilarità: pomodori un po’ rachitici e insalata spesso già spigata, ma fonte di grande orgoglio per lei, nata e cresciuta in una grande città del nord, dove l’unico verde che vedeva era quello del parco dove andava a correre in primavera e in estate.

Passo molto tempo in casa, soprattutto in questa stanza, da quando l’incidente mi ha costretto a limitare gli impegni. Del resto, è sempre stato l’ambiente che ho amato di più. Io e Irene abbiamo deciso di farne il nostro studio ancora prima di trasferirci qui in modo definitivo, forse già dalla prima volta che abbiamo visto la casa: molto grande, con i soffitti alti, il parquet di un bel rovere dai toni caldi, di fronte alle due finestre un camino imponente, con la cornice in legno intagliato, del tipo preferito da mia moglie, che è stata sempre condizionata dalla sua passione per le atmosfere inglesi nella scelta dell’arredamento. Ha sempre detto: «Per me essere qui è come essere dentro un romanzo di Jane Austen.». È rimasta quasi delusa quando, durante il nostro primo viaggio in Inghilterra insieme, abbiamo visitato delle dimore storiche e notato quanto fossero bassi i soffitti di alcune vecchie abitazioni. Le è piaciuto da impazzire arredare la nostra tana, e qui tutto parla di lei. Sullo schienale della poltrona, accanto al focolare, è posato il suo scialle, quello tutto colorato, tessuto dalla sua amica Paola che, tra un impegno e l’altro della professione di avvocato, si ritaglia degli intervalli per eseguire lavori al telaio, che poi regala ad amiche e parenti. Il miscuglio di sfumature è del tutto bizzarro, fuori da ogni logica: il giallo alternato al fucsia, e poi turchese, arancione, verde mela, rosso. Sembra l’opera di un messicano un po’ fuori di testa: sul nero della pelle della poltrona è come un’esplosione di allegria in una giornata tetra, fuochi d’artificio che irrompono nel buio della notte.

Il bagliore generoso e avvolgente della fiamma nel camino mi fa pensare ai pomeriggi passati qua dentro: lei immersa nella lettura dei suoi adorati libri e io che lavoro a qualche progetto al tecnigrafo: ho sempre avuto l’abitudine di portarmi del lavoro a casa. Quando fuori c’è la neve, come adesso, per esempio. Ma non solo: qui mi concentro di più, i miei progetti migliori sono usciti da queste quattro pareti. Non abbiamo mai messo le tende alle finestre, tanto lì dietro, oltre il recinto, ci sono solo il prato e il bosco. Il paesaggio, a cui le finestre fanno da cornice, oggi è davvero incantevole: sembra una cartolina di Natale, anche se il Natale, fin troppo piovoso quest’anno, è ormai un lontano ricordo. Si cominciava già a pensare alla primavera quando c’è stata questa recrudescenza dell’inverno. Era da tanto tempo che non nevicava così e io avevo quasi dimenticato quanto fosse piacevole starsene al caldo della legna che brucia, circondati dal silenzio protettivo del soffice strato candido teso a ricoprire tutto e quasi messo lì, come una coperta sotto cui rannicchiarsi, dalla sollecitudine premurosa di un vecchio amico. Il rumore della strada arriva attutito fin qui: il fruscio soffocato delle ruote che scivolano sulla neve e la cacofonia metallica delle catene. Ma il silenzio è più forte, avvolgente, rassicurante. Suggestivo.

«Luca, ti va un po’ di musica?», la domanda immancabile di Irene in momenti come questo. Le è sempre piaciuto ascoltare brani di musica in casa, ancora di più se insieme a me. Le note di melodie barocche, le sue preferite, sono risuonate talmente spesso qui dentro che, a volte, sembrano prendere vita da sole e scaturire dalle pareti che le hanno assorbite nel tempo.

La sera in cui siamo andati a cena da Guido e Miriam, Irene è uscita di casa prima di me e, quando l’ho raggiunta, era già al volante della sua macchina. Stava ascoltando un concerto di Tartini, il cd era di sicuro già nel lettore ed era partito non appena lei aveva acceso il motore.

«La tua è in garage, inutile tirarla fuori adesso.», mi ha detto. «Dai, salta su che siamo già in ritardo! Sei sempre il solito, tu!».

Era euforica. O nervosa: in fondo avrebbe preferito starsene nella nostra bella casa, “la casa di Nora felice”, è così che l’ha chiamata. Aveva anche proposto, con uno di quei guizzi di incantevole follia per cui m’ero innamorato di lei, di mettere una targhetta con quel nome accanto al cancello. Ero riuscito a dissuaderla, ma era stata dura. Fosse stato per lei, Ibsen avrebbe dovuto scegliere un’altra conclusione per il suo testo, perché l’intenzione di lasciare me e la nostra dimora amatissima non l’avrebbe mai neanche sfiorata, è quello che ha sempre detto ridendo, ma con gli occhi seri.

