Franca Marsala - Uomini che odiano le donne

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La promessa

Era stata una giornata lunga, difficile, faticosa. Alice era esausta e sapeva già che a casa non avrebbe potuto riposarsi. L’aspettavano due bambini che non le davano respiro. Inoltre, suo marito non era certo una persona comprensiva o accogliente. Doveva subire pure i suoi rimbrotti sul perché si ostinasse a lavorare.

Era talmente stanca, dopo una giornata in piedi, che rischiava di addormentarsi al volante.

E invece non toccò a lei, ma al guidatore di un’auto che procedeva a velocità sostenuta.

Sbandò, e invece di decelerare, sembrò acquistare terreno. Un albero lo fermò, sul ciglio della strada.

Alice arrestò subito la macchina, scese e, di corsa, si avvicinò.

Il cofano era accartocciato e l’uomo, riverso sul volante, perdeva sangue dalla fronte.

Lei non capiva se respirasse o no, ma non se la sentiva di muoverlo per controllare. Da quel poco che sapeva di pronto soccorso, le pareva fosse sconsigliabile.

Altri automobilisti intanto stavano accostando. Qualcuno prese il cellulare per sollecitare gli aiuti.

Alice comprese che non poteva star lì a guardare senza far nulla. E se l’uomo stava morendo? Sarebbe morto da solo, su un’auto, in mezzo a una via qualsiasi, senza il più piccolo conforto.

Aprì la portiera, che fortunatamente era ancora in buone condizioni, e lo chiamò.

- Signore.

L’altro non la udì, ma accostando il viso al suo, Alice sentì un lamento.

Almeno è ancora vivo, si disse.

Lui sollevò appena le palpebre. La guardò, o così sembrò ad Alice.

- Signore, mi sente? – chiese.

L’uomo continuò a fissarla.

- Stia tranquillo, hanno telefonato per un’ambulanza. Non ci vorrà molto.

Istintivamente, allungò una mano e gliela posò sulla spalla.

- Chi è lei? – esalò il ferito.

Lei gli sorrise.

- Mi chiamo Alice.

Si sentì spingere via.

- Mi scusi – le disse un uomo. Era un paramedico. I suoi colleghi inziarono ad armeggiare nell’auto.

Alice venne gentilmente allontanata.

Rimase a osservare per un po’, poi notò che era tardissimo, suo marito l’avrebbe rimproverata per tutta la sera, e decise di andarsene.

L’accoglienza fu come se l’aspettava: fredda e carica di malumore. Se non altro i bambini avevano già cenato ed erano a letto. La donna aveva spesso l’impressione che preferissero evitare il padre, e non poteva dar loro torto, a volte avrebbe voluto evitarlo anche lei.

Si mise subito ai fornelli, giusto il tempo di raccogliere i capelli in una coda e lavarsi le mani.

- Sono stanco questa sera e tu non c’eri, come al solito – grugnì Fabio.

- Non è colpa mia – si giustificò Alice, pronta. – Un incidente ha bloccato la circolazione.

- E scommetto ti sei messa in mezzo.

- Volevo dare una mano.

- Mai che ti facessi i fatti tuoi.

- Un uomo era in macchina, ferito, poteva essere grave, morire anche. Mi è sembrato naturale confortarlo.

- Poteva voler morire in pace – sbraitò Fabio.

Alice si limitò ad arrossire e a chinare il capo.

Avrebbe dovuto reagire, ma non l’aveva mai fatto, non era capace di ribellarsi. Sempre stata così fin da piccola. E molti ne avevano approfittato e continuavano a farlo, in primis suo marito.

Lui cominciò a mangiare, senza aspettarla. Un altro sgarbo, l’ennesimo.

Alice si asciugò furtiva una lacrima, prima di sedersi a tavola.

La settimana trascorse in fretta, tra casa e impegni lavorativi. A lei piaceva il suo lavoro, quindi non le pesavano i sacrifici che doveva affrontare; suo marito non era dello stesso parere.

Il sabato di solito lo dedicava a rimettersi in pari con le faccende domestiche, e non aveva mai neppure il tempo di rilassarsi un po’ o di godersi i figli; suo marito li portava sempre dalla madre, dicendo che voleva stare in pace, peccato che poi uscisse anche lui e non si rifacesse vivo fino a sera. Alice taceva, sentendosi in colpa. Per fortuna, i suoi genitori abitavano in un’altra città, così non doveva litigare con loro che, ovviamente, avrebbero desiderato incontrare i nipoti.