Quella sera pioveva, neanche poi tanto, una pioggia che durava da quasi una settimana ormai, tipica del mese di novembre in questa zona. Lei parlava in continuazione, aveva tante cose da raccontarmi perché il giorno prima era rientrata da una visita alla sua famiglia: aveva rivisto anche delle vecchie compagne di scuola di cui io mi ricordavo appena, per averle incontrate al nostro matrimonio. È stato mentre mi raccontava della separazione recente della sua ex compagna di banco al liceo, che era stata anche testimone al nostro matrimonio, che s’è interrotta di colpo e poi, dopo un breve silenzio, ha annunciato «Devo dirti una cosa.», con un tono così compunto, diverso da quello leggero avuto fino a quel momento, che per un attimo nella mia mente si sono rincorse le ipotesi peggiori: malattie, disgrazie in agguato, rivelazioni di segreti nascosti per anni e, certo, anche la presenza di un’altra persona nella sua vita. Dopo un tempo brevissimo, ma che a me è sembrato più lungo dell’eternità, ha aggiunto, quasi in un soffio: «Aspettiamo un bambino.», un’altra pausa, con gli occhi sempre puntati sulla strada, mentre io fissavo lei e non riuscivo a dire nulla per lo stupore che, in una carambola di emozioni, erompeva in un’implosione di gioia incontenibile, che facevo uno sforzo enorme a controllare, visto che eravamo in auto, e volevo evitare un incidente. «O una bambina. Lo sapremo tra qualche mese.». Mentre era in visita dai suoi genitori, aveva avuto un presentimento e aveva fatto il test di gravidanza, che era risultato positivo. Quindi si era fatta anche visitare dal ginecologo da cui andava quando abitava ancora lì, e ne aveva avuto la conferma. I nostri piani erano diversi, avevamo deciso di aspettare ancora un po’ prima di avere figli, ma in quel momento la sensazione che il caso, o il destino, avessero deciso per noi mi è sembrato un gran colpo di genio, un dono inaspettato e proprio per quello straordinario. Lei continuava a guidare, potevo solo farle una carezza sui capelli, mentre i nostri sorrisi felici si riflettevano sul parabrezza che i movimenti regolari del tergicristallo mantenevano terso, cancellando le poche gocce della pioggia lieve ma persistente.

A casa di Guido e Miriam il racconto del viaggio appena fatto, con tutti i particolari legati anche al suo passato, è continuato e, al momento del dolce, prima che sollevassimo i bicchieri per brindare alla nostra amicizia, Irene ha assunto di colpo un’espressione enigmatica e, lanciandomi uno sguardo complice, si è rivolta ai nostri amici e, «Aspettate, c’è una cosa che devo dirvi.», ha esordito. «Siete i nostri amici più cari, ed è giusto che condividiate con noi la bella novità.» «Sei incinta!», ha esclamato Miriam senza darle il tempo di finire. Non c’è stato bisogno di rispondere, le nostre facce e gli occhi dicevano già tutto. E poi è stato un tourbillon di baci, abbracci, congratulazioni, auguri, brindisi.

Alla fine della serata, al momento di tornare a casa, e nonostante le mie proteste, Irene si è rimessa alla guida della macchina, convinta che io avessi esagerato con il prosecco per festeggiare la vita annunciata. Non aveva mai smesso di piovere, le gocce sottili calavano sulla città come un velo, con l’insistenza uggiosa a cui si è abituati da queste parti, gocce minute e implacabili come il pulviscolo che si accumula nostro malgrado sulle cose. Ma noi non ne eravamo affatto infastiditi, niente avrebbe potuto turbare il nostro stato di grazia. Quando Irene aveva acceso il motore, era ripartita la musica di Tartini, un concerto per violino che lei ascoltava spesso, era tra i suoi preferiti. La musica riempiva l’abitacolo e noi ci godevamo quel momento in silenzio, con i fari delle poche auto, che andavano nell’altra direzione, a illuminare noi e la strada, più buia del solito quella sera. Poi i ricordi si trasformano in una nebbia fitta, squarciata a tratti da immagini indistinte, come capita a volte nei brutti sogni. C’è la moto, che ha invaso all’improvviso la nostra corsia all’imbocco della curva, e l’assoluta impossibilità di evitarla. Non ricordo se abbiamo gridato. Di quella manciata di secondi è rimasto solo il bagliore improvviso e accecante di un fanale che puntava sparato contro la nostra auto. Dopo mi hanno detto che il motociclista ha perso la vita nell’impatto, io e Irene siamo stati portati in ospedale in condizioni gravissime, in seguito alla telefonata di un altro automobilista che aveva assistito all’incidente. Irene è morta il giorno dopo. Io sono stato tenuto in coma farmacologico per diverso tempo e quando ne sono uscito mi hanno comunicato che avevo perso l’uso delle gambe; e mia moglie.

A Irene sarebbe piaciuta davvero tanto tutta questa neve: dalla finestra, avvolta nel suo scialle strampalato e festoso, si sarebbe riempiti gli occhi di tutta la luce azzurrina riflessa dal cielo sereno su questo drappo intessuto di cristalli purissimi e impalpabili, appena sfiorato dal sole. E anch’io sto bene qui, dietro i vetri; con lei.

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