La sua routine venne interrotta nella mattinata da una visita inattesa. Non aveva l’abitudine di aprire la porta agli sconosciuti, ma le bastò un’occhiata attraverso lo spioncino, per non esitare.

- Mio Dio, è lei! – esclamò trovandosi l’uomo davanti.

- Sì, proprio io – le sorrise. – Mi scusi se piombo qui in questo modo, ma ero troppo impaziente. Volevo salutarla, ringraziarla e appena uscito dall’ospedale, per rimettermi in sesto ci è voluto un po’, mi sono dato da fare per rintracciarla. Spero mi perdonerà l’intrusione.

Alice sorrise e lo invitò ad accomodarsi.

Per fortuna, il soggiorno era già riuscita a riordinarlo.

L’uomo le porse un grande mazzo di gladioli.

- Sono bellissimi – disse Alice, chiedendosi subito come li avrebbe potuti giustificare con il marito. – Vado a metterli in un vaso. Le offro qualcosa? Se può bere, dico, cioè se i dottori le hanno dato il permesso – si impappinò Alice.

- Sì, posso. Non che sia il tipo da dar retta agli altri, medici compresi, decido sempre io.

Beato lui, pensò la donna. Infilò i fiori nel primo vaso a portata di mano, si recò in cucina per riempirlo di acqua, mentre pensava come liberarsene. Li avrebbe regalati alla sua vicina, decise, anche se le piangeva il cuore a darli via.

Tornò dal suo ospite.

- Non volevo imporle la mia presenza, come le dicevo, ma non potevo esimermi dal venire. Non scorderò mai quello che ha fatto per me – disse l’uomo.

- Lei esagera – si schermì Alice. – Chiunque si sarebbe comportato allo stesso modo.

- Non credo proprio. Alcuni infatti si sono limitati a osservare, lei invece ha dimostrato di interessarsi, di voler essere utile. Non si sottovaluti, non è da tutti.

- Mi imbarazza.

- Mi sa che non è difficile – constatò lo sconosciuto. – Mi scusi, ma pare un pulcino bagnato.

Notando l’espressione di Alice, si affrettò ad aggiungere:

- Non voglio offenderla. E che è talmente timida, non credevo fosse possibile al giorno d’oggi. Ascolti, le spiegherò la ragione della mia visita e me ne andrò subito. Va meglio così?

- C’è una ragione?

- Sì, ho una proposta, che mi auguro troverà interessante. Io non amo avere debiti, e quindi voglio togliermi quello con lei.

Alice azzardò un’interruzione, ma l’altro la fermò con un gesto della mano.

- Mi faccia finire, poi potrà chiedermi tutto ciò che desidera. Vede, io faccio un mestiere insolito, direi rischioso, non per me, quanto per chi mi incontra. Non ci sono molte definizioni per questo lavoro, anche se ci si potrebbe sbizzarrire su. Ma sono una persona pratica, diretta, mi limito a un solo nome: killer. O se preferisce, sicario. È lo stesso. Uccido su commissione, chiunque mi chiama, e mi paga bene, molto bene, può usufruire dei miei servizi. Basta essere chiari, precisi: nome, indirizzo e foto, a volte niente recapito, li ho dovuti rintracciare, ma non voglio annoiarla con divagazioni; sono molto efficiente, abbordo il mio uomo, o donna, lo pedino, e colpisco.

Non ho mai fallito, nessuno si è mai lamentato di me. E per lei i miei servigi sono gratuiti.

L’uomo tacque e la fissò. Alice era pietrificata. Non respirava, non si muoveva, era come intrappolata in un brutto sogno.

- Non si spaventi – la rassicurò – non sono un pazzo, non vado in giro ad ammazzare persone a casaccio, non mi converebbe. Lo faccio solo per denaro.

Alice, con un immenso sforzo fisico e di volontà, si alzò.

Lui la imitò.

- Non sono un pericolo, glielo assicuro, non le farei mai del male.

La donna tremava. Il killer se ne rese conto e tentò di avvicinarsi. Alice si rannicchiò su stessa, pronta a subire l’aggressione.

Ma l’uomo le parlò gentilmente.

- Signora, non volevo davvero impaurirla. Le sto solo offrendo assistenza. Tutti abbiamo qualcuno che non sopportiamo, che detestiamo, che addirittura odiamo. Immagino anche lei, è una persona molto gentile, posso testimoniarlo, ma persino lei può avere chi le crea talmente tanti problemi da volersene liberare. Ed eccomi qui.

Alice ritrovò la voce.

- No, no, se ne vada, la prego.

- Alice, mi ascolti solo un altro momento; le ripeto che non mi piace avere debiti, con nessuno, e ne ho uno grosso con chi mi ha salvato la vita. Non intendo andarmene senza che mi abbia risposto.

- Io non odio nessuno – bisbigliò la donna.

- Ha ragione, sono troppo insistente. Sediamoci e discutiamone con calma.

La prese gentilmente da un braccio e la sospinse verso il divano.

Alice ubbidì, come era solita fare.

- Le espongo ogni cosa dal principio: in ospedale mi hanno dovuto rimettere insieme; ero ridotto molto, molto male, ho rischiato di morire in un paio di occasioni, per fortuna ho il cuore forte.

Mi hanno dimesso, anzi mi sono dimesso, non ne potevo più; stare chiuso ventiquattrore su ventiquattro in un posto mi rende nervoso, al limite dell’isterico. Sa, vecchi traumi legati a esperienze passate.

Ho cominciato subito a pensarla, a come trovarla. Sapevo soltanto il suo nome, ma scovare persone è il mio lavoro. Ho indagato, chiesto in giro, l’ho descritta, in fondo la vostra è una piccola città, e comunque ho i miei metodi, che preferisco non svelarle.

È libera di cacciarmi, capisco di averla sconvolta, ma vorrei che riflettesse su ciò che le ho detto. Le lascio il mio biglietto da visita, ci sono tutti i miei domicili, mi può telefonare quando vuole, in qualsiasi momento, anche di notte. Non si faccia scrupoli, ci sono abituato.

Si avviò verso l’uscita.

- Ne approfitti ora che sono libero, sono, per così dire, in convalescenza, perciò posso essere a sua completa disposizione. Altrimenti potrei essere chiamato per qualche servizio, e dovremmo rimandare, non si sa per quanto.

Uscì, e Alice rimase a fissare la porta domandandosi se fosse pazzo lui, o fosse impazzita lei.

Le settimane non passarono invano. Alice aveva un tarlo che non la faceva più vivere, né dormire, né lavorare.

L’unica cosa che la scuoteva erano gli abituali rimproveri del marito, a cui però rispondeva a monosillabi, riuscendo soltanto a farlo infuriare di più.

Non poteva confidarsi con nessuno, non aveva amiche, Fabio le aveva fatto il vuoto intorno, e neppure colleghe con cui fosse in confidenza. E poi non è facile raccontare che una persona vuole uccidere qualcuno per te, è troppo da digerire, per chiunque.

Non che Alice avesse intenzione di approfittare della sua protezione, non detestava nessuno, non augurava la morte a nessuno. Eppure, a volte, si diceva: la maestra di suo figlio che non gli dava remore, una vicina di casa prepotente, il collega astioso, qualcuno ci sarebbe stato.

Ma poi si rimproverava: non avrebbe potuto, non se lo sarebbe mai perdonato, era orribile soltanto fantasticarlo.

Meglio dimenticare. Non aveva scelta.

Anche lui, il killer, la pensava e si chiedeva se avesse un senso ormai aspettare. Aveva compreso che Alice non era una donna decisa, tutt’altro, era una persona debole, impaurita, una che ha sempre bisogno che le dicano cosa fare, quando farla, e come. Probabilmente non l’avrebbe più sentita. Inoltre, nel frattempo, aveva ricevuto un incarico interessante che lo avrebbe condotto dall’altra parte del mondo, in un paese mai visitato prima. Era molto tentato, e nel suo ambiente era meglio non rifiutare un lavoro, potevi essere sostituito, in alcuni casi eliminato, se si cominciava a ritenere che non servissi più.

E poi odiava avere debiti, dover essere riconoscente a qualcuno lo faceva stare letteralmente sulle spine. Non aveva idiosincrasie, con la sua attività non poteva permetterselo, ma essere in svantaggio verso il prossimo lo innervosiva.

Sapeva cosa fare per star meglio: non indugiare oltre, prendere l’iniziativa.

Si vestì in fretta e uscì.

Seguire Alice non era molto piacevole, non che avesse scrupoli di coscienza, per quelli ormai…, solo che aveva una vita tanto monotona che più di una volta aveva rischiato di addormentarsi al volante.

Ufficio, casa, scuola, supermercato, ecco il suo tragitto settimanale. E il sabato e la domenica, quando avrebbe potuto dedicarsi un po’ allo svago, non metteva il naso fuori. Probabilmente si dedicava alle pulizie, neppure al marito o ai figli, dato che li aveva visti uscire la mattina presto, recarsi sempre allo stesso indirizzo, e tornare la sera tardi.

Possibile, si chiedeva, non avesse amici con cui fare almeno una passeggiata? O prendere un caffè? Era una vita così incolore.

Lui era un assassino, un killer, però viaggiava, conosceva sempre persone nuove, anche se molte non potevano raccontarlo, e si divertiva, in ogni posto che visitava scopriva sempre qualcosa che l’affascinava.

Alice invece… cominciava a dispiacersi per lei.

Quindi, pure se la donna non era d’accordo, avrebbe portato a termine il suo compito, l’avrebbe affrancata da un incomodo; non poteva mutarle l’esistenza, tuttavia poteva migliorargliela togliendo di mezzo un essere molesto, qualsiasi esso fosse. Già un’idea su chi puntare se l’era fatta in quei giorni.

E cominciò, perciò, a pedinare qualcun altro.

Alice era appena rientrata dalla scuola dove aveva parlato con le maestre dei suoi figli. Una di loro era stata particolarmente aggressiva; aveva sottolineato che il bambino era una vera peste, sempre in movimento, sempre a disturbare.

Ne era rimasta mortificata. Aveva chinato il capo e mormorato qualche parola. Non poteva confessare all’insegnante che il figlio verosimilmente sfogava in classe tutto quello che si teneva dentro a casa. Il padre lo fulminava con gli occhi appena provava solo a muoversi, quindi dove e quando avrebbe dovuto comportarsi come uno della sua età?

Si asciugò una lacrima. Era una pessima madre, pessima.

Piantala di lagnarti, si disse, pensa a quante cose devi ancora fare prima che torni tuo marito.

Andò in cucina e cominciò a sbucciare le cipolle: un’ottima scusa per piangere.

La telefonata giunse la mattina presto; i bambini stavano vestendosi e Fabio era in cucina davanti a una tazzina di caffè.

Toccò ad Alice rispondere e se ne pentì all'istante.

Era una brutta notizia, tanto brutta da non sapere come riferirla al marito.

Gli si sedette davanti e lo guardò.

- Che succede? – le chiese lui incuriosito.

- Io, Fabio, io… – cominciò Alice per zittirsi subito.

- Dannazione – sbottò Fabio, con l’abituale garbo – che ti piglia? Possibile che tu non possa sostenere una conversazione senza farfugliare?

- Fabio, tua madre, tua madre non c’è più – compitò la donna.

- Ma sei più pazza ogni giorno che passa! Mia madre sta benissimo.

- No, mi dispiace, no. Hanno chiamato per avvertire che ha avuto un incidente domestico e non hanno potuto salvarla. Mi dispiace tanto, Fabio.

Suo marito la fissò per un minuto che parve durare all’infinito, poi si alzò adagio.

Ora mi picchia, si disse Alice, deve sfogarsi con qualcuno, su qualcuno.

L’uomo, al contrario, la ignorò e si diresse verso la loro camera da letto.

Alice udì sbattere forte la porta, dopo silenzio, infine urla belluine, urla di disperazione.

Non si mosse, rimase ferma lì a contemplare le piastrelle azzurre della cucina.

Il killer decise che era ora di chiamare Alice. Voleva salutarla e augurarle ogni bene. Forse sarebbe stata più serena, dopo il suo intervento.

Gli rispose la donna. Se avesse invece risposto il marito, avrebbe inventato un pretesto qualsiasi, ma ebbe fortuna.

- Alice – esordì – come sta?

- Chi è? – la donna esitò, poi comprese. – Ah, è lei.

- Non sembra felice di sentirmi.

- Mi scusi, sono stravolta, sa, mia suocera…

- Sì, lo so, condoglianze.

- Grazie.

- Volevo dirle addio; devo andarmene dall’Italia, per un po’.

- Bene, allora addio – tagliò Alice.

- Aspetti, volevo anche avvisarla che non mi considero più in debito con lei. Ormai siamo pari, dopo la morte di sua suocera.

Alice non replicò.

- È ancora lì? – domandò l’uomo.

- Come ha detto? – sussurrò.

- Sì, non è stato complicato. Un banale incidente nel suo appartamento. A proposito: confortevole, spero lo ereditiate. Era una donna anziana, sopraffarla è stato un gioco da ragazzi.

Alice taceva.
- Alice?

- No, non può essere stato lei.

- Certo, è stata opera mia. Pensava fosse caduta da sola? No, non proprio. Ho capito quanti problemi le causava e ho deciso di agire, dato che non avrebbe mai preso una decisione. Mi scusi, ma iniziavo ad avere una certa fretta.

- Mia suocera.

- Sì, sì, un’intrigante. Ho assistito a qualche scena tra voi tre: lei, suo marito e la madre. Troppo opprimente quella donna.

- No, no.

- Suo marito è quello che è a causa di una cattiva educazione. Non è stato mai svezzato; è il classico tipo che suppone tutto gli sia dovuto, tutto debba andare come vuole lui. Non so se cambierà dopo questa perdita, le confesso che ci credo poco, però potrebbe pure accadere. Se vuole proprio continuare a essere sposata con un simile individuo.

- Non la volevo morta.

- No, immagino di no. Lei è troppo buona, troppo amabile, non mi avrebbe mai incaricato di ucciderla, però le dovevo un favore, e ho ritenuto che fosse la persona più molesta della sua vita.

- No, lei non capisce – urlò Alice. – Mia suocera non era cattiva, era una debole, subiva mio marito come lo subisco io. Non era invadente; mio marito voleva che i bambini stessero sempre da lei, perché così non li aveva tutto il giorno tra i piedi. E non si intrometteva: era una brava persona, una brava persona.

- Io… ho visto un litigio tra voi tre in strada, la signora sembrava aggressiva.

- Si era solo ribellata all’ennesima prepotenza di Fabio.

- Mi dispiace molto, molto. A volte la fretta è cattiva consigliera. È stato un errore, una svista.

- Una vista? Una persona è morta! – strillò Alice, ormai senza controllo.

- Sono mortificato. Proverò a rimediare.

- No, no, la prego, non faccio altro. Mi dimentichi, le domando solo questo: dimentichi che ci siamo incontrati, che l’ho soccorsa.

- Non volevo finisse così. Ma l’ascolterò, non ho alternative a questo punto.

Alice riattaccò. Le lacrime stavolta sgorgarono copiose.

Povera povera donna, non avrebbe meritato una tale fine. Sapeva lei chi l’avrebbe meritata; aveva sprecato l’occasione di diventare vedova.

Si asciugò il viso, e comprese che quelle lacrime non le stava versando solo per la suocera.

Fabio tornava a casa sempre più tardi, quando rientrava; Alice non se ne preoccupava, al contrario era contenta di potersi godere figli e casa senza le sue contumelie e le sue prepotenze.

Non si allarmò quindi neppure all’ennesima sparizione, anzi, messi i bimbi a letto, si concesse un prolungato bagno caldo.

Il campanello della porta la disturbò. Imprecò e fu tentata di ignorarlo. Poi il suo senso innato di responsabilità prevalse e si costrinse a muoversi. Si infilò l’accappatoio, stringendoselo bene addosso e si recò nell’anticamera. Guardò dallo spioncino e restò interdetta: due uomini in divisa erano sul suo pianerottolo. Che potevano volere? Forse era per lui, il killer, sicuramente era un ricercato, un latitante; magari qualche vicino lo aveva notato entrare nel suo appartamento, gli abitanti del palazzo erano persone discrete, tuttavia non si può mai stare tranquilli, un impiccione può sempre farsi vivo.

Da fuori insistevano; si fece coraggio e aprì, infischiandosene di essere poco vestita. Suo marito l’avrebbe insultata, o peggio, se l’avesse vista, ma non era lì, e poteva approfittarne.

- Buonasera, signora – esordì il più anziano dei due, probabilmente il più alto in grado – possiamo entrare? Dovremmo parlarle.

Alice si limitò ad annuire.

Rimasero in piedi nel vestibolo a fissarsi, finché il poliziotto non seguitò.

- È sola? Non c’è nessun altro con lei?

- Ci sono i miei figli, dormono – rispose Alice, capendo subito che non si riferiva ai bambini. Si sentì una stupida, ma era talmente confusa.

- Signora, dobbiamo comunicarle una brutta notizia. Abbiamo rinvenuto un uomo, un corpo. Mi dispiace, dai documenti risulta essere suo marito.

- Fabio… è morto?

- Sì, signora. Lo ha trovato un ragazzo che consegna pizze, sul ciglio di una strada, una strada di periferia.

- Cosa gli è successo? Un incidente?

- No, mi addolora dirglielo, però siamo sicuri si tratti di un omicidio. Gli hanno sparato.

- Sparato? Chi? Come?

- Chi non lo sappiamo. Come… non vorrei darle i dettagli. Un unico colpo, non ha sofferto, se la può consolare.

Alice cominciò a tremare. I due la guidarono in salotto e la fecero accomodare sull’ampio divano.

- Per questo le ho domandato se fosse sola, sarebbe il caso di chiamare un parente, un amico. I suoi genitori?

- No, no – replicò Alice, in un bisbiglio – i miei abitano lontano, in un’altra città.

- Parenti? O un’amica.

- Sto bene, sto bene – disse la donna, senza nessuna convinzione.

- Avviseremo noi i congiunti di suo marito, se preferisce.

- Mio marito non ha… non aveva più né padre, né madre. Mia suocera è morta da poche settimane.

- Le mie condoglianze, signora. Le faccio portare un bicchiere d’acqua?

- No, no, grazie.

L’agente giovane, che finora aveva fatto solo presenza, si avvicinò al collega e gli sussurrò brevemente all’orecchio.

- Sì, giusto – commentò il più anziano e tornò a rivolgersi ad Alice. - Un’ultima cosa e poi la lasceremo in pace, signora. Sul corpo, a parte i documenti che ci hanno permesso di scoprire l’identità di suo marito, abbiamo trovato un foglietto, in una tasca della giacca. È scritto a mano, in stampatello. L’ho qui con me, posso mostrarglielo? Dovrebbe confermarci sia la scrittura di suo marito.

Alice tese la mano e il poliziotto prese un foglio bianco, ripiegato in quattro e glielo porse.

Lei lo aprì e indugiò, come se avesse scordato come si legge. Poi le lettere le si materializzarono davanti agli occhi, divennero sempre più chiare, come fossero in rilievo. Erano due parole, nerissime sullo sfondo candido: Ho rimediato.

Alice si bloccò. Mille pensieri le arrivarono addosso, come un fiume in piena: lui, lui, era stato lui. Aveva sbagliato e voleva farsi perdonare, ed era stato di parola. L’aveva ucciso lui suo marito, l’aveva freddato per strada e gliel’aveva fatto sapere. L’aveva liberata.

- Signora? Comprendo la sua pena, tuttavia devo avere una risposta – insistette il poliziotto.

Alice sollevò il viso e lo guardò.

- Non è la scrittura di Fabio – disse.

L’agente conservò il foglio.

- Dobbiamo andare, signora.

- Sì, sì.

- Davvero non possiamo avvertire nessuno che venga a tenerle compagnia?

- No, no, grazie. Ho la mia dirimpettaia, se avessi bisogno, posso rivolgermi a lei – non specificò che la donna aveva più di ottant’anni, era sorda, e si reggeva in piedi a malapena.

- Allora torniamo in commissariato. Potrà avere ulteriori ragguagli domani - si congedarono.

Alice non li accompagnò. Rimase seduta a riflettere.

Non c’era più Fabio nella sua vita. Niente più ingiurie e vessazioni. Aspettò lo strazio, il rimpianto, ma non arrivò nulla, nessun sentimento a travolgerla.

Si alzò e si guardò allo specchio. Si accorse che le lacrime luccicavano nei suoi occhi.

Le lasciò scorrere, senza asciugarle.

Dopo tanto, tanto tempo, erano le sue prime lacrime di gioia.